La Storia di Glauco: Capitolo 59

 

Capitolo 59 - Quinto

Mario fu svegliato dalle chiazze di sole che gli danzavano sul viso attraverso i rami ondeggianti sopra la sua testa. Si stirò voluttuosamente, ma non aprì gli occhi per paura di perdere la visione della donna con la morbida pelle candida e gli occhi più azzurri del mare. E sorrise. Come spesso accade, mentre aveva dormito la sua mente aveva lavorato sul dilemma delle loro differenze di classe ed egli si era svegliato con una chiara comprensione di come risolvere il problema. La visione di Massima gli restituì il sorriso.
- Glauco, - chiamò. - Ho risolto il problema. E’ semplice. Tutto ciò che devi fare è adottarla. So che non è molto usuale, ma sono certo che potremo escogitare qualcosa.

Aprì gli occhi e si girò nel giaciglio per godersi lo sguardo di meraviglia del compagno per la sua brillante idea. Ma l’attimo dopo saltò in piedi per la sorpresa. Eccolo lì, Glauco, in piedi con una tunica ed un mantello color vino, una corazza d’ottone che gli penzolava dalla mano, la spada decorata di suo padre al fianco, gli stivali neri ai piedi.

- Cos…cos… - fu tutto quello che Mario riuscì a dire.

- Sembri un soldato, - disse Brenno, affermando l’ovvio mentre si sedeva e si strofinava gli occhi ancora pieni di sonno.

- Dove li hai presi? - interrogò Mario, anche se lo sapeva già.

Glauco sorrise con grande soddisfazione.
- E’ stato facile, i soldati hanno fatto l’errore di lasciare il loro equipaggiamento con i cavalli. Ho semplicemente aspettato che il ragazzo di stalla si addormentasse, poi me ne sono impadronito.

- Sei matto! - gridò Mario poi si ritrasse per la sorpresa quando la sua voce echeggiò tra le rocce e rimbalzò di nuovo fino a lui. - Possano gli dei aver pietà di te, - sibilò. - Rubare ad un soldato… farsi passare per un soldato… questo ti farà guadagnare un posto per la Prigione Tulliana, se non altro.

- Non verrò preso. Voglio solo prenderli a prestito per un po’, poi li restituirò.

- Quel povero ragazzo di stalla passerà guai grossi, - commentò Brenno, immaginandosi al posto dello sfortunato giovane.

- Sì… ecco, farò qualcosa per lui quando restituirò queste cose. Voglio soltanto spaventare a morte Quinto e, a giudicare dalle vostre facce, questo travestimento dovrebbe essere efficace.

- Sei pazzo. Non ne vale la pena, - esclamò Mario.

- Tutto quello che ho fatto è da pazzi. Perché questo dovrebbe essere diverso? - Glauco cominciò a impaccare i suoi effetti personali, non volendo ascoltare altre obiezioni. Si fermò e si raddrizzò. - Ascoltate… ci ho pensato molto. Questa faccenda è affar mio, e non voglio più coinvolgere nessuno di voi. Specialmente te, Brenno. Mario, apprezzerei che tu riportassi  Brenno in paese e che mi aspettaste lì.

Mario testardamente incrociò le braccia e mostrò la sua risposta negativa mettendosi a gambe divaricate ben piantate per terra.

Si guardarono a lungo in cagnesco, nessuno dei due volendo cedere di un dito. Alla fine Glauco disse gentilmente.
- Dimentica l’idea dell’adozione. Significherebbe che Giulia dovrebbe rinunciare ad essere la madre  di Massima…

Le spalle di Mario si curvarono.
- Non ci avevo pensato. Suppongo…

- …e non lo farà mai. Io non glielo chiederei mai.

- Ci deve essere una soluzione... - cominciò Mario, facendo un passo verso Glauco e supplicando con la voce e le mani.

La fiducia in se stesso dell’amico temporaneamente spezzata, Glauco ne approfittò per insistere.
- Ti dispiace se ne discutiamo in un altro momento? Riporta Brenno giù in città e aspettate alla taverna fino al mio ritorno. - Glauco gettò il suo zaino sopra il dorso di Ultor e cominciò a condurre il cavallo su per la collina, conscio delle due paia di occhi furenti che gli perforavano la schiena.

