Diario di Giulia (indice capitoli) |
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Sopraffatta dal peso dei miei ricordi antichi e recenti, mi premetti la mano sulla bocca, cercando invano di soffocare un grido. Sul mio grembo, Rubia si stirò con quel rilassato, e tuttavia perfettamente controllato, abbandono di cui solo i gatti riescono ad avere padronanza, sbadigliò e mi guardò con quello che io sospetto sia la versione felina del benevolo divertimento che gli esseri umani offrono alle piccole tragedie, malamente inscenate e peggio interpretate. Poi, l’enorme gatto dai tre colori saltò sul pavimento e camminò impettito verso la terrazza, ignorando sdegnoso il tentativo di giocare di Phoenion.
Uno sguardo
all’orologio ad acqua mi disse ciò che già sapevo: che ero molto in ritardo
nella tabella di marcia, che avrei dovuto prepararmi a scendere, che avrei
dovuto trovarmi al piano di sotto già da un bel po’. Ma in un certo qual modo,
non riuscivo a costringermi a farlo. Dopo che da sei anni morivo d’amore per
lui, lo amavo senza speranza, lo desideravo e sognavo di lui, Massimo era
finalmente sotto il mio tetto. Appena trenta passi ed una rampa di gradini mi separavano
dall’atrio dove egli se ne stava incatenato tra due colonne. Dove egli se ne
stava impotente, spaventato e solo come non era mai stato in vita sua. Eppure,
non riuscivo a costringermi ad andare da lui. A stargli di fronte. A
soccorrerlo dalla sua impotenza, paura e solitudine. Non potevo costringermi a
liberarlo, a lasciarlo andare per non vederlo mai più…
Esausta,
rabbrividendo nonostante la notte tiepida, mi abbracciai strettamente, chiusi gli
occhi e senza difficoltà sprofondai nella mia mente. Ma quella notte non v’era
un rifugio per me. Nemmeno lì. Nemmeno in quel modo…
- Lo aiuterò e
non voglio udire un’altra parola in merito!
Mi precipitai in
biblioteca, con Apollinario alle calcagna.
- Giulia, non
puoi aiutarlo!
- Posso e lo
farò! Se mi aiuterai, sarà più facile. Se no, lo farò comunque. Adesso lasciami
sola!
Mi strappai il
mantello dalla testa e lo gettai su una sedia, poi cominciai ad andar su e giù
per la stanza con i movimenti ferali e controllati di una leonessa in gabbia.
Apollinario cercò di placarmi.
- Giulia, è
pericoloso! E’ coinvolto l’imperatore di Roma!
- Non m’importa
un bel niente dell’imperatore di Roma o del re di Parzia o di Giove stesso! Mi
senti? Non me ne importa niente! Lui mi salvò la vita! Mi restituì la libertà e
la dignità! Non intendo tradirlo!
Qualcuno bussò
alla porta, probabilmente un servo ben addestrato che, sapendo che eravamo
tornati, era venuto a chiederci se avevamo bisogno di qualcosa.
- Vattene! - urlai
prima che Apollinario potesse rispondere. Ci fu un’esitazione dall’altra parte
della porta.
- Vattene via!
SUBITO!
Il mio precettore
sobbalzò. Si udirono passi affrettati allontanarsi.
Eravamo appena tornati dal Colosseo. Per la prima volta nella mia vita avevo attraversato l’ingresso di quel gigantesco tempio di morte e distruzione, solo per vedere con i miei stessi occhi quello che il mio cuore già sapeva: che il comandante d’eserciti più fidato del defunto imperatore era stato, non si sa come, ridotto in schiavitù. Che il potente Comandante degli Eserciti Settentrionali era stato degradato ed ora combatteva per la sua stessa vita e per il divertimento della folla. Che l’uomo che io avevo conosciuto come generale Massimo Decimo Meridio ora era semplicemente conosciuto come l’Ispanico. Che l’uomo di cui sei anni prima mi ero innamorata era rientrato nella mia vita.
