La Storia di Glauco: Capitolo 15

 

Capitolo 15 - Prigione

 

Glauco stava seduto scompostamente sulla brandina di cuoio e fissava la stretta macchia di sole rettangolare sul pavimento di pietra. Era immobile, eccetto che per gli occhi, che si spostavano meticolosamente nel tracciare il percorso della macchia di sole proveniente dalla piccola finestra a sbarre sul suo circuito attraverso il pavimento. Essa faceva lo stesso percorso ogni giorno. Egli poteva predire con accuratezza la sua traiettoria, adesso, dopo dodici giorni da prigioniero, ed essa costituiva l’unica sua fonte di divertimento e di luce nel suo isolamento. Nessuno veniva a trovarlo. Nessuno gli parlava. Il suo solo contatto umano era una persona invisibile che due volte al giorno spingeva il cibo nella sua cella e ne toglieva i rifiuti. Aveva pregato quella persona di dirgli perché si trovava in prigione, ma era stato ignorato.

Settimio Severo

 

Sedeva inerte, avendo provato in ogni modo immaginabile di farsi udire e di udire qualche rumore dell’accampamento al di là delle spesse pareti di pietra della sua piccola cella. Il silenzio era così completo che riusciva a sentire il battito del suo stesso cuore. La finestra della sua cella era di fronte al massiccio muro esterno di pietra della fortezza e le sue urla si limitavano a rimbalzare tra le due strutture fino ad estinguersi inascoltate.

Non c’era nemmeno un ratto a tenergli compagnia.

Glauco sospirò e spostò lo sguardo a fissare la parete lontana e i segni che egli aveva studiato in modo particolareggiato. Anche qualcuno prima di lui aveva tracciato i movimenti del sole, ma in un diverso periodo dell’anno, quando la sua traiettoria più bassa gettava raggi più lontani nella cella e sulla parete. Le sue dita tracciarono nomi in lingue e alfabeti non familiari. Alcuni prigionieri avevano segnato i giorni della loro prigionia con semplici graffi. L’evidenza di abitanti precedenti era snervante. Che cosa ne era stato di loro? Erano morti? Ridotti in schiavitù? Era quello che sarebbe accaduto anche a lui? Per tutto quel tempo Giovino avrebbe creduto che Glauco fosse in viaggio per Bonna, invece egli sedeva nella prigione che il vecchio stesso aveva costruito. Se Glauco fosse stato d’umore più allegro avrebbe riso dell’ironia della cosa.

La sua mente aveva ripercorso ogni passo che aveva fatto e tutto quello che aveva detto mentre era in Germania e non riusciva a pensare a niente che giustificasse quel trattamento. Era evidente che non si trattava di quello che aveva fatto, ma di chi era lui, ad averlo fatto finire in prigione. Egli era lì perché era il figlio di Massimo. Non v’era altra ragione.

Un improvviso grattare sull’altro lato della porta indicò che il “pasto” del mattino stava per essere servito. Glauco cominciò ad alzarsi, ma poi diede un rapido sguardo al sole sul pavimento. Non era al posto giusto. Era sempre più spostato sulla destra quando il pasto veniva servito, appena un po’ sopra la pietra a forma di triangolo. Sedette di nuovo e fissò la porta d’acciaio. I cardini protestarono stridendo rumorosamente mentre la porta si apriva trascinandosi lentamente e il cuore di Glauco cominciò a martellare. Un uomo alto si stagliò nel vano della porta. I dettagli erano oscurati nell’ombra, ma  indossava il mantello e le pellicce simili a quelli che Glauco sapeva che suo padre aveva indossato.

- In piedi, - ringhiò un soldato dietro il generale.

Imbarazzato dal proprio squallido contegno, Glauco si alzò subito e chinò la testa in segno di riconoscimento della posizione dell’uomo.
- Generale Vesnio.

- Sai chi sono. - Vesnio entrò nella cella e nella misera luce, calpestando con gli stivali il sudiciume del pavimento della cella.

- Sì, signore. - Glauco studiò la faccia ruvida dell’uomo, i cui occhi erano socchiusi nonostante la luce fioca. - Posso chiedere…

- Ho io qualche domanda, - interruppe il generale.

- Signore?

