La Storia di Glauco: Capitolo 14

 

Capitolo 14 - La villa, 180 d.C.

Massimo inciampò nel bordo del lungo mantello scuro con cappuccio entrando nel carro degli schiavi. Non era ancora stata chiusa la porta quando la frusta schioccò e il carro sobbalzò e si mosse, scaraventandolo carponi sul pavimento di legno. Raggiunse il sedile in tempo per vedere i cancelli della scuola dei gladiatori chiudersi dietro il carro e scorgere il foro in ombra di fronte al Colosseo. Non era mai stato fuori della scuola dei gladiatori di notte, prima, e le vie solitamente affollate erano deserte eccetto per l’ubriaco che camminava barcollando all’ombra profonda delle imponenti mura di pietra.

Massimo afferrò le sbarre d’acciaio e sporse la testa da sotto il cappuccio del suo mantello cercando di immaginare dove lo stesse portando Proximo. Non aveva familiarità con Roma eccetto che per la via tra la scuola e l’anfiteatro, e l’oscurità gli rendeva ancor più difficile orientarsi. Era molto insolito, questo viaggio notturno, e per qualche motivo egli era da solo … gli altri gladiatori lasciati laggiù a porsi domande sulla sorte del loro comandante. Juba, in special modo, era rimasto sconvolto quando quattro guardie armate erano apparse all’improvviso dopo che i gladiatori si erano coricati e ordinato a Massimo di uscire dalla cella, non lasciando il tempo di fare domande. Nel cortile gli avevano lanciato la sua armatura con le cinghie di cuoio e gli avevano ordinato di mettersi la tenuta che non aveva più indossato fin dal suo ultimo combattimento in Zucchabar. Ceppi d’acciaio gli furono serrati attorno ai polsi rivestiti di cuoio, ed egli fu scortato fino al carro degli schiavi in attesa. Non ebbe nemmeno l’opportunità di lanciare un’occhiata alle celle dove sapeva che i suoi compagni gladiatori avrebbero premuto le facce contro le sbarre. Qualunque cosa stesse per succedere, era davvero inconsueta.

Massimo in realtà aveva desiderato qualche giorno di riposo, quando il Colosseo e altri pubblici luoghi di ritrovo erano stati temporaneamente chiusi perché la minaccia della peste ancora una volta stringeva la città in una morsa di paura. Perfino lo spregevole Commodo si stava nascondendo nel suo palazzo, non volendo correre il rischio di entrare in contatto con i plebei. Massimo si chiese se anche Proximo stava sottraendo alle folle il suo pregiato gladiatore, sperando di preservarlo se la peste avesse invaso la scuola. Ma allora… perché l’armatura? Se stava per essere obbligato a combattere in un’altra arena, questa armatura offriva poca protezione dalle lame che potevano facilmente scivolare tra le cinghie. Egli l’aveva da lungo tempo abbandonata a favore della più robusta corazza di cuoio ad un solo pezzo. Calzava i suoi stivali, la sola cosa rimasta della sua vita precedente, e la tunica azzurra pulita gli copriva il corpo sotto l’armatura. Le sue gambe, al solito, erano nude.

Le vie strette erano buie e deserte e illuminate solo da occasionali torce tremule o dal giallo luccicore di una lanterna penzolante tra le assi di qualche finestra chiusa. Dal suo luogo di reclusione, Massimo non poteva vedere le macchie di luce che danzavano sui colli che circondavano Roma, dove i ricchi sfuggivano le folle, gli odori e i rumori della sovrappopolata città… e il morbo. Riusciva solo a distinguere in lontananza forme di edifici, archi, colonne, acquedotti e statue di marmo mentre il carro avanzava traballando. Bianchi edifici pubblici a colonne venivano rapidamente oscurati da altri, come ogni cosa che cercasse un suo spazio nella centrale Roma. Egli riconobbe il Circo Massimo, di forma ellittica e a colonne, che gli era stato detto faceva sembrare piccolo perfino il Colosseo, e si sforzò di avere una fugace veduta del vasto palazzo di marmo che, egli sapeva, occupava il colle più avanti. Commodo era là… e anche Lucilla. Massimo si spostò dal bordo alla parte posteriore del carro, fissando furioso il palazzo fino a quando non riuscì più a vedere la sua sagoma.

