La Storia di Glauco: Capitolo 17

 

Capitolo 17 – La villa, continuazione (180 a.C.)

L’atrio era quasi completamente buio adesso. Nessuno schiavo era venuto ad accendere le torce. Soltanto la tenue luce della luna che brillava nel cortile e attraverso l’apertura nella cupola illuminava interamente la stanza, gettando ombre di un blu ancor più profondo nei recessi dell’atrio. Massimo sedeva sul pavimento, con le braccia allungate sopra la testa, la testa reclinata sulla spalla. Con le palpebre abbassate fissava nel buio, senza vedere nulla, la mente misericordiosamente intorpidita dalla mancanza di sonno, cibo ed acqua. In quello stato sonnambolico i suoi occhi cominciarono a giocargli scherzi. Una spettrale statua di marmo bianco sembrava muoversi lentamente. Poi si staccò dalla nicchia e fluttuò verso di lui. Egli la guardò arrivare senza reagire. Era ormai al di là di qualunque reazione.

- Massimo, - sussurrò la statua. - Massimo. - Si accovacciò davanti a lui e una mano bianca si allungò verso il suo viso. La mano era calda sulla sua guancia, calda e tenera, non fredda come il marmo. Egli obbligò il suo sguardo a focalizzarsi e si ritrovò a guardare nel viso di una donna.

Ella gli accarezzò il viso con dolcezza mormorando il suo nome più e più volte.
- Massimo, ti ricordi di me?

Ricordarsi? Socchiuse gli occhi e batté le palpebre. Doveva forse conoscere questa donna dai capelli intrecciati in modo elaborato e dai gioielli scintillanti? Scosse la testa, con un movimento quasi impercettibile. Si leccò le labbra aride.

- Ho dell’acqua, Massimo. Sto per portarti un bicchiere alle labbra.

Malgrado le parole di lei, il liquido lo fece trasalire ed egli tossì leggermente prima di sorseggiare, per poi trangugiare, l’acqua fresca, la sua sete ora opprimente. Ella allontanò il bicchiere.

- Ancora.

- Presto. Presto avrai vino e cibo e comodità. Oh, Massimo, come sei potuto finire in questa situazione?

Il cervello di lui ancora non funzionava bene. 
- Le guardie mi hanno incatenato qui.

- Lo so, Massimo. Volevo dire, com’è accaduto che sei divenuto uno schiavo? Com’è divenuto gladiatore il più importante generale di Marco Aurelio?

Il viso di lei era nell’ombra.
- Chi sei? - chiese lui.

La donna si alzò e lentamente tolse le forcine dai capelli ed essi le ricaddero sulle spalle in onde fluenti. Ella si chinò vicino alle mani di lui così che le sue dita potessero prenderle le trecce. Sentì le mani di lui tremare mentre con fare incerto le toccava i capelli, poi egli infilò le dita fra le ciocche setose.

- Giulia, - sospirò. - Giulia. Riconosco il tuo buon odore adesso… il tuo profumo.

- Sì. - Ella gli prese il viso tra le mani e gli baciò la fronte e le guance e il naso. - Sei salvo, Massimo. Nessuno qui ti farà del male.

- Quell’uomo…

- Un mio amico. Ti ho fatto portare io qui, non lui. Io possiedo questa villa.

Massimo era ancora confuso.
- E’ tuo marito?

Giulia sorrise.
- No, Massimo, è solo un amico. Mio marito è morto.

Le braccia di Massimo ricaddero fino a penzolare dalle catene, ancora agganciate. Egli scosse il capo lentamente, cercando di capire la situazione.
- Credevo...

Giulia sedette vicinissima a lui, sempre accarezzandogli il viso.
- Dovevamo farlo così, Massimo. Il lanista si sarebbe rifiutato di negoziare con una donna.

Massimo trasse un profondo sospiro fremente.

- Apollinario si è spinto un po’ troppo in là con la sua interpretazione, temo. E’ del tutto stregato da te ma ha esagerato. Non volevamo spaventarti.

Massimo spostò di nuovo la mano verso i capelli di lei, trascinando le catene sul marmo, ma non riuscì a raggiungerli, perché lei era seduta direttamente di fronte a lui.
- Giulia… sembri così pallida.

Ella chiuse gli occhi per un momento, lasciando che il rombo profondo della voce di lui la scaldasse come il sole scaldava la sabbia della spiaggia al di là degli alberi.
- E’ solo la luce, Massimo.

