La Storia di Glauco: Capitolo 8

 

Capitolo 8 - Giovino

Glauco montò su Ultor e ignorò i curiosi che si erano radunati per ammirare il magnifico animale. Si sparpagliarono in fretta quando lui fece girare il cavallo dirigendosi a nord sulla strada centrale. Come tutte le città romane, questa era circondata dalle mura e si estendeva su un piano a forma di griglia con porte ai quattro punti in cui le due strade e le mura s’intersecavano. In posizione centrale era situato l’affollato mercato, dove le donne compravano generi alimentari per i pasti quotidiani e i venditori smerciavano di tutto, dalla stoffa a piccoli animali ad armi. Gli artigiani locali che lavoravano metallo, pelli e ceramiche avevano bancarelle sul perimetro esterno, ma i mercanti vendevano anche oggetti di chiara fattura romana e greca. Glauco si meravigliava di quanto simili fossero in realtà tutti i luoghi dell’impero. Anche la maggior parte degli edifici pubblici del centro città a Vindobona erano di pietra con tetti di tegole rosse e colonnati sostenuti da colonne corinzie decorate. Statue di bronzo e di pietra della dea Epona[1], una dea-cavallo celtica, raffigurata in sella di lato o posta tra due cavalli, abbellivano gli edifici. Nessuna meraviglia che la gente avesse ammirato tanto Ultor.

 

Un’alta colonna di calcare si ergeva vicino al centro della città. Il fondo, una larga pietra a quattro lati, era scolpito con immagini della dea romana, Giunone. Sulla sommità della colonna scolpita in modo intricato c’era una figura a cavallo la cui metà superiore era umana e quella inferiore consisteva in due serpenti intrecciati.

 

Mentre Glauco si dirigeva a nord, tuttavia, gli edifici cominciarono a cambiare. I pubblici edifici di pietra in stile romano scomparvero. La strada era punteggiata da entrambi i lati di abitazioni individuali e qui, la gente si era affidata a strutture e materiali da costruzione tradizionali. Le case erano fatte di legno, con solidi pali verticali che supportavano muri di travi di legno e tetti di paglia. L’esterno di alcune di quelle costruzioni rettangolari era coperto di rami mantenuti fermi da argilla per tenere fuori l’umidità e il vento. Queste case erano simili alle fattorie che aveva incontrato lungo la strada mentre si avvicinava a Vindobona.

 

Gli occhi di Glauco esaminarono la strada di ciottoli mentre si avviava verso il fiume. Quante volte suo padre aveva percorso proprio questa stessa strada? Il suo cavallo aveva toccato le stesse pietre? Glauco sollevò il viso. Suo padre aveva guardato gli stessi alberi, sentito un identico vento, odorato i dolci fiori selvatici? Per qualche ragione, Glauco si sentiva ancor più vicino a Massimo qui, vicino al suo accampamento base di quanto lo era in Ispania. Forse perché era qui che Massimo aveva trascorso tanti anni della sua vita adulta… o perché era qui che era stato tradito.

 

Glauco strattonò di colpo Ultor, e il cavallo sbuffò con disappunto. Proprio lì davanti c’era una casa di solida pietra, ad un solo piano, con un tetto di tegole rosse e una facciata vuota eccetto che per poche finestrelle in alto nel muro. Romana… non c’era alcun dubbio su questo. Doveva appartenere all’ingegnere, Giovino. La casa era posta molto indietro rispetto alla strada, in una radura d’erba alta circondata da grandi querce e pini. Se non avesse saputo altrimenti, avrebbe quasi detto che sembrava deserta, con nessun segno esteriore di cura. Glauco smontò, legò Ultor ad un albero lontano dalla strada e ordinò a Zeus di restare col cavallo.

 

Si avvicinò all’edificio con cautela, facendosi strada nel sentiero coperto di vegetazione mentre le erbacce gli schiaffeggiavano le ginocchia. Somigliava ad una fortezza. Era alquanto inospitale, ed egli quasi si aspettava che frecce infuocate gli piovessero addosso. Mentre stava su un solo piede e si sfilava un’erbaccia dal sandalo, bussò tre volte sulla robusta porta di quercia, poi si tirò via le erbacce dalla tunica. Dopo alcuni istanti senza aver risposta, bussò ancora. Ancora nessuna risposta. Non era in casa Giovino?