Continuarono verso sud superando il colle Aventino e in breve attraversarono la massiccia Porta Ostiense, avendo impiegato poco tempo a percorrere le vie cittadine deserte. Fissando il retro del carro, Massimo fu sorpreso di vedere le mura della città rimpicciolirsi sempre di più mentre senza fermarsi discendevano la Via Ostiense, ai cui lati si allineavano, ininterrottamente, semplici tombe ed elaborati monumenti dipinti ai morti della città. Completamente confuso e alquanto in apprensione, Massimo si strinse il mantello intorno al viso e si sedette nel carro ondeggiante, chiedendosi che cosa ci fosse in serbo per lui questa volta.

La strada divenne più dritta e più piatta quando lasciarono Roma alle spalle e Massimo fu cullato dal gentile beccheggiare e dal ritmico suono degli zoccoli dei cavalli. Non si rese conto di essersi appisolato finché il carro non sobbalzò fermandosi bruscamente e Massimo per poco non fu di nuovo scaraventato sul pavimento. Si strofinò gli occhi, ma nel buio non riuscì a vedere nulla oltre le sbarre e non era sicuro di quanto a lungo avessero viaggiato. Il lucchetto stridette e la porta del carro si spalancò poi la faccia di Proximo illuminata dalla luna gli riempì la vista.
- Esci, - abbaiò il lanista.

- Dove siamo? - chiese Massimo scendendo dal carro nell’umida aria della notte.

- Dammi i polsi, - fu la sola risposta del suo padrone.

Ostinatamente, Massimo li strinse dietro la schiena sotto il mantello.
- Perché? Dove siamo? - Proximo fece un cenno alle guardie e con la forza quattro uomini armati costrinsero al petto le braccia di Massimo e attaccarono lunghe catene ai ceppi attorno ai suoi polsi. Ovunque stesse andando, congetturò Massimo, non gli sarebbe piaciuto.

Le guardie fecero voltare Massimo e cominciarono a risalire un curvo sentiero di ciottoli, orlato da un’alta vegetazione scura e rugiadosa, e punteggiato ad intervalli regolari da torce in supporti di ferro. Mentre camminavano, Massimo era sicuro di udire la risacca in lontananza e l’aria odorava leggermente di salsedine. Aggirarono una curva e Massimo si fermò bruscamente e rimase a fissare. Davanti a lui si stagliava una grandiosa villa che luccicava di bianco nella luce della luna. Illuminata  a giorno dalle torce, era alta due piani e arcuata da un portico continuo lungo il davanti per riparare le stanze dal sole. Il portico era supportato da colonne di marmo bianco e tra ogni colonna c’era una statua di marmo di una dea dai drappeggi aggraziati. Un’ampia terrazza si apriva da una stanza al piano superiore e palme in vaso e piante fiorite ne adornavano lo spazio aperto. Nel centro della villa c’era una perfetta volta a cupola. I visitatori erano accolti all’entrata della casa da un giardino lussureggiante adorno di una vasca riflettente e fontane tintinnanti, bordato da un colonnato decorativo. Massimo non aveva mai immaginato che una casa potesse essere tanto sontuosa.

Un servo emerse dalla villa e si avvicinò loro. Guardò Massimo, ma parlò a Proximo.
- Lo hai portato?

- Sì, come puoi vedere. - C’era una punta d’impazienza nella voce di Proximo.

- Seguitemi.

Proximo indicò la strada, seguito da due guardie davanti al gladiatore incatenato che veniva trascinato dalle altre due guardie che sembravano sopraffatte da quanto le circondava. Massimo si attardava, tirando le catene, riluttante ad entrare nella villa malgrado la sua opulenza.

Prossimo si voltò di scatto.
- Non fermarti lì a bocca spalancata, Massimo.

- Dove siamo, Proximo? A chi appartiene questo posto?

- Fai troppe domande, - tagliò corto l’altro.

- Proximo, non mi piace. Che si stiamo facendo qui?

Il lanista lo ignorò e ordinò alle guardie di spicciarsi. Una dozzina di profumi diversi indugiavano nell’aria mentre attraversavano il giardino, ma non offrirono alcun conforto a Massimo che si stava  allarmando rapidamente. Quattro guardie lo tirarono e spinsero attraverso le doppie porte principali della villa.

All’interno, la casa era semplicemente magnifica come l’esterno. Entrarono in un enorme atrio a due piani di forma ottagonale sormontato da una cupola piena con un’apertura al centro per permettere alla luce di entrare nello spazio imponente. Una macchia brillante di luce lunare inondava l’elaborato mosaico bianco e nero, a motivi geometrici, del pavimento. La cupola era supportata da altre colonne scannellate di marmo bianco che formavano un ampio cerchio nella sezione centrale dell’atrio. Torce e lanterne tremolavano contro le pareti oltre il colonnato creando ombre dorate danzanti.

