Diario di Giulia – Parte seconda

Prologo

- E’ qui.

Udii Apollinario come in un sogno. Era una dolce serata d’estate e mi trovavo sulla terrazza del mio appartamento privato che guardava sopra il giardino, con il mio vecchio tutore in piedi dietro di me.

Non avevo bisogno che mi dicesse che Massimo era arrivato. Avevo visto le torce che precedevano il carro che lo aveva portato da Roma alla mia villa in Ostia. Il carro che aveva portato l’uomo che una volta era stato il più grande generale di Roma, adorato dai suoi uomini e prediletto dall’imperatore e che ora era soltanto uno schiavo, un pregiato stallone in una scuderia di gladiatori. L’uomo che mi aveva liberata dalla schiavitù e dalla prostituzione. L’uomo del quale si era innamorata la diciottenne illetterata, schiava e prostituta, che ero stata a quel tempo. L’uomo che la ricca vedova ventiquattrenne, libera e beneducata che ero adesso ancora amava con un’intensità prossima alla disperazione.

- E’ qui.

Avevo visto le sagome degli uomini muoversi nell’oscurità ed entrare in casa. Ed anche se non ero riuscita a distinguerlo, potevo sentire la sua presenza riempire la villa come aveva riempito quell’accampamento dell’esercito romano in Moesia, così come la grande arena nella vicina Roma. Potevo sentire la sua presenza palpitare nell’aria. E potevo sentirla anche nel doloroso pulsare della mia stessa carne.
Lui era a casa mia.

Sei anni prima ero sfuggita ad una vita di schiavitù e prostituzione. Ed ero anche sfuggita all’unico uomo che avessi mai amato, l’uomo che mi aveva mostrato la vera profondità dell’abisso in cui vivevo e mi aveva salvata da esso. L’uomo che mi aveva insegnato l’incanto dell’amore ed il dolore che con esso viene. L’uomo che mi aveva desiderata profondamente quanto io avevo desiderato lui, ma che si era rifiutato di prendermi e, invece, mi aveva mandata, ricca e libera, a ricominciare una nuova vita.

- E’ qui.

Sei anni prima egli era stato il generale Massimo Decimo Meridio, il giovane, rudemente affascinante, orgoglioso, potente generale delle Legioni Felix, Comandante degli Eserciti del Nord. L’uomo che era appena arrivato nella mia villa era semplicemente l’Ispanico, il celebre gladiatore di Roma, l’uomo che aveva condotto un pugno di schiavi ad un’impossibile vittoria in una sanguinosa ricostruzione della Seconda Battaglia di Cartagine. Il gladiatore che al suo debutto romano aveva avvinto la folla, sfidato apertamente un imperatore, ed era stato salvato dai suoi adoranti ammiratori appena acquisiti quando Commodo aveva cercato di farlo uccidere.

Era venerato dal popolo con la stessa fiera lealtà con cui lo avevano venerato i suoi soldati… venerato con la stessa fiera lealtà con cui io avevo venerato la sua memoria da quando ero stata costretta a lasciarlo e a portare avanti la mia vita.

A Roma, i gladiatori sono riveriti come simboli di coraggio e virilità, tuttavia allo stesso tempo sono disprezzati, i più infimi degli infimi… infamia la parola che si usa per indicare il loro stato sociale… o l’assenza di esso. La stessa che si usa per attori e becchini. E anche per le prostitute.

Ma quella parola non si addiceva a Massimo. In lui non v’era altro che grandezza, sia le pellicce argentate di lupo che erano l’orgoglioso simbolo della sua precedente carica, sia che indossasse la tunica azzurra e la corazza di cuoio schizzata di sangue che erano il simbolo di quella attuale.

