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Capitolo 79 - Ritorno a
Vindobona
Adulti e bambini sedevano insieme in silenzio ed ascoltavano attentamente Glauco che raccontava la storia del suo viaggio in Germania e di tutto quello che dopo era accaduto. Si erano meravigliati delle sue avventure e dei cambiamenti in quel giovane uomo, che era stato poco più di un ragazzo impulsivo quando la sua avventura aveva avuto inizio, ma che adesso era molto simile al padre. Si erano entusiasmati nell’udire che Marco Aurelio aveva affidato a Massimo la posizione più potente dell’Impero, poi si erano fatti piccoli piccoli sentendo quello che era accaduto dopo... proprio sotto i loro nasi. La loro sorella ed il giovane nipote assassinati, Massimo catturato sulla propria terra. Schiavitù. I suoi trionfi in Roma come gladiatore. Giulia. Massima… una meravigliosa e benvenuta aggiunta alla loro grande famiglia. Poi il tradimento e la morte di Massimo, ma non prima di portare a termine la sua missione di vendicare l’assassinio della sua famiglia e liberare l’Impero dal tiranno, Commodo. E loro non ne avevano saputo nulla. Non erano stati capaci di aiutarlo.
Ma Glauco era riuscito dove loro avevano fallito. Non solo aveva messo insieme tutti i pezzi, ma aveva riportato Massimo a casa, affinché riposasse accanto a sua moglie e a suo figlio, rischiando molte volte la propria vita nel farlo. Era un conseguimento stupefacente per un uomo veramente maturo… un uomo che aveva affrontato l’Imperatore stesso ed aveva vinto.
Proprio come suo padre.
Ma sapevano che Glauco non sarebbe rimasto a lungo con loro. Sarebbe rimasto quanto bastava ad assicurarsi che la fattoria funzionasse in modo soddisfacente, e per riposarsi e riprendersi dalle sue avventure, ma poi sarebbe ripartito, per chiudere il cerchio della storia. Questa volta, tuttavia, non sarebbe andato da solo. Insieme a Brenno, l’avrebbero accompagnato gli zii Persio e Tito, e i cugini Tacito e Claudio. Essi sentivano di doverlo a lui e a Massimo.
Glauco stabilì un posto speciale nell’atrio per l’armadietto degli antenati e collocò la preziosa maschera all’interno. Su entrambi i lati stavano le piccole figurine che suo padre aveva curato tanto teneramente e presto lui avrebbe commissionato ad uno scultore un busto di Massimo in marmo, che sarebbe stato sistemato su un piedistallo in un luogo dove rendergli onore.
Poi fece fare a Brenno un giro della sua fattoria, dove i lavoranti erano lieti di mostrare come funzionava bene. La mietitura era in preparazione, la frutta era stata raccolta e la lana era stata tosata. I puledri che erano nati quella primavera caracollavano sulle zampe robuste dietro le loro madri. Mucche, pecore e capre brucavano nei pascoli ondulati.
I registri erano in ordine e gli utili erano aumentati notevolmente in sua assenza, il che era una buona cosa dal momento che lui aveva speso ogni soldo dei fondi sostanziosi che si era portato per il viaggio. Dopo un periodo di riposo, sarebbe stato pronto a ripartire.
Un mese più tardi, sei uomini che cavalcavano potenti stalloni si avviarono sulla strada del Nord, quella che portava in Germania. Tutti erano armati, ma nessuno indossava l’armatura, eccetto l’uomo alla guida, che portava una corazza di cuoio nero con insoliti simboli d’argento sbalzati in rilievo: un albero, cavalli, persone. Chiunque vide questo piccolo, determinato e concentrato esercito… sulla strada e nelle città… cedette subito il passo e sospirò di sollievo quando si fu allontanato.