 

Quinto, come al solito, si svegliò ai suoni e agli odori originati da sua figlia che toglieva il pane quotidiano dal forno. Aveva sognato… come sempre… di un altro tempo… un altro luogo. Il rendersi conto, quando apriva gli occhi, di dove era e di tutto quello che era successo da quel tempo lontano nel suo sogno, non mancava mai di turbarlo e poi di farlo sentire depresso...

Si strofinò gli occhi, la pelle attorno ad essi sciupata e rugosa. Ormai evitava di guardare il suo riflesso e rifiutava di avere uno specchio in casa, da quando nel piccolo stagno aveva colto un’inattesa visione di se stesso alla luce del giorno, ed era rimasto scosso da quello che aveva visto. I suoi capelli tagliati accuratamente corti, come un soldato, erano sottili e completamente grigi, la sua faccia lindamente sbarbata, sparuta e scarna. Le cicatrici verticali tra le sopracciglia si tendevano in su verso l’attaccatura arretrata dei capelli, intersecandosi con profonde rughe orizzontali. Incrociando le pieghe ai lati del naso e della bocca, esse gli davano un’aria perpetuamente corrucciata. Ed era magro, dolorosamente magro, e in qualche modo ringobbito da anni di duro lavoro nei campi di argilla sassosa. Era stato un colpo terribile, per un uomo che ancora immaginava se stesso come un soldato dell’imperatore, dritto, forte e solenne. Il suo riflesso quel giorno aveva frantumato quel mito. I suoi giorni da soldato erano passati da lungo tempo… i giorni di disciplina e marcia, intrigo e guerra, gloria e fortuna. Nessuno avrebbe indovinato, ora, quello che una volta aveva ottenuto, e quanto fosse caduto in basso, ed egli voleva che le cose rimanessero tali. Manteneva ancora l’abitudine quotidiana di lavarsi e farsi la barba, ma ormai non c’era nessuno a osservarlo, tranne la figlia, e lei raramente lo faceva. Ma un soldato non avrebbe fatto di meno. Un soldato della Felix III di Marco Aurelio non avrebbe fatto di meno.

Quinto rotolò fuori del letto e sussultò al familiare dolore che si irradiò dalla sua schiena irrigidita. L’acuto disagio cominciava ogni notte molto prima che si svegliasse, probabilmente innescato dai sogni ricorrenti. Sapeva che il dolore sarebbe diminuito una volta che avesse cominciato a muoversi, ma di anno in anno peggiorava. Mentre si sforzava di raddrizzare la schiena dolorante alla maniera militare, si domandò quanto tempo gli rimaneva prima di diventare completamente invalido.

Clara lo udì muoversi e posò sul tavolo una ciotola di calda farinata d’avena per lui. Ella aveva già mangiato la sua… il solo cibo che avrebbero consumato fino a sera, quando i loro consueti compiti  fossero terminati. Almeno, fino a quando i compiti di suo padre fossero terminati. Clara lavorava dal momento che si alzava al momento che andava a letto, fin troppo esausta per sognare di come era stata la sua vita a Roma quando era bambina, prima della morte dell’imperatore Pertinace e della caduta in disgrazia di suo padre. A malapena, adesso, ricordava qualcosa di quei giorni, e si chiedeva se le immagini vaghe che talvolta le fluttuavano nella mente... grandiosi palazzi e gente in abiti eleganti... fossero reali o solo un’espressione della sua nostalgia.

Non le importava della mancanza di specchi nella casa. Anch’ella preferiva pensare a se stessa nel modo in cui era stata quando era arrivata in Gallia per la prima volta, intimidita dallo straniero che chiamava “padre”… una bambina graziosa con splendenti capelli castano chiaro dai riflessi ramati ed occhi nocciola, ed un sorriso pronto, con le fossette. La sua pelle candida adesso era scurita dal sole, e i suoi riccioli lucenti erano tirati indietro e legati con un laccio di cuoio… più un fastidio che un pregio.