Grandezza era l’unica parola che mi era venuta alla mente quando lo avevo visto seduto in silenzio in fondo alla cella da esposizione, completamente distaccato da rumore e polvere, dagli uomini che elogiavano la sua perizia di guerriero e dalle donne che apertamente lodavano il suo corpo simile a quello di un dio. E malgrado l’orrore e l’angoscia che io provavo, non potevo fare a meno di pensare che nonostante il denaro che gli uomini scommettevano sulla sua carne o le donne che lo concupivano, essi non potevano ingannare se stessi credendo che egli fosse un semplice schiavo.

Colmo di dignità e garbo, egli sedeva sulla panca di pietra con la maestà di un imperatore o di un dio, non come un pezzo di carne messo su un masso per pubblico scrutinio, quale si supponeva fosse. Il suo sguardo era distante, i suoi pensieri lontanissimi. A che cosa stava pensando? Alla sua fattoria lontana in Ispania? Stava pensando a lei? O alla propria caduta in disgrazia?
Avevo gridato il suo nome, alzato la voce con angoscia e disperazione, vanamente cercando di attirare la sua attenzione, vanamente cercando di indurlo a guardarmi, per mostrargli un viso amichevole e benevolo, in quell’oceano assetato di sangue e nuda lussuria che lo circondava. Ma egli non esitò mai, non si girò mai verso di me, verso la pallida donna dai capelli rosso-oro che stringeva le sbarre della sua cella tanto forte che le mani le avevano fatto male per giorni. La sua infinita dignità lo proteggeva sia dalla folla che dai patrizi, sia dai nemici che dagli amici.

Ma tutta la sua dignità non era stata sufficiente a proteggerlo dall’avidità, e venticinquemila sesterzi avevano comprato quello che la mia bellezza e il suo desiderio non erano stati in grado di ottenere sei anni prima.

Venticinquemila sesterzi, otto anni di salario di un legionario. Venticinquemila sesterzi, la somma che un imperatore ora defunto aveva dato ad una schiava e prostituta diciottenne per aver salvato la vita dell’uomo che egli aveva amato come un figlio.
Venticinquemila sesterzi, il denaro che aveva comprato l’uso del corpo di lui per un’intera settimana. Venticinquemila sesterzi per nove giorni e nove notti - dal giorno di mercato in Roma al successivo giorno di mercato - della peggior forma di asservimento e umiliazione che un essere umano possa mai conoscere. Venticinquemila sesterzi per la carne e l’orgoglio e la dignità di un uomo magnifico troppo buono per essere un semplice mortale.

Quando avevo ordinato ad Apollinario di fare l’offerta egli aveva esitato alla cifra, non perché essa fosse insolitamente alta per una prestazione come quella che stavo per comprare, ma perché sapeva che era la stessa somma che avevo ricevuto insieme alla mia libertà quando avevo rischiato la mia vita per salvare quella di lui. Ma Apollinario non disse una parola e semplicemente si allontanò per trattare con il padrone del gladiatore.

Non c’era bisogno che dicesse nulla. Egli sapeva. Come sempre. Apollinario, il mio ex-tutore e mentore. Apollinario, mio amico e confidente. Apollinario, l’uomo che mi conosceva meglio di qualunque uomo o donna mi avrebbe mai conosciuta. Apollinario, che era nato schiavo come me. Apollinario, che era stato obbligato a prostituirsi fin dall’infanzia, come lo ero stata io. Apollinario, liberato dall’Ade[1] dalla bontà di un uomo compassionevole, come anch’io ero stata liberata. Apollinario, che aveva perduto il suo amato non una volta, ma due.

