La Storia di Glauco: Capitolo 13

 

Capitolo 13 - La strada del fiume

 

 

La riva del fiume

© 2004 Per gentile concessione di Alma Raffaghelli

Glauco gettò indietro la testa, chiuse gli occhi, e lasciò che i suoi riccioli danzassero nella calda brezza. La vista temporaneamente oscurata, gli altri suoi sensi compensavano, trasmettendo deliziose informazioni alla sua mente: il suono nitido e ritmato degli zoccoli del suo cavallo sulla strada di pietra; il monocorde fischio del vento tra gli aghi di pino e abete. Il calmo stormire delle foglie di quercia; il tonfo delle pagaie e le grida dei marinai sul vicino fiume Danubio. Il suo viso si scaldava e raffreddava in alternanza mentre egli passava da zone di sole luminoso ad ombra fitta.

Inalò a fondo una strana combinazione di pungente resina di pino e dolce profumo di fiori selvatici che crescevano abbondantemente lungo il bordo della strada, permettendo ai discordanti aromi di mescolarsi per un istante nei suoi polmoni prima di espirare. Sospirò con soddisfazione, totalmente immerso nel mondo di suo padre. Solo quando il ritmico dondolio del suo corpo si interruppe, egli si raddrizzò e aprì gli occhi. Ultor aveva approfittato della distrazione del suo padrone per fermarsi a rosicchiare foglie succulente e tenera erba giallo-verde che si affacciava ai lati dei ciottoli grigi. Glauco diede dei colpetti sul collo ebano del cavallo, disposto a concedere del tempo all’animale mentre lui osservava il panorama circostante.

Con la zona boscosa proprio dietro di sé, i campi si allungavano dal ciglio della strada, fondendosi con le lontane colline violette. Bassi muri di pietra dividevano i campi di grano, creando un motivo di rettangoli irregolari di tinte eterogenee che spaziavano dal verde profondo al giallo dorato. Lontano dalla strada, alle pendici di una collina, si abbarbicava una fattoria, con i suoi ormai familiari muri di argilla e tronchi, ed il tetto di paglia, dando l’impressione che il tempo avesse dimenticato questa parte dell’impero. Nonostante la grande differenza in stile e collocazione, la vista della fattoria gli strinse il cuore per un momento, e Glauco provò nostalgia per la propria casa, la fattoria che Massimo aveva costruito. Ma, questo era il luogo in cui Massimo aveva trascorso la maggior parte della sua vita adulta e Glauco capì il fascino subito dal padre per la campagna intorno a lui. Egli era stregato dal luogo… la sua selvatichezza e primitività solo appena sfiorate dalla mano dell’uomo.

I suoi pensieri vagarono ancora ed egli lasciò che Ultor si mettesse al proprio passo mentre entravano in un’altra parte densamente boscosa dell’impero settentrionale. Anni prima i soldati avevano abbattuto gli alberi lontani dalla strada per impedire attacchi a sorpresa, eppure giovani arboscelli si protendevano, indisturbati, tra l’erba, mentre rami frondosi creavano una tettoia di verde sopra la testa. Glauco immaginò di far parte del grande esercito che aveva attraversato questa stessa strada con suo padre, in armatura e pronto alla battaglia al minimo preavviso; uno dei quasi seimila uomini preparati a difendere la gloria di Roma con le loro vite. Davanti a sé, attraverso i rami, egli vide con la mente quell’esercito, con i suoi stendardi e vessilli schioccanti con l’aquila dorata… centinaia di cavalieri  seguiti da migliaia di soldati di fanteria, tutti condotti dal glorioso generale sul suo grande stallone.

