La Storia di Glauco: Capitolo 27

 

Capitolo 27 - La prigione

Glauco si passò la mano sul mento, sentendone la poco familiare nudità e la fossetta che, gli era stato detto, aveva ereditato dal padre, poi si deterse le gocce di sudore dalla fronte prima di allontanarne i riccioli umidi e appoggiarsi all’indietro contro il bordo della vasca, abbandonandosi tra le volute di vapore che, simili a spettri, gli salivano attorno al corpo. Sapeva che Mario era vicino anche se a malapena riusciva a vederlo e, a quel punto, non gl’importava… era talmente rilassato.

- Te l’avevo detto che ti sarebbe piaciuto. Non solo è un gran bel posto dove nascondersi finché non saremo sicuri di non essere seguiti, ma è anche perfetto per rilassarsi… e tu avevi proprio bisogno di rilassarti. - Mario aprì un occhio e fece capolino attraverso il vapore. - Allora… ti sei rilassato?

- Mmmm.

Mario sorrise soddisfatto.
- Lo sapevo.

I due si erano separati dalle loro compagne ridacchianti quando erano giunti nei pressi dei portici delle Terme di Traiano e si erano tolti i loro travestimenti mentre entravano da un ingresso laterale prima che venisse loro sbarrato l’accesso alle sale degli uomini. Avevano nascosto le parrucche e le stolae in un armadietto nello spogliatoio, poi avevano attraversato il frigidarium e il tepidarium, con le sue vasche e docce calde, ed infine il calidarium, pieno di vapore, con i suoi bagni caldi e la stanza del sudore.

- Non ti addormentare, - Mario avvertì Glauco. - Ti potrebbe succedere quando ti sottoporrai alle mani esperte dei massaggiatori che strofineranno via ogni preoccupazione dal tuo corpo ben oliato.

- Dovranno aspettare. Non ho tempo oggi per il massaggio. - Il corpo di Glauco sembrava senza peso ed egli poteva quasi immaginare di star galleggiando sulle onde del calore umido che gli turbinava intorno.

- La decisione sta a te, ma non sai quel che ti perdi… per tacere dei giardini e delle biblioteche[1].

- Questo luogo è straordinario, Mario, veramente straordinario, ma dovrà aspettare per qualche altra volta. Avrò abbastanza problemi a realizzare i miei piani ambiziosi. - Come per confermare le sue stesse parole, Glauco all’improvviso si alzò, con l’acqua gocciolante dal corpo nudo, e uscì dalla vasca.

- Cos..? - esclamò Mario. - Non potevi aspettare ancora qualche minuto? - Con riluttanza uscì anche lui dalla vasca e si avvolse un telo attorno alla parte inferiore del corpo, come aveva fatto Glauco. Era grato che il vapore velasse i loro corpi, perché Glauco lo faceva sentire un ragazzino di dieci anni... un magro ragazzino di dieci anni. Era piuttosto evidente dalla larghezza delle spalle dell’ispanico e dai suoi bicipiti gonfi che Glauco aveva ereditato la forza del padre. Aveva attirato parecchi sguardi d’invidia, quando aveva attraversato a piedi nudi i pavimenti a mosaico con niente più che un telo avvolto sui fianchi.

Mario raggiunse Glauco e si adeguò al suo passo, un salice dietro una quercia. Mario decise che avrebbe preferito essere una quercia. Alle donne piacevano le querce.
- Allora... dove andiamo adesso?

Glauco gli lanciò un’occhiata un po’ impaziente prima di entrare nello spogliatoio. Specchi lucidi rivelarono due uomini con capelli dai riccioli indocili e corpi umidi. Dopo essersi frizionato in fretta, Glauco buttò da parte il telo e infilò dalla testa la sua tunica nera.

- Lo sai, Glauco, stavo pensando al tuo abbigliamento. Se indossassi qualcosa di diverso dal nero potrebbe essere meno facile seguirti. Perché non provi il bianco, o anche il marrone?