 

Tra le alte erbacce Glauco aggirò il lato meridionale della casa, il cui muro di pietra era imponente come il davanti. Non vi era modo di capire se c’era qualcuno all’interno. Le sue orecchie percepirono un suono, comunque, ed egli lentamente si avvicinò al retro della casa. Posando la mano sul muro scaldato dal sole, guardò dietro l’angolo sul retro della proprietà. Un uomo anziano zappava   furiosamente le erbacce che minacciavano di soffocare le piante macilente nel suo piccolo orto. Non volendo far spaventare l’uomo, Glauco si schiarì la gola. Nessuna reazione. Tossì. Ancora nessuna reazione. Quel vecchio era forse duro d’orecchi come lo era stato il nonno? Indugiò vicino all’angolo della casa finché l’uomo finalmente si mise le mani sulle reni e si raddrizzò poi si girò. Era basso e tarchiato con un ventre ampio e braccia e gambe scarne. Nonostante sembrasse guardare dritto verso di lui, Giovino non sembrò notarlo. Glauco calcolò che la sua età fosse sulla sessantina dal momento che i suoi radi capelli erano grigi e il suo viso sbarbato era solcato da rughe profonde, con mascelle carnose e un naso a patata. La sua tunica di lino era lunga e fuori moda e imbrattata di fango, ed egli aggiunse un altro strato di sudiciume passandosi le mani sui fianchi. Glauco si mosse leggermente e Giovino finalmente si accorse del visitatore. Immediatamente sollevò la zappa per difendersi e Glauco represse un sorriso. Si rivolse all’uomo gridando a gran voce:
- Sono venuto da amico in cerca di informazioni, signore.

 

L’uomo anziano si portò all’orecchio una mano a coppa e Glauco ripeté le sue parole, più forte questa volta, mentre avanzava lentamente. Giovino abbassò la zappa e socchiuse gli occhi. Glauco si mosse con lentezza, le mani leggermente lontane dai fianchi per mostrare che non aveva cattive intenzioni.
- Ti chiami Giovino, signore?

 

- Chi vuole saperlo? - La voce era forte con nessuna traccia del tremolio di quella d’un vecchio.

 

- Glauco, il mio nome è Glauco. - Egli continuava ad avvicinarsi.

 

- Che razza di nome è Glauco? Qual è il nome della tua famiglia? - interrogò.

 

- Sono venuto in cerca di informazioni, signore. - Si avvicinò ancora, il sole del pomeriggio che gli illuminava il viso.

 

Giovino socchiuse ancora gli occhi ma c’era un’esitazione nelle sue parole adesso e un cipiglio perplesso stupito sul suo viso.
- Non parlo a nessuno che non mi dice il suo nome.

 

Glauco si avvicinò abbastanza da toccare l’uomo più anziano e disse nella sua voce profonda, rombante:
- Sono venuto dall’Ispania. Il mio cognome è Decimo.

 

Giovino chiuse gli occhi e annaspò, il suo incespicare trattenuto dal forte braccio di Glauco.
- Dimmi, - sussurrò. - Dimmi di più. - domandò, gli occhi ancora chiusi.

 

- Sono venuto in cerca di informazioni. Mi è stato detto dal prefetto di Vindobona che tu potresti essere in grado di aiutarmi.

 

Giovino aprì gli occhi e sbatté le palpebre, un velo oscurandogli la limpidezza dello sguardo. Prese il viso di Glauco tra le sue mani contorte dall’artrite e sussurrò esitante:
- Marco?

 

Glauco ansimò.
- Nossignore, non sono Marco.

 

Il vecchio ammiccò con occhi lattiginosi e si spostò così vicino che i loro corpi quasi si toccarono, studiando il viso del giovane meglio che poté.
- Hai la sua voce, sei il suo ritratto.

 

L’emozione serrò la gola di Glauco ed egli inghiottì alcune volte prima di riuscire a continuare.
- Marco era mio fratello, signore. E’ morto molti anni fa.

 

Giovino afferrò le braccia dello straniero, gli occhi annebbiati del vecchio che gli esaminavano il viso, cercando la verità.
- Tuo padre. Sei il ritratto di tuo padre. Hai la sua voce. Qual è il tuo nome completo?

 

- M-Massimo Decimo Glauco, signore. - Glauco inciampò sul nome che non usava mai e chiuse le mani a pugno per controllare il suo tremore. - Io… io sono il figlio più piccolo del generale Massimo Decimo Meridio.

 

Le mani adunche di Giovino affondarono nelle braccia di Glauco e l’uomo rudemente tirò a sé il giovane, posando la testa sul cuore di Glauco.
- Non mi mentiresti. Non diresti una tal vile bugia ad un vecchio.

 

- No, signore. Io sono il figlio del generale Massimo.

