La Storia di Glauco: Capitolo 9

 

Capitolo 9 - La fortezza

Glauco e Giovino si avvicinarono a piedi alla fortezza e il giovane osservò con timore reverenziale la struttura che era stata la casa e il quartier generale di suo padre in Germania. Porte di quercia che sembravano spesse come un albero scoraggiavano i visitatori, così come i soldati armati nelle torri di pietra che svettavano in alto sopra le loro teste. Mura di pietra massicce si allungavano in entrambe le direzioni con altre torri ad ogni angolo. Il luogo era enorme e assolutamente intimidatorio. Egli quasi non notò nemmeno le profonde trincee con pali acuminati e le aggrovigliate barriere di rovi ai piedi delle mura.

 

- Aveva quest’aspetto ai tempi di mio padre? - sussurrò Glauco.

 

Giovino rise.
- Sì, all’esterno non è cambiata per niente da quando Massimo era qui.

 

Glauco ritrovò la voce.
- E’ opera tua, vero?

 

- Sì, proprio mia, - disse il vecchio con orgoglio. - E c’è molto che non hai ancora nemmeno notato. Difese nascoste che scoraggiano tutti tranne gli assalitori più coraggiosi… o più avventati… - Giovino guardò in su le torri. - Quanti soldati ci sono?

 

- Uhm… Una ventina, direi.

 

- Spero di conoscerne almeno uno, - disse Giovino mettendosi le mani a coppa intorno alla bocca, e gridò. - Sono Giovino, l’ingegnere che costruì questo posto e servì sotto il generale Massimo! Ho delle cose da fare qui!

 

Glauco vide i soldati guardarsi l’un l’altro, poi uno avanzò e si sporse. Annuì alle sentinelle sue compagne e gridò:
- Chi è l’uomo con te, Giovino?

 

- Il figlio di un amico. Si chiama Glauco e voglio mostrargli la mia opera!

 

Dopo altro consultarsi, i cancelli massicci lentamente si aprirono stridendo e a poco a poco l’interno dell’accampamento si svelò a Glauco. La prima cosa che notò furono le basse baracche rettangolari di pietra situate in posizione molto arretrata rispetto alle mura. Sembravano allungarsi all’infinito in entrambe le direzioni. Glauco fece un passo avanti per avere una veduta migliore e fu bruscamente fermato da una mano sul proprio petto. Si ritrovò a guardare dritto negli occhi di un soldato con elmo ed una spada che gli oscillava al fianco.

 

- Non fare un altro passo, - ringhiò la guardia.

 

- Nossignore, - rispose Glauco con quello che sperava un misto di deferenza e cortesia.

 

- Chi sei?

 

- Io… mi chiamo Glauco e vengo dall’Ispania. Giovino è un vecchio amico di famiglia e io sono in  visita per la prima volta.

 

La guardia lo esaminò lentamente dalla testa ai piedi, uno sguardo accigliato leggermente perplesso sul viso. Continuò a studiare Glauco mentre si rivolgeva a Giovino.
- Che cos’è che gli vuoi mostrare, vecchio?

 

- L’accampamento, col tuo permesso, soldato.

 

- Non c’è nessuno qui in questo momento, come puoi vedere. Gli puoi mostrare tutto tranne il pretorio e il principia[1].Quelli vi sono vietati.

 

- Ah… speravo di mostrare al ragazzo la casa che costruii per il generale Massimo. E’ proprio unica per un accampamento romano e io ne sono molto orgoglioso.

 

- Il generale Vesnio non c’è ma ci aspettiamo che rientri presto.

 

- Tanto meglio, allora, perché non lo disturberemo.

 

- Il pretorio è vietato ai civili, Giovino, e tu lo dovresti sapere.

 

- Io non sono esattamente un civile, soldato. Sono un soldato in pensione, come ben sai.

 

- Il tuo giovane amico non lo è. - La guardia squadrò la tunica nera. - O accettate queste condizioni o ve ne andate.

 

Glauco strattonò il braccio dell’uomo più anziano giacché sembrava sul punto di mettersi a discutere con la guardia.
- Va bene, soldato. Grazie per avermi concesso di vedere l’accampamento. Sbrighiamoci, Giovino.

