La Storia di Glauco: Capitolo 58

 

Capitolo 58 - Gallia

Le pungenti zanzare e i mordaci tafani erano quasi insopportabili ora che i giovani si trovavano nella protetta valle del Rodano, lontano dalle frizzanti brezze salmastre del mare. Le code dei cavalli sibilavano e guizzavano di continuo e i torturati animali scuotevano le teste furiosamente, cercando di scacciare gli insetti dalle zone delicate di narici ed occhi.

Ai cavalieri non andava molto meglio ed essi si erano ridotti a tirarsi le toghe sopra la testa. Ma i minuscoli insetti trovavano ogni possibile entrata e banchettavano sulla pelle dei loro colli e dietro le loro orecchie. Di notte i giovani si attorcigliavano nelle coperte, cercando di non aggravare il prurito soddisfacendo il costante e imperioso bisogno di grattarsi.

Avevano costeggiato il litorale per tutto il tragitto verso nord, per evitare di attraversare le aspre Alpi più presto di quanto fosse necessario. Avevano preso brevemente in considerazione l’idea di risparmiare giorni di viaggio con la traversata da Pisa a Nicaea[1], ma Glauco non era certo di come avrebbe reagito il suo stallone a quella rischiosa impresa, e aveva deciso di non rischiare la sicurezza di Ultor. Cavallo e padrone nelle settimane passate avevano ristabilito la loro amicizia e Glauco rifiutava di fare qualsiasi cosa potesse mettere a repentaglio quel legame.

Brenno amava ogni aspetto del viaggio e non faceva obiezioni quando per la notte decidevano di accamparsi sotto le stelle piuttosto che cercare un riparo più convenzionale. Per lui, anche la magnificenza del Foro a Roma impallidiva a paragone dei picchi lontani, ancora incappucciati di neve malgrado la calura nella valle. Era l’unico uomo a non portare un’arma, ma non gli importava, perché metteva il suo sguardo pronto e udito acuto al servizio dei viaggiatori. Mangiavano bene e regolarmente grazie al fatto che egli udiva la selvaggina muoversi nei cespugli o vedeva un cervo in mezzo gli alberi. La mira inesorabile di Glauco con l’arco e le frecce faceva il resto.

Da parte sua, Mario a malapena si rendeva conto di dove fossero, perduto com’era nei suoi pensieri riguardo la bella Massima. Il mare azzurro gli ricordava gli occhi di lei, il canto degli uccelli la sua risata, i notturni cieli di velluto i suoi capelli… ed egli lo ripeté tante di quelle volte che Glauco alla fine lo supplicò di smetterla e di concentrarsi sulla loro missione. Ma Mario era chiaramente innamorato cotto e sembrava che Massima ricambiasse il suo affetto. Solo il tempo avrebbe detto se la loro infatuazione si sarebbe evoluta in qualcosa di più profondo.

Massima poteva essere molto peggio di Mario, pensò Glauco. In fondo, il suo amico era intelligente e di buon carattere e, generalmente, si comportava bene. La sua famiglia era ricca e molto rispettata entro la comunità patrizia, a Roma. All’improvviso Glauco si raddrizzò sulla sella così bruscamente, da far sussultare Ultor, tanto che il cavallo inciampò nell’animale di Brenno che fece uno scarto vicino a quello di Mario e tutti i cavalieri tirarono le redini fermandosi confusi.

- Che… cosa c’è? - chiese Mario sfoderando la spada e ruotò nella sella cercando il pericolo.

- Non puoi sposare mia sorella! - esclamò Glauco.

Mario lo guardò come se fosse diventato matto.
- Di che cosa stai parlando?

- Non puoi sposare mia sorella, - ripeté Glauco scacciando una mosca dal viso.

- Ho appena conosciuto tua sorella. Chi ha parlato di matrimonio? - lo canzonò Mario. - Datti una calmata, amico.

- No... Mario... tu non capisci. Mia sorella è la figlia di un’ex schiava. Tu non puoi sposarla legalmente.

- Lei è la figlia di tuo padre e lui era della classe senatoriale, proprio come me.

- Giulia ha sposato Apollinario prima che Massima nascesse e lui l’ha riconosciuta come sua. Anche Apollinario è un liberto. Lei non è della tua classe, Mario.

Il viso di Mario lentamente impallidì mentre egli si rendeva conto delle implicazioni delle parole di Glauco. Se non poteva sposare legalmente Massima, allora non sarebbe stato considerato un corteggiatore adatto... e avrebbe potuto non essere più in grado di rivederla, almeno non in modo convenzionale. Questo non era un bene. Assolutamente no.
- E di te che mi dici? - chiese. - Fosti adottato dai tuoi zii?

