La Storia di Glauco: Capitolo 5

 

 

Capitolo 5 - Roma, tarda primavera, 180 d.C.

Settimio Severo si appoggiò contro una monca colonna dorica di travertino che decorava l’ingresso nord-occidentale nell’Anfiteatro Flavio, il massiccio arco di pietra svettante sopra la sua testa, solido e intimidatorio. Si trattava del cancello d’entrata dei gladiatori che presto avrebbero sfilato davanti all’imperatore nella cerimonia d’inizio dei combattimenti della giornata. Direttamente sul lato opposto, all’estremità sud-orientale, c’era la Porta Libitinaria, dove sarebbero stati deposti gli sfortunati gladiatori non sopravvissuti  e gli animali selvatici uccisi in battaglia. Ma Settimio era interessato ad un solo gladiatore, indubbiamente vivo, che stava attirando enorme attenzione, seduto in una cella in attesa della chiamata per entrare nell’arena.

Settimio era felice di essere all’ombra del calore del sole mattutino ed egualmente grato di essere separato dal genere umano che premeva attorno alla cella, spingendo e sforzandosi di vedere l’uomo che aveva sfidato l’imperatore. Un’occhiata era bastata per soddisfare i sospetti di Settimio. L’uomo celebrato era davvero il generale Massimo Decimo Meridio. Settimio aveva spesso pensato che avrebbe visto il magnifico generale festeggiato in Roma, ma aveva immaginato che l’uomo avrebbe attraversato a cavallo la città su un cocchio inghirlandato, in una splendida parata di trionfo con migliaia di persone acclamanti a gettare petali di rosa ai suoi piedi. Era acclamato, in verità, ma da una plebaglia soggiogata dalla sua perizia e dal suo coraggio nel combattimento corpo a corpo messi in scena per nessun’altra ragione che il vile intrattenimento.

Mentre Settimio guardava alle spalle della folla ondeggiante, meditava sull’eccezionale fato dell’uomo che era stato il miglior generale di Roma solo pochi mesi prima, e il prediletto del defunto Marco Aurelio. Com’era caduto in basso in così breve tempo! Non prendeva più decisioni che riguardavano la fortuna dell’impero. Adesso era ancor meno che senza potere; un puro stallone in una stalla di gladiatori… la sua vita governata dal capriccio del suo proprietario e dalla volubilità della folla del Colosseo. Adesso la sua intelligenza, forza e acutezza non servivano altro scopo che il procurare un pomeriggio di divertimento a romani speranzosi di distrarsi dalla durezza delle loro vite facendosi spettatori della distruzione di coloro le cui vite erano perfino più insignificanti delle loro.

Settimio si era perso il grande debutto del gladiatore. Oh, aveva sentito parlare di quell’uomo… questo Ispanico la cui reputazione di combattente lo aveva preceduto a Roma. Ma il pretore si era perso lo spettacolo di Massimo che coordinava i suoi compagni gladiatori per organizzare un contrattacco contro gli invincibili legionari di Scipione l’Africano che avevano lasciato disseminati sulla sabbia della grande arena i loro corpi e bighe spezzati, con l’assoluto sbigottimento, e in seguito delizia, della folla. I derelitti avevano vinto e alla folla la cosa era piaciuta molto. Guarda come si allungavano tra le sbarre della cella per avvicinarsi al loro eroe… cercando di toccarlo. Urlavano il suo nome: “Massimo! Massimo!” Gli lanciavano fiori; cercavano di allettarlo a venire vicino con offerte di festeggiamenti come se fosse un bambino piccolo. E per tutto il tempo egli se ne stava seduto nell’ombra nella parte posteriore della cella, indifferente e dignitoso, il viso impassibile, lo sguardo distaccato fisso su qualche oggetto invisibile.

I suoi compagni gladiatori avevano cercato di metterlo al riparo dall’attenzione non voluta usando i loro corpi per impedire la vista, ma le guardie avevano ordinato loro di indietreggiare e minacciato di mettere Massimo in una cella da solo. Dopo tutto, era diritto della folla esaminare i suoi eroi prima di piazzare le scommesse, e di discutere delle doti dei gladiatori come se non fossero diversi dai pezzi di carne appesi nei chioschi fuori nella piazza.