Andare ai giochi
era stata un’idea di Apollinario. Quando mi ero ripresa dalla forte emozione di
vedere Massimo nella cella da esibizione del Colosseo, quanto basta da essere
in grado di parlare, avevo raccontato ad Apollinario l’intera storia. Gli avevo
raccontato del generale romano rude e affascinante, con gli occhi azzurri, che
mi aveva trattata come una donna e non come una prostituta, che mi aveva
desiderata tanto quanto io avevo desiderato lui e che tuttavia aveva rifiutato
di prendermi perché aveva promesso di essere fedele ad una moglie che egli
amava. Gli avevo raccontato di come lo avevo aiutato a sventare il tentativo
del mio ex padrone di strappare il trono al legittimo imperatore e non cercai
nemmeno di nascondergli il fatto che avevo ucciso io Cassio, con le mie stesse
mani. E gli avevo raccontato di come mi ero innamorata dell’austero soldato
ispanico, di come lo avevo desiderato intensamente, di come avevo pianto per
lui e sognato di lui, e avevo finito il racconto scoppiando di nuovo in lacrime
e singhiozzi e gemiti e imprecazioni. Perché non riuscivo a togliermi quell’uomo dal
cuore e dalla vita? Perché neanche la libertà, il matrimonio, l’istruzione e le
ricchezze erano stati sufficienti a metter fine allo struggimento, al desiderio
e all’amore non corrisposti?
- Lo odio, -
singhiozzai contro la spalla di Apollinario.
- No… temo che lo
ami ancora. Sono entrambe emozioni molto forti e possono essere confuse, -
disse il mio ex precettore. Buon vecchio Apollinario! Sempre l’insegnante.
Sempre comprensivo anche quando non capiva.
- Oh,
Apollinario, che cosa devo fare… che cosa devo fare? Non posso lasciare che
muoia da schiavo. Proprio non posso.
- La scelta non è
tua, bambina.
Mi sottrassi al
suo abbraccio. Non importa quel che avevo detto nella mia angoscia e
disperazione, non volevo nemmeno sentire che non avevo alcun modo per aiutarlo.
Ma Apollinario continuava a tenermi le braccia mentre io piangevo e
singhiozzavo.
- Avevo appena co… cominciato a dimenticarlo. Avevo appena cominciato a co…
continuare la mia vita sapendo che non l’avrei mai più rivisto, e adesso
questo… - Mi sforzai di trovare le parole. - Lui è qui, ma anche adesso io non
posso averlo. Oh, Apollinario, lui… lui morirà.
Il mio ex
precettore attirò di nuovo la mia testa contro la sua spalla e mi cullò finché
in qualche modo mi calmai. E, quando ci riuscii, sussurrai con voce appena
udibile.
- Io lo amo. - Serrai gli occhi e ripetei. - Lo amo.
- Sì, lo so.
- Che cosa devo
fare?
- Giulia, tu sai
che io trovo quei giochi barbari e ripugnanti, ma se pensi che la cosa possa
aiutarti a dimenticarlo, ti accompagnerò a vederlo combattere.
- Come potrà aiutarmi a dimenticarlo?
- Lo vedrai in
modo differente. Per te lui è un generale… un uomo di grande autorità e
dignità. Se lo vedrai umiliarsi nell’arena come un animale, allora i tuoi
ricordi del generale verranno cancellati e tu lo dimenticherai più presto.
Vedrai che l’uomo che ami non esiste più... che c’è solo il suo corpo là fuori.
Così, il giorno
successivo, ci recammo ai giochi. Arrivammo presto per assicurarci un paio di
buoni posti, ma io fuggii dall’Anfiteatro Flavio subito dopo alcuni minuti del
primo spettacolo, incapace di sopportare la vista di insensata violenza e
spargimento di sangue. E non era che l’inizio della giornata. I gladiatori
combattevano solo nel tardo pomeriggio, così Apollinario acconsentì a rimanere,
allo scopo di tenere i posti, mentre io vagavo nei paraggi, trascinandomi per i corridoi dell’arena, circondati
da colonne, e vagabondai nel Foro fuori del Colosseo, cercando disperatamente di allontanare
la mente dal combattimento a venire. Cercando disperatamente di non pensare che
forse ero andata ai giochi proprio per vedere Massimo morire...