- No... essi non volevano che perdessi i diritti e privilegi che sono miei dalla nascita.

- Quindi, tu sei patrizio, ma tua sorella no, - disse Mario in tono cupo digerendo quest’informazione.

Glauco si limitò ad annuire.

I tre cavalieri procedettero in silenzio, due di loro con lo sguardo fisso avanti, perduti nei loro tetri pensieri. Brenno guardava nervosamente dall’uno all’altro dei suoi compagni. Non voleva guai all’interno del loro gruppo.

Non ruppero il silenzio finché non raggiunsero il villaggio di Tarasco[2] e, anche allora, le loro frasi furono superficiali, concentrati com’erano sui loro compiti. Era tempo di cominciare ad indagare su dove fosse Quinto, e la locale taverna… usuale focolaio di pettegolezzi… era un buon posto da cui cominciare. Non incontrarono altro che sguardi vuoti e alzate di spalle.

Non raggiunsero il paese successivo fino al tardo pomeriggio. Si diressero subito all’unica taverna di Valentia[3] e, lì, ebbero successo.

- Lo conosco, - disse l’oste, - ma non troppo bene. L’ho visto qui solo una volta o due all’anno, per lo più in periodo di raccolto. Vive lassù, sulla collina ad est, con la figlia non sposata. - L’uomo sembrava voler impressionare i nuovi venuti da Roma.

- Viene in paese per vendere i suoi prodotti agricoli? Che cosa ha da vendere? - chiese Glauco.

- Non molto, - l’uomo sbuffò e sogghignò, rivelando due denti mancanti e gli altri anneriti e in procinto d’incontrare lo stesso fato. - Non ha molto da vendere perché non sa far niente. Quella sua figliola, è lei a far la maggior parte del lavoro, comunque.

- Ha qualche amico? - chiese Glauco.

- No. Nessuno. Vive sulle colline da solo con sua figlia. Non parla a nessuno e non risponde a domande. Davvero poco socievole. - Il taverniere sembrava pronto a congedarli per continuare a pulire i tavoli.

- Puoi indicarci la strada per andare da lui? - chiese Mario posando con ostentazione una moneta sul tavolo per far continuare l’uomo a parlare.

- Risalite la strada, dopo aver passato la locanda. Troverete una pista che aggira la collina sulla destra. Difficile da vedere perché è alquanto coperta di vegetazione, - disse l’oste e con una mano indicò il muro settentrionale della taverna mentre con l’altra intascava la moneta. Brenno arretrò all’odore del corpo dell’uomo quando questi sollevò il braccio. - E’ ad una buona mezza giornata di salita. Perché non viene più giù dove il terreno è migliore, non lo so, ma non lo fa. Potrebbe andargli davvero bene, se coltivasse uva come tutti nei dintorni, ma lui vuole coltivare solo il grano. Davvero stupido. Qualcuno pensa che è pazzo.

- Che aspetto ha? - chiese Glauco con tono casuale, ma gli occhi dell’uomo per la prima volta si strinsero sospettosamente.

- Pensavo lo conosceste. Che affari avete con lui? - chiese. Il suo respiro rancido fu troppo per Brenno, che si scusò e corse fuori a respirare una boccata d’aria pura.

- Siamo soci di una ditta a Roma e lui ci deve del denaro dal tempo in cui abitava là, - mentì agevolmente Mario. - Il commercio ha appena cambiato di mano e il nuovo proprietario vuole recuperare i debiti in sospeso.

I debiti erano qualcosa che il taverniere riusciva a comprendere.
- Capisco. Bene, l’ultima volta che l’ho visto i suoi capelli erano radi e grigi, lui stesso è piuttosto magro, e i suoi vestiti sono puliti, ma nessuno di essi è troppo nuovo. Non ha niente di speciale.

- Dove hai detto che è la locanda? - chiese Mario. - E’ troppo tardi per inoltrarci oggi sulle colline.

- Proprio svoltato la curva, e il vecchio Criso non vi chiederà niente. Conduce una buona locanda, pulita. Ai soldati piace, perciò deve essere buona.

- Soldati? - chiese Glauco cauto.

- Sicuro. C’è una legione stanziata a pochi giorni di cavallo, a nord di qui, a Lugdunum[4]. I soldati vengono sempre qui se vanno verso sud, o anche soltanto in licenza.