L’atteggiamento distaccato di Massimo li spronava a lottare di più per guadagnare la sua attenzione e gli strilli talvolta salivano a toni frenetici. Le donne erano le peggiori. Gli ancheggiavano davanti in vestiti diafani, i capelli ed il trucco elaborati e artificiosi. Lui non ci faceva caso. Senza alcun dubbio molte lo stavano valutando, decidendo se ordinare ai propri servi di prendere accordi per una visita dopo che gli eventi del giorno fossero finiti, così da poter saggiare i talenti sessuali del più recente eroe di Roma, incuranti del costo.

Settimio non aveva alcun dubbio che la plebe non avesse capito affatto chi fosse Massimo. In città girava voce che era stato un generale dell’esercito di Roma… alcuni giuravano che lo avevano sentito dire proprio da lui… ma pochi ci credevano. Dopo tutto, i proprietari di schiavi li avevano raggirati prima con descrizioni inventate del passato dei loro combattenti. Ma, chiunque egli fosse, era un guerriero straordinario e coraggioso… e quello era tutto ciò che importava. Il fatto che era rimasto arrogantemente in piedi naso contro naso con l’irritato imperatore, osando sfidarlo ad agire, mentre la folla aveva supplicato per la sua vita, non aveva fatto altro che aumentare il suo fascino. Era stato l’odioso imperatore a cedere, non Massimo. La gente non voleva che Massimo fosse un generale… un uomo della classe privilegiata. Voleva che fosse uno di loro. E così, la fama di Massimo come combattente si era estesa per tutto l’impero, diffusa di paese in paese da ogni mercante e viaggiatore, ma la sua vera identità rimaneva oscura. Era semplicemente conosciuto come Massimo il Gladiatore, o il Gladiatore Ispanico, o il Grande Gladiatore.

Settimio non s’illudeva che alla vasta maggioranza di genti nell’impero importasse un bel nulla di quel che accadeva a Roma. Gli imperatori andavano e venivano e le notizie ci impiegavano mesi a raggiungere i territori lontani. Anche allora, pochi sapevano e ancor meno se ne interessavano finché i cambiamenti non toccavano direttamente le loro vite quotidiane. Le popolazioni si preoccupavano soltanto di cibo, riparo e salute, non del potere e della politica.

La folla si spostò e si divise per un istante e Settimio colse di nuovo una breve veduta di Massimo. Non si era mosso. Sedeva su una panca di pietra, leggermente chinato in avanti con gli avambracci posati sulle cosce delle sue robuste gambe divaricate, le mani intrecciate con disinvoltura. La sua armatura di cuoio e la grezza tunica azzurra esaltavano il suo aspetto e la sua forza tanto quanto avevano fatto la sua corazza d’ottone e le sue pellicce, decise Settimio. Le sue poderose braccia e gambe nude suscitavano parecchi commenti ammirati della folla adorante. Nonostante la sua prigionia, egli manteneva ogni briciola della sua dignità e del suo orgoglio.

Che cosa stava pensando, seduto là, si chiese Settimio? Stava deplorando il suo fato o si era rassegnato ad esso? Rimpiangeva qualunque cosa avesse fatto per precipitarlo nella disgrazia? Eppure, tutto accadeva per una ragione, credeva Settimio. La vita si rivelava come nel copione di una commedia… predeterminata dagli dei. A nessun mortale, comunque, era permesso vederne il testo prima che le trombe annunciassero l’inizio della rappresentazione.