- Quali sono la data e l’ora esatte della tua nascita?

- Ah… 25 luglio 177, signore. Poco dopo mezzanotte, credo. Perché…

- Dove sei nato?

- Merida, signore.

- Puoi provarlo?

- Sì, signore. Ho i documenti con me.

- Tuo padre è…?

- Il generale Massimo Decimo Meridio, signore. Generale delle Legioni Felix e comandante degli eserciti settentrionali. - Glauco non riuscì a trattenere la nota d’orgoglio nella sua voce. - Lo conoscevate, signore?

Vesnio ignorò la domanda.

- Io sono il generale delle Legioni Felix, - disse gelidamente. - Chi è tua madre?

- La moglie di mio padre, signore… Olivia Meridia.

- Puoi provarlo?

- Sì, signore. Ho il contratto di matrimonio. Dice anche che mio padre era della classe senatoriale e che dall’imperatore Marco Aurelio gli fu data la ricompensa speciale di sposarsi.

- Dammi i documenti, - ordinò Vesnio.

Glauco esitò.
- Io… vorrei chiedere anch’io qualcosa in cambio, signore.

Vesnio s’inviperì. Sollevò il mento e guardò furibondo il prigioniero.
- Stai tentando di mercanteggiare con me?

- No, signore. - Glauco si sforzò di trattenere un tremito nervoso nella propria voce. Suo padre era stato così intimidatorio?

- Che cosa c’è? - proruppe il generale.

- Vo… vorresti cortesemente mandare un soldato dal vecchio Giovino a dirgli dove sono? Vive in una casa in stile romano proprio fuori della città. Egli… costruì questa prigione ed era il capo ingegnere di mio padre.

- Dammi i documenti e sarà fatto.

Glauco non osò chiedere altro, per cui si accovacciò e aprì lo zaino ed estrasse i documenti legati con cura che provavano che egli era chi diceva di essere.
- Vorrei riaverli, signore. - Con grandissima trepidazione li porse al generale, che li afferrò, girò sui calcagni e uscì dalla cella in un turbinio di lana e pelliccia.

- Aspetta! - Urlò Glauco cominciando a seguire l’uomo, ma fu subito bloccato da due guardie che gli diedero una violenta spinta all’indietro, poi chiusero di nuovo la porta sbattendola e sbarrandola.

Egli atterrò dolorosamente sul pavimento e rimase disteso sulla fredda pietra ascoltando le loro risa attutite dall’altra parte della porta.
- Non sei più tanto impertinente, dopo qualche settimana in una prigione d’accampamento, eh?

 

 

- Ce li hai?

- Sì, Cesare.

- Allora?

- 25 luglio 177, un minuto dopo la mezzanotte, Cesare. I suoi documenti provano che è il figlio di Massimo. Somiglia proprio a suo padre.

- E’ legittimo?

- Sembrerebbe di sì, Cesare.

Settimio Severo abbatté il pugno sullo scrittoio facendo saltare le tavolette e penne per scrivere, rovesciando quasi l’inchiostro.
- Il Celato. Il Celato della profezia. Adesso si è avverata del tutto, - ansimò, ondeggiando la testa avanti e indietro come un animale ferito, facendo quasi spostare la corona d’oro a serto di lauro sulla sua testa.

Vesnio rimase semplicemente sull’attenti e non disse nulla, dato che non era sicuro di ciò di cui stava parlando Severo.

Le ombre si mossero e una sottile forma alta si staccò, nera come le ombre stesse: capelli e barba neri, mantello nero, corazza e stivali neri. Cuore nero. Un pretoriano.
- Uccidilo, - suggerì l’ombra con velenosità. Si muoveva perfino come un serpente, una vipera che strisciava silenziosamente di roccia in roccia.

Vesnio rabbrividì, come sempre faceva in presenza del cugino dell’imperatore e comandante dei pretoriani, Gaio Flavio Plauziano. A quell’uomo era stato dato grande potere dall’imperatore e altrettanta immensa ricchezza, e sembrava avere un’influenza considerevole sulle decisioni dell’imperatore. Era scaltro e spietato… e molto pericoloso. Il suo accoppiarsi indiscriminatamente con compagni di entrambi i sessi era ben noto e c’era perfino una voce non provata che in Africa, da ragazzi, i cugini erano stati amanti, cementando così il loro rapporto.