 

- Avete un’ora, - disse la guardia girando loro le spalle, ovviamente convinto della loro inoffensività.

 

Cominciarono a discendere la strada perimetrale e Giovino sibilò.
- Credevo che volessi vedere il dipinto di tuo padre.

 

- Certo, - sussurrò Glauco.

 

- Bene allora, avresti dovuto lasciarmi negoziare con lui.

 

- Stava per buttarci fuori. Fammi vedere il più possibile, poi tenteremo ancora. - Glauco si guardò intorno e scosse la testa meravigliato. - Non riesco a credere d’essere qui. Questo è l’accampamento di mio padre. Non importa dove guardi, tutto qui sembra esattamente lo stesso; strade dritte ed edifici di pietra ovunque. E’ a forma di griglia proprio come le città.

 

- Gli accampamenti sono progettati per l’efficienza, non per la bellezza. Vieni. Cammineremo sul perimetro esterno poi cercheremo di avvicinarci al pretorio. Conosco ancora degli uomini qui. Vedremo chi è a guardia del cancello del pretorio.

 

- Alcuni di loro erano soldati sotto il comando di mio padre?

 

- Pochi, ma possono non essere qui oggi.

 

- Potrebbe essere una buona cosa.

 

- Non se vuoi entrare all’interno del pretorio. - Mentre camminavano, Giovino indicava le stalle di pietra, il cantiere, i bagni pubblici e la prigione, ma gli occhi di Glauco erano costantemente attratti dall’area leggermente elevata e circondata da un muro nel centro dell’accampamento, e dal tetto di tegole della casa di pietra che era stata di suo padre. Ascoltava Giovino mentre gli raccontava che le baracche erano state costruite sin dai tempi di suo padre, quando le truppe vivevano in tende perché erano costantemente in movimento, e il giovane si risentì un pochino del fatto che qualche cambiamento fosse stato fatto all’accampamento di suo padre, nonostante capisse quanto fosse ridicolo. Massimo se n’era andato da diciotto anni e la vita era continuata senza di lui.

 

- Non stai prestando attenzione, - ammonì Giovino.

 

- Scusa. Sono troppo… non lo so… eccitato. Agitato. L’ho aspettato tanto e non riesco a credere di essere davvero qui. - Guardò di nuovo verso il pretorio. - Chi viveva là dentro con mio padre?

 

- Il suo servitore, Cicero, viveva là con lui e chiunque di altissimo grado legionario con cui tuo padre avesse bisogno di consultarsi regolarmente. - Giovino esitò, poi aggiunse. - Quinto viveva là… il legato di tuo padre.

 

Glauco si fermò, un cipiglio perplesso sul suo giovane viso.
- Quinto… ho già udito questo nome. Non riesco a ricordare…

 

Giovino gli afferrò il braccio per farlo continuare a muovere.
- Discuteremo di Quinto stasera a casa mia, non qui. Sbrighiamoci. - I due uomini svoltarono sulla via principalis che li avrebbe portati dritti oltre il pretorio ed il principia, il quale era il quartier generale dei legionari, che conteneva gli stendardi della legione e l’ufficio del comandante. - Cammina lentamente, - comandò Giovino sottovoce, - e vediamo se incontriamo qualche vecchio amico.

 

Le parole non gli erano ancora uscite di bocca che fu chiamato da una guardia del pretorio.

- Giovino, vecchio. Che cosa ti porta qui?

 

- Abito, sei tu? La mia vista non è più così buona.

 

- Sono proprio io.

 

Un largo sorriso si aprì sul viso rugoso di Giovino.
- Sto solo mostrando la mia fortezza al mio giovane amico che viene dall’Ispania. Abito, sono felice di presentarti Glauco. Massimo… Decimo… Glauco, - disse, enunciando ogni parola separatamente e deliberatamente.

 

Glauco lanciò un’occhiata allarmata al vecchio, ma il viso di Giovino era calmo e disinvolto. Tornò a guardare il soldato che si era allontanato sorpreso dalla sua postazione. Glauco mantenne la propria posizione mentre l’uomo armato veniva dritto verso di lui e gli afferrava il mento barbuto. Gli occhi del soldato si dilatarono e la sua bocca si aprì e si chiuse senza emetter suono, come quella d’un pesce appena pescato. Alla fine ritrovò la voce.
- Suo figlio è vivo? - chiese con meraviglia. All’annuire di Glauco l’uomo urlò di gioia attirando l’attenzione delle guardie sue compagne, poi afferrò le spalle di Glauco e lo scosse ridendo trionfante. - Ragazzo mio, - disse, - tuo padre era l’uomo migliore che io abbia mai conosciuto.

