La Storia di Glauco: Capitolo 20

 

Capitolo 20 - Verona

Con le Alpi finalmente dietro di sé, Glauco si preparò a riposare a Verona per un giorno, prima di percorrere la Via Postumia per poi dirigersi a sud sulla Via Emilia, dove si sarebbe congiunto alla via Cassia, e infine alla Via Flaminia fino a Roma. Nel giro di qualche giorno avrebbe attraversato il fiume Po e poi percorso serpeggiando gli ondulati Appennini prima di discendere nella valle del fiume Tevere. Aveva ancora molta strada da fare e le strade sarebbero diventate più trafficate con l’avvicinarsi a Roma. Era impaziente di raggiungere la sua destinazione e a mala pena notò la bellezza della veduta delle montagne.

Si sedette con la schiena contro un umido muro di mattoni in Verona, ascoltò il tamburellare regolare della pioggia sul tetto di tegole e decise di aspettare lì un giorno o due finché fosse cessato l’acquazzone. La polvere sulle strade si trasformava in fango scivoloso come ghiaccio, con quel tempo, e non voleva rischiare le delicate zampe del suo cavallo. L’umidità rendeva la taverna sgradevolmente opprimente e Glauco suppose che anche le camere sopra lo sarebbero state. Egli scrollò il mantello di lana lasciandolo cadere sulla semplice sedia di legno dietro di sé e usò quel movimento per mascherare un’occhiata furtiva intorno alla stanza affollata. Non c’erano. Ciò non significava che non fossero a Verona, semplicemente non erano tra gli avventori della taverna. Glauco si rilassò leggermente chiedendosi, ancora una volta, se non stesse immaginando che gli uomini lo stessero seguendo… uomini cupi dai volti indistinti e i movimenti furtivi.

Sbadigliò largamente e sorseggiò il vino mentre attendeva il cibo. Chiunque fossero gli uomini, non v’era alcun dubbio che lo stessero sorvegliando per ordine dell’imperatore… un imperatore che per qualche inesplicabile ragione sembrava considerare il figlio di Massimo una grande minaccia. Sentendosi tutt’altro che turbato e infastidito, Glauco non riusciva a cogliere un immediato pericolo. Se avessero voluto ucciderlo avrebbero potuto farlo nelle montagne e gettare il suo corpo in un profondo crepaccio dove sarebbe stato divorato dai lupi. No, lo stavano semplicemente tenendo d’occhio … e probabilmente facendo rapporto a Severo sui suoi movimenti. Glauco si chiese malignamente come l’imperatore avesse preso la notizia che fosse andato a sud in Italia e non a est in Tracia come Severo aveva suggerito.

Quando aveva notato gli uomini per la prima volta aveva pensato che come lui fossero dei viaggiatori sulle trafficate strade romane e che fosse una pura coincidenza che seguissero lo stesso percorso e programma. Aveva pensato che fossero semplicemente incuriositi dai suoi abiti da lutto e dalla magnifica spada che oscillava al suo fianco. Ciò nondimeno, egli li aveva avvicinati una sera alla locanda in montagna e impegnati in una conversazione occasionale ed essi si erano dispersi come foglie nel vento, ognuno dirigendosi in una direzione diversa, i volti adombrati da cappucci frettolosamente abbassati. Questo era quello che sapeva di sicuro.

Erano in quattro, lavoravano in coppia. Dopo aver accettato il fatto di essere sotto sorveglianza, Glauco cominciò a divertirsi durante il lungo viaggio giocando scherzetti alle sue spie, anche se lui era l’unico a trovarli spiritosi. Una notte era entrato in una taverna dalla porta principale, per poi  scavalcare la finestra e attraversare un tetto la mattina seguente ben prima del sorgere del sole. Era a miglia di distanza dalla taverna quando gli uomini di Severo si erano insospettiti su quanto inusualmente a lungo stesse dormendo. Non lo avevano ripreso fino alla sera, spingendoli a lasciare fuori della taverna uno di loro, poveretto, dove rimase da allora in poi. Glauco si chiese quale anima sfortunata avesse estratto la pagliuzza più corta in quella tetra serata. Gli piaceva anche svoltare da una curva e trovare un lungo rettilineo di strada dritta con una folta foresta su entrambi i lati. Avrebbe spronato Ultor al galoppo, poi lo avrebbe trattenuto forte con le redini e si sarebbe buttato a capofitto  tra gli alberi, osservando mentre i quattro uomini lo avessero superato in gran fretta, chiedendosi che cosa era accaduto alla loro preda. Poi sarebbe emerso dagli alberi, l’uomo abbigliato di nero sul suo cavallo nero… la preda avrebbe inseguito furtivamente i cacciatori. Essi sapevano che lui sapeva di essere seguito… ma strenuamente continuavano la loro missione.