- Uccidilo e basta, - ordinò ancora Plauziano avvicinandosi alla sedia del cugino. L’oro e l’argento puri sulla sua corazza scintillarono alla luce della lampada quasi quanto il balenio nel suo sguardo gelido. Sentiva odore di sangue e il suo umore salì vertiginosamente. - Chi lo saprebbe? Chi se ne curerebbe?

- No, non ancora, - disse Settimio muovendosi nel suo scranno, trasalendo per lo sforzo.

Vesnio studiò il suo imperatore. Il potente Settimio Severo sedeva pesantemente nel suo elaborato trono dorato, pallido, esausto e in agonia a causa del suo affrettato viaggio dall’oriente dove era stato in visita con la sua famiglia, e preparandosi per un trionfante ritorno in Africa, quando gli era giunta voce che un figlio di Massimo era comparso a Vindobona, vivo e vegeto… e che faceva domande. Malgrado l’intenso dolore nelle articolazioni, egli era salito a cavallo e aveva cavalcato duramente verso Vindobona, giungendovi nel giro di una settimana. Ma adesso stava pagando cara la sua fretta. Quasi incapace di muoversi, la sua schiena era sostenuta da un cuscino a motivi elaborati camuffato per sembrare parte integrante della sedia, ed i suoi piedi e caviglie gonfi e deformi erano sollevati su un poggiapiedi imbottito.

“Gotta,” sussurrava la gente. E probabilmente anche artrite, dopo anni di dura vita negli accampamenti militari sparsi per tutto l’impero. Qualunque cosa fosse, il dolore sembrava tenerlo in un costante malumore che peggiorava sempre di più ogni volta che Vesnio aveva la sventura di vederlo. Viaggiava con un terapista e quattro medici che lo accudivano giorno e notte e gli somministravano potenti droghe. Eppure soffriva.

Vesnio colse una fugace vista di un busto di Severo dietro la sedia dell’imperatore ed i suoi occhi spostarono il loro fuoco sulla versione di marmo dell’uomo. Esso raffigurava un uomo giovane e forte, piacente, dritto, con capelli e barba folti e arricciati. Vesnio paragonò la statua all’uomo scompostamente seduto davanti a lui, le spalle curve e il viso contorto dal dolore. I capelli scuri erano flosci e dritti, non arricciati… e la sua barba era sottile e rada anziché gonfia e mossa. Pesanti borse violacee sotto gli occhi gli imbruttivano la faccia e lo facevano sembrare molto più vecchio dei suoi cinquantatré anni. La statua somigliava a quella del giovane Marco Aurelio, del quale adesso Severo si proclamava figlio adottivo. Egli modellava il suo intero regno su quello del defunto, adorato imperatore, assicurandosi in tal modo la devozione del popolo di Roma. Dopo tutto… lo stesso Marco Aurelio aveva scelto Settimio Severo quale suo erede… almeno questo era quello che sosteneva. Vesnio non ci aveva creduto nemmeno per un momento e neanche la maggior parte degli altri pubblici ufficiali. Ma Severo aveva ingannato la popolazione dell’impero… gente che con molta probabilità non lo avrebbe mai conosciuto di persona… e quello era ciò che importava.

- Vesnio!

Il generale fece un salto, abbandonando di colpo i suoi pensieri.
- Sì, Cesare?

- I documenti? - Severo tese la mano, agitandola con impazienza.

Vesnio glieli porse in fretta e riassunse la sua posizione precedente. Odiava il suo ruolo in tutto quell’intrigo e si rammaricava amaramente di essere costretto a tradire il figlio di un ex-collega molto ammirato. Ma se non avesse mandato a dire a Severo dell’esistenza di Glauco, alla fine avrebbe pagato con la sua stessa vita.

- Puoi andare, - disse Plauziano. Vesnio cominciò a girarsi, ma esitò. Doveva obbedire all’ordine del pretoriano o aspettare che fosse l’imperatore a congedarlo? Guardò dall’uno all’altro, del tutto incerto su che cosa fare, quando Plauziano sorrise in modo compiaciuto. Alla fine, un Severo preoccupato gli fece cenno con la mano di andar via ed egli si girò con sollievo uscendo rapidamente dalla stanza. Il pretoriano lo osservò andarsene poi appoggiò il fianco contro lo scrittoio dell’imperatore, incrociando le braccia con disinvoltura.
- Non puoi permetterti di lasciar vivo questo Glauco, lo sai.