- Mi vesto di nero per un motivo...

- Lo so, - disse Mario mentre guardava Glauco allacciare il fodero della spada attorno al fianco. - E quella è un’altra cosa... quella spada... un indizio altrettanto palese.

Glauco sospirò esasperato.
- Mario, se avessi voluto essere tormentato dai rimbrotti avrei preso moglie.

Mario sollevò le mani con aria supplice.
- Va bene, va bene. Fai a modo tuo. Sto solo cercando di renderti le cose più sicure. - Le sue ultime parole andarono perdute perché Glauco era già fuori della porta. Mario gli corse dietro per raggiungerlo.

- Da che parte? - chiese Glauco.

Mario indicò l’entrata nord-occidentale e disse:
- Dobbiamo riprendere il Clivio Argentario all’esterno delle Mura Serviane. Non è lontano, dopo.

Glauco girò sui talloni e sparì, e Mario lo rincorse di nuovo.

I passi dell’ispanico rallentarono, tuttavia, quando girò nel Vico Pallacinae e si trovò di fronte ad un massiccio e imponente complesso di mattoni scuri. Muri svettanti proteggevano con uniformità edifici distanti progettati non per bellezza, ma per una funzione che non suscitasse niente più che un breve cenno del capo.

Mario gli afferrò il gomito.
- Stai andando dritto nella tana del leone, Glauco. Perché non lasci che lo faccia io? Probabilmente è qui che vivono le tue guardie pretoriane quando non ti seguono.

Glauco ostinato scosse la testa.
- Se avessero voluto imprigionarmi avrebbero potuto lasciarmi a Vindobona. Tu non devi venire con me.

Mario andò in collera.
- Non insinuare che sono un codardo, Glauco.

Glauco addolcì il tono.
- Non ha nulla a che fare con la codardia, Mario, soltanto con l’imprudenza. Nessuno sa che tu mi stai aiutando. Fai ancora in tempo a voltarti. - Glauco sperò ardentemente che non lo facesse.

Mario sembrò considerare attentamente le proprie alternative, con un sopracciglio alzato mentre si strofinava il mento.
- Sarebbe certamente la cosa più intelligente da fare, ma sono stanco di fare sempre la cosa intelligente. Sono cresciuto facendo sempre la cosa intelligente. Andiamo, - disse, e fu contento quando Glauco non cercò di nascondere il proprio sollievo. Ricominciarono a camminare lentamente, spostandosi sul lato della strada per permettere ad una coorte di pretoriani di passare. I soldati dal mantello nero non degnarono i due giovani di uno sguardo.

- Quale edificio è la prigione?

- Non puoi ancora vederla. E’ appena sulla sinistra, credo, all’interno della porta principale.

I due pretoriani di guardia ai lati dell’ingresso scattarono sull’attenti, le lance incrociate di fronte al solido portone di legno.
- Che affari avete qui? - interrogò uno.

- Sono venuto a consultare i registri della prigione. Sto cercando un uomo che potrebbe essere stato imprigionato qui, - rispose Glauco con voce ferma.

Una guardia annuì seccamente e il portone si aprì cigolando. I due civili entrarono, solo per ritrovarsi di fronte ad un altro muro, molto più spesso del precedente e pattugliato da almeno una dozzina di guardie in armatura completa. Erano intrappolati tra due portoni, chiaramente alla mercé delle guardie sul secondo muro.

Mario indietreggiò quando Glauco ordinò:
- Fateci passare! Abbiamo del lavoro qui!

Occhi neri nascosti da un elmo guizzarono su Glauco e si spalancarono all’improvviso, riconoscendolo. Il soldato parlò ad una guardia alla sua sinistra che si allontanò in fretta.

- Ti hanno riconosciuto, - disse Mario sottovoce.