 

- Grazie, signore, - disse Glauco ricacciando il groppo che minacciava di nuovo di formarglisi in gola.

 

Abito si guardò intorno, con aria cospiratoria, poi attirò Glauco verso il pretorio.
- Vieni dentro, vieni dentro.

 

- Ah… le guardie al cancello… - cominciò Glauco.

 

- Ci farebbe piacere, - lo interruppe Giovino mettendo la mano sulla schiena di Glauco, e gli diede una leggera spinta. - Sei guardia anziana ora, vero, Abito? Un veterano?

 

- Puoi scommetterci. Non preoccuparti di nulla. Vuoi vedere dove viveva tuo padre, Glauco?

 

- Sì, signore. Moltissimo.

 

- Ti farò fare un giro, - disse Abito e mormorò “il figlio di Massimo” alle altre guardie mentre faceva strada a Glauco attraverso il cancello del pretorio.

 

 

 

 

 

Lo stomaco di Glauco era sottosopra. Il momento che aspettava da cinque anni era finalmente giunto. I suoi occhi erano inchiodati alla porta di quercia principale della casa di pietra nonostante le chiacchiere di Abito sulla storia del pretorio romano. Finalmente Abito spinse la porta e fece entrare Glauco nell’atrio della casa. Egli passò sul pavimento di cemento decorato a mosaico che i piedi di suo padre avevano calpestato innumerevoli volte. Inspirò a fondo, poi espirò molto lentamente voltandosi verso Giovino con un sorriso.

 

- Felice? - chiese il vecchio inutilmente.

 

Glauco riuscì solo ad annuire poi ascoltò educatamente mentre Giovino descriveva le qualità della casa che aveva costruito. Era fondata sullo schema romano, disse, il che era ovvio per Glauco ma egli annuì con interesse. Era costruita col calcare locale e gli artigiani di Vindobona avevano fornito tutto il lavoro di metallurgia. Le tegole rosse del tetto erano state importate dalla Gallia, tuttavia, poiché niente di simile era disponibile in quest’area.

 

Mentre avanzava verso il piccolo cortile, Giovino gli raccontò del tempo in cui l’atrio era stato usato come ospedale per ricoverare i feriti dell’attacco a Vindobona. Glauco non aveva bisogno di sentirsi dire che era stato durante quell’attacco che suo padre era stato ferito quasi fatalmente e il figlio di Giovino era morto. Dopo, suo fratello si era ammalato e qui era stato curato. Guardò l’atrio vuoto e cercò di immaginarlo pieno di brande e pazienti e dottori. Cercò di immaginare i rumori e gli odori che una volta avevano riempito quel luogo tranquillo.

 

Il cortile includeva due panche e un tavolo di pietra vicino ad una piccola vasca che raccoglieva acqua piovana. Era circondato da un colonnato di colonne di pietra e Glauco poté immaginare suo fratello che giocava lì, con i suoi genitori rilassati sulle panche.

 

- …tutto riscaldato dal sotterraneo, - Glauco udì Giovino dire, e mentalmente si riscosse per potersi concentrare sulle parole dell’uomo. - Era piuttosto inusuale da queste parti a quel tempo, ma molto più comune in questi giorni. Ho costruito molti di quegli edifici pubblici di pietra in Vindobona, perciò lo so bene.

 

Giovino finalmente si fermò davanti ad una solida porta intagliata e Glauco seppe che quella era la camera da letto del padre… e che c’era il suo ritratto proprio oltre la porta. Giovino gli sussurrò all’orecchio. - Guarda direttamente alla tua destra appena entri, - e aprì la porta perché il giovane lo precedesse. Subito cozzò contro Glauco che si fermò di botto non più di un passo dentro la stanza da letto.

 

Il giovane era silenzioso… totalmente sopraffatto, pensò Giovino.