- Hai ancora i capelli come… come il sorgere del sole? - Ella si spostò così che lui potesse carezzare di nuovo una treccia. - Soffici, proprio come mi ricordo. Non ho mai pensato che ti avrei rivisto, - sussurrò.

Giulia voltò la testa così da potergli baciare il palmo della mano aperta. Quando parlò di nuovo, c’erano lacrime nella voce di lei.
- Apollinario ha drogato le guardie, ma quei bruti ci hanno impiegato molto a cadere addormentati. Temevo che potessero tornare qui in qualsiasi momento così non ho potuto venire prima. - Lanciò un’occhiata nel cortile. - Apollinario porterà la chiave di quelle catene appena possibile e ti libereremo. - Ella scivolò avanti e adagiò le lunghe gambe sulle ginocchia piegate di lui, poi gli prese di nuovo il viso tra le mani. - Oh, Massimo, come ti è accaduto tutto questo?

- E’ una lunga storia. - All’improvviso ridacchiò, un suono che non conteneva alcuna allegria. - Adesso tu sei libera e io no.

Una porta si aprì e richiuse in lontananza e Massimo guardò al di sopra della spalla di Giulia per vedere il suo tormentatore, l’uomo dai capelli grigi che lei chiamava Apollinario, avvicinarsi con una lanterna.
- Mi dispiace di averci messo tanto, - gridò dal fondo dell’atrio. - Credevo che quei bastardi si stessero per bere l’intera cantina. Stanno certamente dormendo adesso. - Accese alcune torce nell’atrio e l’enorme spazio presto risplendette di una tenue luce dorata. Tese una mano per aiutare Giulia ad alzarsi poi si rivolse a Massimo, ancora seduto sul pavimento. - Generale Massimo, perdona il nostro sotterfugio e qualsiasi disagio io possa averti arrecato. Era necessario, te l’assicuro. Ora, togliamo quelle catene e andiamo in un luogo più confortevole. Ci sono cibo e vino ad attenderti, poi ti porteremo fuori di qui, - disse aprendo il lucchetto delle catene di Massimo e lasciandole cadere al pavimento con un forte tintinnio.

Le gambe di Massimo erano rimaste ripiegate sotto di lui tanto a lungo da diventare quasi insensibili, perciò sia Giulia che Apollinario lo aiutarono a tirarsi in piedi. Dopo alcuni passi incerti egli si riprese e insieme ai due si diresse verso la nicchia dove aveva immaginato che la statua di marmo avesse preso vita. Apollinario aprì la porta di quercia intagliata, e rimase indietro per permettere a Giulia e Massimo di entrare nell’ampio corridoio che terminava con gradini di marmo gentilmente incurvati. In cima ai gradini c’era un’altra porta e al di là di quella una camera ben illuminata. Era un appartamento privato all’interno della villa ed essi si ritrovarono in un ampio salotto elegantemente arredato che si apriva su una terrazza privata sfiorata dalla luce della luna. Due gatti stavano  sonnecchiando su un divano, totalmente disinteressati a quanto avveniva. Ce n’era un altro su una sedia. Una camera da letto era visibile da una porta aperta. Altre due porte rimanevano chiuse. Massimo non aveva mai visto l’interno di un palazzo reale a Roma, ma non immaginava che potesse essere più sontuoso di questo.

Massimo guardò Giulia. Era splendida come ricordava, i lunghi capelli di oro rosso che si rovesciavano in morbide onde sulle spalle nude. Egli allungò la mano ed ella gli volò tra le braccia, il viso premuto contro il suo collo mentre piangeva.

- Vi lascio soli, - disse Apollinario con un sorriso mentre abbandonava ceppi e catene su un tavolo.

Massimo annuì, non ancora del tutto pronto a perdonare quell’uomo per avergli fatto credere che stesse per trascorrere una settimana come suo ‘ospite’. Apollinario quindi chiuse la porta.

Massimo abbracciò Giulia e sussurrò:
- Va tutto bene, Giulia. Va tutto bene.

Giulia si spinse via da lui e si asciugò gli occhi.
- Sei tu lo schiavo adesso e stai confortando me?

Massimo fece spallucce e sorrise.
- E’ l’abitudine. - Il suo sguardo divenne curioso. - Che cosa voleva dire il tuo amico quando ha detto che mi avreste portato fuori di qui?

