La Storia
di Glauco: Capitolo 65
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Tre giorni più tardi, dopo un’ascesa continua e sfibrante che li portò ad attraversare, aggirare e valicare alcune fra le montagne più alte dell’impero, raggiunsero la città di Augusta Pretoria all’estremità meridionale del grande passo di montagna che li avrebbe condotti direttamente ad Octodurus[1]... il luogo in cui presumevano vivesse ora Lucio Vero. Augusta Pretoria era stata costruita più di duecento anni prima sul sito dell’accampamento militare di Aulo Terenzio Varrone, che aveva acquartierato le sue truppe vicino ad un centro importante dei Salassi, la tribù celtica che era stato inviato a sgominare. Ma la città fortificata di Augusta, completa d’un Arco di Augusto, era adesso piuttosto piccola e consisteva quasi completamente di locande e taverne per gli stanchi viaggiatori, così come di negozi che vendevano indumenti caldi, quali stivali imbottiti e mantelli di pelliccia. Al momento, il teatro e l’arena venivano usati raramente, l’arena ricurva diventando anche un mercato, e le ex baracche dell’esercito erano state trasformate in locande da intraprendenti uomini d’affari. La città era colma di visitatori d’ogni tipo diretti in Italia o in attesa di attraversare il Summo Poenino[2]: commercianti, braccianti, corrieri, artigiani, mendicanti e turisti. I soldati occupavano molti tavoli nelle locande affollate.
Dopo aver trovato lunghe liste d’attesa nella maggior parte delle locande, Glauco, Mario e Brenno notarono un piccolo ostello precariamente appollaiato sul fianco d’un pendio ripido e roccioso che aveva una lista molto più corta. Glauco poteva capire perché. Sembrava che quel posto stesse per precipitare da un momento all’altro lungo il lato della montagna. Questa locanda, come molte altre costruzioni nel villaggio, sembrava essere intagliata nelle montagne stesse, estendendosi disordinatamente tra angolosi pendii, in sfida alla disposizione romana delle città, fatta di vie diritte che si intersecavano. Realizzate in granito grigio e piuttosto tozze ed irregolari nella figura, queste costruzioni fornivano ai viaggiatori ogni necessità, quali bagni caldi, vestiti caldi, letti caldi e cibi caldi per sciogliere le ossa congelate. Le persone appena arrivate dal passo si curvavano sopra le ciotole di cibo fumante, le mani avvolte intorno all’argilla, cercando di riportare lentamente la circolazione sanguigna nelle dita bianche. Le persone che si preparavano ad attraversare il passo si attardavano per qualche istante sui loro ultimi pasti caldi e comodità.
Glauco, Mario e Brenno si fecero strada sotto il basso soffitto arcuato, annerito dalla fuliggine, verso un tavolo nella parte posteriore della piccola locanda, dove avrebbero atteso fino a che il loro nome fosse stato chiamato per una stanza. I tavoli più vicini al focolare erano già occupati, così i giovani si misero in un angolo buio lontano dal fuoco rivitalizzante. Pensa un po’, rifletté Glauco. Qualche mese fa ero in pericolo di morte nella calura del deserto. E ora sono mezzo congelato. La locanda risultò essere abbastanza calda ed accogliente, comunque, e presto si tolsero i mantelli e le toghe, strato dopo strato. Inconsapevoli di quanto stanchi fossero realmente fino a quando finalmente non si sedettero.Senza una parola trangugiarono del vino rosso, un ricco stufato di carne di cervo, formaggio stagionato e pane con burro fuso.
- Il cibo migliore che abbia mai mangiato, - mormorò Mario quando infine alzò la testa per prender fiato.
Brenno annuì, d’accordo, e osservò gli occupanti della stanza mentre
masticava.
- Chi sono tutte queste persone? - domandò a voce
alta, ora che i suoi compagni sembravano disposti a fare conversazione. - Da
dove arrivano tutti?
- Da ogni parte dell’impero, direi, dall’aspetto, - rispose Mario. - Laggiù nell’altro angolo lontano dal fuoco, - accennò con la testa in quella direzione. - Sono celti.
- Come lo sai? - chiese Brenno, che era una valle senza fondo di curiosità.
- Dal colorito, principalmente. Capelli biondi e occhi azzurri. A volte capelli rossi. E sono alti, vedi? - disse Mario indicando un uomo che si era appena alzato in piedi, le spalle chine per evitare di colpire con la testa il basso soffitto. - Portano anche i capelli lunghi, talvolta intrecciati, e preferiscono far crescere la barba. Sanno come vestirsi per il clima, considerando da dove vengono. - L’uomo in questione era vestito di pelli dalla testa ai piedi, con lunghe pellicce drappeggiate sopra le spalle.