La porta si chiuse sbattendo dietro di lei mentre Quinto entrava nella stanza principale della casetta di due locali, e prese il suo posto a tavola. Era solo un bene che lei avesse deciso di non desinare con lui. Non avevano nulla da dirsi. Egli era ancora affamato quando finì, ma vi era abituato. Il cibo doveva essere razionato, anche all’inizio dell’estate, o non sarebbero mai sopravvissuti all’inverno. Si alzò e scaricò il piatto nel secchio dell’acqua, prima di ritornare alla stanzetta che ospitava il suo letto, oltre ad un rozzo comodino e ad una sedia di legno grezzo. Prese il rasoio, come faceva sempre, fissando fuori della finestrella storta. Pulì il prezioso vetro (così raro da quelle parti, l’unico piccolo lusso nella sua vita) con uno straccio… come faceva sempre… poi procedette a passarsi il rasoio sulle misere basette e sul mento, fissando fuori gli alberi oltre la pista… come faceva sempre. Era l’unico momento del giorno in cui gli era permesso il lusso di apprezzare semplicemente la bellezza di ciò che lo circondava, piuttosto che considerare la terra come qualcosa da sottomettere e forzare al suo volere. I suoi occhi si fermarono sul pino più alto, proprio in cima alla pista… e la sua mano si fermò a metà del movimento. Si chinò in avanti e socchiuse gli occhi, poi pulì di nuovo la finestra. C’era qualcosa di diverso oggi. L’ombra alla base dell’albero era più spessa del solito. Considerevolmente più spessa. E sembrava che avesse le gambe.

Con cautela, Quinto abbassò il rasoio e si pulì il viso. Afferrò la spada posata accanto alla porta principale e aprì questa lentamente, spiando dalla fessura tra la porta e lo stipite. Era un uomo a cavallo. Adesso poteva vederlo chiaramente. Ma la maggior parte della gente locale non veniva a cavallo da queste parti. Era un cavallo grosso, poderoso… un cavallo da soldato. Un piccolo brivido gli rotolò lungo la spina dorsale ed egli tremò. Che cosa voleva un soldato da lui? Decidendo che fosse meglio affrontare il soldato disarmato, rimise la spada accanto alla porta ed uscì nella luce del mattino.

- Sei tu Quinto Claro? - chiamò una voce profonda dalle ombre.

Quinto raddrizzò la schiena, spinse indietro le spalle e alzò il mento.
- Sì, sono Quinto Claro. Che cosa vuoi da me, soldato?

- Il Quinto Claro che era secondo in commando sotto il generale Massimo Decimo Meridio durante l’impero di Marco Aurelio?

Quinto cominciò a sentirsi a disagio. Come poteva saperlo, questo soldato che sembrava così giovane? Questo soldato la cui voce sembrava… quella di Massimo? Il cuore cominciò a martellargli in petto e il suo respiro divenne rapido. Massimo? Somigliava moltissimo a Massimo, da quella distanza. Si riparò gli occhi per vedere meglio.

Clara svoltò l’angolo della casa e si bloccò di colpo, portandosi la mano alla bocca, allarmata.

- Sono io, - rispose Quinto, con circospezione. - Vorresti identificarti, e precisare che cosa vuoi?

Glauco fece avanzare Ultor di pochi passi dall’albero e apparve alla luce del sole, dove fece impennare l’enorme stallone nero, i muscoli frementi e la coda ondeggiante.
- Io sono il tuo peggior incubo, Quinto.

Clara trattenne il respiro.

- Massimo? - Quinto tossì e si afferrò la gola. - Io… sapevo che alla fine saresti venuto per me. I… i sogni. Lo sapevo. - Quinto cadde a terra in ginocchio, le mani alzate come per schivare un colpo, l’intero corpo tremante.

Il cavallo si avvicinò.
- Hai  paura di me, Quinto? E perché?

- I… i sogni. Ti sogno ogni notte. Qu… quando eravamo giovani insieme nell’esercito. Erano sogni di un tempo migliore, ma sapevo che erano presagio di male. Lo sapevo, - disse Quinto, le sue parole finendo in un lamento di puro terrore. Si coprì il viso con le mani tremanti.

Clara cadde in ginocchio accanto al padre e lo strinse protettivamente fra le braccia poi sollevò il viso verso il soldato a cavallo.
- Chi sei? Che cosa vuoi da mio padre? - La sua voce era calma e ferma.