 

Giovino esaminò di nuovo il suo viso.
- Qual era il nome di tua madre? - chiese con disperazione.

 

- Olivia. Mio fratello, Marco, aveva circa cinque anni quando lo conoscesti qui. Morì quando aveva circa otto anni, insieme a mia madre. Furono assassinati.

 

Giovino diede un’occhiata in giro alla sua proprietà sebbene i suoi occhi non potessero rilevare null’altro che ombre indistinte. Strattonò le braccia di Glauco e sussurrò:
- Dobbiamo andare dentro dove è più sicuro. Vieni con me. - Aprì spingendola una porta di legno in un alto muro di pietra e scortò Glauco in un piccolo giardino di fiori ravvivato da farfalle, api, colore e profumo. Sebbene imponente dall’esterno, la casa era sorprendentemente accogliente all’interno. Al di là del giardino c’era un semplice cortile con un tavolo e delle panche di pietra, e dopo quelli, l’atrio piastrellato. Una piccola cucina si trovava sulla destra dell’atrio e sulla sinistra c’erano quelle che sembravano due camere da letto. Tutto era compatto, pulito e ordinato.

 

Quando raggiunsero il cortile Giovino stava ansimando per un misto di sforzo ed eccitazione. Indicò una panca, ma prima Glauco aiutò lui a sedersi, timoroso che il vecchio potesse morire davanti ai suoi occhi. Giovino gli afferrò le mani attraverso il tavolo di pietra.
- Hai le sue mani… molto grandi e ben fatte… hai la sua voce, hai il suo viso. - Scosse la testa meravigliato. - Non posso crederci. Credevo che la famiglia fosse stata distrutta quando il piccolo Marco fu ucciso. - Il suo tono cambiò in ira omicida. - Commodo! - sputò. - Quel bastardo figlio di puttana. Lui ha ucciso tua madre e tuo fratello.

 

- Sì, signore. Lo so. Ma… Non so quel che accadde a mio padre. Sono venuto qui in cerca di informazioni su di lui.

 

- Quanti anni hai, figliolo?

 

- Venti, signore. Ne compirò ventuno il mese prossimo.

 

- Venti. Conobbi tuo padre quando aveva vent’anni. - Giovino si sedette all’indietro e fissò il cielo, i suoi occhi lattiginosi non vedendo nulla, tranne la luce. Glauco si rese conto che i pensieri dell’uomo erano tornati alla giovinezza di suo padre ed era più che disposto ad ascoltare qualsiasi cosa egli avesse da dire. - Tuo padre era un ragazzo quando lo vidi per la prima volta. Un ragazzo intelligente… forte, capace, bello. Aveva un temperamento, però… qualcosa che riuscì a controllare con l’età matura. Tutti sapevamo che era destinato alla grandezza. Marco Aurelio lo capì. Tutti noi lo capimmo. Nessuno era più felice di me di vederlo scalare i gradi così in fretta. Qualcuno di noi pensava che era destinato a cose ancor più grandi dell’essere generale.

 

Glauco era perplesso.
- Che cosa intendi, signore?

 

Giovino si limitò a scuotere la testa tristemente.
- Non doveva essere. Comodo lo distrusse. Comodo distruggeva ogni cosa che lui toccava. - Giovino all’improvviso colpì furente il tavolo poi le sue emozioni fecero un improvviso dietro-front ed egli rise allegramente a voce alta. - Credeva di aver distrutto tutta la famiglia di Massimo ma ha tralasciato te, vero? - Si piegò verso Glauco e sibilò. - Ora tu vendicherai la morte di tuo padre. Ripristinerai il suo buon nome.

 

- Intendo farlo, signore… ma devo sapere che cosa gli accadde, prima.

 

- Quanti anni avevi quando lui morì?

 

- Io non so quando morì, o dove morì… o persino se sia morto. Avevo due anni quando mia madre e mio fratello furono assassinati.

 

- Massimo non ha mai menzionato un secondo figlio. Era talmente orgoglioso della sua famiglia, sono certo che l’avrebbe fatto. Sei sicuro di non essere un bastardo?

 

Glauco non poté fare a meno di ridere.
- No, sono nato da genitori sposati. Mia madre era la moglie di mio padre, Olivia. Mio padre non sapeva di me perché mia madre scelse di non informarlo. Sono nato nel luglio del 177… circa sette mesi dopo che mio padre era tornato in Germania.

 

- Ah… ecco il motivo per cui sei vivo, allora. Se Massimo avesse saputo di te, anche tu saresti morto, adesso.

 

- Qualche volta non sono certo che non l’avrei preferito. Essere con loro… tutta la mia famiglia... anche nella morte.

