La Storia di Glauco: Capitolo 19

 

Capitolo 19 - La spada

Giovino fu svegliato di soprassalto dal suo pisolino a causa dell’improvviso abbaiare di Zeus. Sbuffò un paio di volte e sollevò la testa intontita da dove essa era ricaduta sul petto, un’abitudine che aveva sviluppato con l’inizio della vecchiaia. Con gli occhi non ancora del tutto aperti, inciampò alzandosi dalla sedia e si avviò verso il giardino.
- Shhh, - cercò di zittire il cane, ma Zeus abbaiava e si scagliava verso la porta del muro del giardino fermandosi solo un attimo per poi correre eccitato in cerchio prima di ricominciare.

- Chi è là? - gridò Giovino sopra il baccano e allungò la mano verso un randello che teneva a portata di mano.

- Sono io, Glauco. Giovino, fammi entrare. Presto!

Il vecchio tirò indietro il paletto e Glauco spinse la porta, quasi colpendo Giovino nella fretta. Dopo una rapida occhiata sopra la spalla il giovane sbatté la porta e la sprangò di nuovo, mentre con l’altro braccio teneva giù il suo eccitato cane.

- Co… cosa? - mormorò Giovino confuso, ma Glauco gli fece cenno di non parlare, gli afferrò il braccio e lo tirò in casa, dove Glauco sprangò bene anche quella porta.

- Che sta succedendo? Che cosa è successo? - chiese Giovino mentre Glauco crollava su una sedia vicino alla cucina, con Zeus praticamente arrampicato in grembo, la sua lunga lingua che gli lappava ogni area di pelle esposta.

- Vorrei saperlo. Giovino, ho appena trascorso le ultime due settimane nella prigione dentro la fortezza. La prigione che costruisti tu.

- COSA?

- Sì. Lo sapevi?

- Certamente no, come avrei potuto saperlo?

- Chiesi al generale Vesnio di mandare un soldato a dirtelo. Quando tu non arrivasti, ho immaginato che non l’avesse fatto.

- Che successe? Che cosa hai fatto?

- Io non ho fatto niente, Giovino. Fui sequestrato da sei soldati nel cuore della notte in una locanda a Castra Regina, poi trascinato di nuovo fin qui e gettato in quella prigione. Non ne sono uscito fino ad oggi… e sai perché finalmente sono uscito da quella cella?

Giovino scosse la testa, gli occhi spalancati e preoccupati.

- Per avere un’udienza con l'imperatore.

- No, - esclamò Giovino, stupefatto.

- Sì, Settimio Severo in persona.

Giovino lentamente sprofondò nell’altra sedia.
- Che cosa voleva?

- Mi ha offerto una posizione nella sua guardia pretoriana. E’ stata una strana conversazione, Giovino. Continuava a sottintendere che fossi a caccia di qualcosa… o che intendevo fare qualcosa… o che sapevo qualcosa. Non avevo proprio idea di che cosa stesse parlando. Gli ho detto che tutto ciò che volevo era scoprire qualcosa riguardo mio padre, ma chiaramente non mi ha creduto.

Giovino fu all’improvviso molto prudente.
- Ti ha offerto quella posizione per tenerti vicino a sé… sotto il suo controllo. Non c’è altra spiegazione.

- Ma perché? Che minaccia sono io per lui? Come posso essere una minaccia per l’imperatore di Roma?

Giovino si alzò lentamente, le sopracciglia aggrottate per la preoccupazione, e portò a tavola una caraffa di vino e due coppe. Prima che riuscisse a mescere, Glauco afferrò la brocca, la inclinò alle labbra, e si fece scivolare il liquido in gola. Giovino notò che le mani del ragazzo tremavano leggermente. Notò anche la tunica da soldato che indossava al posto di quella consueta completamente nera. Si alzò di nuovo per cercare un po’ di cibo.
- Glauco, nessuno seppe realmente tutto su quel che accadde la notte in cui tuo padre scomparve. Alcuni sapevano un po’ di qualcosa, ma solo tuo padre potrebbe mettere insieme tutti i pezzi. L’imperatore ovviamente pensa che tu sappia qualcosa. Qualcosa che potrebbe nuocergli.

- Ma che cosa? E come potrei mai sapere qualcosa? Non ho mai incontrato mio padre.

Il vecchio strascicò verso la tavola con pane, formaggio e carne salata. Glauco allontanò le zampe anteriori di Zeus dal proprio grembo e si alzò per aiutare, ma Giovino gli fece cenno di no con la testa.
- Siediti, siediti… Non sono io quello che è stato in prigione per due settimane. - Posò il cibo davanti a Glauco poi prese di nuovo la sedia, continuando la conversazione. - Non lo so, e anche l’imperatore potrebbe non saperlo in realtà. Che cosa ha detto esattamente?

Glauco fece in due una pagnotta e famelico se ne riempì la bocca, masticando mentre parlava, le parole soffocate.
- Continuava a parlare di “potere” e che gli dei scelsero il loro imperatore e che mio padre non aveva la stoffa adatta per il vero potere. Ha messo l’enfasi sulla parola “vero” come se significasse qualcosa.

Giovino incrociò di fronte a sé le braccia sul tavolo e studiò il legno mentre considerava le parole di Glauco.
- Severo sembra credere che Massimo è, o era, una sorta di minaccia alla sua posizione di imperatore e, per estensione, che anche tu potresti esserlo.

- Ma è follia, Giovino. Io non sono nemmeno un soldato. Né un politico.

- Tuo padre era un uomo molto potente, Glauco. Molto più che un semplice generale. Egli aveva l’appoggio dell’intero esercito romano e l’amore dell’imperatore. Massimo avrebbe potuto avere tutto quello che avesse voluto… essere qualsiasi cosa avesse voluto.

