La Storia di Glauco: Capitolo 6
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Mentre Glauco metteva le ultime poche cose nello zaino e tirava i lacci di cuoio, lanciava occhiate fuori dalla finestra per valutare il tempo. Il cielo limpido recava la promessa di un buon viaggio e Glauco si sarebbe diretto verso nord allontanandosi dal caldo peggiore. Sbatté insieme le mani come per togliere la polvere poi se le mise sui fianchi snelli mentre mentalmente passava in rassegna le cose che aveva insaccato in due zaini da viaggio che avrebbe messo dietro la sella. I suoi effetti personali erano pochi: quattro tuniche corte, nere, come quella che stava indossando. Una toga più formale, anch’essa nera, e un lungo mantello nero in caso di tempo inclemente. Aveva messo dentro anche un paio di stivali neri al polpaccio e un altro paio di sandali di cuoio. Gli articoli da toletta e la biancheria intima completavano la prima sacca. Nell’altra c’erano le provviste per tre settimane se mangiava leggero, dacché supponeva fossero quelle necessarie per arrivare a destinazione. Lungo la via si sarebbe fermato in qualche locanda se possibile, ma in caso contrario, avrebbe dormito all’aperto ovunque avesse potuto trovare riparo. Aveva passato settimane sottoponendo suo zio Persio ad uno stringente interrogatorio per ottenere informazioni sulle strade e le città dall’Ispania alla Germania e si sentiva preparato ad affrontare qualunque cosa in cui si fosse imbattuto.
Il suo cane, Zeus, se ne stava sdraiato di fronte alla porta, in apparenza rilassato, ma le orecchie dell’animale si contraevano e Glauco sapeva che era in allerta ad ogni movimento e suono. Persio l’aveva esortato a portare con sé il cane come compagnia e protezione e Glauco alla fine aveva acconsentito, nonostante avesse il dubbio che l’animale non fosse preparato per un tal duro viaggio. Si passò la mano sul viso barbuto mentre prendeva in considerazione, ancora una volta, il viaggio che stava per intraprendere. Era pronto… più che pronto. Ci aveva messo cinque anni a prepararsi per esso. L’indomani all’alba avrebbe allacciato al fianco la spada, dal fodero riccamente decorato inciso in modo intricato d’oro e argento, come lo erano l’elsa di bronzo della spada e del pugnale, avrebbe infilato a tracolla l’arco sopra la spalla, sellato Ultor[1] e si sarebbe messo in cammino. Era più che pronto.
La sua mano smise di sfregare il mento quando
udì un timido bussare alla porta.
- Avanti, - disse ad alta voce.
Augusta, la donna che lo aveva cresciuto come
un figlio suo, aprì la porta spingendola con la spalla (facendo sì che Zeus
strisciasse in cerca di un luogo meno affollato per
potersi allungare scompostamente), stringendo tra le mani un involto che
odorava di qualcosa di appena sfornato.
- Ti ho appena fatto i tuoi biscotti preferiti e pensavo che ti sarebbe
piaciuto portarteli, - disse la donna, affrettandosi verso il letto dove
c’erano gli zaini chiusi. - Sono sicura che c’è un po’ di spazio per un altro
pacchetto di cibo, Glauco. - Teneva gli
occhi bassi mentre armeggiava con i lacci, le dita brancolanti per la fretta.
Il giovane le si
avvicinò e le prese il pacchetto dalle mani tremanti.
- Grazie, mamma, li aggiungerò dopo. Grazie per avermeli fatti. Hanno un
profumo delizioso. - Mise il pacchetto sul letto poi fece roteare sua zia tra le
braccia e si premette contro il petto il suo corpo vestito di nero prima di baciarle
la fronte. Bastò per liberare il fiume di lacrime che ella aveva trattenuto per
giorni. Gli afferrò la tunica e singhiozzò mentre lui la teneva stretta,
comprendendo che ella aveva bisogno di dar sfogo alle sue emozioni represse. La
morte del suocero, Marco, la settimana precedente aveva annunciato l’imminente
partenza di Glauco e le era molto difficile sopportare quella doppia perdita.
Egli la consolò tenendosela stretta al petto.
- Tornerò, lo prometto. E’ soltanto un viaggio. Tornerò a casa.
Da sopra la testa di lei, Glauco vide lo zio Tito nel vano della porta e gli fece cenno di entrare. L’uomo sorrise mestamente e scosse le spalle, sottolineando la propria inadeguatezza davanti al contegno della moglie. Anche lui aveva un pacchetto e si sedette sul letto mentre Glauco con tenerezza lasciava andare Augusta perché potesse soffiarsi il naso e asciugarsi gli occhi arrossati. Con le lacrime ancora gocciolanti, ella si sedette accanto al marito che le avvolse con aria protettiva un braccio intorno alle spalle.