Riusciva a vedere tutto, come in un sogno… il generale che cavalcava verso di lui con il suo lungo mantello color rosso-vino ondeggiante dietro di lui. Glauco cercò di richiamare alla mente il viso di suo padre per completare la visione. Il generale venne più vicino… ma i suoi lineamenti erano ancora indistinti in modo frustrante… a portata di mano, ma appena al di là dell’immaginazione di Glauco. Lentamente, il giovane ispanico si raddrizzò sulla sella, mentre il suo esercito di fantasia diveniva sempre più chiaro e vicino… riusciva quasi a sentire il tremore del terreno sotto il martellare di diecimila piedi in marcia. Di colpo la sua testa scattò ed il suo cuore mancò un battito. Questa non era una visione, questo era un esercito reale e gli si stava avvicinando rapidamente sulla stretta strada. In fretta, spronò Ultor con le ginocchia e condusse l’animale tra gli alberi, dove fece in modo di girarsi proprio mentre il generale lo superava sulla strada, lo sguardo fisso davanti a sé, l’espressione imperscrutabile. No, certamente non era suo padre. Quest’uomo era più vecchio di quanto era stato Massimo e aveva il viso rasato, con borse sotto gli occhi stanchi e rughe profonde scolpite ai lati del naso. Si trattava forse del generale Vesnio, l’uomo che ora occupava la casa di suo padre alla fortezza in Vindobona?

Affascinato, Glauco osservò l’esercito sfilare, i movimenti dei soldati precisi e regolari… il generale ed il suo legato in testa, circondati da tutti i lati da guardie completamente armate. Di seguito, la cavalleria, poi la fanteria dietro di essa, seguita da carri e carretti trainati da muli carichi di rifornimenti, e da dozzine di artigiani che rendevano operativo l’esercito. Impiegarono molto tempo a passare e Glauco divorò ogni dettaglio della legione. Appena l’ultimo fante si avvicinò egli gridò:
- Dove state andando, soldato?

La risposta gli fu gridata:
- Vindobona.

Dunque, aveva avuto ragione. Questa era la legione che adesso occupava la fortezza a Vindobona e quello era il generale Vesnio… l’uomo che viveva nella casa di suo padre. Glauco infine sollecitò Ultor sulla strada e rimase a fissare la coda finale della legione prima che essa scomparisse in mezzo agli alberi lontani. Poteva ancora sentirla, molto dopo che era fuori della sua vista. Ritemprato, spronò Ultor al galoppo per recuperare il tempo perduto. Doveva trovare una locanda per la notte e la città più vicina era ancora a qualche ora di cammino.

 

 

Due giorni dopo Glauco era nelle vicinanze delle mura di Castra Regina. In attesa del suo turno per entrare dal cancello affollato, osservò la fortezza sul fiume che dominava la città. Benché più piccola di Vindobona, anche la città di Castra Regina aveva la sua parte di edifici e monumenti pubblici di pietra in stile romano. Stanco ed affamato, si diresse verso la prima locanda che vide. Sebbene edificata in pietra, essa sembrava più germanica che romana, con il suo basso tetto di paglia. Ma offriva l’attrattiva di un cortile e sembrava pulita e ben tenuta, così Glauco attese in coda per prenotare una camera per la notte. Sorrise ad una ragazza che lo superò tenendo in equilibrio un vassoio carico di cibo aromatico, e si guadagnò un sorriso in risposta. Più tardi, quando prese posto nella taverna, la ragazza si fece un dovere di servirlo personalmente.

 

Glauco non era certo di che cosa lo avesse messo in allerta di una presenza nella sua stanza, ma scattò in piedi, spada alla mano, ancor prima che i suoi occhi fossero del tutto aperti. Sobbalzando, la giovane che divideva il suo letto lo chiamò a voce alta, ma il nome finì in uno strillo quando la lanterna le fu all’improvviso piantata davanti al viso.

Glauco si lanciò sulla figura indistinta, colpendo con la spada in prossimità delle mani dell’uomo, sperando di disarmarlo. Udì un uomo urlare e Glauco gridò alla ragazza di uscire mentre egli di nuovo con un violento movimento verso il basso disegnava un arco con la spada. Sentì l’arma incontrare la carne e udì infrangersi la lanterna mentre egli si girava di scatto nell’oscurità preparandosi ad un altro attacco.

