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Capitolo 80 - Il murale
Il giorno seguente Glauco si recò alla fortezza senza farsi accompagnare da nessuno. Voleva guardare il ritratto da solo, incerto sulla fragilità delle proprie emozioni nel vedere per la prima volta il murale restaurato. I suoi compagni lo avrebbero ammirato più tardi. Egli sedeva dritto come un fuso in groppa ad Ultor, la schiena irrigidita dalla tensione. Non era più stato lì da quando era stato incarcerato nella prigione della fortezza, per poi trovarsi a confronto con Severo e Plauziano anni prima, e quei ricordi sgradevoli appannarono la gioia del senso di anticipazione. Nonostante l’accordo del contratto, che assicurava che la notizia della riabilitazione di Massimo avrebbe raggiunto ogni legione, egli non era sicuro di come sarebbe stato accolto. Le sue dita si serrarono allorché il muro di pietra massiccio ed il portale imponente apparvero in lontananza davanti a lui, ed Ultor sbuffò e s’impennò di lato quando percepì la tensione del suo padrone attraverso la redini di cuoio.
Glauco smontò e si identificò, e larghi sorrisi di riconoscimento si aprirono sui volti delle guardie. Le massicce porte di quercia si aprirono senza esitazione e Glauco le attraversò a cavallo, la schiena coperta dall’armatura di cuoio del padre e il fianco cinto dalla spada rinfoderata di Massimo. Cavalcava rilassato ora, la schiena eretta con orgoglio, superando i vuoti alloggi di pietra sulla via principalis che conduceva al pretorio e alla casa di pietra di suo padre. Quando vi giunse, le guardie ed i soldati erano già scattati sull’attenti ed il cancello era aperto in segno d’invito. Lo attraversò e sentì bisbigli riverenti diffondersi tra i ranghi: "Il generale Massimo, il generale Massimo." Glauco smontò e porse le redini ad un soldato, poi rispose al saluto di una guardia.
- Ti stavamo aspettando. Il generale Rufio è spiacente di non poterti salutare di persona, ma si trova a monte del fiume, con la maggior parte della legione, per riparare i ponti. Ha lasciato istruzioni che ti deve essere accordato pieno accesso alla sua casa e che puoi restare quanto desideri. Puoi entrare quando sei pronto.
- Il lavoro è stato fatto? - chiese Glauco.
- Sì, signore. I restauratori sono tornati a Roma proprio la settimana scorsa. Non resterai deluso. - Gli uomini indietreggiarono e Glauco annuì in segno di ringraziamento, prima di salire il gradino ed entrare nel fresco atrio buio.
Rimase fermo per un momento, lasciando che i suoi occhi si abituassero all’oscurità, fissando lo spazio che era stato così familiare a suo padre... dove anche sua madre e suo fratello avevano passato molti mesi. Avanzò sul pavimento a piastrelle, ma si fermò dopo alcuni passi, osservando il cortile assolato circondato da un colonnato, la piccola vasca riflettente, due panche di pietra ed un tavolo. In realtà era interessato solamente ad una cosa, e sapeva in quale porta entrare. Spinse dolcemente la porta di quercia intarsiata della camera da letto che una volta era appartenuta a suo padre e trasse un respiro profondo. Entrò con gli occhi chiusi, poi si girò alla sua destra. Esalò lentamente e aprì le palpebre.
Ed eccolo là… il murale ad altezza naturale che raffigurava suo padre, restaurato in tutta la sua gloria originale. Fu contento di studiarlo da una certa distanza, in un primo tempo, ammirandolo nella sua piena prospettiva. L’intera parete era occupata da un dipinto accurato della campagna danubiana, con picchi violetti e folte foreste d’un verde profondo. Il cielo era d’un azzurro cristallino, con nubi bianche e soffici, e la luce del sole gettava un’ombra al di sotto della figura a cavallo. Glauco fece qualche passo per avvicinarsi. Massimo era in groppa ad un cavallo che s’impennava, il manto nero dai riflessi blu, somigliante ad Ultor in modo inquietante. Il mantello di Massimo fluttuava dietro di lui sollevato dalla brezza di montagna, che arruffava le pellicce di lupo argentato gettate con noncuranza sulle ampie spalle. Glauco avanzò ancora. La corazza luccicava nel sole, ogni particolare della testa di lupo e del grifone attentamente intarsiati, come lo erano le fibbie della spalla dell’armatura, provvista di strisce di cuoio che gli ricadevano sulle cosce. Era un’armatura fatta per proteggere, non per andare in parata, ma sembrava veramente regale su quella figura maestosa. Per contrasto, la fine tunica di lana color vino che sfiorava i bicipiti e le cosce sembrava morbida e avvolgente. Ferro e cuoio gli proteggevano le mani, la destra brandiva proprio la spada che ora dondolava appesa al fianco di suo figlio. Gli stivali di cuoio erano allacciati fino alle ginocchia di Massimo, lasciando esposta al sole un po’ di pelle abbronzata.