Glauco non disse nulla e continuò a fissare con durezza le guardie sul muro.
- Allora? - interrogò. - Ci fate entrare o no?

Tutte le undici guardie rimaste si erano ora radunate per osservarlo. Glauco audacemente sostenne il loro sguardo, sapendo che il portone non si sarebbe aperto finché la guardia assente avesse consegnato il suo messaggio a chi di dovere. Il sudore gli colò lungo i fianchi ed egli desiderò il sollievo della vasca d’acqua fredda delle Terme di Traiano.

All’improvviso il grande portone cedette le difese e Glauco lanciò un’occhiata a Mario prima di fare strada. Guardò alla sinistra mentre entrava e per poco non urtò un alto pretoriano che si stagliava proprio di fronte a lui. Stupito, Glauco fece un passo indietro e calpestò le dita dei piedi di Mario.

Plauziano. Con un sogghigno, Plauziano gli bloccava il passo.

- Bene, bene, a che cosa devono le guardie dell’imperatore l’onore della tua visita, Glauco? - Il sogghigno scomparve e fu sostituito da un sorriso beffardo. - Credevo che fossi in cammino per l’Oriente, ma sembra che tu non abbia seguito il consiglio dell’imperatore. Sembri avere un’inclinazione per le prigioni. Disarmatelo, - ordinò a due pretoriani e Glauco fu subito spogliato della sua spada.

- Mi aspetto di riaverla indietro, - disse Glauco sfrontatamente. Si era così abituato ad essa che si sentiva piuttosto vulnerabile senza il suo peso confortante.

Plauziano la sollevò per esaminarla.
- Molto bella. Non te l’ho visto in Germania. Dove l’hai presa?

- Vuoi dire che non lo sai? Le tue spie ti hanno tenuto così male informato?

Plauziano rise.
- Cerchi di infastidirmi con la tua insolenza... una cosa molto pericolosa da fare, se consideri che ti trovi all’interno del principale quartier generale delle guardie pretoriane. Ci sono più di cinquemila di noi qui e solo tu... e...? - sollevò le sopracciglia in direzione di Mario.

- E’ un amico, - rispose in fretta Glauco.

- Ha un nome il tuo amico?

- Non ha importanza... - cominciò Glauco prima di essere interrotto.

Il giovane alto e snello fece un passo avanti.
- Mario. Il mio nome è Mario Vipsanio Agrippa, figlio di Mario Vipsanio Emiliano, governatore di Cappadocia.

Plauziano incrociò le braccia, sollevò le sopracciglia e guardò dall’uno all’altro.
- Bene, bene, sono impressionato, Glauco. Solo da pochi giorni a Roma e hai già fatto amicizia con un uomo influente. Naturalmente, devi ricordare che la sua influenza dipende da quella di suo padre... e che l’influenza di suo padre dipende dall’imperatore. - Il pretoriano sogghignò di nuovo. - Così, forse non è così influente dopo tutto... per quanto ti riguarda.

Glauco ignorò quel tentativo di intimidazione.
- Sono venuto ad esaminare i registri della prigione per capire se mio padre fu mai recluso qui.

- Non lo fu, - rispose Plauziano bruscamente.

- Io... - Glauco fu colto alla sprovvista, - mi piacerebbe controllare io stesso.

La mano di Plauziano si mosse lentamente verso l’elsa della sua spada.
- Mi stai dando del bugiardo?

Mario guardò ansiosamente Glauco. Non stava andando bene.

- Hai esaminato i registri tu stesso, dunque? - chiese il figlio di Massimo.

- Non ne ho bisogno.

- Allora... se senza guardare i registri sai che non fu qui... significa che sai che cosa gli accadde?