Gli uomini stabilirono un ritmo preciso che non diminuì neanche quando attraversarono
le montagne d’Ispania, Gallia e Germania. Allevati solo per quel genere di
passo, i loro cavalli inghiottirono il terreno con lunghi passi agili e sicuri,
sbuffando di piacere. In poco più di una
settimana attraversarono
Vindobona non era cambiata molto da quando lui vi era stato l’ultima volta e Glauco dubitò che mai potesse. Dopo che lui, Brenno, i suoi zii e i suoi cugini affollarono la locanda locale, lui si diresse verso la fortezza, ansioso di raccontare a Giovino le sue imprese. Si avvicinò con cuore leggero alla casa di pietra grigia ad un piano, ma presto comprese che qualcosa non andava. Il luogo era trascurato e coperto d’erbacce… anche più di quanto fosse stato in precedenza. Egli guidò Ultor fino al retro della casa, dove Giovino si era preso cura del suo piccolo giardino, ma scoprì che non c’era più… soffocato dalle erbacce e nascosto dai rami abbattuti di pini e querce circostanti. Fischiò per chiamare Zeus, ma non gli rispose alcun abbaiare festante. Smontando, si avvicinò alla porta di quercia nel muro che circondava il cortile e vi abbatté i pugni. Nessuna risposta. Tentò di nuovo, con lo stesso risultato, poi mise la spalla contro la porta e spinse. Rimase salda.
Mettendo le mani sul muro, cercò lungo la superficie irregolare finché trovò una presa per le dita, poi torse lateralmente il piede e brancolò con la punta fino a trovare una crepa nella pietra sgretolata. Si issò sulla sommità e si inginocchiò sul muro, poi si lasciò cadere dall’altra parte, atterrando con le ginocchia flesse. Si raddrizzò lentamente. Le ragnatele ricoprivano la via d’accesso alla cucina, oscurando l’apertura con sottili fili d’argento. Chiaramente, da lungo tempo nessuno era passato di lì. Raccolse un ramo ed eliminò le ragnatele, quindi attraversò l’atrio e la cucina, dove aveva trascorso tante serate con Giovino che parlava di Massimo. Era tutto deserto, come il resto della casa… ogni superficie rivestita d’uno spesso strato di polvere, l’aria stantia e umida.
Giovino era morto? Per qualche ragione Glauco non si era permesso di
considerare quella possibilità. Percorse lentamente la casetta, mentre i suoi
passi echeggiavano sordamente, enfatizzando il vuoto. Stava morendo dalla
voglia di condividere la sua storia… una storia di dolore e meraviglia, e di rivendicazione…
e voleva condividerla disperatamente con l’uomo che l’aveva avviato sul cammino
delle risposte.
- Giovino? - disse, la voce sottile, come quella d’un bambino sperduto. Gli
rispose il silenzio. Girò sui talloni ed uscì in fretta dalla casa, saltando di
nuovo al di là del muro con un volteggio. Qualche istante dopo camminava lungo
la strada a ciottoli verso la città, con Ultor al passo dietro di lui, la testa
china, perso in pensieri cupi.
- Ebbene, non avrei mai pensato di rivederti.
Glauco si arrestò, sussultando alla voce della donna proprio di fronte a lui. Si trovò a fissare dritto negli occhi di Katerina.
- Se non guardi dove stai andando, finirai con l’andare addosso a qualcuno, con quel tuo cavallo ombroso.
Glauco sorrise lentamente e rilassò le spalle, salutandola apertamente.
- Non sei cambiata.
- Tu sì. - La risposta di lei fu sfrontata, come il suo sguardo mentre studiava la sua corazza di cuoio e le braccia e gambe nude sotto la corta tunica.
- Davvero? - Che cos’era ad attirarlo nelle donne sicure di sé?
- Sì. Non ero nemmeno certa che fossi tu, prima. - Si mise il grande cesto da bucato sull’altra anca e lo studiò con un sopracciglio alzato. - Sembri... più vecchio, in qualche modo. Maturo. Sicuro. Di certo sei vestito in modo diverso.