 

- Non c’è, - disse Glauco, la voce spenta. - Non c’è nemmeno l’altro. Sono stati sovradipinti.

 

- Cosa! - strillò Giovino spingendolo da parte per entrare nella stanza. Socchiuse gli occhi davanti al muro, ma non riuscì a vedere nient’altro che biancore attorno all’arazzo appeso là. Infuriato, Giovino girò su se stesso e si trovò di fronte Abito.
- Chi è stato?

 

- Non sapevo che cosa stavate cercando, - disse la guardia sulla difensiva. - Avrei potuto avvisarvi. I dipinti sono stati coperti da anni. L’imperatore Settimio Severo ordinò di sovradipingerli quando fu generale qui anni fa, prima che marciasse su Roma. Molti generali hanno vissuto qui dopo Massimo.

 

Glauco era inebetito. Alla fine staccò lo sguardo dal muro bianco e guardò il mobilio nella stanza. Era estremamente ricercato, con un velo d’oro che copriva ogni superficie. Non riusciva a figurarsi che a suo padre piacessero quelle cose. I suoi sospetti furono confermati quando Abito disse: 
- Niente qui dentro apparteneva a tuo padre. Settimio fece bruciare tutto il suo mobilio.

 

La furia salì nelle membra di Glauco.
- Ebbene, non ci possiamo aspettare che un generale viva con la faccia di un traditore che lo fissa, vero? - articolò con amarezza. - Non ci possiamo aspettare che tocchi le cose di un traditore.

 

- Nessuno crede… - cominciò Abito.

 

- Oh sì, lo credono. Molti lo credono, - ringhiò Glauco mentre lentamente si dirigeva verso il muro dove il ricordo di sua madre e suo padre era stato totalmente distrutto da pochi colpi di pennello. - Giovino, mia madre dipinse su intonaco secco o intonaco umido?

 

Giovino capì quel che stava pensando.
- Intonaco umido. Posammo un altro strato sui muri affinché lei potesse dipingere degli affreschi.

 

Glauco era già in ginocchio a grattare la pittura bianca con le unghie. Dopo un po’ di sforzi, la pittura si sfaldò, rivelando del colore al di sotto. Glauco si alzò e fissò il muro mentre parlava ai due uomini dietro di lui.
- Lui è ancora qui. E’ solo velato … nascosto… ma è ancora qui. Con tempo e pazienza potrebbe essere rivelato di nuovo. - All’improvviso Glauco rise mentre si rendeva conto che il muro era una calzante metafora della sua ricerca del padre. - Quanto era alto il murale, Giovino? Dove dovrebbe essere il suo viso?

 

- Era ad altezza naturale e lui era seduto sul suo stallone nella porzione centrale del muro.

 

Glauco sollevò l’arazzo e scrutò dietro di essa.

 

- Adesso aspetta un momento, - ammonì Abito. - Non posso lasciarti cominciare a scrostare il muro. Questa stanza appartiene al generale Vesnio ora. Ti ho fatto entrare qui per guardare, ma non puoi toccare niente.

Glauco lasciò ricadere l’arazzo ed esso tornò morbidamente a posto contro l’intonaco dipinto.
- Grazie per avermi permesso di vedere la casa, signore. Molte grazie. Non disturberò ulteriormente. Tutto ciò che qui è rimasto davvero di mio padre è la struttura della casa. Non vedo altro che mi faccia pensare a lui.

 

Giovino aveva l’aria devastata e Glauco gli batté sulla spalla con gentilezza.
- Nessun uomo può riportare indietro il tempo, Giovino. Mio padre è andato via da questo luogo da molto tempo.

 

- Lo costruii per lui… - la voce di Giovino venne meno.

 

- Lo so. Andiamo. - Glauco prese il braccio di Giovino e lo guidò fuori anche se il vecchio conosceva la strada meglio di lui.

 

Una volta fuori della porta Glauco aspirò a fondo l’aria fresca nei polmoni per placare la nausea nello stomaco. Uscì dal pretorio, ignorando le guardie che vi si erano radunate e lo fissavano. Ignorò anche le guardie al portone che sussurravano tra di loro mentre lui si avvicinava. Ignorò gli stallieri, i fabbri ferrai e i cuoiai che lo fissavano con stupore e timore riverente.

