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Capitolo 85 - Guarigione
Glauco lottò contro la nebbia che lo soffocava e lentamente si costrinse a riprendere conoscenza. Nel momento in cui lo fece fu colpito da un dolore così violento che pensò che avrebbe vomitato. Lottò contro la debolezza che lo avvolgeva e rotolò su un fianco, stringendosi convulsamente lo stomaco. Solamente allora osò tentare di aprire gli occhi… ma essi non si aprirono.
- I tuoi occhi sono talmente gonfi da rimanere chiusi, sciocco. Se non avessi l’aria così malconcia… il viso tumefatto, tutto nero e blu… probabilmente ti prenderei a schiaffi io stesso. Avevi detto che mi avresti aspettato. - Tacito non sembrava troppo soddisfatto del suo giovane cugino.
- Mi dispiace, - gemette Glauco, poi ansimò in cerca d’aria per respingere la nausea.
- No, non ti dispiace affatto, ma accetterò comunque le scuse. Quando starai meglio dovrai spiegare a tutti noi perché hai agito così stupidamente.
- Dove…? - si lamentò Glauco.
- Sei nel letto del generale, nella camera di tuo padre, - rispose Claudio. - La legione è arrivata questa mattina e il generale Rufio è stato così gentile da permetterti di restare qui nonostante tu abbia ridotto la sua casa ad un mattatoio.
- Plauziano? - riuscì a dire Glauco.
- E’ morto. Lo hai ucciso, ed il suo corpo è sulla strada per Roma, accompagnato da due coorti di legionari. Stanno riportando indietro anche gli altri pretoriani, come prigionieri, - rispose Persio. - Il generale Rufio ha inviato con loro il suo legato, per spiegare a Severo che hai agito per legittima difesa quando hai ucciso il suo comandante pretoriano.
- Non gliene importa, - boccheggiò Glauco, poi serrò i denti per placare il suo stomaco in rivolta.
- Ti senti un po’ male, vero? - Ora era il turno di Tito di sgridarlo. - Io non ricordo di averti mai insegnato ad essere così avventato.
Glauco trasalì.
- Ma hai ragione, - continuò Tito. - Il generale Rufio mi ha detto che un decreto di Severo per l’arresto di Plauziano era stato pubblicato settimane fa. Credo che lo hai appena sollevato dall’impiccio di dover giustiziare lui quell’uomo.
Glauco sentì una mano stringergli teneramente la spalla.
- Ma adesso hai bisogno di riposare, - disse Tito con gentilezza. - Il medico
dice che hai una commozione cerebrale e forse un trauma cranico. Anche il tuo
naso è rotto. Non potrai essere spostato per un po’ di tempo. Noi staremo qui
negli alloggi dei soldati, così verremo a trovarti spesso. Ho inviato un
corriere in Ispania per dire alle nostre famiglie che è finita. Buonanotte,
Massimo.
Se gli occhi di Glauco non fossero stati gonfi e chiusi si sarebbero
spalancati.
- Massimo?
- Sì, non ricordi? Sembra che hai finalmente deciso che è tempo di assumere il tuo nome legittimo e noi tutti siamo d’accordo, quindi è così che ti chiameremo d’ora in poi. Torneremo domani. Riposati un po’.
Glauco Massimo udì i passi che lasciavano la stanza e la porta che si chiudeva dolcemente.
Massimo… sì… ricordava di aver gridato il nome, il suo nome. Massimo. Era ora di farsi chiamare con il suo vero nome. Adesso era sicuro di essersi meritato quel diritto e che suo padre sarebbe stato d’accordo.
Massimo. Massimo Decimo Glauco.
Massimo.
Scivolò nel sonno.