- Tu non sei cambiata, - ripeté lui, e davvero lei non lo era. La sua bellezza era ancor più straordinaria di quanto lui ricordasse. La sua pelle era ancora perfetta, la bocca ancora piena, ma i suoi ricci ramati ora erano raccolti in cima alla testa, non più sciolti liberamente lungo la schiena. Lui arrischiò una supposizione esitante. - Ti sei risposata?
- Sì, come lo sai?
Glauco scosse le spalle con quello che sperò sembrasse un gesto noncurante.
- I tuoi capelli. - Sorrise. - Non mi hai aspettato, - scherzò.
- Non sapevo di doverlo fare. - Lei era seria. Un attimo dopo gli afferrò il gomito e lo tirò via dalla strada per permettere ad un carro carico di verdure di superarli, diretto alla fortezza, poi lei mise per terra il cesto, prima di alzare lo sguardo nei suoi occhi verdi. - Ho sposato un soldato due anni fa e abbiamo un bambino.
- Figlia di un soldato ed ora moglie di un soldato. E’ meraviglioso, - disse lui senza convinzione. Aveva sperato, poco realisticamente, di trovare tutto come era stato… come se tutto fosse stato rinchiuso in un vetro protettivo in attesa del suo ritorno. Riuscì a sorridere debolmente mentre cercava qualcos’altro da dire. - Ma fai ancora la lavandaia?
Ella perspicacemente prese nota del suo turbamento.
- Sì. Il denaro in più aiuta sempre. Inoltre, mio marito spesso è via con la
legione… che è stata rimessa in uso in scala molto più piccola… e abbiamo
un’altra bocca da sfamare.
Le guardò il girovita snello. Era di nuovo incinta?
Ella contorse le labbra in un sorriso obliquo alla
sua occhiata perplessa.
- Sei stato alla fortezza?
Glauco gettò uno sguardo lungo la strada dietro di sé, poi disse:
- No, non ancora... Cercavo Giovino. La sua casa sembra abbandonata. Sai che
cosa gli è accaduto?
- Sì, lo so.
- E’... è morto?
- Hai notizie per lui?
Glauco spinse indietro i riccioli ribelli e lei sorrise a quel gesto
familiare.
- Sì. Grandi notizie. Dov’è?
Katerina raccolse il cesto traboccante e glielo scaricò tra le braccia,
proprio come aveva fatto anni prima, poi gli fece un cenno col dito mentre si
rimetteva sulla strada e prendeva la direzione della città.
- Seguimi.
Il vecchio sedeva nella cucina di lei con la testa del grosso cane sul ginocchio, e accarezzava la morbida testa dell’animale, fissando il bambino nella culla vicina.
Quando la porta si aprì, Zeus sollevò la testa e tese gli orecchi, il naso umido che si contraeva percependo un odore familiare.
Glauco si precipitò verso di loro.
- Giovino... Giovino, sono tornato, - gridò e spalancò le braccia per afferrare
il cane che era scattato in piedi nell’udire la voce di Glauco e ora gli saltellava
intorno. Guaendo come se fosse ferito, il grosso cane si lanciò nelle braccia
del suo giovane padrone.
Glauco strinse l’animale e gli mormorò parole di lode mentre tentava di evitare la lunga lingua rosa che gli lappava il viso. Guardò ansiosamente, al di là della testa di Zeus, l’uomo anziano che si era alzato in piedi in modo malfermo, con la mano appoggiata sull’angolo del tavolo di legno.
- Glauco, Glauco... sei tu? - Giovino girava la testa avanti e indietro in cerca di un suono che gli avrebbe dato un altro indizio per localizzarlo e Glauco comprese che era totalmente cieco. La sua povera vista l’aveva infine abbandonato del tutto.
Spinse giù il cane e Zeus ritornò subito accanto a Giovino, dove si sedette
con aria protettiva vicino alla gamba dell’uomo.
- Sì, Giovino, sono io. Ti avevo detto che sarei tornato, - gridò, memore dello
scarso udito del vecchio ingegnere.