 

Era già in fondo alla strada che portava alla casa di Giovino quando andò in pezzi e scoppiò a piangere angosciato.

 

 

 

 

Più tardi, quella sera, i due uomini sedettero nel cortile di Giovino bevendo vino poco diluito, finché entrambi furono alquanto ubriachi. Zeus se ne stava allungato sulla ghiaia ignorandoli meglio che poteva.

 

- Scusa, non lo sapevo, - continuava a borbottare Giovino. - Avrei dovuto saperlo.

 

- Va tutto bene, Giovino, - Glauco cercò di rassicurarlo. - Va tutto bene. Un giorno riavrò quei murali, anche se dovessi… arruolarmi io stesso nell’esercito. Striscerò là di notte quando il generale Vesu… Vensiv… quando il generale starà dormendo e scrosterò da me quella pittura. - Sospirò profondamente. - Giovino, hai menzionato un uomo chiamato Quinto, oggi. Hai detto che mi avresti pparlato di lui. Che cosa ha a che fare con mio padre? Rrricordo di aver già udito il suo nome. - Con sorpresa di Glauco, Giovino sputò in terra.

 

- Quinto, bah! Spero che quell’uomo sia morto d’una morte orribile. No… no… Spero che stia marcendo in prigione desiderando d’essere morto! - Gli occhi lattiginosi di Giovino erano iniettati di sangue ora, facendoli apparire di un bizzarro colore rosato. - Era il legato di tuo padre. Si conoscevano da quando da ragazzi erano insieme nell’esercito. Quinto era sempre geloso di tuo padre perrrché lui diventò generale e Quinto non ci riuscì mai. Era di una famiglia romana d’alto ceto e loro si aspeta… si aspettavano che facesse di meglio, capisci? - Glauco annuì e ruttò. - Avrebbe fatto qualunque cosa per raggiungere un grado più elevato, capisci? Così, quando tuo padre sconfisse Commodo, quell’animale ordinò a Quinto di arrestarlo… e lui lo fece. Commodo fece Quinto prefetto dei suoi pretoriani ed essi partirono per Roma nel mezzo della notte, prima che i soldati venissero a conoscenza di quel che era successo a tuo padre. Quel vigliacco bastardo. Sapeva che se restava, noi l’avremmo usciso. - Giovino batté sul tavolo con furia, quasi ruzzolando dalla sua panca per lo sforzo.

 

- Mio padre oppose resistenza a Commodo? - Giovino annuì con vigore. - Perché?

 

- Perrrché aveva ucciso l’imperatore e tuo padre lo sciapeva. Massimo non avrebbe mai sostenuto un tal uomo. Tuo padre doveva escere imperatore, non lui.

 

- Commodo uccise il proprio padre? Sei sicuro? - Giovino annuì con vigore. - Devo trrovare Quinno, - disse Glauco con tutta la spacconeria che riuscì a mettere insieme nel suo stato d’ebbrezza. - E’ a Roma?

 

- E’ la che andò con Commodo. Non sciò dove sia adesso.

 

- Ucciderò Quinno. Merita di morire per aver tradito mio padre.

 

- Uccidilo anche per me, - bofonchiò Giovino mentre i suoi occhi si chiudevano e la sua testa ricadeva.

 

- Sciei ubriaco! - rise sguaiato Glauco.

 

- Non è vero, - disse Giovino indignato, proprio prima di scivolare giù dalla panca, la sua caduta bloccata dal movimento sorprendentemente lesto di Glauco nonostante la sua egualmente discutibile condizione. Egli raccolse il vecchio tra le braccia e barcollò fino alla camera di Giovino, dove depositò il corpo floscio sul materasso di paglia e gli tirò sopra una coperta, prima di perdere l’equilibrio e ruzzolare sul pavimento accanto al letto, la sua caduta fermata dal tappetino di lana. Immediatamente si appallottolò e, poco dopo, il suo russare si unì a quello di Giovino. Zeus li squadrò entrambi dal vano della porta, poi decise di dormire nel meno affollato, e molto meno rumoroso, atrio.