- Non posso permettermi di ucciderlo.

- Sciocchezze. Quella profezia diceva che egli sarebbe stato un pericolo… ricordi?

- Stai convenientemente dimenticando le conseguenze che la profezia affermava che avrei sofferto se l’avessi fatto?

Plauziano respinse le preoccupazioni del cugino con un gesto della mano.
- Tu e le tue profezie. E così il Leone ha un figlio e questi è un potenziale pericolo per la tua posizione di potere…

- E di conseguenza per la tua, - ringhiò Severo.

Plauziano sollevò un sopracciglio e annuì d’accordo.
- E per la mia. Quindi, liberati di lui. Imprigionalo. Gettalo nella prigione Tulliana[1] a Roma e nessuno ne sentirà più parlare. Vivrà solo per poco tempo in quel buco infernale, e tu non l’avrai ucciso direttamente. - Plauziano spalancò le braccia, palme in su, come se avesse appena risolto l’intero problema.

Severo ignorò il cugino mentre rovistava tra i documenti.
- Non è qui! Non… è… qui!

Il pretoriano si girò e appoggiò le mani sullo scrittoio.
- Che cosa non c’è?

- Stupido! L’originale di quel documento che ho cercato per anni. Se non ce l’ha lui, chi ce l’ha?

- Non lo so.

- Lo so che non lo sai. Trovarlo è la più importante missione della tua vita e tu mi hai deluso miseramente!

Plauziano mostrò i denti, ma rimase impersonalmente zitto.

- Quel furfante può davvero averlo, ma ha capito che è troppo prezioso per rischiare di portarlo qui, - rifletté Severo, sfregandosi la fronte.

- D’altra parte, potrebbe non saperne niente del tutto, - replicò il pretoriano.

L’imperatore lanciò un’occhiataccia al cugino.
- Bene, non appena chiunque ce l’abbia si renderà conto che un figlio di Massimo è vivo, allora si metterà sull’avviso, ci puoi contare. - Un’improvvisa comprensione si fece strada in Severo, facendogli allentare la mascella. Si alzò a metà dalla sedia prima che il dolore lo costringesse a tornare nell’abbraccio di essa. - Naturalmente… ecco come trovare l’originale. Aspettare finché Glauco ne entra in possesso, quindi portarglielo via e distruggerlo…

- Poi distruggere lui.

- Forse… - Severo si spostò ancora, quasi incapace di reprimere un gemito. - Portami i miei strumenti. Devo fare un oroscopo per il ragazzo, per vedere che cosa hanno in serbo per lui le stelle. 25 luglio 177. Non è cosa buona. 177, 2 più 5 fa sette, ed egli nacque nel 17° anno del regno di Marco Aurelio. - Era perso nelle sue riflessioni. - E se Massimo fosse diventato imperatore al posto di Commodo, come voleva il vecchio, allora egli sarebbe stato il 7° imperatore nella dinastia degli Antonini. - Severo scosse la testa intontito come sopraffatto dalla propria sventura. - Tutti quei sette…

- Credevo… visto il tuo nome… che sette fosse il tuo numero fortunato.

- Solo quando riguarda me, sciocco. Quando si riferisce ai miei nemici è estremamente nefando per me.

Plauziano roteò gli occhi, stufo di superstizioni e dell’incondizionata preoccupazione del cugino verso  profezie, oroscopi e numerologia. Ma, allo stesso tempo, egli si rese conto che la debolezza del cugino poteva essere sfruttata a proprio vantaggio. Quando avesse voluto manipolare l’imperatore, tutto quello che avrebbe dovuto fare era suggerire che la cosa gli era stata predetta o era scritta nelle stelle… e gli avrebbe fatto fare proprio quello che lui avrebbe voluto.

Plauziano letteralmente lanciò sullo scrittoio gli strumenti avvolti nel lino, il che gli guadagnò uno sguardo minaccioso dall’uomo seduto.
- Puoi andare anche tu, - disse Severo. - Devo concentrarmi.