- Bene, ti ci è voluto un bel po’ di tempo. - Giovino sorrise e gli fece cenno di venire avanti. - Vieni qui, vieni qui, e abbraccia un vecchio cieco.
Glauco prese Giovino tra le braccia, sollevandolo da terra ed il vecchio gli
avvolse strettamente le braccia attorno alle spalle e lo avvinghiò con forza.
Nonostante il suo peso, il corpo di Giovino sembrava fragile, le braccia ossute
ed i capelli bianchi radi e sottili. Quando Glauco lo lasciò andare con precauzione,
Giovino tese le mani per carezzare il viso del giovane ispanico, sorpreso… e
lieto… delle lacrime che vi sentì.
- Non stai mica piangendo, vero? - lo sgridò dolcemente.
- Certo che no, - mentì Glauco e si contraddisse tirando su col naso e asciugandosi gli occhi, poi fece un passo indietro.
Giovino sorrise e cercò a tentoni la sua sedia, dove affondò con un
grugnito, facendo scricchiolare le giunture di legno sotto il suo peso. Zeus
rimise la testa sul grembo del vecchio.
- Mi hai cercato alla casetta?
- Sì. Non c’eri, - rispose Glauco prima di rendersi conto di quanto ridicolamente ovvie fossero quelle parole.
- Divenni completamente cieco circa un anno fa e questa gentile signora mi prese in casa con sé. - Sorrise in direzione di Katerina, che aveva tirato su il figlio dalla culla e lo stava cullando tra le braccia. - E’ molto gentile con me. Davvero molto gentile. - Strofinò gli orecchi del cane e Zeus chiuse gli occhi per il piacere. - Fu doloroso lasciare mio figlio, ma non potevo più badare nemmeno a me stesso. Lei è anche stata disposta a prendere Zeus. - La sua mano improvvisamente esitò. - Suppongo che tu sia ritornato per il tuo cane?
Glauco tirò una sedia vicino al tavolo, ma Zeus non si mosse.
- Il mio cane? Penso che ormai sia il tuo cane.
- Oh... no, no. Io ho solamente badato a lui per te. Mangia troppo. Devi riprendertelo. - Ma afferrò la nuca del cane e se lo tirò ancor più vicino.
Katerina improvvisamente depose il neonato nelle braccia di Glauco e disse:
- Parlando di mangiare, è ora di preparare la cena. Tu puoi occuparti del
piccolo Giustino mentre io preparo. Se piange, limitati a mettergli la punta
del tuo dito in bocca... ma prima lavatelo. Probabilmente sai di cavallo.
Glauco tenne il bambino e lo guardò negli occhi blu. Un ciuffo di capelli
rossastri spuntò da sotto la cuffietta.
- Somigli alla tua mamma, - tubò lui. - Piccolo bimbo fortunato. - Poi sorprese
Katerina quando con fare esperto si appoggiò
il bambino sulla spalla, dandogli colpetti sul sederino, che stava comodamente nella
sua grande mano. Il bimbo gorgogliò e sbavò in
segno di appagamento.
- Hai l’aria di averlo già fatto prima, - osservò lei, sbucciando verdure in una enorme pentola nera.
Glauco le sorrise.
- Ho molti cuginetti, così ho tenuto in braccio un bel po’ di bambini ai miei
tempi.
- Nessuno di tuo ancora? - chiese lei da sopra la spalla.
Glauco capì che lei era curiosa sul suo stato civile.
- No. No, sono stato troppo occupato per prender la cosa anche solo in
considerazione.
Giovino stava diventando impaziente con quella chiacchierata. Si allungò
verso Glauco con una mano nodosa e dalla pelle macchiata.
- Raccontami. Dimmi che cosa è accaduto negli anni in cui non ti ho visto.
Glauco trasse un profondo respiro.
- Ci sono riuscito, Giovino. Ho scoperto l’intera storia e ho trovato i resti
di mio padre. Lui ora riposa accanto a mia madre, in Ispania.