 

 

 

 

Glauco gemette poi rotolò a pancia in su, la bocca che sembrava imbottita di cotone e la testa che gli si spaccava in due con un dolore che rivaleggiava con il disagio nella schiena indolenzita. Prima di riuscire a sollevare le palpebre incrostate, una lingua umida gli bagnò il viso. Alzò un braccio e lo avvolse sul corpo peloso sdraiato accanto a lui sul pavimento. Gemette ancora e fu leccato di nuovo. Lentamente si trascinò su un gomito, gli occhi proprio a livello del letto, dove vide Giovino ancora addormentato profondamente. Crollò di nuovo sul pavimento e gemette ancora. Non si era ubriacato così da quando i suoi fratelli maggiori gli avevano fatto bere quella bottiglia di vino non diluito per il suo sedicesimo compleanno. Quella volta aveva passato il giorno dopo a vomitare e aveva sperato di evitare una ripetizione dell’impresa. Lasciò che i suoi occhi si richiudessero di nuovo, poi schizzò dal pavimento quando Zeus gli abbaiò nell’orecchio prima di affannarsi verso la porta d’entrata. Glauco si costrinse a sedersi. L’abbaiare continuò. Cercò di mettersi in piedi e barcollò fino all’atrio dove spalancò la porta, momentaneamente accecato dalla luce del sole del mattino. Sollevò una mano per ripararsi gli occhi e la figura di una giovane donna emerse gradualmente dalla vivida luce. Era bellissima e lui si sentì uno stronzo. Coscienziosamente si lisciò la tunica stazzonata e si fissò le dita dei piedi, rendendosi conto che aveva perso i sandali chissà quando durante la notte.

 

- Allora… è vero, - disse la voce musicale.

 

- Mia signora?

 

- Il figlio del generale Massimo è venuto in Germania.

 

Glauco inconsciamente imitò Giovino e socchiuse gli occhi guardando la ragazza. Non aveva più di diciassette o diciotto anni, con lunghi riccioli castano dorato che le ricadevano sulla schiena da un elaborato fermaglio sulla nuca. La pelle era perfettamente bianca come panna e la sua bocca era un piccolo broncio rosa.

 

- Sei la favola della città… Glauco, vero?

 

- Sì, mia signora. E tu sei…

 

- Katerina.

 

Egli attese che ella completasse il suo nome ma non lo fece.

 

- Katerina. Che cosa posso fare per te, Katerina?

 

- Hai l’aria di aver avuto una notte turbolenta, - sogghignò mentre si abbassava per accarezzare Zeus che le stava annusando la gonna. - Non hai proprio l’aspetto con cui ti avevano descritto… ma sono certa che l’avrai dopo un bagno e un cambio d’abiti. - Si fermò per tirar su da terra una cesta di legno e gliela buttò tra le braccia. - Il bucato di Giovino. Forse puoi trovarci qualcosa da indossare.

 

- Ah… ti chiederei di entrare mia signora, ma Giovino sta ancora dormendo e potrebbe continuare per un po’.

 

- Non sono venuta per vedere Giovino. Quanto tempo resterai a Vindobona?

 

- Ancora qualche giorno, forse.

 

- Bene, allora, perché non vieni a farmi visita? Sono sicura che troveremo molto di cui parlare.

 

Glauco aveva avuto un sacco d’esperienza con donne sfrontate, ma poche erano state belle come questa. Si passò una mano tra i capelli in un futile tentativo di allontanare il pesante ciuffo dalla fronte. Vide gli occhi di Katerina guardarlo ricadere di nuovo e la vide ridacchiare. Ella si chinò in avanti e sussurrò:
- Spero che non tutte le parti del tuo corpo si comportino come i tuoi capelli.

 

L’aveva udita bene?
- Mia signora?

 

- Perché non passi presto, Glauco? Stasera mi andrebbe bene. Posso cucinarti la cena. - Gli diede uno sguardo d’apprezzamento finale prima di girarsi aggiungendo. - Mio padre era un soldato sotto il comando di tuo padre.

 

Ciò catturò la sua attenzione come lei sapeva che avrebbe fatto.
- A che ora, mia signora?

 

- Quando preferisci, - disse da sopra la spalla andandosene, ondeggiando i fianchi in modo provocante. - Starò là tutto il giorno.

 

- Dove?

 

- L’ultima casa sulla destra appena prima di entrare in città.

 



[1] Quartier generale (N.d.T.)