- Hanno lo stesso colorito di domina Giulia, - osservò Brenno.
- Hai ragione, - fu d’accordo Glauco, prendendo in considerazione la possibilità della discendenza celtica di lei.
- Ebbene, non sottovalutare mai un celta, ragazzo mio, - disse Mario a Brenno mentre col pane tirava su l’ultimo boccone del suo stufato. - La loro regina guerriera, Boudica, riuscì a riunire la sua gente contro i Romani in Britannia e quasi ci sconfisse.
Brenno lo guardò con curiosità, cercando di immaginare una donna guerriera.
Fu l’imbeccata perché Mario si lanciasse nel suo racconto, orgoglioso della
sua conoscenza della storia dell’impero.
- E’ vero. Accadde durante l’anno 60, in quella desolata provincia conosciuta
come Britannia.
- Pensavo che fosse successo prima, - disse Glauco.
- Ecco, prima di allora la Britannia fu colonizzata da Claudio, ma Roma non riuscì mai a governarla bene. Francamente, nessuno voleva vivere là. Non si può dire che li biasimo. E’ fredda e piove tutto il tempo. - Mario si appoggiò all’indietro nella sedia, contento di avere un pubblico. - Gli indigeni non si considerarono mai realmente parte dell’impero... colpa nostra, in realtà. La gente non veniva affatto trattata bene. Così, quando re Prasutago morì...
- Come potevano avere un re? - interruppe Brenno. - Avevano un imperatore.
- Buona domanda, ragazzo mio, buona domanda. Vedi, al popolo venne concesso di mantenere la classe sociale dei nobili. Faceva parte dell’accordo. Avrebbe potuto funzionare, ma non fu così. Per cui, quando Prasutago morì questo accordo si concluse. Egli lasciò metà del suo regno a Nerone, senza dubbio cercando di placare Roma. L’altra metà fu lasciata alle sue figlie. Il che non era cosa abbastanza buona, naturalmente. E’ o tutto o niente per noi Romani. I Romani in Britannia, soldati e schiavi allo stesso modo, saccheggiarono le proprietà lasciate dal re alle figlie e maltrattarono il popolo. Sapete, torture e stupri... le solite cose. Le stesse parenti del re furono trattate come schiave. - Mario si chinò più vicino a Brenno. - La regina Boudica, moglie del defunto re, si ribellò ed organizzò una rivolta del suo popolo e convinse anche altre tribù ad unirsi a loro. - Mario annuì soddisfatto all’espressione rapita di Brenno e si riappoggiò all’indietro. - Saccheggiarono la città di Camulodunum[3], particolarmente il Tempio di Claudio, dove i soldati romani si erano rifugiati. Poi tesero un’imboscata ad una legione romana che dal sud era diretta lì e li uccisero tutti. Boudica marciò direttamente su Londinium senza che nessuno la fermasse. - Mario bevve un sorso di vino. Anche Glauco ora pendeva dalle sue labbra. - I Romani combatterono per le loro vite, più che per la loro città. La maggior parte di loro morì.
- Dov’era il governatore? - chiese Glauco.
- Svetonio Paolino era a Mona[4], un’isola appena al largo della costa della Cambria Settentrionale. Era un asilo per rifugiati, ma anche un centro religioso per il culto druido, che era stato tollerato fino a quel momento. I britanni di Boudica si allinearono sulla sponda gridando maledizioni e offrendo cruenti sacrifici alle loro divinità pagane. Le forze romane li inseguirono e uccisero tutti. Poi distrussero gli alberi e gli altari sacri. Paolino si precipitò a Londinium con le sue restanti legioni per tentare di riprendersi la città. Ma la città era in mano ai ribelli e non c’erano abbastanza legionari per sconfiggerli. Allora Paolino si ritirò e schierò dieci mila legionari per affrontare il nemico. Boudica arrivò con alcune centinaia di migliaia di britanni.
Brenno trattenne il fiato.
- Sì... e guidava un carro in mezzo alle sue genti, organizzandole e gridando incoraggiamenti. Gli eserciti romani attaccarono per primi, i loro ranghi serrati rendendoli invincibili. Giavellotti, frecce, scudi e spade... avevano tutto. Il nemico avanzava lentamente, minacciosamente, al passo, e quando furono abbastanza vicini, Paolino diede l’ordine di caricare. Fu un massacro. Quasi ottantamila britanni morirono, contro soltanto poche centinaia di romani.
- Che cosa accadde alla regina? - chiese Brenno.
- La coraggiosa regina si uccise, rifiutandosi di affrontare ancora una volta la schiavitù.
Brenno annuì pensosamente.