Ma egli li aveva perduti a causa della morte e io avevo perduto il mio a causa dell’onore e di un’altra donna. Pur doloroso com’è, c’è una certa triste bellezza nel perdere il tuo amato a causa della morte. C’è un carattere definitivo e dignità in essa… tuttavia non v’è dignità nell’essere rifiutata, nell’essere desiderata ma lasciata da parte senza nemmeno il conforto dei ricordi del corpo del tuo amato a scaldare il tuo letto vuoto… senza un bimbo dei suoi lombi nel quale riscoprire i suoi occhi, il suo sorriso, la sua risata, non importa quanto doloroso sia quel riscoprire… senza nemmeno una lettera a confortarti anche se non è una lettera d’amore… senza poche righe da leggere e rileggere tante e tante volte alla luce delle lampade, cercando di scoprire in esse quello che vorresti ci fosse. Senza nemmeno un pezzo di papiro da accarezzare e odorare cercando il suo virile profumo muschiato e da premere contro la carne nuda fingendo che sia la sua carne nuda a toccarti…

- Giulia?

Mi calmai ma non mi voltai. Non potevo farlo. Non ero pronta ad affrontare Apollinario. Invece, mi guardai le nocche mentre le mie mani stringevano la sponda di marmo della terrazza con la stessa disperata tensione con cui avevano stretto le sbarre della sua cella. Le mie dita erano fredde, bianche e prive di vita come la lucida pietra sotto di esse.

- Giulia?

La voce di Apollinario era sommessa e gentile come sempre, ma la dolcezza e gentilezza non erano sufficienti a mascherare la sua preoccupazione. Egli non sapeva nulla dell’uomo che era appena arrivato in catene alla mia villa, tranne quello che io gli avevo raccontato, prima tra singhiozzi isterici, poi con la calma mortale di qualcuno talmente lucido da sembrare soltanto pazzo. Questo, e quello che aveva visto nell’arena quando eravamo entrati insieme per la prima volta in vita nostra in quell’enorme teatro assetato di sangue e morte. Eppure egli si era fidato di me ed era stato al mio fianco mentre io tramavo il modo di far portare l’unico uomo che avessi mai amato nella mia casa. Egli era stato al mio fianco e aveva perfino preso il mio posto per le necessarie e sgradevoli negoziazioni, trattando da solo con il lanista.

- Ti ho udito, amico mio, - dissi, sempre guardando nella notte. Le torce illuminavano la via all’imponente casa e concedevano rapide visioni degli alberi e dei cespugli e delle aiuole di fiori che adornavano i giardini che io avevo creato alcuni anni prima. La luna brillava sopra la spiaggia e io potevo udire la risacca soffiare e ronzare come un gigantesco gatto sonnolento.

- Devo scendere adesso? - chiese lui.

- Sì, vai e fa’ come d’accordo.

Potei avvertire la sua esitazione.

- Che cosa c’è, amico mio?

- Egli… sarà… sconvolto… quando saprà.

Non potei trattenere un breve sorriso amaro e mi voltai a guardare in viso il mio amico. Era in piedi, alto ed elegante, il corpo snello avvolto nelle pieghe pristine della toga, i capelli prematuramente incanutiti accuratamente spuntati e pettinati, le belle mani curate appoggiate sui fianchi senza che tradissero la tensione che io sapevo c’era, gli occhi nocciola dolci e gentili, colmi di benevolenza e compassione.

Lentamente, andai verso di lui tenendo chiusa la veste di seta color pesca che indossavo, camminando a piedi nudi sul pavimento a mosaico.
- Sì, sarà sconvolto, - fui d’accordo. Venticinquemila sesterzi avevano anche comprato il silenzio del suo padrone sulla ragione per cui egli era stato condotto alla mia villa. Avevo insistito su questo, per paura che Massimo si uccidesse se avesse saputo di essere stato preso in affitto e per quale motivo, prima che riuscisse a sapere la verità.

- Vai, - continuai. - e fa’ come d’accordo… se hai l’opportunità, digli che non c’è alcun pericolo… ma se credi che questo possa sollevare i sospetti di Proximo, limitati a portare avanti la finzione. Più tardi ci sarà tempo per… giustificazioni e spiegazioni. - Più tardi… nelle poche ore prima dell’alba e della partenza della nave che attendeva al porto, pronta a portarlo in Ispania. A portarlo lontano da me ancora una volta. A portarlo dalla moglie che egli amava. Ci sarebbe stato tempo per giustificazioni e spiegazioni, se non per qualcos’altro.