Una settimana dopo era seduto nella cucina di Katerina, porgendo i suoi saluti alla giovane donna ed a Giovino. Era seduto dando la schiena al fuoco, nella speranza che l’ombra sul suo viso avrebbe celato un po’ dell’emozione intensa che provava, ma la sua voce lo tradiva e tutti loro avevano la gola serrata per la commozione. Anche se aveva promesso di ritornare, sapeva che Giovino avrebbe potuto non essere più in vita in occasione della sua successiva visita. Katerina tentò di allentare la tensione emotiva scherzando sugli occhi verdi e ancora violacei e gonfi del giovane ispanico, ma questo non impedì alle lacrime di colmare quegli occhi, ed i propri.
- Stai per dirigerti verso casa, Massimo? - chiese Giovino, che si dilettava ad usare più spesso che poteva il nome adottato di recente.
- Sì, ho trascurato troppo a lungo la mia fattoria. Mi manca l’Ispania. Mi manca mia sorella. Ho il sospetto che lei possa essere là ad aspettarmi con il suo fidanzato al seguito. Anche Giulia ci sarà. Sono certo che celebreremo un matrimonio poco dopo il mio ritorno.
- E per quanto riguarda te? - chiese Katerina faceva saltellare sulle ginocchia il figlioletto che gorgogliava contento. - Che mi dici del tuo matrimonio? Non è ora di finirla di vagare per l’impero e sistemarti anche tu?
Egli scosse le spalle con un sorriso disarmante.
- E’ qualcosa a cui ho pensato. Ho avuto molto tempo per pensare, confinato in
quel letto per una settimana. Vedremo.
- Qualunque cosa farai, mio caro ragazzo, possano gli dei sorriderti, - mormorò Giovino e si strinse al petto il giovane che amava tanto, probabilmente per l’ultima volta.
Due settimane dopo, nelle brume del primo mattino, Glauco cavalcava Ultor nella boscaglia che orlava la pista, e osservava la fattoria decrepita in mezzo alle colline della Gallia. Era tutto così quieto... deserto. L’asino non c’era; non c’erano polli che chiocciavano e razzolavano nell’aia. Ultor stava immobile come una roccia, contraendo occasionalmente un muscolo per allontanare una o due mosche irritanti, e la sua calma non faceva che enfatizzare il lugubre vuoto. Il cuore di Glauco era pesante. Egli aveva sperato che lei non fosse lì, ma ora era disperatamente deluso che ella non ci fosse.
Diresse il cavallo sulla pista e all’aperto, e proprio in quel momento una donna emerse dagli alberi, portando un pesante secchio di legno in bilico sull’anca. Era ad una buona distanza da lui, ma egli riconobbe il familiare abito marrone rappezzato, ed il suo cuore cantò.
Lei si fermò improvvisamente, poi sollevò lentamente la testa, finché il suo sguardo incontrò quello di lui. Non poteva averlo udito… egli non aveva fatto alcun rumore. Ella allontanò dalla fronte un errante ricciolo ramato e si chinò per posare a terra il secchio d’acqua, portandosi la mano al cuore, senza mai lasciare con gli occhi quelli di lui.
Egli sospinse avanti il cavallo fino a trovarsi accanto a lei, i loro sguardi sempre uniti.
- Non pensavo che ti avrei mai rivisto, - disse Clara alzando la testa verso di lui.
- Io sapevo che ti avrei rivista, - rispose lui.
Lei lo osservò pensierosa.
- Hai completato la tua ricerca?
- Sì. E’ finita.
- Ed ora stai andando a casa.
- Sì.
- Glauco, - bisbigliò, e la sua mano scese dal cuore al suo stomaco, dove sentiva che le farfalle avevano cominciato a svolazzare.
Lui smontò e lasciò le redini, avvicinandosi a lei. Era piccola come lui
ricordava ed egli parlò alla sommità della testa di lei.
- Speravo che tu fossi qui, ma quasi speravo che non ci fossi. Tuo padre?
Clara lanciò un’occhiata alla casa.
- E’ malato. Molto malato. Alcuni mesi fa cadde sulla pista e si ruppe l’anca.
Si mise a letto e poi del fluido gli si è sviluppato nel petto. Glielo sento
quando respira. Tossisce molto. - Le sue parole erano dirette come lo sguardo
che posò su di lui. - Il medico dice che non sopravviverà all’inverno.