Glauco osservò la donna che si era coraggiosamente gettata tra lui ed il padre. Era piccola, le braccia a malapena circondavano il padre nonostante la magrezza di lui, e indossava gonne marroni molto semplici, da contadina. Il tessuto era consumato, ma ordinato e rattoppato in molti punti. La sua pelle era sporca di polvere, come se avesse appena incominciato i suoi lavori quotidiani quando egli era entrato così rudemente nelle loro vite. Le mani ed il viso erano abbronzati, quasi scuri quanto la sua stessa pelle… e spruzzi di lentiggini danzavano sul suo naso rivolto all’insù. “Graziosa,” pensò Glauco, “ma mi fa pena”… e frettolosamente scacciò quell’emozione indesiderata. Lentamente estrasse la spada e tese il braccio, tenendo l’arma verticalmente davanti al viso. Usò la sua voce più profonda.
- Io sono Massimo Decimo Glauco, figlio di Massimo Decimo Meridio... e sono qui per vendicare la sua morte.

Quinto si afferrò alla gonna sporca della figlia mentre lei continuava ad inveire all’intruso.
- Via dalla nostra proprietà! Vattene! Lasciaci soli! Non hai motivo di essere qui!

Glauco spronò Ultor in avanti finché l’animale torreggiò sull’uomo acquattato, ma Clara audacemente  continuò la sua invettiva.
- Chi sei tu, - gridò a Glauco, - che osi dire queste cose a mio padre? Vattene subito!

- Questa è una faccenda tra me e tuo padre. Restane fuori, - ringhiò Glauco.

- Ma chi sei? Non ti abbiamo mai visto prima. Come puoi dire quelle cose di mio padre?

Glauco sospinse Ultor al passo, accerchiando lentamente la coppia, obbligando Clara a contorcersi per tenerlo nel suo campo di visione.
- Così, lei non sa nulla, Quinto? Non gliel’hai detto? - lo provocò. - Non le hai detto che tradisti l’uomo che era il tuo comandante ed amico, non una volta, ma due volte… che tu lo uccidesti?

- Lei non sa niente, - mormorò Quinto con voce soffocata e tremante. - Quello che ho fatto io non ha niente a che fare con lei. Lasciala andare.

- Allora lo ammetti! - gridò Glauco prima di rivolgersi a Clara. - Non ti ha detto che tradì il suo generale… l’uomo che era stato nominato imperatore di Roma… per il suo proprio interesse? Che lui…

- Io stavo semplicemente eseguendo gli ordini. Eseguii il volere del mio imperatore…

- Tu eseguisti il volere dell’uomo che aveva appena assassinato suo padre, l’imperatore!

- No... no, non andò così. Io credevo che l’imperatore fosse morto di cause naturali. Lo credevo davvero.

Glauco era stanco della commedia d’intimidazione, ora voleva delle risposte. Con gli occhi costantemente su Quinto, smontò e diede una pacca ad Ultor sul posteriore, per mandarlo all’ombra degli alberi. Puntò la spada di suo padre verso la faccia convulsa di Quinto.
- La riconosci questa?

- Sì, - ansimò l’uomo sul terreno mentre sua figlia si alzava lentamente. - Come l’hai avuta?

- Sono io che faccio le domande, non tu, e ne ho moltissime. Cominciamo dall’inizio. Che cosa accadde la notte in cui Marco Aurelio fu ucciso in Germania? Voglio tutti i dettagli.

Improvvisamente Clara si lanciò su di lui, afferrandogli le spalle nel tentativo di allontanare la spada dal viso di suo padre. Glauco reagì istintivamente alzando il braccio in difesa. Con uno scricchiolio, il suo gomito entrò in contatto con la mascella di lei, facendola cadere all’indietro, per terra. Si voltò, sorpreso, e stava per scusarsi, quando Clara si rialzò in un lampo e con un rapido movimento in avanti gli si scagliò al viso, graffiandogli con le unghie la guancia, prima che egli riuscisse a spingerla via di nuovo. Ella finì nuovamente lunga distesa nella polvere, ed era lì che Glauco intendeva tenerla questa volta.
- Resta dove sei, - ringhiò ripulendosi con il dorso della mano il sangue che colava lentamente dalla guancia. Rivolse la spada verso di lei, chiedendosi chi dei due fosse il più pericoloso, e ordinò. - Spostati accanto a tuo padre, dove possa vedervi entrambi.