Quella sera, però, egli era troppo esausto per fare scherzi e voleva semplicemente cenare in pace. Invece di cercare i suoi sgraditi compagni, rivolse lo sguardo sul fuoco basso che scoppiettava lì vicino tentando debolmente di sottrarre parte dell’umidità dalla stanza piena di persone coperte da abiti di lana bagnati. Sarebbe stato lieto di raggiungere finalmente Roma, la misteriosa grande capitale dell’impero romano. Chissà che differenza rispetto alla Germania e probabilmente altrettanta dall’Ispania. Sospettava che Emerita Augusta, pur in tutta la sua gloria, non fosse che un assaggio di Roma.

Glauco allungò le gambe e trattenne un altro sbadiglio. Si chiese come se la stesse cavando Zeus. Giovino era sembrato così infelice quando Glauco si stava preparando a partire frettolosamente da Vindobona che Glauco aveva chiesto al vecchio se gli avrebbe fatto l’enorme favore di prendersi cura del suo cane mentre lui era in viaggio, spiegandogli che a Roma Zeus sarebbe stato soltanto d’impaccio. La faccia di Giovino si era illuminata quando Glauco aveva detto che sarebbe tornato a Vindobona per riprendere Zeus, una volta finita la sua ricerca. Il vecchio era stato immediatamente d’accordo e aveva chiamato a sé Zeus per potergli arruffare la pelliccia e promettergli lunghe passeggiate ogni sera al crepuscolo. Dopo un doloroso addio, Glauco fece scivolare sotto il cuscino del vecchio denaro a sufficienza per provvedere a tutti i suoi bisogni primari per qualche mese, poi sellò Ultor e si mise in viaggio.

Soltanto quando fu quasi fuori delle porte di Vindobona Glauco si ricordò di aver lasciato tutti i suoi documenti personali nella fortezza. Era tornato riluttante all’accampamento dell’esercito, dove chiaramente Settimio Severo stava ancora soggiornando, ed era rimasto fuori dei cancelli mentre un soldato recuperava i documenti dal generale Vesnio. Rapidamente li controllò per assicurarsi che non mancasse nulla e trovò una nota scribacchiata frettolosamente da Vesnio che gli diceva di aver grandemente ammirato suo padre e gli augurava buona fortuna per la sua ricerca. Poi, egli aveva fatto voltare Ultor e aveva preso la direzione per Roma.

La porta della taverna si aprì seminando una folata di vento umido e Glauco alzò lo sguardo e vide  due suoi inseguitori che si scuotevano la pioggia dai mantelli. Uno di essi guardò dalla sua parte ed egli annuì in amichevole risposta inducendo l’uomo, sconcertato, a girarsi in fretta. Erano talmente trasparenti, pensò Glauco. Potevano anche essere soldati ben addestrati ed esperti, ma conoscevano poco l’arte del sotterfugio. Si chiese oziosamente come facessero rapporto all’imperatore e con quale frequenza fosse loro richiesto di farlo. Si chiese anche che cosa avrebbe potuto indurre Severo a dare infine agli uomini l’ordine di muovere contro di lui e metter fine alla sua ricerca del padre.

I suoi pensieri furono interrotti dalla cameriera che sorrise timidamente mentre posava di fronte a lui una ciotola di fumante stufato e pane appena sfornato.
- Grazie, - disse Glauco avvicinando la sedia al tavolo, poi un lento sorriso gli si allargò in viso mentre con un cenno indicava alla ragazza di avvicinarsi, e sussurrò. - Vorrei acquistare il vino migliore per quegli uomini laggiù… quelli che sono appena entrati. Per favore, assicurati di dir loro che è da parte mia.

- Sì, signore, - la ragazza s’inchinò affrettandosi ad eseguire la sua richiesta. Alcuni minuti dopo ella consegnò il vino agli uomini che si erano sistemati nell’angolo più remoto ed oscuro e Glauco si beò del loro sguardo di sorpresa. Attese pazientemente finché uno alla fine lanciò un’occhiata dalla sua parte ed egli sollevò la propria coppa in segno di saluto. Con riluttanza, l’uomo annuì in risposta. Glauco sogghignò e si dedicò allo stufato, piuttosto soddisfatto degli eventi del giorno. Poteva seminarli, ne era certo, nell’affollata città di Roma. Fino ad allora, erano una compagnia divertente.