Uno sguardo di urgenza ed eccitazione brillò attraverso le lacrime di lei.
- Abbiamo preparato tutto, Massimo. Alle prime luci, molto prima che le guardie si sveglino, ti portiamo di nascosto a bordo di una nave diretta in Ispania, poco prima che salpi. Sarai ben al largo  prima che qualcuno capisca che te ne sei andato. Diremo soltanto che sei fuggito e…, - la sua voce si affievolì mentre Massimo le sorrideva con tenerezza e scuoteva la testa.

- Non ho alcuna ragione di ritornare in Ispania. Ho invece tutte le ragioni di rimanere a Roma.

- Ma tua moglie… tuo figlio.

Un lampo di dolore gli attraversò il viso.
- Morti entrambi. Uccisi dai pretoriani di Commodo. Proprio come dovevo esserlo anch’io per mano loro.

Le ginocchia di Giulia si piegarono e Massimo l’acchiappò per le braccia e la guidò ad una sedia. Ella lo fissò, gli occhi enormi nel viso bianco come gesso, mentre lui si accovacciava davanti a lei tenendole le mani.
- Sono morti? - ripeté lei come se il dirlo potesse farglielo credere. - Questo… questo cambia le cose. - Ella si guardò intorno nella stanza come se facesse l’inventario delle sue proprietà. - Ho bisogno solo di un momento per fare i bagagli poi posso venire con te. Noi…

- No, Giulia. Io non posso partire.

- Tu devi partire, Massimo. Morirai nell’arena.

- Sì.

- Partirai? - chiese lei, sperando che ‘sì’ significasse che egli aveva cambiato idea.

- Sì… morirò nell’arena.

Ella gli afferrò le braccia e frugò i suoi occhi verdazzurro in cerca di risposte.
- Non capisco. Ti sto offrendo la vita… la libertà.

- La mia vita è già finita. Mi fu portata via il giorno in cui trovai i corpi di mia moglie e di mio figlio. Volevo morire allora. Fu solo per uno scherzo del destino che non lo feci… quel destino che mi mise in una posizione tale da potergliela far pagare con la vita all’uomo che uccise la mia famiglia. Io ho intenzione di vederlo accadere. Poi morirò.

Giulia era sconvolta.
- Massimo, devo salvarti da te stesso?

- Giulia. Per favore, devi capire che io non sono l’uomo che conoscevi.

- Lo sei. - La sua voce era di nuovo colma di lacrime.

- No. Quell’uomo è scomparso. Io sono uno schiavo. Intrattengo la gente uccidendo. La mia morte divertirà le masse. Io non sono niente. La mia vita non vale la pena salvarla.

Giulia allontanò le mani scuotendole, si alzò e cominciò a misurare la stanza a grandi passi. Anche Massimo si alzò, osservando l’ondeggiare dei fianchi snelli di lei e la curva dei suoi seni mentre ella si mordicchiava il pollice in preda alla frustrazione. Era davvero bella. D’improvviso ella si voltò di scatto, il contegno del tutto diverso.

- Massimo, tendi le mani.

Egli sollevò le sopracciglia con aria interrogativa.

- Obbedisci e basta. - Si avvicinò a lui.

Egli si chiese che cosa avesse provocato l’improvviso cambiamento di condotta, ma ubbidiente allungò le braccia, le mani vicine, le palme in giù. Giulia sveltamente trasse i ceppi da dietro la schiena e cercò di catturargli entrambi i polsi, armeggiando in fretta. Massimo cominciò ad allontanare le mani quando vide le catene, ma si sforzò di rilassarsi finché i ceppi si chiusero con successo. Aveva all’improvviso paura di lui? Tenne le mani tese così che lei potesse vedere che cosa  aveva compiuto e sollevò di nuovo le sopracciglia con aria interrogativa. Giulia gli fissò i polsi incatenati, incredula di aver fatto una cosa del genere. Massimo rimase zitto e la studiò con curiosità. Ella lanciò un’occhiata al suo viso per un istante solo, prima di tornare al tavolo dove aveva raccolto i ceppi, e ritornò con le catene. L’espressione di lui cambiò dalla curiosità all’irritazione e le sue mani ricaddero.

- Dammi le mani, - ordinò Giulia, ma sembrava tutto tranne che sicura di se stessa.

Massimo le studiò il viso tuttavia ella non volle incontrare il suo sguardo.
- Giulia… basta.

Ella deglutì a fatica.
- Dammi le mani.

Egli provò a stuzzicarla.
- E’ un ordine? La padrona sta ordinando allo schiavo di lasciarsi incatenare?