 

Giovino afferrò Glauco e strinse forte.
- Questo è accaduto per una ragione, figliolo. Sei stato risparmiato per una ragione.

 

- Signore, c’è qualcuno che sappia che cosa gli accadde?

 

- Ahimè, no. - Giovino poteva intuire il disappunto del giovane e sorrise comprensivo. - Tutto quel che sappiamo di sicuro è che in qualche modo egli sopraffece e uccise tre pretoriani armati nonostante fosse disarmato e legato. Quello era il nostro Massimo! - Giovino rise ancora, ma subito ridivenne pensoso. - Dopo di che, non sappiamo.

 

Glauco non disse nulla.

 

Giovino gli batté un colpetto sulla mano.
- Stavi cercando delle risposte qui.

 

Il giovane annuì, poi disse “Sì” quando si rese conto che il vecchio non poteva vedere la sua risposta.

 

- Ebbene, io ho cercato delle risposte per gli scorsi diciotto anni e ora gli dei ti hanno mandato a fornirle.

 

- Io non ho risposte, - disse Glauco cupo. - Non ho altro che domande.

 

- Tu hai la mente e gli istinti e le forze di tuo padre. Troverai quelle risposte che cerchi. Devi avere pazienza.

 

- Hai almeno qualche idea su dove possa essere andato se qui sfuggì alla morte?

 

- Udimmo solo voci non confermate. Tuo padre fu presumibilmente visto ovunque, dalla Britannia all’Egitto, dopo che scomparve. Udimmo che fu catturato dai germanici e reso schiavo. Udimmo che era andato in Britannia ed era re di un piccolo regno laggiù. Udimmo che era in Gallia, risposato e con un’altra famiglia. Udimmo che era in Egitto, a vendere cammelli; che era a Roma da schiavo gladiatore; che era in Africa… - Giovino tirò su le mani. - Nient’altro che sciocchezze. E ci furono molte altre voci, tutte più ridicole di quelle.

 

- Non so da dove cominciare, - disse Glauco con semplicità.

 

- Sei venuto nel posto giusto per cominciare. Il luogo dove tuo padre era amato e rispettato più di chiunque io abbia mai conosciuto. Il suo ricordo vive ancora.

 

Glauco si morsicò l’interno del labbro inferiore e lanciò un’occhiata nel giardino.
- Ho udito che la gente qui pensa che sia un traditore.

 

- Bah, solo i pazzi lo pensano. Pazzi che non conoscevano tuo padre come lo conoscevo io. Sei già stato alla fortezza?

 

- No, signore. Sono arrivato solo oggi. Ho saputo di te dal prefetto in città.

 

- Allora ti dobbiamo far entrare là. Rimarrai qui stanotte e io ti ci porterò domani. Ti devo mostrare la casa che costruii per lui. E’ ancora in piedi.

 

- Ci faranno entrare, signore?

 

- L’esercito non è là. Lo so perché la mia casa è così vicina che riesco a udirli quando sono nell’accampamento. Ci saranno le sentinelle, naturalmente, ma di questi tempi le sentinelle possono essere facilmente convinte… o corrotte. Non era così ai tempi di tuo padre.

 

- Mio zio Persio…

 

- Mi ricordo di Persio. Simpatico giovane.

 

- Sì. Mi ha detto che mia madre dipinse dei murali sulle pareti della casa che tu costruisti per mio padre. Muoio dalla voglia di vederli. Io… voglio vedere che aspetto aveva mio padre.

 

Giovino sogghignò, i suoi denti sorprendentemente bianchi e forti.
- Allora devi solo guardare lo specchio, figliolo. Anche con la mia povera vista posso vedere la somiglianza. Se ti tagliassi i capelli corti come quelli del tuo papà spaventeresti un po’ di persone. Penserebbero che sei il fantasma di tuo padre.

 

- Signore…

 

- Chiamami Giovino come faceva il tuo papà.

 

Glauco annuì.

- Giovino… - esitò, timoroso di udire la risposta alla sua domanda, - tu pensi che sia morto?

 

Invece di rispondere, Giovino si alzò e scomparve nella piccola cucina. Fu presto di ritorno con del vino e due bicchieri colorati. - Che cosa vuoi udire?

 

- La verità.

 

L’uomo anziano servì il vino, facendone gocciolare solo un pochino sul tavolo di pietra.
- No… tu vuoi che io ti dica che credo che sia vivo dopo tutti questi anni, vero?

 

Glauco guardò di nuovo nel giardino.
- Suppongo.

 

- Vorrei poterlo dire.