Invece di andarsene, il comandante pretoriano si spostò dietro il trono e con noncuranza circondò lo schienale con le braccia. Si piegò in avanti e sussurrò.
- Allora, di nuovo… il furfante potrebbe essere utile.

Settimio sollevò appena la testa.
- Che cosa vuoi dire?

- Vesnio dice che somiglia moltissimo al padre. Mettilo nel costume giusto e potrai ingannare il popolo facendogli credere che egli sia un giovane Massimo.

- Con quale beneficio? - Settimio era guardingo, ma interessato.

Plauziano continuò con il suo piano.
- Tu non sei molto popolare con l’esercito, al momento, come sai… lo stesso esercito che marciò su Roma con te e ti fece imperatore. All’esercito non piace il modo in cui hai mandato all’esecuzione i capi militari che sostenevano il tuo rivale, Nigro[2], per il trono. - Plauziano sollevò le mani per bloccare la protesta del cugino. - Le legioni orientali che avrebbero dovuto sostenere te, sostennero lui invece… avevi ragione a giustiziarlo con l’appoggio delle legioni settentrionali. Ma… la tua politica di sterminare i suoi sostenitori militari non è andata giù all’esercito. Senza il suo sostegno tu non sei niente, e lo sai. L’esercito potrebbe facilmente mettere sul trono un altro.

Settimio si accigliò, ma sapeva che ogni parola di Plauziano era vera.
- Stai proponendo di ostentare Glauco come figlio di Massimo? E se l’esercito decidesse di sostenerlo? Le legioni amavano Massimo, lo sai, e molti non credono che fosse un traditore. Fu perfino un imperatore di qualche sorta… anche se solo per qualche tempo, nel Colosseo a Roma… e migliaia ne furono testimoni, anche se io mi sono assicurato con grande attenzione che non esista alcuna documentazione scritta della cosa, e che non ci siano monumenti a quell’uomo. E se decidessero di sostenere Glauco? Sai bene quanto me la forza che avrebbe se decidesse di rivendicare il titolo di imperatore. E, se mai rendesse pubblico quel documento… - Severo rabbrividì.

- Dimentica quel documento per ora, e ascoltami.

Severo sentiva il respiro del cugino nei capelli, e la nuca gli formicolò.

- Noi persuadiamo Glauco a sostenere te. Poi, gli diamo qualche titolo inutile ma altisonante  e lo mandiamo in parata davanti agli eserciti dell’impero. - Plauziano aprì le mani e con le dita disegnò un sentiero davanti al viso di Settimio. L’imperatore lo seguì con i suoi occhi scuri. - Pensa a come sembrerebbe. Il figlio del grande generale Massimo Decimo Meridio sostiene Settimio Severo… e così, anche, farà l’intero esercito. E il popolo di Roma… non dimenticartelo. Molti di loro non hanno dimenticato il grande gladiatore Massimo. Saranno entusiasti per suo figlio… e suo figlio sostiene te… e anche loro lo faranno. Potrebbe essere un potente strumento, Settimio.

- Finché riusciamo a controllarlo… finché non scopre la verità sul retaggio di suo padre e sul mio inventato titolo di figlio di Marco Aurelio. Potrebbe provare che sono un bugiardo e distruggermi. - Severo si passò una mano sugli occhi. - Ma… potrebbe valere la pena provarci. Hai ragione. Potrebbe essere un potente strumento se tenuto sotto stretto controllo. - All’improvviso sorrise compiaciuto e si voltò a guardare il cugino. - Potrei perfino nominarlo comandante dei miei pretoriani. Potrebbe avere un bell’aspetto in uniforme.

Plauziano ignorò la futile minaccia, totalmente compreso nel suo piano.
- Vedesti quella gente nel Colosseo quando furono testimoni della morte di Massimo. Una volta superato lo shock essi urlarono e si strapparono i capelli. La città piombò nel lutto mentre la guardia pretoriana segretamente si preparò a vendere il trono al maggior offerente[3].

