La Storia di Glauco: Capitolo 1

 

 

Capitolo 1

187 d.C.

Ispania

 

Il decenne Petavio Valerio, conosciuto semplicemente col suo prenome Glauco, se ne stava appollaiato sulla recinzione di pietra che circondava la proprietà distante alcune colline da casa sua. Nessuno viveva più laggiù, da quando i precedenti abitanti avevano abbandonato il luogo dopo il misterioso incendio che aveva distrutto la residenza principale ed i granai, circa sette anni prima. Malgrado la terra fosse di ottima qualità, nessuno si era curato di accampare diritti sulla proprietà o di ricostruirla, considerandola quasi come territorio da evitare. Così, lui, Glauco, segretamente la reclamava per se stesso, un luogo dove poteva lasciar spiccare il volo alla sua immaginazione senza i vincoli delle umili mansioni della vita di ogni giorno.

In quella fresca giornata di primavera inoltrata, le foschie si erano deposte nelle valli e le verdi colline facevano capolino, quasi simili alle spire di un qualche mostro invisibile appostato nelle profondità. Ma la collina che sosteneva i muri di pietra annerita della casa pareva, al contrario, un sicuro basamento a sostegno di una bizzarra, ma preziosa statua di pietra, che fosse stata danneggiata e in attesa di restauro.

I muri anneriti e sbrecciati che fluttuavano sopra le foschie sembravano ospitare segreti e misteri che aspettavano solo di essere scoperti. Ma, ogni volta che Glauco interrogava i genitori riguardo a quel luogo, essi si guardavano con trepidazione e ignoravano le sue domande, implicando che ciò che era accaduto laggiù non doveva mai essere nominato, e che comunque lui passava là fin troppo tempo. Era malsano, quel luogo, e pericoloso. Perché non si limitava a stare lì e a giocare con gli altri bambini?

Invece, Glauco era attratto da quel luogo, quasi che una Sirena lo stesse adescando con la sua bellezza e la sua canzone ammaliante. Per gli altri era un luogo da cui tenersi lontani. Per lui era un luogo di solitudine ed insolita, seducente bellezza. Le mura di pietra sbrecciate erano state reclamate dalla natura, viticci aderivano a quasi ogni superficie, pressoché soffocando lo stupefacente arbusto di rosa color corallo che si aggrovigliava con aria protettiva intorno alla porta, come se con la sua bellezza cercasse ancora di invogliare i visitatori ad entrare. Le piogge avevano lavato via un po’ del nerofumo, rivelando il calore della pietra rosa nascosta al di sotto.

Il frumento dorato tuttora lottava con le erbacce per la supremazia nei campi e, nella tarda estate, i rami degli alberi pendevano ancora appesantiti da pesche, pere e mele. I ruscelli a sud della casa scorrevano con acqua pura e fresca ed erano assortiti di pesci luccicanti e timide tartarughe. Glauco trascorreva molte ore guardando il dimenarsi dei pesci controcorrente, i loro dorsi luccicanti come striature d’argento nell’acqua profonda e scura. Fiori selvaggi in tonalità accese allungavano le radici nell’acqua, le loro teste protese verso il sole che faceva capolino tra gli alberi, chiazzando la terra al di sotto con danzanti macchie dorate.

Era magico, questo posto, ed ora era suo. Eppure, era sempre consapevole del fatto che altri c’erano stati prima di lui. Occasionalmente trovava i loro segni, quando frugava tra le rovine: qui un pezzetto di vetro, là un utensile da cucina piegato. Qualcuno aveva posato e collocato vicino all’entrata frontale le grandi urne che ora giacevano infrante ed inutili. Qualcuno aveva costruito il muro su cui lui era seduto. Qualcuno aveva tagliato il frumento, selezionato la frutta, curato i cavalli, dei quali aveva trovato abbondanza di tracce nelle scuderie vuote. Una volta, questo posto aveva prosperato, si convinse Glauco. Una volta, persone reali erano vissute lì… forse persino un ragazzo, proprio come lui.