Plauziano parve considerare con attenzione le parole del giovane, poi un lento sorriso gli stirò le labbra ma non scaldò i suoi occhi gelidi.
- D’accordo, sarai mio ospite. Ti mostrerò io stesso i registri. - Ruotò su se stesso, facendo vorticare il mantello nero dietro di sé, dirigendosi più all’interno del complesso. Glauco era proprio dietro di lui con Mario alle calcagna. Quattro guardie armate formavano la retroguardia. La luce diminuiva ad ogni eco cavernosa dei loro passi combinati.

Si fermarono ad una spessa porta di legno pesantemente rinforzata con sbarre d’acciaio. Plauziano annuì ad una guardia che estrasse in fretta una grande chiave che inserì nella serratura.
- Preparati, - avvisò Plauziano mentre la porta si apriva lentamente cigolando.

Momentaneamente confuso, Glauco restò a fissare la scarsa luce gialla che lentamente trapelava dall’apertura che si allargava, ma subito si portò il mantello sul naso e sulla bocca mentre il fetore lo investiva. Tossì. Dietro di sé udì i conati di Mario.

Come se fosse abituato ad un tale miasma, Plauziano si limitò a ricomporre il viso in un’espressione truce e spingendo con la spalla si fece strada all’interno. La stanza era piccola e simile ad una caverna, l’aria fetida sorprendentemente umida, come se il locale si trovasse sottoterra. Una vecchia guardia smilza scattò sull’attenti, lo sguardo reso vacuo dalla catarratta registrando sorpresa alla luce tremula di una singola lanterna sospesa sopra un tavolino di legno. Dietro di lui, contro un muro, c’era un mobile con le ante pesantemente sbarrate. Una tonda botola di metallo sottolineava il centro del pavimento di pietra e le esalazioni sembravano emanare da quello che vi si trovava sotto, qualsiasi cosa fosse. Glauco ricordò quello che Mario aveva detto sul fatto che la prigione era sottoterra e rabbrividì.

- Prendi i libri, - ordinò Plauziano e l’uomo scattò sull’attenti, armeggiando con mano tremante, ricoperta da grosse vene, con la chiave del mobile. Le catene caddero, rivelando centinaia di libri rilegati. - Gli ultimi dieci anni, - informò Plauziano e la guardia rimosse prontamente un volume così pesante da sembrare che gli avrebbe spezzato i fragili polsi. Esso cadde sul tavolo con un tonfo polveroso facendo traballare furiosamente sui muri la luce della lanterna.

- Chi stiamo cercando, signore? - La voce della vecchia guardia era secca ed esile mentre apriva il registro.

- Generale Massimo Decimo Meridio, - abbaiò Plauziano.

Gli occhi della vecchia guardia si spostarono su Glauco... che lentamente abbassò il mantello... poi si spalancarono in segno di riconoscimento. Il cuore di Glauco mancò un battito. C’era una sola ragione per cui la guardia avrebbe potuto riconoscerlo.

- Non... non è mai stato qui, signore. Conosco questi registri a memoria. Non è mai stato qui.

Plauziano si rivolse a Glauco compiaciuto.
- Ecco, a lui credi? E’ il guardiano di questi registri ben da prima della nascita di tuo padre.

- Voglio... - cominciò Glauco.

Plauziano aveva perso la pazienza.
- Senti quel fetore?

Glauco non rispose. Naturale che sentiva quel fetore.

- Conosci la fonte di quel puzzo?

Glauco poteva indovinare.

- Corpi. Corpi malati, in disfacimento... alcuni appena morti, altri morti da tempo... alcuni moriranno presto. Nessuno sopravvive là sotto più di qualche mese al massimo. Anche se tuo padre fosse stato qui, di certo non c’è adesso.

Glauco rimase ostinatamente zitto.

- Cosa? Ancora non mi credi? - ringhiò Plauziano. Guardò torvo la vecchia guardia e abbaiò un ordine. - Apri la cella.