- Che cosa vuoi che faccia di lui? - chiese Proximo al servo.

- Incatenalo tra due colonne per ora.

Immediatamente le guardie separarono i polsi di Massimo e lo spinsero avanti finché non fu in piedi direttamente tra due colonne, poi le catene vennero tese finché le sue braccia furono spalancate ad un angolo di  circa 45 gradi dal suo corpo. Ogni catena era assicurata intorno ad una colonna. Non era una posizione scomoda, ma era chiaro che non sarebbe andato da nessuna parte.

Oltre le colonne, su tre lati, c’erano pesanti porte di quercia intagliate… ce n’erano sei. Tra le porte c’erano delle nicchie contenenti altre statue di marmo a statura intera. L’atrio si apriva ad un’estremità su un cortile pieno di arbusti fioriti e fontane aggraziate e Massimo riuscì a vedere altre stanze al di là. Una di esse sembrava una biblioteca.

Con un’ultima occhiataccia al suo schiavo, Proximo seguì il servo nel cortile, poi scomparve nella biblioteca al di là e chiuse le porte. Le quattro guardie si misero sull’attenti alla porta d’entrata della villa, gli sguardi vaganti a colmare le loro menti di immagini che avrebbero descritto a commilitoni increduli quando fossero tornati a Roma.

Massimo si chiese il motivo del suo trovarsi lì. Forse i proprietari volevano un combattimento privato di gladiatori? I ricchi avrebbero pagato per vedere un simile spettacolo ora che era chiuso il grande anfiteatro a Roma?

Massimo si spostò da un piede all’altro, lo sguardo sull’ultimo luogo in cui aveva visto Proximo, e dopo quello che sembrò un tempo infinito, le porte finalmente si aprirono. Massimo si raddrizzò. Proximo stava effettivamente tornando, ma era accompagnato da un uomo. Questi era alto e snello, con una testa piena di riccioli bianchi e indossava una fluente toga bianca. Sorrise avvicinandosi a Massimo e i loro sguardi si incrociarono. Lo immaginò, o vide un avvertimento in quegli occhi scuri?

- Massimo? - chiese l’uomo.

Egli annuì una volta.

L’uomo tese la mano e diede uno strattone ai lacci del mantello, facendolo scivolare sul pavimento ai piedi dell’uomo incatenato. Senza muoversi, lo sguardo percorse adagio il corpo di Massimo dalla testa ai piedi e poi di nuovo in su. Egli allungò un dito ben curato e sollevò il mento di Massimo, facendo scivolare senza fretta l’unghia giù per la gola del gladiatore poi sopra la spalla destra nuda, spostandosi lentamente di fianco.

Le dita dell’uomo percorsero la lunghezza del braccio di Massimo poi l’uomo si spostò dietro di lui. Massimo trasalì violentemente quando sentì una mano sul ginocchio scivolare in su verso l’esterno della sua coscia. Massimo guardò freneticamente Proximo, ma il lanista voltò semplicemente la schiena e fissò il cortile. Il gladiatore inspirò a fondo per controllare la nausea che stava minacciando di rivoltargli lo stomaco.

- E’ perfetto. Senza difetti, - disse l’uomo spostandosi per mettersi di nuovo di fronte al prigioniero. - Lo prenderò per l’intera settimana, forse più a lungo.

- Splendido, - replicò Proximo. - Adesso dobbiamo semplicemente discutere il prezzo. - Massimo era troppo annichilito per parlare.

L’uomo magro guardò un’ultima volta il gladiatore valutandolo, poi fece di nuovo strada  verso la biblioteca.

Massimo freneticamente contorse le braccia, ma i legami tennero, come tutti sapevano che avrebbero fatto. Forse Proximo lo disprezzava tanto da vendere i suoi servigi a quell’uomo? Forse per il lanista il denaro contava tanto da tradirlo a quel modo? Massimo era ben conscio che altri lanisti affittavano regolarmente i loro gladiatori a chiunque ne pagasse il prezzo, ma Proximo non sembrava incline alla cosa… fino a quella notte.

Ci vollero molti lunghi minuti prima che Proximo e l’uomo comparissero di nuovo. Sembravano aver raggiunto un qualche accordo che soddisfaceva alquanto entrambi. Massimo scosse le catene per cercare di attirare lo sguardo di Proximo, ma questi deliberatamente evitò lo sguardo furibondo del suo schiavo e si diresse verso la porta senza una sola occhiata a lui.