 

Glauco sospirò e si portò il bicchiere alle labbra. Il suo stomaco era sottosopra ed egli non era certo se il vino gli avrebbe fatto male o lo avrebbe aiutato. I due uomini sedettero in silenzio per qualche istante poi Glauco disse:
- Il tuo giardino è incantevole, Giovino.

 

- Significa molto per me, quel giardino. E’ il luogo dove mio figlio cadde e morì quando i barbari attaccarono Vindobona anni fa. - Parlò senza emozione come se il tempo avesse lenito il dolore. Glauco si chiese se il tempo avrebbe mai lenito il suo dolore.

 

- Sono dispiaciuto, Giovino.

 

- Non esserlo. Morì per la miglior ragione possibile. Morì per salvare la vita di un uomo che egli amava molto.

 

Glauco si limitò ad annuire, non cogliendo il nesso e Giovino non intendeva che lui lo cogliesse. L’anziano uomo rabbrividì leggermente mentre il sole del crepuscolo tramontava dietro le sommità degli alti alberi. Glauco si slacciò in fretta il mantello e lo drappeggiò sulle spalle curve, la preziosa fibula ancora attaccata.
- Grazie, Massimo, - disse Giovino.

 

Sconcertato, Glauco restò accanto a lui, incerto se i pensieri del vecchio erano di nuovo tornati indietro nel tempo. Giovino percepì la sua confusione e alzò lo sguardo su di lui.
- Be’, è il tuo nome, no?

 

- Sì, lo è. Ma io non l’ho mai usato. Appartiene a mio padre, non a me.

 

- Appartiene anche a te.

 

- Non mi hanno mai chiamato così. Mi hanno sempre chiamato Glauco. I miei genitori adottivi temevano per la mia sicurezza e volevano celare la mia vera identità.

 

- Fu una cosa saggia. D’accordo, ti chiamerò Glauco, ma devi essere preparato a usare con orgoglio il nome di tuo padre… e il tuo… quando la tua ricerca sarà finita.

 

- Non sono sicuro di essere degno di quel nome.

 

- Lo sei e un  giorno lo saprai. - Giovino sorrise gentilmente. - Starai qui mentre sei a Vindobona, naturalmente. E’ talmente raro che riceva delle visita e avere il figlio di Massimo nella mia umile casa… ecco, è un grande onore.

 

- Grazie, Giovino. C’è un posto dove posso tenere in stalla il mio cavallo? Vale molto e attira parecchio l’attenzione. Ho anche un cane.

 

- Naturalmente. C’è un piccolo capanno sul retro della proprietà e sono sicuro che il tuo cavallo vi starà comodo. In quanto al cane… portalo dentro. Io curai il cane di tuo padre, sai, dopo che egli scomparve. Si chiamava…

 

- Ercole.

 

- Sì… un grosso lupo grigio. Il servitore di tuo padre, Cicero, teneva Ercole ma poi Cicero non tornò più da un viaggio a Roma quando fummo d’istanza ad Ostia dopo pochi mesi che tuo padre era scomparso, così io presi il cane e lo riportai indietro con me qui. Era una buona compagnia. Lo seppellii nel giardino.

 

- Il mio cane è della stessa linea di sangue, signore, e il cavallo di mio nonno generò i due cavalli di mio padre, - disse con orgoglio.

 

Giovino si alzò e diede un colpetto sulla spalla di Glauco.
- Le buone linee di sangue sempre si rivelano, ragazzo mio. Sei così assillante sul tuo cavallo quanto lo era tuo padre? Sapevi di quella volta che rischiò la vita per salvare uno di essi e dovette essere tratto in salvo dall’intera legione? L’imperatore stesso condusse quell’operazione. Marco Aurelio non avrebbe rischiato di lasciarla a nessun altro. Massimo si prese una bella lavata di capo a causa di questo… e se la meritava! - Giovino rise. - Ah, c’è così tanto da raccontarti…

 

-  Voglio sentire tutto.

 

- Ne sono sicuro. Ho aneddoti per anni su tuo padre. Vai a sistemare il tuo cavallo e porta dentro il tuo cane e passeremo la serata a chiacchierare, dopo che avrò preparato un po’ di cibo.

 

Glauco era nel giardino prima che Giovino finisse la frase.
- Torno subito, - urlò scomparendo dalla porta. - Non cominciare senza di me, - gridò al di sopra del muro mentre allungava il passo e correva verso i suoi animali, Zeus che agitava la coda pronto a salutare il suo padrone con la lingua umida.



[1] Dea protettrice dei cavalli e dei viaggiatori (N.d.T.).