Ella si mordicchiò il labbro inferiore, ma rifiutò di rispondere. Semplicemente continuò imperterrita.

Massimo sospirò e sollevò di nuovo le mani guardandola armeggiare con le catene come avrebbe fatto un padre indulgente con una bambina birichina. Le catene finalmente infilate negli anelli dei ceppi di ferro, ella rimase in piedi in preda alla confusione, le estremità ciondolanti dalle mani e le rozze catene pesanti in duro contrasto con le sue lunghe dita delicate.

Massimo aveva una gran voglia di assicurarle che la sua determinazione a restare a Roma era stata valutata con molta attenzione, ma non sapeva come farglielo capire. Invece, divertito dalla ovvia inesperienza di lei come padrona di schiavi e dalla sua ripugnanza verso quello che stava facendo, egli suggerì con disinvoltura:
- Forse potresti incatenarmi a quella colonna laggiù, ma le catene potrebbero danneggiare un po’ il marmo.

La confusione di lei mutò in convinzione ed ella lo fece voltare e lo spinse a ritroso finché la schiena di lui incontrò il freddo marmo della colonna sul lato opposto della stanza rispetto a quella che lui aveva suggerito. Ella avvolse alla colonna le lunghe maglie delle catene poi le tirò di nuovo sul davanti, costringendolo a piegare i gomiti con le mani alla vita. La sua confusione ritornò quando ella si rese conto che stava tenendo le estremità delle catene ma non aveva nulla a cui serrarle.

- Non sei molto brava in questo, vero? Chiaramente non sei abituata a domare gli schiavi difficili, - disse Massimo allegramente, l’umorismo evidente nella sua voce.

Indubbiamente egli pensava che fosse tutto uno scherzo. Ella adocchiò il tavolo dove aveva lasciato la chiave del lucchetto e lo udì ridacchiare. Era troppo lontano da raggiungere. Furiosa, ella gettò a terra le catene, afferrò la chiave poi si voltò di scatto per fronteggiarlo, aspettandosi che avesse rimosso le costrizioni. Egli non si era mosso. Ella raccolse di nuovo le catene e le strinse per quanto riuscì provocando un grugnito di sorpresa di Massimo. Ella riaprì il lucchetto, spinse la stanga attraverso le maglie della catena poi lo serrò di nuovo. Quindi tornò indietro e lo guardò, gli occhi spalancati e le dita premute contro la bocca, raccapricciata d’aver appena incatenato un uomo… uno schiavo. Aveva incatenato Massimo.

Egli restituì lo sguardo turbato di lei con espressione calma.
- E’ questo quello che vuoi?

Il leggero tono di sarcasmo nella voce di lui la riportò bruscamente all’urgenza della situazione.
- Quello che voglio sei tu a bordo di quella nave, - disse.

- Giulia…

- Ordinerò ai marinai di trascinarti là e di rinchiuderti nella stiva.

- E se il capitano non è d’accordo?

- Lo sarà. Possiedo quella nave e lui è un mio impiegato, Massimo. In realtà, io possiedo un’intera flotta di navi. - Gettò indietro i capelli.

Massimo annuì, il viso studiatamente ammirato.
- Sono impressionato. Di certo non sei la stessa donna che conoscevo… quanti anni fa?

- Non sono cambiata così tanto, Massimo, e nemmeno tu. Le nostre condizioni sono diverse ma siamo le stesse persone di allora.

- Giulia, se quando Proximo ritorna io non sarò qui, ucciderà un uomo che mi salvò la vita. Non posso permettere che questo accada. Juba non deve morire a causa della mia libertà.

Gli occhi di Giulia luccicarono di lacrime.
- Forse non lo farà… forse Proximo non diceva sul serio.

- Proximo non può lasciare impunita la fuga di uno schiavo. Gli altri lanisti pretenderebbero una punizione severa per dimostrare ai loro schiavi che una cosa del genere non è tollerata. Non sarei sorpreso se pretendessero che Proximo condanni a morte tutti i suoi gladiatori come punizione per la sua negligenza con me. Non riuscirei a vivere sapendo che ho causato la morte di uomini che considero miei amici. Inoltre, non c’è un angolo di questo impero che Commodo non frugherà pur di  scovarmi. Che cosa importa se muoio tra poche settimane o tra pochi mesi?

- Tutto per vendetta? Vivi per vendetta? Rimani per vendetta?

Massimo abbassò lo sguardo e disse calmo:
- E’ molto di più di questo… molto di più.