- Fermo! Giù la spada! - urlò una voce maschile e Glauco si accosciò tra il letto ed il muro, cercando di stabilire quanti ladri ci fossero nella stanza. Almeno tre, pensò, mentre guizzava sul letto ed atterrava agilmente in piedi dall’altra parte. Udì un frenetico batter di piedi per soffocare le fiamme provenienti dalla lanterna infranta che minacciavano di consumare il tappetino di lana. Nella confusione, Glauco afferrò il suo zaino e con una mano lo tenne davanti a sé come uno scudo voluminoso mentre egli attaccava di nuovo. Un altro uomo imprecò rabbiosamente e un’arma cadde rumorosamente sul pavimento. La mano di Glauco era sul chiavistello quando una seconda lanterna venne accesa, ed egli si ritrovò a fissare la propria ombra sulla porta di legno. All’improvviso, un’altra figura scura torreggiò sopra la cima della sua ombra, ma prima che egli riuscisse di nuovo a girare completamente su se stesso sentì un accecante lampo di dolore poi crollò sul pavimento come un albero abbattuto.

 

Il martellare nella sua testa lo fece infine tornare cosciente. Gemette e cercò di sollevare una mano verso il viso, ma il suo corpo non riusciva a cooperare. Soffocò un lamento mentre si sforzava di aprire un occhio e abbassò lo sguardo sui propri polsi, stretti insieme da una corda e assicurati alle caviglie legate. Era nudo, sdraiato sul suo letto nella locanda ed era circondato da persone. Usò i gomiti per sollevare il busto dal letto.

Una faccia incombette su di lui, una faccia con l’elmo.
- Bene, non sei morto dopo tutto, - commentò asciutto l’uomo, il viso oscurato da ombre e metallo. - Identificati!

Glauco si sforzò di inghiottire un gemito e la nausea.
- Chi lo vuole sapere? - chiese, la voce non molto più di un incerto brontolio.

L’uomo si raddrizzò e tenne la lanterna in modo che Glauco potesse vederlo chiaramente. Era un soldato.
- Ora… identificati, - ordinò.

Glauco inclinò la testa e aspettò che la stanza smettesse di vorticare prima di chiedere:
- Se non sapete chi sono, perché mi avete attaccato?

- Se ricordi, amico mio, noi non ti abbiamo attaccato… tu hai attaccato noi. Noi ci siamo semplicemente difesi.

- Voi siete entrati nella mia stanza senza preavviso malgrado la porta chiusa. Che cosa avrei dovuto fare?

- Ti chiami Glauco? - interrogò il soldato, ignorando la domanda del giovane prigioniero.

- Sì, sono io. E allora?

- Sei il figlio del generale Massimo? - domandò il soldato.

- Certo che lo è, - mugugnò una voce dietro il soldato. L’inquisitore di Glauco si spostò di lato per rivelare un altro soldato, colui che era chiaramente al comando. Sorrise freddamente a Glauco poi si sedette sul bordo del pagliericcio.

- Sei molto coraggioso quando sono legato, - sorrise ammiccante il prigioniero.

L’uomo arcuò un sopracciglio.
- Oh, sei il figlio del generale Massimo, d’accordo. Non v’è dubbio alcuno di questo. - Il suo tono di ammirazione rapidamente cambiò ed egli sibilò. - Hai appena ferito tre dei miei uomini, Glauco, e questo non mi piace.

- Mi stavo semplicemente difendendo. Voi non avete certo bussato alla porta per identificarvi prima di entrare, - ripeté Glauco. A turno fissò furioso ciascuno dei sei uomini in piedi attorno al suo letto. - Pensate di essere abbastanza numerosi per prendere un solo uomo?

- Non sapevamo cosa aspettarci dal figlio del generale Massimo.

- Spero di non avervi delusi.

Un debole sorriso incurvò le labbra sottili dell’uomo.
- No, certamente non lo hai fatto.

- Sono in arresto, centurione?

- No.

- Allora, slegatemi, - ordinò Glauco spavaldamente.

 - No.

- Guardate, non so cosa vogliate da me, ma slegatemi e fatemi vestire, poi parleremo da uomini civili,  quali si suppone che siamo.

Il centurione esitò poi fece cenno ad un altro soldato che si fece avanti e recise la corda ai polsi e alle caviglie di Glauco, mentre gli altri uomini tenevano le spade direttamente puntate al petto del prigioniero.