L’uomo più anziano tolse la sbarra alla botola e afferrò la maniglia d’acciaio e, con forza sorprendente, trascinò da parte il pesante portello. Il puzzo tremendo divenne assolutamente intollerabile, ma Glauco rifiutò di coprirsi il naso... gli occhi lacrimanti unico indizio del suo disagio. Con uno sguardo inceneritore a Plauziano, si avvicinò alla buca, ignorando Mario che lo agguantò per la tunica cercando di trattenerlo.

Un suono... come un debole piagnucolio, aumentò d’intensità mentre lui si avvicinava lentamente. All’improvviso un urlo rauco lacerò l’aria e voci distorte e supplici emersero dalla buca, terrorizzanti quanto l’opprimente fetore di morte. Era buio pesto nella fossa della morte e i pietosi suoni erano l’unico indizio di vita. Inaspettatamente, annerite dita ossute si aggrapparono al bordo della botola e Plauziano si mosse prontamente per calpestarle con il tallone dello stivale; le grida dell’uomo a cui appartenevano le dita risuonò per tutta la stanza mentre ricadeva nella fossa.

- Dunque? Hai visto abbastanza adesso? - interrogò il comandante pretoriano, ma non aspettò risposta prima di ordinare alla guardia di richiudere la botola.

Finita l’incombenza, il vecchio si raddrizzò lentamente, sfiorando Glauco e sussurrò:
- Fu prigioniero... ma non qui.

Il cuore di Glauco tremò, e l’improvviso martellio nelle sue orecchie quasi cancellò ogni altro suono.

- Sei soddisfatto? - si informò Plauziano.

Glauco annuì lentamente e con sforzo tenne lo sguardo lontano dall’anziana guardia finché Plauziano si voltò per andarsene, poi afferrò la manica della guardia.
- Dove? - chiese pressante.

Occhi vacui fissarono spaventati la schiena del comandante e il vecchio scosse la testa.

- Dove? - sibilò Glauco. - A Roma? Da qualche parte a Roma?

L’annuire dell’uomo fu quasi impercettibile nella fioca luce.

- Ebbene? - domandò Plauziano in piedi sulla porta.

Con un’occhiata a Mario, Glauco precedette il comandante pretoriano fuori della porta, e un’ondata d’aria fresca lo avvolse, scacciando il puzzo che gli permeava ogni poro. La mente in subbuglio, a mala pena ricordò di allacciarsi la spada lasciando il complesso, o l’ultima caustica osservazione di Plauziano. Suo padre era stato davvero tenuto prigioniero... non era morto in Germania o in Ispania. Era stato a Roma.

Glauco aspirò un’enorme boccata d’aria fresca e guardò al di sopra dei tetti i magnifici edifici, sulla strada che portava al palazzo imperiale, che dominavano l’orizzonte della città. Sventolavano stendardi che il giorno prima non c’erano. Era sicuro che non c’erano.
- Era qui, Mario. Mio padre era a Roma... prigioniero. Me l’ha detto la vecchia guardia.

Mario era scettico.
- Glauco, un uomo dell’importanza di tuo padre sarebbe stato imprigionato soltanto qui... da nessun’altra parte. Probabilmente sta mentendo.

- Non ha alcuna ragione di mentire.

Mario si mise al passo con l’amico mentre rientravano nella città vecchia.
- E quindi... che facciamo adesso?

- Cercheremo ancora. Almeno so di essere nel posto giusto. - Sollevò di nuovo lo sguardo sul palazzo.

Come leggendogli nella mente, Mario disse:
- Severo è tornato. L’imperatore è finalmente tornato a Roma.

 

 



[1]   La maggior parte delle terme era una città nella città, che includeva centri sportivi, piscine, parchi, librerie, piccoli teatri per ascoltare poesia e musica e una grande sala per le feste. Ogni centro termale offriva attrazioni specifiche: un paesaggio particolare, una magnifica libreria, un centro sportivo di alto livello, anche se l’attrazione principale rimanevano sempre i bagni (N.d.T.).