- Allora spiegamelo perché io non capisco.

Massimo guardò il tavolo che aveva notato in precedenza, dove era stato apparecchiato un pasto.
- Mi avevi promesso cibo, vino e comodità. Invece, mi ritrovo di nuovo incatenato.

Giulia osservò la sua espressione perplessa, le sue braccia e gambe forti … perfino più muscolose e salde di quanto lei ricordasse… il suo torace provocantemente avvolto da strisce di cuoio nero e fibbie… e scoppiò in lacrime.
- Ben ti sta. Ti meriti di essere incatenato, - singhiozzò.

Massimo fece un movimento verso di lei ma fu subito bloccato dalle catene.
- Giulia?

- Quanti anni sono passati, Massimo? E’ questo che hai appena chiesto? Ebbene, io posso dirti esattamente quanti anni sono trascorsi, fino al giorno e all’ora esatti in cui nella tua uniforme da generale ti vidi dirmi addio… e bandirmi dalla tua vita!

I gatti erano completamente svegli adesso e fissavano Giulia con occhi sbarrati. Uno di essi schizzò dietro un divano mentre un altro si avvicinò cauto, gli occhi verdi curiosi ma guardinghi.

Saggiamente, Massimo rimase zitto.

- Tu mi hai ossessionato… ogni ora di ogni giorno degli ultimi sei anni ho pensato a te e mi sono chiesta dove tu fossi e cosa stessi facendo e se stavi bene. Ti immaginavo tra le braccia di tua moglie e piangevo sapendo che non avrei mai potuto averti.

Massimo fissò il tappeto.
- Mi dispiace, - sussurrò.

- Non essere dispiaciuto, Massimo. Non capisci? Il mio amore per te è stato troppe volte la sola ragione per cui volevo vivere. Mi struggevo d’amore per te,  Massimo… fin dal primo giorno in cui ti vidi… ed ogni giorno da allora.

Massimo guardò il soffitto e batté le palpebre, i muscoli della gola contratti mentre deglutiva a fatica. Chiuse gli occhi e appoggiò la testa all’indietro contro il marmo dalle venature dorate che lo bloccava.

La furia tormentata di Giulia non era placata.
- Ma, tu nemmeno una volta pensasti di nuovo a me, vero, Massimo? Eri troppo occupato con la tua famiglia e a salvare l’impero per ripensare anche solo una volta alla prostituta schiava.

- Questo non è vero, - mormorò Massimo, gli occhi ancora chiusi.

Giulia si avvicinò e gli afferrò gli avambracci, la voce bassa per il senso di urgenza. 
- Allora perché non hai mai risposto alla mia lettera?

Né Giulia né Massimo avevano udito aprirsi la porta dell’appartamento e non si resero conto che Apollinario stava per entrare nella stanza quando udì le ultime parole di lei.
- Uh oh, - mormorò e zitto zitto scivolò di nuovo fuori della stanza.

- Lettera? - Massimo guardò il viso di lei così vicino al suo, il tono perplesso.

Ella si voltò di scatto poi si girò di nuovo di fronte a lui, le mani sui fianchi e la testa eretta con aria accusatoria.
- Mi fu riferito che tu ricevesti la lettera. Non cercare di negarlo.

- Sì, la ricevetti. Io…

- Ma non inviasti risposta!

- Giulia, - l’espressione era una richiesta di comprensione. - Mi giunse quando ero a Castra Regina. Arrivò appena prima che l’accampamento subisse l’attacco delle forze barbare. La lessi, Giulia, e avevo anche cominciato a rispondere, ma… non ne ebbi il tempo. Giulia… ero in guerra. La mia stessa fortezza fu attaccata giorni dopo e persi centinaia di uomini. Fui ferito gravemente…

Ella incrociò le braccia, rossa in viso.
- Avresti potuto rispondere più avanti.

- La lettera andò perduta. Deve essere stata arrotolata insieme alla mia tenda perché non riuscii più a trovarla, dopo.

- Come mai il non ritrovare la lettera ti impedì di rispondere?

Massimo si leccò le labbra aride.
- Non riuscii a ricordare il tuo cognome o dove tu abitassi. La feci cercare dal mio servitore ma nemmeno lui riuscì a trovarla. Sai chi la trovò, Giulia? Sai chi la trovò alla fine?

Giulia strinse le labbra in una linea testarda.