Gli occhi di Apollinario si adombrarono per la preoccupazione.
- Giulia, tu starai bene? Voglio dire…

Sollevai una mano per fermarlo.
- Vai, Apollinario, e fa’ come d’accordo. Io starò bene e scenderò quando mi dirai che non è rischioso
.

Sembrò riluttante ad andare. Io sollevai di nuovo la mano e gli accarezzai la guancia scrupolosamente rasata, morbida come quella di una donna e pallida come la mia, così differente da quella barbuta, abbronzata che bramavo di accarezzare.
- Vai, amico mio, - lo incalzai.

Egli prese la mia mano nella sua e la portò alle labbra, baciando leggermente le mie dita fredde. Poi girò sui talloni e si avviò alla porta.

- Apollinario? - lo chiamai.

Si fermò sulla soglia e si voltò a guardarmi.

- Prima di andare in biblioteca, per favore, assicurati che i servitori si ritirino nei loro quartieri e non entrino in casa fino al mattino.

Egli annuì e in silenzio lasciò il mio appartamento.

Io rimasi in piedi nel centro della stanza, fissando il nulla, il selvaggio martellare del mio cuore a tradire la tensione che la mia posa da statua negava. Non so per quanto rimasi là, finché un caldo corpo peloso mi sfiorò le gambe. Strappata dal mio stato di sogno ad occhi aperti, abbassai lo sguardo e vidi Rubia che faceva sommessamente le fusa e si strofinava contro le mie caviglie. Mi chinai e presi in braccio la grossa gatta dai tre colori che era stata mia dama di compagna sin dal mio arrivo in Roma. Mi guardò con i suoi enigmatici incantevoli occhi verdi e dolcemente mi sfiorò la bocca con la zampa come cercando di offrirmi una qualche sorta di felino conforto. Io la abbracciai forte e Rubia sopportò la mia poco dignitosa dimostrazione d’affetto con l’indulgenza riservata ad una bambina.

Tenendo ancora la gatta tra le braccia, mi sedetti su una sedia e me la misi in grembo, strofinandole il collo e le orecchie come le piaceva. Sedetti là e guardai il mio stesso riflesso nello specchio lucido montato sul tavolino, dove spazzole e pettini d’avorio e argento condividevano la superficie con costose bottiglie di profumo e un ancor più costoso cofanetto ornato di pietre preziose.

Lo specchio mi mostrò il riflesso di una bella donna alta e pallida i cui capelli rosso-oro lunghi fino alla vita erano stati arricciati e inanellati ad arte, secondo i dettami sia della moda che del decoro. Una donna priva di trucco e gioielli, con enormi occhi azzurri che fissavano se stessa… non vedendo realmente la donna che era, ma la ex prostituta e schiava che sei anni prima era fuggita da un accampamento militare in Moesia e dall’unico uomo che ella avrebbe mai amato, dirigendosi verso Roma e verso una nuova vita che non avrebbe mai osato sognare. Una vita che ella aveva temuto più di qualunque cosa o più di chiunque. Perché era bastata una fatale notte ad insegnarle l’incanto di sentirsi al sicuro e felice ed amata. Era bastata una sola notte dopo un’intera vita di prostituzione ad insegnarle come ci si sente ad amare, e l’orgoglio e l’incanto di essere desiderata dall’uomo che si ama. Ed era bastata una sola notte ad insegnarle anche la vera profondità della propria disperata solitudine. Ed era verso quella solitudine che io mi spingevo, mentre il mio cavallo cavalcava verso Roma…

 

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[1] Per Greci e Romani, che distinguevano un oltremondo cupo e terribile (Ade) e uno sereno e felice (Campi Elisi), il tema della discesa negli inferi era frequente (N.d.T.).