Giovino chiuse gli occhi e disse una muta preghiera di ringraziamento.
- Sapevo che ci saresti riuscito. Sapevo che ce l’avresti fatta.
- Non ce l’avrei fatta se tu non mi avessi messo sulla buona strada con le informazioni giuste. Ho dovuto viaggiare per tutto l’Impero, ma ho trovato Giulia, Marciano e Lucio. E qualcun altro.
- Chi?
- Mia sorella, Massima. Giulia ha avuto una figlia da mio padre. Vive a Roma. E’ bella e forte e coraggiosa ed io l’amo molto.
Giovino gli strinse le mani con gioia.
- E’ meraviglioso! Devi raccontarmi tutto. Non lasciar fuori nulla.
E lui lo fece, sopra un pasto di pollo arrosto, carote e fagioli. Stava ancora parlando quando Katerina gli prese dalle braccia il bambino che sonnecchiava e scomparve nella camera da letto per allattarlo, lasciando la porta socchiusa in modo da poter seguire comunque il racconto.
Il fuoco si era fatto basso e loro avevano quasi finito la seconda brocca di vino quando Glauco finì la storia descrivendo brevemente il viaggio a Nord con gli zii e i cugini.
Gli occhi lattiginosi di Giovino irradiavano eccitazione.
- E’ tutto così meraviglioso. Hai portato a termine tutto, Massimo. Tutto.
Glauco aggrottò la fronte. Il vecchio era ubriaco? Immaginava forse che il
generale era seduto a tavola con lui? Il giovane ispanico si chinò in avanti e disse
dolcemente:
- Giovino, sono io... Glauco.
Giovino sventolò la mano nell’aria con fare adirato.
- So bene chi sei. Sono cieco, non stupido! - Mise entrambe le mani sul tavolo
e si chinò verso il giovane così che i loro nasi quasi si toccarono. - Ti
ricordi ciò che ti dissi brevemente dopo che ci incontrammo la prima volta?
Glauco sedette di nuovo, in silenzio perplesso.
- Quando ti presentasti. Non ricordi? Io ti chiamai Massimo e tu mi dicesti che ti chiamavi Glauco. Ricordi quello che io ti dissi? - domandò Giovino appassionatamente.
Le sopracciglia di Glauco si corrugarono mentre cercava di ricordare.
- Pensa! Pensa!
Improvvisamente Glauco ricordò la conversazione:
- Be’, è il tuo nome, no?
- Sì, lo è. Ma io non l’ho mai usato.
Appartiene a mio padre, non a me.
- Appartiene anche a te.
- Non mi hanno mai chiamato così. Mi
hanno sempre chiamato Glauco. I miei genitori adottivi temevano per la mia
sicurezza e volevano celare la mia vera identità.
- Fu cosa saggia. D’accordo, ti
chiamerò Glauco, ma devi essere preparato ad usare con orgoglio il nome di tuo
padre… e il tuo… quando la tua ricerca sarà finita.
- Non sono sicuro di essere degno di
quel nome.
- Lo sei e un giorno lo saprai.
- Il tuo nome è Massimo! - insisté Giovino. - Ti sei guadagnato il diritto di portarlo. Sei figlio di tuo padre in ogni aspetto. Il tuo nome è Massimo!
Glauco cercò le parole.
- Dillo! - insisté Giovino. - Dillo! Di’ “Il mio nome è Massimo.”
Le lacrime gli riempirono gli occhi per la seconda volta quella sera.
- Non posso. E’ proprio che non sento…
- Non senti cosa? Che te lo sei guadagnato? Che te lo meriti?
- Io... non so, - rispose Glauco lentamente.
Giovino addolcì il suo tono.
- Bene, io ti chiamerò Massimo finché ti ci sarai abituato e presto vedrai quanto
è adatto a te.
Katerina ritornò col bimbo addormentato e Glauco la guardò con occhi incerti.
Lei annuì, fermamente d’accordo con Giovino.