Glauco sospirò,
odiando essere la causa di tanta tristezza.
- Mi dispiace tanto… - cominciò.
- Non c’è nessun bisogno di scusarsi, - lo interruppe Tito. - Sapevamo da anni che questo giorno sarebbe arrivato. Solo che ci aggrappavamo all’inconsistente speranza che si potesse rimandare il più possibile. Sei un uomo, adesso… presto avrai ventun anni… ed è tempo che tu faccia quel che senti il bisogno di fare. Lo sappiamo. Non significa però che ci mancherai di meno. - Egli guardò con orgoglio il giovane che aveva cresciuto come un figlio suo. Glauco era diventato alto e forte, il corpo abbronzato flessuoso e muscoloso grazie ad anni di esercizi con una spada pesante, di pratica con il suo arco e di corse a cavallo. Comunque, i folti capelli castani gli ricadevano ancora sulla fronte in onde scomposte, e gli occhi verdi luccicavano come smeraldi. Parecchie giovani donne considerate buoni partiti avrebbero pianto la sua partenza, così come alcune più vecchie e non proprio buoni partiti, pensava Tito.
Tito tese le mani verso Glauco, il pacchetto nel palmo.
- Che cos’è?
- Prendilo. L’ho fatto fare per te.
Esitante, Glauco tese
la mano e prese il pacchetto. La sua non era una famiglia incline a fare regali
se non per la più speciale delle occasioni ed egli si sentiva un pochino imbarazzato.
- Lo devo aprire adesso?
Tito annuì, riuscendo
a malapena a frenare la propria eccitazione.
- Te ne prego.
Glauco indietreggiò di alcuni passi e si lasciò cadere nella sedia imbottita vicina alla finestra, la sua camera essendogli familiare quanto il palmo della propria mano. Tolse il nastro, cercando di fermare il tremore nelle dita mentre la zia tirava su col naso lì accanto. Si era sentito bene fino ad ora, la sua emozione contenuta dalla preoccupazione per i preparativi del viaggio. Ma adesso… ecco, non c’era modo di evitarlo, adesso. Deglutì rumorosamente, sperando di rimuovere il groppo in gola, mentre sollevava il coperchio della elegante scatola smaltata… e trattenne il fiato. All’interno, su un cuscino di raso bianco, era posata una fibula tonda d’oro tempestata di pietre preziose. Glauco era stordito. Non gli erano mai stati a cuore gli ornamenti, perciò quel dono era inaspettato e toccante. Restò semplicemente a guardarla, a bocca aperta.
- E’ per il tuo mantello, - disse Tito per aiutarlo. Siccome Glauco continuava a guardarla a bocca aperta, Tito aggiunse: - Per chiuderlo… sai… una fibbia di chiusura per mantelli. - Indicò la propria spalla per mostrare dove andava posta. - Avrai bisogno del mantello in Germania. Le notti possono essere piuttosto freddine.
Glauco annuì e trasse
un respiro irregolare mentre sollevava il prezioso oggetto dalla scatola. Era incredibilmente
pesante e chiaramente d’oro massiccio.
- L’hai fatta fare tu? - fu tutto ciò che riuscì a dire, la sua voce normalmente
profonda suonando inconsistente alle sue stesse orecchie.
- Sì, sostituirà la tua bulla… per darti forza e protezione nel tuo viaggio. - Tito si alzò e andò a mettersi accanto a Glauco. Indicò le pietre preziose che sfavillarono al sole del tardo pomeriggio. - Ci sono cinque gemme in un cerchio… vedi? - disse indicandole ad una ad una. - Rappresentano la tua famiglia, Glauco. Il rubino è tuo padre, Massimo, perché è un simbolo di forza, potenza e coraggio. Glauco annuì in silenzio mentre lo zio continuava. - L’opale è Olivia, perché la bellezza di questa pietra è descritta come un “fuoco cupo” proprio come quella di tua madre. Il giaietto è Marco perché era bruno come sua madre. L’ambra rappresenta Massima perché non è ancora una pietra giunta a maturazione, proprio come Massima non ebbe mai l’opportunità di crescere. E tu sei lo smeraldo, naturalmente, e sono sicuro che indovini perché.
Tito afferrò la mano
tremante del giovane per tenerla ferma mentre
finiva di spiegare.
- E il grande zaffiro al centro rappresenta l’intera famiglia, il resto di noi,
perché esso simbolizza l’amore silenzioso, e noi saremo sempre qui per te non
importa dove andrai e per quanto tempo rimarrai lontano.