- Sì… il periodo di “tenebra” che fu profetizzato, poi io… l’Aquila d’Acciaio… assursi al potere. Proprio come fu profetizzato. - Severo poi cantilenò la parte successiva della profezia che aveva avuto dalla Sibilla:

 “Ma nessuna minaccia è come il Celato e celato dev’essere
perché d’oro è il suo sangue anche se rosso scorre.
Celato a tutti, celato a se stesso.
Pur egli celandosi, il sole splende dov’egli va.
L’Aquila d’Acciaio a caccia di cuccioli va e li divorerà.

Ma il cucciolo Celato sta crescendo ed è un Leone, non un Lupo,
perché d’oro è il suo sangue di Leone che rosso scorre.”

- Il sangue di Glauco è d’oro, - continuò Severo. - D’oro… come quello di un imperatore.

Sciocchezze, pensò Plauziano. Se trafiggessi quel ragazzo, il suo sangue sarebbe rosso come quello di chiunque altro. Le sue parole non fecero eco ai suoi pensieri.
- Forse la stai interpretando male, - suggerì Plauziano con cautela, ansioso di persuadere l’imperatore al proprio modo di pensare. - Forse intende che il Celato deve rimanere celato malgrado il suo sangue d’oro. Celato può significare ‘camuffato’… la sua vera natura camuffata. Camuffato a se stesso e al popolo di Roma, ma non a noi. Solo noi conosceremmo il suo vero potenziale potere e perciò saremmo capaci di gestirlo. Lui non ne sarebbe mai consapevole. Sarà il nostro fantoccio, Settimio.

- Solo se non possiede quel documento, - disse Severo, poi aggiunse. - E, se non è d’accordo?

- Allora, lo puoi uccidere e rimarrà celato per sempre malgrado il suo sangue d’oro. Non è come se tu non avessi mai ordinato morti simili prima, Settimio. Dopo tutto, hai fatto uccidere tuo figlio solo perché il suo latino imperfetto ti imbarazzava. E hai fatto molto peggio di quello, e non ci sono state rappresaglie. Le profezie possono essere lette in più di un modo, Settimio.

- Non posso, non posso. Stai dimenticando l’altra profezia.

- Allora imprigionalo in Roma e lascia che muoia da solo! - Plauziano si stava spazientendo.

- Si è avverato tutto, Plauziano, tutto, tranne quegli ultimi versi… e quelli sono Glauco.

- L’uomo che hai già nelle tue mani!

- Egli ha una missione, deve riabilitare il nome di suo padre e rivelare che Massimo, non io, era il vero erede di Marco Aurelio. E ciò potrebbe significare la fine della mia dinastia prima che perfino cominci. I miei figli devono ereditare il trono, non il figlio di Massimo!

Plauziano cambiò tono.
- Lo faranno, lo faranno, - lo tranquillizzò. Non c’era dialogo con Settimio quando era immerso nella disperazione a causa delle profezie.

Settimio srotolò con cautela il papiro e lisciò il diagramma delle stelle.
- Lasciami, - ordinò. - Ho del lavoro da fare.

Plauziano inghiottì la rabbia a quel congedo. Dopo tutto, egli era l’uomo più potente dell’impero dopo lo stesso imperatore. Bene, mentre suo cugino perdeva se stesso in oroscopi e profezie, lui avrebbe fatto qualcosa di più concreto… avrebbe dato da sé un’occhiata alla causa dei loro problemi. Dopo tutto, Settimio poteva non sentirsi di uccidere il cucciolo di Massimo… ma non c’era nulla che impedisse a lui di farlo.



[1] Conservata da S. Silvestro Papa, vi furono incarcerati S. Pietro e S. Paolo, ed altri martiri (N.d.T.).

 

[2] Caius Pescennius Niger Iustus: Valoroso generale legato di Siria, fu invocato dal popolo contro Didio Giuliano. Proclamato imperatore nell’aprile 193 dai soldati di Antiochia e riconosciuto nelle province orientali, fece della regione il suo centro di potere quasi a prefigurare le future divisioni dell'Impero.
Nell’estate del 193 venne affrontato dalle legioni di Settimio Severo che nel frattempo aveva ottenuto il potere. Sconfitto ripetutamente, Nigro tentò di fuggire dai Parti ma fu rincorso e decapitato presso l'Eufrate nell'ottobre 194 (N.d.T.).

[3] Il ricco senatore Didio Giuliano (N.d.T.).