- Mia moglie, ecco chi. Era con me a Vindobona. Dovetti spiegarle chi eri e perché avessi ricevuto una lettera, che Olivia era convinta fosse una lettera d’amore, da una donna che non le avevo mai nominato.

Fu come se lei non l’avesse udito.
- Avresti potuto fare indagini e scoprire dov’ero se davvero avessi voluto.

All’improvviso Massimo esplose per la rabbia e lottò contro i suoi ceppi.
- ERO IN GUERRA! ERO UN GENERALE RESPONSABILE DI UN ESERCITO!

Giulia barcollò all’indietro, sussultando, portandosi la mano al cuore. Non lo aveva mai udito alzare la sua voce tonante, nemmeno durante il precario periodo sul Mar Nero quando avevano contrastato la congiura di Cassio per detronizzare Marco Aurelio. Essa la attraversò tutta come un lampo accecante. Tese le mani per cercare di placarlo ma la furia di lui rombò e tuonò come una violenta tempesta di mare.

- Stavo combattendo per salvare città romane, cittadini romani, soldati romani! Stavo combattendo per proteggere l’impero! Ma persi, Giulia, persi tutto! La mia famiglia, il mio imperatore, il mio esercito… la mia libertà! E per tutto quel tempo tu eri preoccupata di una dannata lettera! - Il petto di Massimo si abbassava e sollevava e il suo viso era infiammato. Chinò la testa e la scosse tristemente. - E tu ti sei preoccupata per una dannata lettera, - ripeté, dando l'impressione di essere completamente prosciugato. Il suo corpo crollò contro la colonna. All’improvviso sollevò la testa e rise con  amarezza. - Che cosa volevi fare questa notte, Giulia… Punirmi per quella lettera? E’ per questo che sono stato tormentato da quel tuo amico, Apollinario, e lasciato appeso per ore a quelle catene a pensare che stavo per essere stuprato… lo schiavo di sesso del tuo amico per una settimana? Proprio come lo sei stata tu? - Massimo fece ricadere di nuovo la testa contro la colonna. - E’ per questo che mi hai personalmente incatenato di nuovo, per chiarire che le nostre posizioni adesso si sono invertite?

- No, - boccheggiò Giulia, ma non uscì alcun suono.

- E allora, hai avuto abbastanza vendetta, Giulia, per quella lettera senza risposta, per la tua vita di schiavitù? Mi hai punito abbastanza? - Rise con asprezza. - E tu accusi me di vivere per vendetta.

Giulia sprofondò in una sedia, le membra tremanti e il viso di gesso. Il gatto fulvo le balzò in grembo in cerca di qualche attenzione, ma ella nemmeno se ne accorse e il felino subito saltò giù e se ne andò impettito e con aria indignata, la coda alta e contratta.

Massimo osservò il gatto, grato per la distrazione. Giulia osservò lui che osservava il gatto e sentendosi avvilita rifletté sulle parole di lui. Era questo che gli aveva fatto… lo aveva punito per non aver risposto alla sua lettera? Punito per essere nato libero mentre lei era nata schiava? Punito per non amarla?

Il felino balzò con grazia sul tavolo dove era apparecchiato il cibo e cominciò con cautela ad avvicinarsi ai gamberetti. Massimo di riflesso si leccò le labbra, ricordando improvvisamente quanto fosse affamato e assetato.

I due rimasero ai lati opposti della stanza, silenziosi e remoti, entrambi terribilmente infelici e angosciati, incapaci di offrirsi conforto l’un l’altra. Giulia infine si costrinse a muovere le deboli membra. Prese la chiave e si avvicinò lentamente a Massimo. Senza una parola aprì le catene e le lasciò cadere al suolo. Egli osservò le mani di lei, non il viso.

- Sono stanca, Massimo, ed è quasi l’alba. - disse rivolgendosi al suo torace. - Ho bisogno di dormire un po’ e sono certa che anche tu ne hai bisogno. Io… non ti avevo fatto preparare una stanza perché pensavo che saresti stato a bordo della nave, a quest’ora. Tuttavia c’è una seconda stanza da letto laggiù… - accennò con la testa ad una porta chiusa, - ed è piuttosto buia perché non ci sono finestre. Potrai dormire fino a tardi. E’ un po’ femminea, temo. Nessun uomo ha mai diviso questo appartamento con me.

Questo stimolò la curiosità di Massimo.
- Tuo marito? - chiese rimovendo le catene dagli anelli ai polsi.