- Mi dispiace.
- Ti dispiace. Perché?
- Perché il suo trapasso ti renderà infelice e io non voglio che tu sia infelice.
- Io... Io non so come mi sentirò quando verrà il momento. Più sollevata che altro, immagino. - Arrossì e scosse la testa. - Oh, che cosa terribile da dire.
- No, no, affatto. Quinto può anche essere tuo padre, ma non ha fatto niente per meritare il tuo amore. Tu fai tutto ciò che una figlia può fare, e anche di più. Non hai alcun motivo di dispiacerti di non amarlo.
Di nuovo ella lanciò un’occhiata alla casa.
- E’ giunta la sua ora. Ha vissuto abbastanza a lungo. - Si rivolse di nuovo a
lui, un improvviso senso di urgenza sul suo volto. - Aspetterai finché gli
porto quest’acqua? Sto facendo una farinata. Ne mangerai un po’?
- Sì, starò qui, ma ho già mangiato alla locanda stamattina. - Non voleva intaccare le sue misere provviste. - Gli dirai che io sono qui?
- No, non sarebbe una buona idea. Lo sconvolgerebbe e basta. - Indicò due grandi massi sul limitare della foresta. - Puoi sederti là. Il sole li raggiungerà presto e farà più caldo.
- Permettimi di aiutarti con l’acqua.
Lei finalmente lo gratificò d’un sorriso.
- Non c’è bisogno. Ci sono abituata, - e con gesto esperto si appoggiò il secchio sull’anca e si diresse verso
casa, dando un’occhiata indietro più d’una volta per assicurarsi che lui fosse
realmente là. Con un sorriso di congedo e respingendo le trecce con un gesto
del capo, ella scivolò al di là della porta.
In sua assenza, Glauco fece una rapida ispezione della fattoria. L’asino non si vedeva da nessuna parte, ma restavano ancora alcuni polli. Stavano dietro il granaio in una stia, e non erano ancora stati liberati per il razzolare quotidiano. Notò che la stia aveva bisogno di essere riparata, come pure il granaio, che stava cedendo sotto il proprio peso e sembrava sul punto di sprofondare. Le forti nevicate invernali avevano fatto crollare parzialmente il tetto, sottoponendo ad estrema tensione le assi, da cui erano saltati via i chiodi di ferro, ed esse erano cadute un po’ dappertutto. Non c’erano altri animali ed egli dubitò che lei e suo padre sarebbero sopravvissuti all’inverno imminente con solamente alcuni polli a sostentarli. Nessuna meraviglia che lei fosse così magra. Probabilmente dava prima da mangiare a suo padre e poi prendeva per sé ciò che rimaneva, ed il vecchio malato probabilmente non si rendeva conto di quanto in realtà fosse disperata la loro situazione.
La casa non era in uno stato migliore. Ella aveva fatto un tentativo di rappezzare il tetto mettendoci su altri rami e cespugli, ma egli immaginò che un bel temporale avesse inzuppato le stanze all’interno rendendo il luogo costantemente umido e freddo. Qualche asse laterale era decomposta e ammuffita. Appena si avvicinò alla porta si fermò bruscamente e fissò un mazzetto di fiori essiccati appeso ad un chiodo con un misero nastro che sporgeva dallo stipite della porta storta. Un tentativo di portare del colore nella sua vita? Qualcosa di bello?
Sarebbe stato necessario molto lavoro per far tornare quella patetica piccola fattoria ad una condizione ragionevole. Glauco cercò Ultor, che aveva approfittato della sua libertà per cercare teneri germogli d’erba sul bordo della foresta, usando il morbido muso per spingere leggermente da parte erbe più comuni. Poi andò verso le rocce che Clara aveva indicato e si appollaiò sulla più alta, guardando la casa. Avvolse le braccia attorno alle ginocchia sollevate e si abbandonò ai propri pensieri, un leggero cipiglio che gli increspava la fronte.