Le brezze agitarono le foschie, rincorrendole a poco a poco, e sollevarono e incresparono le folte onde dei capelli castano chiaro del ragazzo. Con un gesto inconsapevole, egli si passò la mano tra i capelli pettinandoli, allontanando dalla fronte quel ciuffo fastidioso e ricciuto. Non fece caso a quando esso si rimise a posto risoluto, agitandosi e turbinando di vita propria. Glauco colse un’erbaccia e se la mise fra i bianchi denti regolari, succhiando l’estremità succulenta e rigirandosela fra le dita. Stese le gambe ed esaminò la crosta sul ginocchio causata da una caduta da cavallo alcuni giorni prima. Era già un eccellente cavaliere, ma stava provando qualcosa che non avrebbe dovuto… mettendosi un po’ troppo in mostra… e l’aveva pagata con un ginocchio sanguinante. Stuzzicò cautamente la crosta, ma essa era salda Glauco presto perse interesse.

Allungò le lunghe gambe robuste e abbronzate e dimenò i piedi calzati dai sandali. Poi arricciò la lingua e produsse un fischio breve e acuto. Pochi istanti dopo un enorme cane nero sbucò dai cespugli e corse verso di lui, seminando goccioline d’acqua dal suo folto pelame lucente. I suoi orecchi erano appiattiti e la lunga coda volava dietro di lui mentre correva dritto dal ragazzo. Lo zio Persio gli aveva regalato il cane per il suo ultimo compleanno e gli aveva bisbigliato, con aria cospiratoria, che l’antenato del cane era stato un lupo. Quando Glauco aveva riflettuto su come chiamarlo, Persio aveva suggerito Ercole, con gran contrarietà dei suoi genitori. A Glauco il nome piaceva, ma i suoi genitori infine glielo avevano proibito, perciò chiamò il cane Zeus. Era quasi bello quanto ‘Ercole’. Glauco scivolò giù dal muro e si diresse verso la casa diroccata, con Zeus che lo tallonava trotterellando dopo essersi raggomitolato e scrollato via le gocce restanti dal collo alla coda, inzuppando il suo giovane padrone d’acqua fangosa.

Glauco voleva portare un regalo a sua madre, così colse una rosa color corallo dal cespuglio che circondava la porta… quella più profumata che riuscì a raggiungere. Poi si voltò e si trovò di fronte il sentiero, la sua attenzione momentaneamente attratta da un bell’uccello nero che scivolava e si librava in volo sopra di lui. Glauco spalancò le braccia e discese il sentiero, attraversando di corsa gli strani monticelli gemelli erbosi appena oltre le urne, i capelli ondulati che s’increspavano e la tunica che gli ricadeva dietro, su e giù, su e giù, le braccia nude dispiegate come un giovane uccello che cerca invisibili correnti per sollevarsi in alto nei cieli azzurri, dove avrebbe roteato e si sarebbe librato in alto come l’uccello lassù. Spingendo con le gambe vigorose, oltrepassò le urne infrante e continuò giù per il sentiero fiancheggiato da pioppi, gli alti alberi che si stagliavano come forti legionari eretti, quasi a preservare il ragazzo dal pericolo. Superò il cancello rotto e girò nella strada polverosa, dove allungò i muscoli e quasi prese il volo, con i piedi che toccavano a malapena il terreno, e l’uccello nero che ancora volteggiava sopra di lui. Era ora di pranzo e la mamma non sarebbe stata contenta se fosse stato ancora in ritardo. A Glauco non piaceva rendere infelice qualcuno, meno di tutti la sua mamma, che già si preoccupava perché trascorreva molto tempo a giocare nella proprietà bruciata e diroccata sopra la collina…. un luogo che lo attirava con una forza seduttrice e magnetica.