- Proximo, - sibilò Massimo. Nessuna risposta. - Proximo! - disse, urlando adesso.

Il lanista si voltò verso di lui ammonendolo con gli occhi.
- Vuoi stare zitto?

- Dove stai andando? Mi vuoi lasciare qui?

- Sì.

Massimo era sbalordito
- Proximo, non farmi questo. Non farlo. Per favore. - C’era una punta di panico nella sua voce che Proximo non aveva mai udito prima, nemmeno nelle situazioni più pericolose. Guardò Massimo con interesse. Aveva finalmente scoperto una debolezza nel suo schiavo? Smascherato una paura?

Il lanista s’inchinò con grazia all’uomo dai capelli bianchi che li osservava con curiosità.
- Mi puoi scusare, prego, mentre gli parlo?

Proximo si avvicinò al suo campione con uno sguardo minaccioso e, in piedi faccia a faccia contro Massimo, sussurrò crudelmente:
- Come ben sai, generale, il Colosseo è chiuso e, di conseguenza, i miei gladiatori sono temporaneamente senza lavoro. Sfortunatamente, però, li devo nutrire lo stesso, e mangiano parecchio. Non me lo posso permettere. Ti ho dato in affitto per una settimana, forse più a lungo. Il denaro che ottengo da questa transazione mi permetterà di nutrire i tuoi amici. Diversamente, dovrò mandarli alle miniere. Li stai salvando da quel destino.

- Dandomi in affitto per fare cosa? - Massimo conosceva la risposta, ma era ugualmente costretto a porre la domanda.

- Qualsiasi cosa ti sia chiesta di fare… e intendo qualsiasi cosa. Mi senti? Mi è stata pagata la metà di quanto mi è dovuto. Quando ritornerò tra una settimana, riceverò l’altra metà… se lui sarà soddisfatto di te, generale. Assicurati che lo sia. - Proximo cominciò a girarsi, poi di colpo si voltò di nuovo. - Sai quanto denaro mi ha offerto la gente per alcune ore con te? L’ho sempre rifiutato e ti ho lasciato in pace di notte perché non ne avevo bisogno… fino ad ora. Le tue vittorie hanno sempre pagato considerevolmente. - Si diresse di nuovo verso la porta.

Massimo sentì la bile salirgli in gola.
- Pensavo che combattere e uccidere per intrattenimento fosse la cosa più abietta che potessi fare. Sembra che avessi torto.

Proximo si fermò e si voltò verso di lui.
- Se hai la benché minima intenzione di cercare di fuggire me lo scorderei proprio, generale. Se non sarai qui quando tornerò a riprenderti, il tuo amico Juba pagherà le conseguenze della tua libertà. - Proximo sembrò compiaciuto quando il sangue defluì dal viso di Massimo.

- Non ucciderai Juba. Vale troppo per te come gladiatore.

- Il suo valore è nulla in confronto al tuo, - replicò Proximo e si diresse verso la porta dando le ultime istruzioni ai suoi uomini di sorvegliare bene il prigioniero.

Massimo fissò il pavimento del mosaico in un miscuglio di stordimento, prostrazione e totale umiliazione. Era certo che stava per sentirsi male. Le sue mani ciondolavano flosce dai loro ceppi e le sue gambe lo sostenevano per mera abitudine.

L’uomo lanciò un’occhiata alle guardie poi si avvicinò al prigioniero e delicatamente gli fece scorrere il dorso delle dita sulla guancia e nella barba. Massimo non riuscì a guardarlo.
- Ho udito per caso una parte della conversazione, Massimo. Non avevo capito che questa… piccola vacanza… sarebbe stata una sorpresa per te. - Mentre cercava di nuovo di sollevare il mento del gladiatore Massimo scostò bruscamente la testa. L’uomo lanciò un’occhiata alle guardie che li stavano osservando con attenzione, poi si spostò al fianco più lontano di Massimo dove egli era fuori della loro vista e sussurrò vicinissimo al suo orecchio. - Non essere angosciato, Massimo, non è come sembra. Non ti farò del male.

- Cosa? - bofonchiò Massimo, non sicuro di aver udito bene.

- Shh, - sussurrò l’uomo facendo serpeggiare il dito in modo provocante sotto la cinghia di cuoio con fibbia che attraversava il petto del gladiatore. - Le guardie ci stanno osservando. Stai al gioco.