- Solo di nome. Non siamo mai stati intimi. Quando fui liberata dalla schiavitù giurai che non avrei mai più diviso il mio corpo con un uomo a meno che non lo amassi. Volevo bene a mio marito ma non lo amavo. Perciò… ho vissuto qui da sola.

Massimo desiderava accarezzarle la guancia pallida. Ma non lo fece. Desiderava tenerla fra le braccia e proteggerla dall’infelicità. Ma non poté.

- Farò trovare ad Apollinario un modo per eliminare quei ceppi di ferro più tardi, e lui ti troverà qualche abito appropriato e dei sandali. Se devi rimanere qui una settimana puoi farlo in modo confortevole. Puoi farti il bagno quando ti svegli.

Egli annuì e la osservò mentre camminava verso la sua camera da letto e chiudeva piano la porta. Immediatamente, udì piangere dall’altro lato.

A disagio, Massimo lanciò un’occhiata alla porta della stanza che gli era stata assegnata e guardò di nuovo il cibo, che era stato toccato con le zampe, leccato e divorato dai tre gatti, i quali dovevano aver immaginato che stava per essere sprecato comunque. Giulia continuava a piangere.

Egli uscì sulla terrazza, sentendo disperatamente il bisogno di un po’ d’aria fresca, e si sporse con le mani sul muretto di marmo scolpito. La notte era nera, con soltanto un accenno di luminosità nel cielo ad oriente. Rare luci di una città scintillavano in lontananza, ma più in là c’era solo oscurità. Massimo inalò un profondo respiro. Il mare. Riusciva a sentirne l’odore con chiarezza, ora.

- Generale?

Apollinario era nel giardino e lo guardava dal basso. Massimo cominciò ad allontanarsi.

- Generale! Per favore! Fammi spiegare e porgere le mie scuse. Per favore.

Riluttante, Massimo tornò al muretto.

- Grazie, generale. Io… Io sono molto spiacente per averti causato tanta pena stanotte, come ho già detto. Onestamente non mi ero reso conto che saresti rimasto là incatenato per tanto tempo.

- Eri l’unico con la chiave, - rispose Massimo gelido.

- Sì, lo so. Ma Giulia venne da me e mi pregò di concederle più tempo con te. Sapendo che stavi per essere immediatamente portato ad una nave… e sapendo quanto lei ti ami… pensai che meritava tutto il tempo con te che riusciva a rubare.

- Ero solo.

- Lo so adesso. Tutto ciò che posso dire è che mi dispiace. Giulia è una donna magnifica e io sto cercando di capire perché l’abbia fatto. Non credo che volesse deliberatamente tormentarti… Davvero, non lo credo. Lei ti ama, generale, con tutto il cuore. Quando scoprì che il gladiatore Massimo era in realtà il generale Massimo, ne fu quasi distrutta. Per tutto il tempo ti aveva immaginato sano e salvo e felice e la addolorò terribilmente scoprire altrimenti.

Massimo appoggiò il fianco contro il muro, ripiegò le braccia e fissò nell’oscurità.

- Non sto scusando il suo comportamento di stasera, generale… o il mio, se per questo. E’… era una cosa piuttosto sorprendente avere ai miei ordini un uomo della tua forza e potenza, e ammetto che ne ho approfittato. Mi vergogno molto di me stesso.

Massimo fece scorrere le mani tra i capelli lasciandoli arruffati. Guardò di nuovo in basso lo speranzoso Apollinario.

Il che spronò l’uomo più anziano a continuare.
- Non ho potuto fare a meno di udire parte della vostra conversazione, stanotte… o, dovrei dire, della vostra discussione. Non sono certo del perché Giulia si sia fissata così testardamente su quella lettera, generale. Oh, era terribilmente delusa quando non ricevette una risposta, ma superò la cosa. Non ha menzionato quella lettera per anni, a dire il vero. Stanotte lei… sembrava quasi aver bisogno di qualcosa di tangibile su cui concentrare la sua… delusione… e ha scelto la lettera.

- Delusione?

- Sì. Vedi, pensava di stare per salvarti nel modo in cui tu avevi salvato lei… e liberarti nel modo in cui tu liberasti lei. Ma tu non l’hai permesso. Non permettendolo, hai scelto di morire quasi certamente… di allontanarti da lei ancora una volta.

Massimo sospirò.
- La mia vita è molto complicata. Può sembrare semplice dal di fuori, ma è ancora molto complicata. Io ho un dovere da compiere e lo devo fare a qualunque costo. E quel costo sarà probabilmente la mia vita.