- Posso quasi vedere Giulia fare lo stesso, - commentò. Sia Mario che Glauco risero.
- Anch’io, - assentì Glauco facendo segno all’affacendato servo di portare altro stufato. - Anch’io. - Glauco studiò l’uomo alto che lasciava la stanza. - Forse anche noi dovremmo procurarci stivali imbottiti e mantelli di pelliccia. Non so voi, ma il vento riesce ad attraversare i miei cinque strati di vestiti e se ne aggiungerò un altro mi sentirò come un maiale farcito. Perché voi due non aspettate qui che si liberi una stanza mentre io vado a vedere che cosa posso trovare?
Un’ora più tardi Glauco era in coda in una bottega,
in attesa del proprio turno per comprare indumenti caldi. Stranamente, sembrava
che alcuni viaggiatori appena giunti dal passo restituissero le pelli. Glauco
si rivolse ad un uomo basso e scuro.
- Che cosa stanno facendo? Li stanno rivendendo?
- Hanno affittato le pelli ad Octodurus. Alcuni hanno una bottega sia da un lato che dall’altro del passo, quindi si possono restituire e riavere indietro un po’ di soldi.
Glauco rifletté su quella possibilità.
- Ma io riattraverserò il passo tra qualche giorno, o
qualche settimana.
L’uomo scrollò le spalle mentre avanzava verso il banco.
- Francamente, io li comprerei se fossi in te.
Poco dopo Glauco ritornò alla locanda e trovò Mario e Brenno già sistemati
in una piccola stanza con due brande. Brenno aveva srotolato la sua sacca sul
pezzetto di pavimento di pietra ancora libero, pronto a lasciare che i suoi
compagni più anziani approfittassero d’un po’ più di comodità. Glauco sollevò
in alto le pesanti pelli di capra puzzolenti e rise al loro ritrarsi.
- Sospetto che cambierete idea domani. Mi hanno detto
che il tempo nel passo è stato molto variabile in questi giorni. Inoltre,
stiamo attraversando in stagione di punta e potremmo essere costretti ad
accamparci fuori per qualche notte.
La mattina dopo partirono all’alba, le sacche piene di cibo fresco, abbastanza da durar loro per i cinque o sei giorni che ci volevano per raggiungere Octodurus. Malgrado il calendario, un leggero strato di neve fresca rendeva sdrucciolevole il cammino ed il loro alito si condensava nell’aria frizzante. Determinato per il momento a non sommergersi sotto le pelli di capra, Glauco le fece ciondolare davanti alla sella, dove eventualmente avrebbe potuto ripararvi le punte dei piedi. Ultor non sembrava fare caso al calore supplementare e gli altri seguirono subito l’esempio.
La pista si restrinse rapidamente e da strada divenne larga sporgenza che orlava un precipizio così profondo da non vederne la fine. Mario osservò Brenno guardare il bordo dell’abisso, tirarsi indietro e sedersi eretto, la schiena molto rigida. Mario cominciò a fischiare con noncuranza, sperando di poter calmare il ragazzo, che non aveva avuto problemi durante l’attraversamento del passo più piccolo. In quel tratto, tuttavia, essi erano stati in grado di vedere il fondo del crepaccio al di là della pista. Il suono allegro rimbalzò sulla solida parete verticale prima di essere divorato dallo spazio impenetrabile. Mario smise di fischiare quando si rese conto che tutto ciò dimostrava quanto profondo fosse realmente l’abisso.
- Che cosa facciamo se incontriamo gente proveniente nell’altro senso? - chiese Brenno, nervosamente.
- Ci spostiamo di lato e la lasciamo passare, - rispose Glauco, che era in testa alla fila.
- Quale lato? - chiese Brenno, con evidente trepidazione nella voce, mentre sospingeva il cavallo talmente vicino alla sicurezza della parete di granito alla loro destra che il suo piede era in pericolo di rimanere schiacciato fra l’animale e la roccia.
Glauco scrollò le spalle con indifferenza.
- Suppongo che negozieremo.
- Con che cosa? - chiese Brenno.
- Soldi, che altro? - rispose Glauco, sperando che Brenno non si accorgesse del sorriso nella sua voce.
- E se incontriamo un carro che viene nell’altro senso?
- Stessa cosa.
Brenno rimase in silenzio per un po’ poi disse:
- E se due carri si incrociano?
Glauco rise.
- E’ un loro problema.
Mario dovette aggiungere il suo commento.