- Ma il punto è che tutto ciò che voleva era di tornare in Ispania. L’ho detto a Severo ed è qui che lui ha denigrato l’idoneità di mio padre al vero potere.

- Severo fa molta fatica a credere che un uomo con tanto potere e influenza possa rinunciarvi completamente per la sua famiglia. Lui di certo non lo farebbe. Forse pensa che tu cercherai di rivendicare l’eredità di tuo padre.

- Io ho già avuto l’eredità di mio padre. La fattoria.

Giovino annuì pensosamente, poi chiese.
- Che cosa ha detto l’imperatore quando hai declinato la sua offerta di fare il pretoriano?

- Non ne era molto felice. Quel suo disgustoso comandante pretoriano era anche peggio, però. Quell’uomo mi faceva accapponare la pelle. Severo mi ha detto che potevo andarmene e che avrei dovuto cominciare a cercare mio padre in Tracia.

Giovino si raddrizzò.
- Pensa che Massimo sia vivo? - chiese, sbalordito.

Glauco morsicò un pezzo di duro formaggio bianco, con Zeus vicino pronto ad afferrare qualche briciola.
- Gli ho chiesto direttamente se sapeva che cosa era accaduto a mio padre e lui ha sottinteso che poteva essere accaduta qualsiasi cosa …  che poteva essere vivo e abitare da qualche parte dove non poteva essere trovato, oppure in prigione… o anche morto. Ha sostenuto che non lo sapeva.

- Tracia. Perciò… è lì che hai intenzione di andare?

- No, andrò a Roma proprio come avevamo pensato. C’è qualcosa riguardo l’imperatore… E’ solo che non mi fido molto di lui. Devo partire subito, Giovino, prima che cambi idea sul farmi andare via. Mi hanno ridato il cavallo, ma si sono tenuti le mie armi. Hai una spada da prestarmi… o sai dove possa trovarne una?

Giovino annuì e gli diede un colpetto sulla mano.
- Tu mangia. Io torno subito.

Alcuni minuti dopo Glauco udì i passi strascicati di Giovino e gridò:
- Devi smetterla di dar da mangiare tanto a questo cane… sta diventando… - le parole gli morirono in bocca quando vide quello che Giovino teneva tra le mani. Era un fodero… uno splendido fodero di cuoio scuro ornato di ottone scintillante. Giovino non disse una parola, semplicemente la tese al ragazzo.

Il respiro improvvisamente abbandonò Glauco mentre con timore reverenziale accettava la spada.
- Dove hai preso una cosa così bella, Giovino? E’ magnifica. Degna di… - alzò lo sguardo all’improvviso, sconvolto.

Giovino semplicemente annuì adagio.

Il sangue defluì dal viso di Glauco.
- Era sua? - sussurrò.

Giovino annuì di nuovo, estremamente commosso nel vedere la spada di Massimo nelle mani di suo figlio. Era qualcosa che non avrebbe mai creduto di poter vedere.

Lentamente, Glauco afferrò l’elsa d’avorio e mogano e sguainò la spada con un unico movimento lungo e lento, l’acciaio che cantava contro la custodia.

La voce di Giovino era rauca.
- E’ la spada che Marco Aurelio commissionò per tuo padre quando l’imperatore lo fece generale. Massimo la usava sempre.

La spada di Massimo

Con venerazione, Glauco tenne alta la spada, mentre la luce sfiorava la sua perfetta lama affusolata. La inclinò a destra e a sinistra, meravigliandosi al suo peso e bilanciamento impeccabili. Ad uno ad uno egli adattò le dita nelle scanalature d’avorio e quasi percepì il calore della mano di suo padre, come se le dita di lui l’avessero appena lasciata… come se egli l’avesse appena data a suo figlio. Lacrime improvvise gli salirono agli occhi e gli rotolarono lungo le guance. Lentamente egli sprofondò nella sedia, lo sguardo ancora sull’elsa. La avvicinò al viso per esaminarla meglio e lesse le lettere SPQR incise su ciascun lato, poi con reverenza toccò la testa di Marte, il dio della guerra, decorata sull’elsa, accompagnata da intricate foglie di ottone. Il sigillo di Marco Aurelio era incastonato nell’impugnatura d’avorio e altre foglie di ottone in un disegno a croce adornavano il pomolo di mogano. Riuscì a fatica a staccare lo sguardo dalla spada per esaminare la custodia. La cinghia era fissata al duro fodero di cuoio color mogano da quattro foglie di lauro in ottone con la testa di un leone nel centro. Ottone decorativo proteggeva anche la punta della custodia.

- Non ne sono degno, - alitò Glauco.

- Sì… credo che lo sei. Lo sei davvero.

- E’ in condizioni perfette.

- L’ho tenuta ben avvolta e nascosta, tranne quando l’ho presa occasionalmente per lucidarla. Prima di me, la custodiva Cicero.

Glauco scacciò le lacrime con il dorso della mano.
- Il servitore di mio padre?

- Sì. Tenne solo due cose che appartenevano a tuo padre… le piccole sculture di tua madre e tuo fratello, e questa spada, alle cui cure si dedicava. Questi oggetti significavano moltissimo per lui. Dopo che anche Cicero scomparve, e le statuette con lui, io presi la spada. Nessun altro sapeva che  l’aveva lui.

- E’ incredibile, - si meravigliò Glauco e tese il braccio, la spada una perfetta estensione del suo arto vigoroso. - Non so come ringraziarti.

- Non ne hai bisogno. Quella spada ti appartiene di diritto. Sono soltanto molto contento che Massimo abbia un figlio a cui passarla. Un figlio davvero degno di essa.