- Generale, tu hai scelto la morte piuttosto che l’offerta di libertà di Giulia.

- Scelto? Io non ho scelta. Perché sia tu che Giulia presupponete che ho una scelta?

Apollinario era confuso.
- Io immaginavo…

- Immagini troppo. Io ho dei doveri da compiere. Io non ho scelta. Sfortunatamente, Giulia non è inclusa in questi doveri.

- Sfortunatamente…?

Massimo cominciò ad allontanarsi, poi si girò di nuovo, camminando su e giù in piccoli cerchi per la frustrazione. Cominciò a parlare, si bloccò, ricominciò.
 - Non pensi che io sia lusingato che una donna della sua bellezza e intelligenza mi trovi attraente? Non pensi che, se ci fosse concesso più tempo insieme, io potrei forse ricambiare il suo amore? Io non ho tempo, Apollinario. Io non ho scelta. Il mio essere qui non fa che rendere tutto più difficile a tutti. Sarebbe stato meglio se fossi stato lasciato in quella cella a Roma.

- Non avevo capito. Ancora una volta, mi dispiace, generale.

Massimo si limitò ad annuire e lanciò di nuovo un’occhiata verso il cielo ad oriente, dove il sole rosso stava per squarciare l’orizzonte. Rosso dorato, come i capelli di Giulia. Era stato un pazzo a non accettare la sua offerta e sfuggire alla schiavitù? Era stato sempre un pazzo ad anteporre il dovere alla propria felicità? Egli non conosceva altro modo di agire. Era stato educato al dovere sin dall’età di quattordici anni. Con un ultimo sguardo all’uomo nel giardino, ritornò nel salotto. Non c’era alcun suono di pianto proveniente dalla stanza di Giulia.

 

 

Era quasi ora di pranzo quando Giulia emerse dalla sua camera, i folti capelli scompigliati e gli occhi ancora leggermente gonfi di sonno e di pianto. Ella si avvolse la veste di seta color panna e aprì piano la porta della stanza di Massimo. La lama di luce dal salotto illuminò il letto… il letto intatto. Giulia chiuse di nuovo la porta, il cuore martellante. Se n’era andato, in qualche modo, dopo la sua conversazione con Apollinario? Quasi in preda al panico ella si volse, e subito si fermò. Massimo era sdraiato scompostamente sul divano vicino al tavolo del cibo, e russava sommessamente, una mano posata delicatamente sul gatto dal lucido pelo nero che faceva le fusa soddisfatto sul petto di lui, sollevandosi e abbassandosi ad ogni respiro. Giulia si avvicinò lentamente. Il divano era troppo corto per lui e una gamba penzolava sopra il bracciolo mentre l’altra era piegata al ginocchio e il piede calzato da stivale poggiava sul pavimento. La tunica gli era scivolata in su, esibendo le sue muscolose gambe abbronzate per quasi l’intera lunghezza. Non si era preoccupato di togliersi la corazza di cuoio e Giulia suppose che fosse davvero avvezzo ad indossare l’armatura. La mano che non era sul gatto era appoggiata contro lo schienale del divano, le dita leggermente flesse. Anche la testa era rivolta contro lo schienale, ad un’angolazione dall’aria piuttosto scomoda, ed i capelli erano arruffati. Ella si avvicinò di più per ammirarlo meglio ed il suo piede calciò qualcosa di duro che rotolò sul tappeto di lana. La brocca d’argento di vino. Vuota. Nessuna meraviglia che egli non sentisse dolore alcuno. Era stata piena quando Giulia l’aveva vista l’ultima volta e lei sapeva che ai suoi gatti non piaceva il vino. Tutto quel vino a stomaco vuoto.

Ella delicatamente sollevò il gatto dal petto di Massimo, prendendogli la mano affinché non ricadesse, e mise l’animale sul pavimento dove esso si allungò voluttuosamente prima di saltare su una sedia vuota. Giulia si sedette sul tappeto accanto al divano, sollevò la mano floscia di Massimo, e dolcemente posò la testa sul caldo punto in cui era appena stato il gatto, lasciando che la mano di lui le ricadesse sui capelli. L’uomo addormentato non si mosse. Giulia ascoltò il forte battito regolare del suo cuore attraverso il cuoio e ricordò le parole che aveva colto la notte prima. “Non pensi che, se ci fosse concesso più tempo insieme, io potrei forse ricambiare il suo amore?” Giulia era determinata a far sì che una settimana fosse un’infinità di tempo.