Glauco chiuse le dita attorno alla bella fibula e serrò gli occhi, del tutto sopraffatto dall’emozione.
- Ti piace? - chiese Tito in tono speranzoso.
Glauco riuscì soltanto ad annuire. Cercò di dire “grazie” ma nessun suono sfuggì al nodo che aveva in gola.
Angosciata per l’intensa reazione del giovane, Augusta batté le mani e intervenne in modo provvidenziale. - Se… se hai intenzione d’insistere ad indossare nient’altro che il nero, questa darà ai tuoi vestiti un po’ di… di colore.
Glauco rise, un suono strozzato che terminò con quello che sospettosamente somigliava ad un singhiozzo. Fidata Augusta, che si preoccupava di che aspetto avesse lui!
Augusta si alzò e afferrò la mano del marito, tirandolo verso la porta, sensibile al bisogno di Glauco di restare solo in quel momento. Mentre chiudevano la porta udirono il quieto “Grazie” colmo di pianto.
Glauco sedeva in
groppa ad Ultor al cancello della proprietà di Massimo… ora la sua… e tratteneva
il giovane stallone con mano ferma. L’animale sbuffava e s’impennava, addentando
il morso nel tentativo di prendere il controllo, ma il suo cavaliere non glielo
avrebbe permesso. Glauco gli batté leggermente il lucido collo nero.
- Fermo, Ultor. Farai fin troppo esercizio tra poco. - Ultor aveva solo due
anni, ma aveva già superato ogni altro animale della fattoria in termini di
forza, velocità e spirito. Era un diretto discendente
del padre di suo padre… lo stallone che
aveva generato i due cavalli di Massimo, Argento e Scarto… ed era degno di un
imperatore. Ma nessun imperatore avrebbe mai posseduto questo stallone, poiché
Glauco aveva subito rivendicato per sé il puledro, allenandolo con mano ferma
ma amorevole.
Da lontano, l’uomo ed il cavallo dovevano essere una vista terrificante. Vestito del nero mantello, Glauco si fondeva con lo stallone come fossero un unico essere, un mitologico centauro, mezzo uomo e mezzo cavallo. La sola nota di colore era il viso abbronzato dell’uomo ed i suoi folti capelli castani, e la fibula tempestata di pietre preziose che catturava la luce del tramonto e la restituiva al cielo con scintille di fuoco e frammenti di ghiaccio.
Durante i cinque anni precedenti, Glauco aveva continuato a lavorare all’allevamento di cavalli della sua famiglia, ma aveva trascorso ogni ora libera nella propria tenuta. In quel periodo egli l’aveva amorevolmente e ossessivamente restituita alle condizioni in cui era stata prima di quel terribile giorno del 180 quando la sua vita era cambiata così drasticamente. La casa era stata intonacata, ricostruita con pietre rosa, marmo bianco, legno lucido e tegole rosse. I lavoranti avevano ripulito il suolo dalle erbacce, gli alberi da frutto erano di nuovo fioriti ed il grano scintillava come oro increspato sotto infiniti cieli assolati. Era fonte d’orgoglio e anche fonte di reddito per Glauco… ed era quello che suo padre avrebbe voluto.
La casa era vuota, tuttavia, nonostante dall’esterno apparisse il contrario. Glauco non riusciva a decidersi di vivere in quel luogo, vibrante degli spiriti della sua famiglia morta. Non era perché avesse paura, solo che sentiva di non meritarlo ancora. Non li meritava ancora. Aveva ancora del lavoro da fare.
Glauco voltò Ultor e discese la strada che lo avrebbe portato lontano dall’unica casa che avesse conosciuto, verso la Germania, con Zeus che trottava alle calcagna del cavallo. Il nonno era morto una settimana prima ed il giovane aveva mantenuto la sua promessa di restare fino ad allora. Avrebbe continuato ad indossare il colore del lutto per suo nonno… e per sua madre e suo fratello e sua sorella per i quali egli non aveva mai indossato i simboli esteriori del suo dolore. Era tempo di fare anche quello… di gridare al mondo la sua ira, il suo dolore ed il suo oltraggio. In quanto a suo padre… be’, il nero esprimeva l’insopportabile perdita dell’uomo per il quale egli si struggeva con un dolore che quasi lo consumava. Sia che fosse vivo o morto… Massimo non era lì dove avrebbe dovuto essere.
E qualcuno l’avrebbe pagata cara per quello.
[1] “Vendicatore”. Titolo attribuito a Marte dall’imperatore Augusto nel
42 a.C., per commemorare la propria vittoria sugli assassini di Giulio Cesare, dedicando
al dio un nuovo tempio. (N.d.T.)