Contrariato sotto tutti i punti di vista, il giovane spinse via l’uomo che si trovava più vicino al suo zaino, poi rovistò in cerca di una tunica che si infilò dalla testa. Non avrebbe indossato il mantello, comunque. Non voleva che quegli uomini vedessero la fibula. Si sedette e calzò gli stivali, con cinque spade a distanza di un braccio dal suo viso.
- Dove mi portate, centurione? - chiese incrociando la caviglia sul ginocchio e stringendo i lacci.

- Vindobona.

Glauco si alzò in piedi e si lisciò la tunica nera.
- Be’, grazie lo stesso, ma ci sono già stato. Sto andando ad ovest.

- Non più. Il tuo cavallo è nella stalla?

- Sì. Perché non lo selli per me? E puoi anche pagare il mio conto.

Il centurione ignorò l’insolenza del giovane.
- Muoviti, - ordinò spingendo Glauco verso la porta.

Il giovane lentamente discese gli stretti gradini, con tre spade alla schiena e due al petto. Una folla si era radunata nell’atrio. Bene, pensò Glauco, parecchi testimoni al suo rapimento. Mentre veniva scortato fuori, udì uno schiamazzo di cavallo dalla stalla, poi la porta di legno si spalancò andando in frantumi, mentre il pietrificato locandiere cercava di controllare lo stizzoso stallone nero. L’uomo in qualche modo era riuscito a metter su le briglie, ma la sella giaceva sul pavimento nella paglia. Ultor roteava e s’impennava, gli zoccoli che graffiavano l’aria. Terrorizzato, il locandiere lasciò cadere le redini e l’atteggiamento di Ultor istantaneamente s’ammorbidì. Scosse la criniera e trottò verso Glauco mentre i soldati si sparpagliavano. Abbassando la sua grande testa nera, gentilmente strofinò il muso nelle mani del suo padrone. Glauco gli grattò gli orecchi e sussurrò “Ben fatto,” allo stallone.

Un soldato gettò la sella ai piedi di Glauco e gli ordinò di sellare e montare il cavallo mentre i soldati circondavano l’animale, le spade spianate.

- Le mani, - ordinò il centurione a cavallo tenendo un pezzo di corda.

- Non ve n’è bisogno. Dovrebbe esserti chiaro adesso che sono d’accordo nel venire con voi.

- Le mani! - intimò l’uomo e Glauco tese i polsi. Suo padre aveva ucciso tre pretoriani quando era stato legato e disarmato. Quali sarebbero state le sue probabilità con il doppio di uomini? Non buone, decise Glauco, mentre mentalmente si preparava al viaggio di ritorno a Vindobona. Deliberatamente guardò direttamente negli occhi di ciascuna delle due dozzine circa di persone che si erano radunate fuori della taverna, invitandoli a ricordarsi di lui. Sorrise tristemente alla servetta in lacrime che si stringeva uno scialle sotto il mento rannicchiandosi nel vano della porta. Non v’era dubbio che lei si sarebbe ricordata di lui.

 

Due notti più tardi, dopo un faticoso viaggio senza fermate, un esausto Glauco attraversò a cavallo le porte di Vindobona circondato da guardie egualmente stanche. Nell’oscurità girarono a sinistra sulla strada perimetrale dell’accampamento e superarono baracche e baracche di uomini addormentati finché raggiunsero la parte posteriore dell’accampamento e la costruzione che Giovino aveva descritto come la prigione.

Glauco rabbrividì mentre una porta di metallo si apriva stridendo, poi senza tante cerimonie fu spinto all’interno e le sue sacche buttate dentro dopo di lui. Rimase in piedi fissando il muro di pietra di fronte a sé e la brandina… unico arredo nell’angusto spazio… mentre la porta veniva chiusa sbattendo e sprangata con il catenaccio, il suono riverberandosi per tutta la vuota struttura di pietra. Piombò nella più completa oscurità, divenendo ufficialmente un prigioniero nel freddo edificio di pietra che era stato costruito per rinchiudere i nemici di suo padre.

Qualcuno non era contento della sua presenza in Germania, questo era certo.