L’uomo infilò le dita attorno alla striscia e si mise di nuovo di fronte a Massimo prima di alzare la voce.
- Bene, mi aspetto da te un comportamento migliore di questo. Proximo mi ha garantito che avresti cooperato, ma ha anche detto che se non lo facevi avrei potuto punirti in qualunque modo scegliessi. Mi ha solo proibito di ucciderti o storpiarti in modo tale che non potessi combattere. Posso farti restare qui in modo molto… piacevole … o estremamente doloroso. La scelta è tua.

Massimo era del tutto confuso dalle azioni dell’uomo: un momento lo minacciava, l’attimo successivo lo rassicurava, poi lo minacciava di nuovo. Passato lo stordimento iniziale, sentì tornare il suo spirito combattivo.
- Che cosa vuoi da me? - ringhiò.

- Tutto, - sussurrò l’uomo. Sembrava affascinato dall’armatura di cuoio di Massimo, sfiorava con le dita le fibbie al petto e alla cintola dello schiavo e faceva scivolare le lunghe dita in mezzo alle strisce di cuoio che gli proteggevano il petto. - Ti ho visto solo in lontananza nella grande arena. Temevo che da vicino ti potessi rivelare una delusione, ma di sicuro sei tutto tranne quello. Occhi straordinari… così tristi. Voce incredibile. Non ti avevo mai udito parlare, ma avevo immaginato che avessi una voce che si addiceva al tuo aspetto rude. E’ anche più perfetta di quanto mi aspettassi. E quella tenuta in cuoio… assolutamente ammirevole. Avevo richiesto qualcosa… di accattivante, ma questo supera anche la mia immaginazione.

Massimo valutava il suo avversario mentre parlava, proprio come se fosse un gladiatore nel Colosseo. Era un poco più alto di lui, ma molto più leggero, con spalle più strette e braccia sottili. Si muoveva con fluida grazia, ma c’era poca forza nella sua stretta. Sarebbe stato facile ucciderlo se Massimo avesse potuto liberarsi di quelle catene. Ma la morte di quest’uomo valeva la propria vita e quella di Juba? Peggio ancora, valeva la pena permettere a Commodo di sfuggire alla vendetta per l’assassinio di sua moglie e suo figlio? No, doveva fare come Proximo aveva ordinato e sottomettersi a quest’uomo malgrado la sua repulsione al suo tocco leggero. Quello che lo aspettava poteva essere peggio di quello che aveva già sofferto? Poteva essere più turpe e sordido? Massimo trasse un profondo respiro.
- Signore, non intendo fare difficoltà. Soltanto, non sono ancora abituato al mio attuale status e ho difficoltà ad adattarmi all’idea che il mio destino dipende dai capricci altrui.

- Devo ammettere che sono molto curioso sul tuo conto. Sei con ogni evidenza un uomo intelligente e istruito… non esattamente uno schiavo nella media. Egli toccò le spesse alette di cuoio che proteggevano l’inguine di Massimo, sollevandole proprio per osservarle ricadere al loro posto. Sei un uomo con un passato misterioso… un ispanico?… un generale come dice qualcuno? Proximo ti ha chiamato così. O è solo parte del mito di Massimo? Sarò felice di conoscerti meglio. - Ciò detto, lanciò un’occhiata alle guardie, strizzò l’occhio a Massimo e andò verso gli uomini armati. Massimo girò la testa e colse la maggior parte della conversazione.

- Che peccato che Proximo abbia insistito che restiate qui quando sono sicuro che preferireste tornare a Roma, - disse l’uomo con grazia, e sorrise alle guardie.

- Non potresti mai trattare con quello là se non ci fossimo noi a controllarlo, signore. E’ pericoloso. Un assassino, - borbottò una delle guardie. - Siamo qui per assicurarci che faccia quello che tu vuoi. - Gli altri annuirono, d’accordo con lui.

- Bene, questo lo rende soltanto ancora più eccitante, no? Perché voi signori non venite con me, ci  rinfrescheremo e rilasseremo un poco. Il nostro amico non andrà da nessuna parte per il momento. - Il padrone di casa sorrise ancora e tese la mano, invitando le guardie a seguirlo. Attraversarono il cortile ed entrarono in biblioteca, le loro risa che si allontanavano con una cupa eco che risuonò, beffarda, tra le colonne dell’atrio.

Massimo era solo. In piedi, incatenato, con le braccia spalancate tra due colonne nell’enorme atrio, la sua ombra sul pavimento un ritratto di vulnerabilità. Era solo ad affrontare la propria impotenza e le proprie paure.