- Non farlo, - implorò Clara, strisciando per andarsi a sedere vicino al padre, che ora stava piangendo sommessamente.

- Lo devo a mio padre, di trovare delle risposte.

- Non è per tuo padre! Se così fosse, egli morì anni fa. E’ per te stesso! - accusò Clara.

- Tuo padre non era un uomo vendicativo, - aggiunse Quinto.

- Oh sì che lo era, - ruggì Glauco volgendo di nuovo la spada su Quinto. - Uccise Commodo per vendicare la morte di sua moglie e suo figlio… mia madre e mio fratello.

- No, non fu quella la ragione per cui lo fece, - dichiarò Quinto, che aveva riguadagnato parte della sua compostezza.

- Chiudi la bocca, bastardo!

- Io c’ero, - insisté Quinto. - Io so.

Come una furia, Glauco afferrò i capelli dell’uomo e gli tirò indietro la testa, premendogli la spada contro la vena giugulare pulsante.
- Che cosa sai? Dimmelo!

- Non può parlare con una spada alla gola, - disse Clara. - Lascia che si alzi.

Molto lentamente, Glauco abbassò la spada finché la punta si posò a terra, ma con il pugno stringeva ancora i capelli di Quinto.
- Adesso parla, - ordinò.

- Lascia che si alzi! - insisté Clara rimettendosi in piedi. - Se vuoi sentire quello che ha da dire, lascia che si metta in  piedi.

Con un brusco strattone, Glauco si tirò indietro e mandò Quinto a cadere nella polvere. Clara si precipitò dal padre e lo aiutò a tirarsi in piedi. Tremando ancora, il contadino affrontò Glauco.
- Sediamoci alla mia tavola come uomini civili. Parleremo davanti ad un boccale di vino.

- Non accetterò la tua ospitalità, traditore, - sibilò Glauco.

- Lascia almeno che si sieda. Tu puoi fare come preferisci, - pregò Clara. All’assenso di Glauco, ella aiutò il padre a tornare verso la loro casetta. Un disinteressato asino decrepito ruminava sull’erba non lontano dalla porta e pochi polli si sparpagliarono quando essi si avvicinarono. Davanti alla porta, Glauco ordinò loro di fermarsi e sollevò di nuovo la spada al collo di Quinto, poi afferrò l’uomo per la tunica e lo tirò indietro. Con cautela, Glauco scrutò all’interno per capire la situazione. Il luogo era deserto. Appena Glauco entrò, il suo piede urtò qualcosa di metallico ed egli tirò un calcio alla spada, scagliandola attraverso la stanza con un rumore assordante. La scopa accanto alla porta seguì la stessa sorte un istante dopo. Al suo brusco cenno d’assenso, Clara e Quinto lo seguirono nella stanza e l’uomo crollò in una sedia posta al tavolo da pranzo di legno.

Era un tugurio. La stanza principale non era più larga della sua camera nell’appartamento dell’insula a Roma. Un letto era appoggiato in un angolo, ordinatamente rifatto con una coperta colorata ottenuta da pezzi di stoffa cuciti insieme. Era una delle poche macchie di colore nell’intera stanza. Il pavimento di terra era dura roccia ingentilita soltanto da due tappetini intrecciati a mano, uno vicino al tavolo e uno accanto al letto di Clara. Braci da un fuoco morente sfrigolavano in un piccolo focolare che dominava la parete opposta, dove pentole annerite pendevano da travi di legno grezzo che si allungavano da parete a parete al di sotto del tetto di paglia. La sola mobilia era il grezzo tavolo e due sedie. Evidentemente, non erano abituati a ricevere visitatori. Accanto alla stanza principale c’era uno spazio molto più piccolo, grande abbastanza per solo una branda, un tavolino e una sedia. La stanza di Quinto, suppose Glauco. Almeno, lasciava che sua figlia dormisse nella stanza più calda. I suoi occhi continuarono a spostarsi intorno alla stanza alla ricerca di potenziali armi. A parte le pentole e l’attizzatoio, non ne vide alcuna.

Glauco rivolse la schiena alla stanza, incrociò le braccia e fronteggiò Quinto.
- Parla, - ordinò.