Glauco si avvicinò ancora e alzò lo sguardo sul viso di suo padre, forte eppure gentile… ed esattamente come lui l’aveva fugacemente visto in quell’apparizione durata pochi preziosi momenti in Ispania. Il portamento era fiero e regale, gli occhi blu penetranti, ma brillanti d’un umorismo che gli curvava le labbra in un vago sorriso. Sua madre l’aveva catturato alla perfezione: un uomo d’una potenza, forza ed autorità enormi, ma capace anche di grande sensibilità e compassione.
Il cuore di Glauco si doleva per la perdita d’un tale uomo. L’impero aveva bisogno di lui... e la sua famiglia aveva bisogno di lui. Egli aveva bisogno di lui. Perché era dovuto morire? Glauco asciugò con impazienza le lacrime che minacciavano di annebbiargli gli occhi. Poi si tese e toccò l’intonaco fresco con dita tremanti. Sua madre aveva applicato la pittura con tale perizia. Stando in punta di piedi, seguì con la punta delle dita il contorno delle labbra del padre, immaginandole di carne calda e vitale. Le labbra sembrarono tendersi in un sorriso più ampio e lo scintillio negli occhi sembrò divenire più raggiante. Glauco si portò le dita alle labbra, premendole leggermente, poi si tese di nuovo e sfiorò la guancia di suo padre con quelle stesse dita. Indietreggiò e fissò il glorioso ritratto, quasi stordito.
Non aveva idea di quanto tempo fosse rimasto là in piedi, assimilando ogni dettaglio, e desiderando che il magnifico affresco si trovasse sul muro della propria casa in Ispania, prima di voltarsi, infine, alla propria sinistra e di vedere il secondo murale che sua madre aveva dipinto. Rappresentava la fattoria, con due piccole figure nell’angolo, sotto l’alto pioppo. Si accosciò e vide i ritratti di sua madre e suo fratello, in piedi vicino alla tomba di sua sorella. Stavano mano nella mano, suo fratello così dolce ed innocente, sua madre bella ed elegante.
Quando allungò una mano per toccarli, una luce abbagliante e rovente gli esplose improvvisamente nella testa, poi egli piombò nell’oblio, mentre il suo corpo si afflosciava, crollando sul pavimento.
Il martellio nella sua testa finalmente lo svegliò e Glauco rotolò di lato. Gli parve che quel leggero movimento gli mandasse in frantumi il cranio. Si afferrò la testa ed ebbe conati di vomito irrefrenabili e convulsi, come se le sue interiora si fossero ribaltate. Tentò di mettersi a sedere, ma un’ondata di vertigine lo assalì come un turbine e Glauco crollò carponi sul pavimento, travolto da altri conati di vomito.
Finalmente, riuscì ad alzare la testa, lamentandosi per il dolore che questo movimento provocò. Aprì gli occhi appannati dalla sofferenza, tentando di capire dove si trovasse. Persino quella fioca luce gli lacerò il cervello come una lama, ma si costrinse ad osservare quanto lo circondava. Di fronte a lui, sul pavimento, un obliquo rettangolo di luce solare a strisce. Confuso, Glauco tentò di capire che cosa potesse essere. Improvvisamente ricordò. Gemette di dolore e paura ed alzò gli occhi verso le sbarre della porta della sua cella e sull’uomo beffardo in piedi nell’altro angolo.
Plauziano.
Glauco era caduto diritto in una trappola.