- Brenno, questo passo viene usato sin dai tempi
antichi dalla gente che deve passare dai paesi nordici al sud. Non si poteva
far passare molto più di un cavallo alla volta, quando i Galli lo usavano
all’inizio. Gli eserciti romani lo allargarono quasi duecento anni fa per procurare
una via più facile per arrivare in Germania e in Gallia con le legioni, e
chiamarono la strada Poeninus Iter. E’ largo almeno
quanto due uomini sdraiati testa contro testa. Giulio
Cesare vi fece passare i suoi eserciti, quindi certamente potremo passare anche
noi... e persino due carri affiancati. Rilassati e goditi il panorama. Quante
persone al mondo avranno mai la possibilità di vedere tutto
questo?
- Mi domando quanti scheletri ci sono sul fondo, - disse Brenno con un’occhiata nervosa.
Glauco stesso si era domandato proprio la medesima cosa... scheletri spiaccicati e sfracellati di uomini, cavalli, muli e buoi.
- Guarda, guarda là, - indicò Mario. - Guarda dove va la pista.
Brenno rifiutò di guardare, ma Glauco riuscì a vederla. La strada si
avvolgeva su se stessa, molte volte, man mano che
saliva, poi si abbassava bruscamente con il terreno accidentato. Sotto di loro
c’erano alberi, sopra di loro soltanto roccia e cielo. Si chiese a che
altitudine si trovassero. Nubi basse avvolgevano le valli dando l’impressione
che fossero parte del vasto cielo. Come per dimostrare
che aveva ragione, aggirarono una parete sporgente di roccia ed improvvisamente
furono colpiti da una raffica di vento improvvisa,
così forte che i cavalli indietreggiarono per alcuni passi. Il mantello gli
sbatté selvaggiamente contro il corpo.Glauco smontò in fretta ed afferrò le redini di Brenno prima che il ragazzo si facesse prendere
dal panico.
- Credo che sia tempo di portare al passo i cavalli per un po’, - gridò Glauco
nel vento fortissimo, tendendo la mano a Brenno.
Il ragazzo in qualche modo riuscì a smuovere le membra rigide e poggiò un piede dopo l’altro sul terreno irregolare. Rimase fermo là, i vestiti che si agitavano come una bandiera, aggrappato alla sella del suo cavallo irrequieto.
- Cammina accanto a me e chiacchieriamo, Brenno, - lo assecondò Glauco. - Andrò io sulla parte esterna. C’è un sacco di spazio. Tocca con le dita la parete, mentre camminiamo. - Avvolse il braccio attorno alle spalle snelle del ragazzo e lo allontanò dal cavallo. - Puoi raccontarmi com’era Massima da bambina. Era una peste anche allora come lo è adesso?
La qual cosa provocò un sorriso sulle labbra tremanti di Brenno mentre raggiungeva la sicurezza della solida roccia. Con la parete da un lato e Glauco dall’altro si sentiva appartato e al sicuro come un neonato in una culla. Immediatamente egli diede inizio ad un flusso di racconti su Massima che continuò fino a che non raggiunsero la prima locanda, temerariamente appollaiata su una stretta piattaforma che dava su un burrone spalancato. Era ancora presto quella sera, e trovarono facilmente una stanza nel piccolo rifugio di pietra, ma l’aria notturna divenne aspramente fredda e furono felici delle loro pelli di capra, puzzolenti o no. Glauco compatì chiunque avesse dovuto dormire all’aperto quella notte.
I giorni successivi furono simili al primo. Per la maggior parte del tempo la pista era così ripida che dovevano accompagnare a piedi i cavalli, le loro stesse gambe doloranti per lo sforzo. Alla notte sprofondavano in un sonno esausto e privo di sogni. Si svegliavano con le barbe imbiancate dal loro respiro, compresa quella di Mario, che non si era preoccupato di radersi da quando avevano lasciato Valencia. Anche il mento di Brenno, con la sua rada peluria fine, era gelato... un fatto che lo rese molto fiero.
Incontrarono alcune persone che venivano dalla direzione opposta, compresi alcuni carri, ma riuscirono a farli passare senza contrattempi. Si fermarono un po’ a lungo davanti ad un tempio dedicato a Giove, per pregare questo dio dei cieli e del clima per un viaggio sicuro. Ma, principalmente, le loro energie erano concentrate nel far muovere le gambe, un passo dopo l’altro, ancora e ancora, sulle estenuanti piste strette.
Quando raggiunsero l’ultima locanda, seppero che il peggio era finito. Ora stavano entrando in una valle di montagna relativamente agevole, tappa finale per Octodurus. A metà pomeriggio del secondo giorno, si sedettero su una sporgenza della montagna che guardava sulla città romana, che si estendeva maestosamente nella vasta valle verde al di sotto. Non avrebbe potuto sembrare più bella ai loro occhi nemmeno se fosse stata l’Elisio[5] stesso.