L’espressione compiaciuta di Glauco cambiò in un cipiglio minaccioso, e Mario si affrettò a distrarre l’oste dandogli una pacca sulla schiena e porgendogli altre monete. Poi guidò fuori l’amico, ed insieme raggiunsero Brenno, appollaiato su un basso muro di pietra.

- Non avevo idea che eravamo così vicini ad una legione, - gemette Glauco. - Pensavo che fossero tutte più vicine alla Germania.

- In effetti, siamo un po’ troppo vicini ad una legione, per i miei gusti… specialmente con te che sembri l’immagine vivente di tuo padre, - disse Mario. - Come pensi che reagirebbero i soldati se vedessero un giovane generale Massimo? Nessun dubbio che l’intero esercito sia stato avvisato di stare all’erta per trovarti.

- Quanti soldati in quella legione ricorderebbero mio padre per poi collegarmi a lui? - chiese Glauco scettico.

- Ne basta uno, - interloquì Brenno.

- Ha ragione, Glauco. Dobbiamo essere prudenti.

- Chi dice che alla locanda ci siano dei soldati, proprio adesso, comunque? Tutto ciò che dobbiamo fare è avvicinarci alla locanda, poi dirigerci sulla strada che sale verso la collina, dove potremo accamparci. Non vi sarà alcun problema. Finiamola di perdere tempo.

Qualche istante dopo, il trio vide la piccola locanda costruita con una strana combinazione di mattoni di fango e legno e con un tetto di rami e paglia. Era situata ad una breve distanza dalla strada e nascosta tra alti alberi frondosi, che in estate offrivano ombra e d’inverno protezione dai venti. Malgrado la calura della giornata, riuscirono a percepire l’odore di un fuoco che ardeva nel focolare e il delizioso aroma di carne arrostita fluttuò fino alle loro narici. Vicino si ergeva una stalla grande quasi quanto la locanda stessa. L’esterno sembrava deserto, ma si udivano voci dalle finestre aperte e all’interno c’era chiaramente una folla.

Glauco, Mario e Brenno procedettero a passo tranquillo, non desiderando attrarre alcuna attenzione… questo finché Glauco non tirò le redini.

- Che stai facendo? - sibilò Mario. - Prosegui. Potrebbero essere soldati.

- Sono soldati, - replicò Glauco a voce bassa. - Guarda i cavalli fuori della stalla. - Soltanto dei soldati… la cavalleria… possiede cavalli come quelli. - Con sorpresa di Mario, Glauco guidò Ultor lontano dalla strada e verso la locanda; qui egli rimase in groppa, chinandosi per fissare dalla finestra. I suoi amici poterono soltanto seguirlo e interrogarsi sul suo stato mentale.

All’improvviso un soldato uscì dalla porta barcollando e si diresse ai cespugli, dove armeggiò con le braghe prima di liberare un fiotto giallo di pipì, accompagnato da un sospiro soddisfatto. Non era un soldato semplice, ma un ufficiale, indossava la tunica di lana color vino che identificava il suo grado. Era senza mantello e corazza, a causa della natura non ufficiale della sua visita alla locanda. Quando ebbe finito, si voltò e guardò i tre uomini a cavallo. Annuì in cenno di saluto amichevole prima di ritornare alla compagnia dei legionari.

Mario afferrò la briglia di Ultor e cercò di trascinare via il cavallo, ma l’animale testardamente restò al suo posto, rifiutando di obbedire ad un uomo qualunque che non fosse quello sul suo dorso. Freneticamente, Mario sibilò a Glauco.
- La spada di tuo padre. Prega che non l’abbia vista! Andiamo via di qui prima che succeda qualcosa!

Immerso nei suoi pensieri, Glauco permise a Ultor di seguire gli altri due cavalli e poco dopo essi condussero i loro cavalli su un sentiero scosceso di terra battuta che correva a est della strada principale. Si inerpicarono, finché il sentiero divenne troppo sassoso e ripido per poterlo percorrere  al buio, ormai imminente, perciò trovarono una radura erbosa relativamente piatta sotto i pini, dove si accamparono per la notte, vicino ad un gorgogliante ruscello di montagna. Faceva abbastanza caldo da dormire allo scoperto e il cielo era limpido, così il trio semplicemente si arrotolò nelle coperte attorno a un fuoco basso dopo un pasto di carne secca, gallette, formaggio e vino.