Ma… Settimio non era un ordinario mortale. Egli sapeva ciò che il suo copione conteneva perché la profezia glielo aveva detto. Egli era destinato ad essere imperatore proprio come l’un tempo potente Massimo era stato chiaramente condannato a decadere dal potere. Ma… Settimio non era tanto stolto  da credere che un grand’uomo come Massimo avesse già raggiunto la fine dell’ultimo episodio della commedia, e uscisse di scena in modo così ignominioso. No, egli era qui in Roma, in catene, per una ragione. E quella ragione, credeva Settimio, era stata preannunciata nella sua profezia. Massimo era il suo “Leone”. Adesso egli non ne aveva più alcun dubbio. Massimo Decimo Meridio presto avrebbe aiutato inconsapevolmente la sua vecchia conoscenza, Settimio Severo, a compiere la sua profezia ponendo fine alla dinastia degli Antonini, proprio come la Sibilla aveva predetto. E quella, Settimio credeva, era la principale ragione per cui Massimo fosse persino mai esistito… un attore marginale al ruolo di protagonista di Settimio. L’ex generale poteva non avere alcuna idea che il fine supremo della sua vita fosse in realtà la sua morte, la quale avrebbe fatto precipitare gli eventi che avrebbero condotto all’instaurarsi della successiva grande dinastia regnante dell’impero… la dinastia dei Severi.

Settimio fu strappato alle sue fantasie dai lamenti della folla quando le guardie si mossero per scortare Massimo e i gladiatori dentro le viscere del Colosseo per prepararsi agli eventi del giorno. Con poche occhiate all’indietro per cercare di dare un ultimo sguardo al loro eroe, la gente si sparpagliò in fretta, gareggiando con i vicini per raggiungere i sedili alti nei settori superiori dell’enorme arena. Sin dal debutto di Massimo, si erano formate lunghe code fuori dell’anfiteatro e molti cittadini delusi si erano allontanati. Settimio non aveva bisogno di affrettarsi, tuttavia. Il suo confortevole sedile con cuscini lo stava aspettando nell’ordine più basso.

Settimio guardò Massimo alzarsi e girarsi, poi chinarsi leggermente prima che le sue ampie spalle scomparissero nell’entrata bassa, seguito dagli altri gladiatori che chiaramente erano devoti al loro comandante. Settimio si allontanò dal muro di pietra e cominciò a girarsi, ma si bloccò, cogliendo con lo sguardo una donna sola che era rimasta immobile nella sua posizione al bordo della cella ora vuota. A differenza delle altre, ella tuttora guardava il luogo dove Massimo era stato seduto pochi istanti prima, il suo viso grazioso affranto e pallido, il suo corpo alto e snello rigido, una mano abbrancata allo stomaco come per una ferita. Nonostante la calura, ella indossava un morbido mantello blu che stringeva strettamente alla gola, il cappuccio nascondendole quasi del tutto i capelli d’oro rosso. Incuriosito, Settimio le si avvicinò.
- Mia signora, - cominciò. Con un ansito ella si girò, agitata, e per un istante fissò l’azzurro sguardo vitreo su di lui. Poi, con un basso gemito di disperazione, distolse il viso e fuggì, e fu rapidamente inghiottita dall’enorme folla accalcata intorno all’edificio.

Curioso, pensò Settimio. Ovviamente ella non aveva intenzione di entrare nell’arena. Ma egli non pensò a lungo a lei perché, ancora una volta, i suoi pensieri tornarono su se stesso. Attraversò il portico ombreggiato che lo avrebbe portato al pulvinare[1] con sedili speciali riservato ai dignitari come lui. Quel giorno Commodo sarebbe stato senza dubbio nell’arena seduto all’ombra nel suo elaborato pulvinare, con la sorella, sul lato opposto dell’arena rispetto al suo. Peccato, pensò Settimio. Gli sarebbe piaciuto vedere la faccia del pestifero mocciosetto quando Massimo fosse entrato nell’arena. Mentre camminava, annuendo ai conoscenti, meditava sulla profezia che conosceva parola per parola. Il Leone aveva un cucciolo, diceva, e questo cucciolo era destinato a causargli problemi. In una delle loro conversazioni Massimo aveva accennato che aveva un figlio e quel figlio era molto probabilmente nascosto in Ispania. Marco… quello era il suo nome… così chiamato in onore del defunto imperatore. Il passo di Settimio era spavaldo mentre si avvicinava alla sua entrata, fiducioso che entro poche settimane avrebbe dormito tranquillo sapendo che i suoi agenti avevano eliminato il seccante cucciolo. Dopo tutto… qual era il fine del conoscere il proprio destino se non per forgiare a proprio beneficio gli eventi profetizzati?



[1] Palco riservato all'imperatore nei circhi e nei teatri (N.d.T.).