Quasi immediatamente Mario cominciò a russare, ma Glauco non riusciva proprio a trovare una posizione comoda. Si mosse nella coperta quando un sasso acuminato gli punse il fianco. Poi la spalla gli diede fastidio ed egli si contorse ancora finché trovò una macchia d’erba più morbida. Suoni che di solito lo cullavano e lo facevano addormentare, quella notte gli davano soltanto fastidio. Il ruscello risuonava come una cascata, i grilli come corvi gracchianti. Rotolò sullo stomaco e reclinò il capo sulle mani piegate. Anche Brenno adesso dormiva e i suoi sospiri accompagnavano il russare di Mario in un asincrono concerto di due trombe stonate.

Glauco si alzò a sedere, dormire era impossibile. La sua mente era troppo agitata, il suo corpo troppo in tensione. Era forse la sua vicinanza all’uomo che aveva odiato per tutta la sua vita da adulto, che lo inquietava questa notte? Quinto era da qualche parte là fuori, proprio a portata di mano, respirava la stessa aria, vedeva le stesse stelle. Forse aveva bevuto allo stesso ruscello a cui loro si erano abbeverati quella sera. Forse si era fermato a riposare in questa stessa radura, dove Glauco sedeva adesso. L’uomo che aveva tradito suo padre non una sola volta, ma due, era ormai a portata di mano e lui riusciva quasi a sentire il gusto dolceamaro della morte imminente del pretoriano.

Ma cosa sarebbe stato della figlia? Egli non aveva pensato a una ragazza… non sapeva che Quinto fosse stato sposato. Che cosa sarebbe successo alla ragazza dopo che avesse ucciso Quinto?

Perché doveva importargli?

Ma gli importava. Pensò a Massima... e gli importava. In origine la sua intenzione era stata solo di affrontare l’uomo, esigere di ascoltarne la spiegazione per quello che aveva fatto, ordinargli di rivelare che cosa era accaduto a Massimo prima della sua morte nell’arena… poi trapassargli il ventre con la spada. Ora egli sentiva di aver bisogno di più tempo per esaminare la situazione. Aveva bisogno di osservare Quinto e la ragazza, prima di decidere come procedere. Aveva bisogno di valutare il loro rapporto.

E, ammise, voleva prolungare l’agonia dell’uomo, facendogli capire che la sua vita stava per finire su una solitaria montagna in Gallia. Voleva che si contorcesse nella consapevolezza che la sua tomba sarebbe stata il terreno sterile della sua improduttiva fattoria e che nessuno lo avrebbe pianto, nemmeno sua figlia. Sì… ecco che cosa voleva Glauco… mettere la figlia contro il padre proprio davanti agli occhi dell’uomo. Aveva bisogno di tempo per farlo. Tempo.

Glauco sedette su un masso e strappò un pezzo d’erba dal terreno, poi si ficcò tra i denti la succulenta estremità. Si passò la mano fra i capelli, sorpreso, ancora una volta, di trovarli così corti. Passò la mano in avanti e i corti riccioli morbidi caddero sopra la fronte in una frangia. Suo padre aveva portato i capelli in quel modo. Glauco li appiattì e li lisciò in avanti con il palmo, finché rimasero a posto, come si conveniva ad un generale romano che aveva altre cose per la mente oltre al suo aspetto. L’immagine del disegno gli tornò spontanea in mente. Si alzò in piedi e si appoggiò la coperta sulle spalle, lasciando che il bordo gli sfiorasse le ginocchia. Suo padre aveva indossato un mantello… e una corazza d’ottone, cesellata con la testa d’un lupo. Avrebbe pagato non si sa cosa pur di avere l’uniforme di suo padre… l’elmo piumato e le pellicce argentate. Tutto era scomparso. Tutto era andato perduto.

Ma la sua uniforme non era stata poi troppo diversa da quelle che gli ufficiali romani ancora indossavano in quei giorni, come quel soldato alla locanda. La sua tunica era stata del colore del vino prodotto nella valle sottostante.

Un piano cominciò a formularsi nella mente di Glauco. Come avrebbe reagito Quinto, se affrontato dall’immagine viva e vegeta del comandante che egli aveva tradito, dell’uomo che pensava morto da tempo? Tutto ciò che ci sarebbe voluto era un poco di preparazione e nervi d’acciaio.

E di questi Glauco ne aveva in abbondanza. 



[1] Nizza (N.d.T.).

[2] Tarascona (N.d.T.).

[3] Valenza (N.d.T.).

[4] Lione (N.d.T.).