Tuttavia la fuga
non era possibile e mi fu ricordato di lui ovunque mi voltavo.
Massimo. Massimo.
Massimo.
Udii il suo nome
più e più volte. Gli uomini parlavano di lui. I bambini fingevano di essere lui
mentre giocosamente si attaccavano l’un l’altro con spade di legno. Le donne
pettegolavano a voce bassa di lui e le loro risatine non lasciavano alcun
dubbio sulla natura delle loro chiacchiere.
I gladiatori
erano dappertutto e io non l’avevo nemmeno notato prima. Erano dipinti in
mosaici, il numero delle loro vittorie scritto accanto ai loro nomi. E i numeri
erano sempre bassi in modo allarmante, molti di essi solo di una cifra, la
lettera greca “omega” non lasciando alcun dubbio che quegli uomini erano già
caduti per non rialzarsi più.
I gladiatori
erano anche scolpiti nel marmo. E i loro nomi erano stati incisi negli archi di travertino del
Colosseo dalle folle che aspettavano di entrarvi. L’Anfiteatro Flavio aveva già
un centinaio d’anni e una generazione dopo l’altra di romani vi aveva scritto
nei muri esterni i nomi degli uomini che erano stati idolatrati come dei dalla
folla anonima e riverente, che essi avevano sedotto con la loro abilità di
contendenti… La folla anonima e riverente che avrebbe dovuto acclamare il
trionfo militare di Massimo sui nemici di Roma… ma che invece applaudiva quando
lo vedeva uccidere nell’arena per il divertimento di essa.
Non ebbi bisogno
di cercare molto per trovare il nome di Massimo: era dappertutto, scritto e
riscritto da un centinaio di mani diverse. Scritto correttamente. Scritto in
modo errato. Scritto da mani esperte use a tenere uno stilo e da quelle goffe
dei giovanissimi o poco istruiti. Il suo nome era dappertutto, orgogliosamente
in disparte o seguito da messaggi di ammirazione. Di amore. Di devozione. Di
lussuria. Allungai le dita tremanti e delicatamente tracciai le lettere con i
polpastrelli mentre morivo dalla voglia di sfiorare il suo bel viso, la sua
dolce bocca sensuale finemente scolpita.
Massimo. Massimo.
Massimo.
Premetti la
fronte contro il marmo graffiato riscaldato dal sole pomeridiano, e chiusi gli
occhi. Improvvisamente, mi sentii schiacciata dall’edificio imponente che
torreggiava sopra di me, sopra Roma. Mi sentii schiacciata dalle forze che si
radunavano attorno a me, spingendomi avanti, spingendomi ancora una volta verso
l’ignoto. Verso il mio fato… Volevo resistere. Fuggire. Nascondermi in un
angolo buio, appallottolarmi, chiudere gli occhi, coprirmi le orecchie…
Un suono
tintinnante mi riportò alla realtà. Non era il musicale tintinnio di una bella
campanella, ma quello di una poco costosa o rotta. Veniva da qualche angolo del
porticato del Colosseo e, non so come, sembrava chiamarmi. Lentamente, come in sogno, mi allontanai dal
muro di marmo e seguii il suono, inseguendolo come i marinai si dice inseguano
il canto delle sirene… ed il loro triste destino.
Il suono veniva
da una delle numerose bancarelle nel porticato, una che sembrava fare buoni affari. C’era una
piccola folla attorno ad essa, persone sudaticce e rumorose che indossavano
abiti semplici, che portavano cappelli e cestini, otri di vino e cuscini per
godersi meglio i giochi. Mi guardarono con fare interrogativo e io mi resi
vagamente conto di come dovevo apparire loro: un’alta, bella donna elegante
vestita di bianco che vagava da sola attorno al Colosseo durante i giochi… Le
sole donne che andavano a zonzo da sole nei dintorni dell’arena durante i
giochi erano le prostitute più a buon mercato di Roma, centinaia di esse in
attesa di fare affari nei viali dei dintorni quando migliaia di uomini eccitati
da un giorno di sangue e violenza ne uscivano in cerca di sollievo per le loro
emozioni represse. O, ancor meglio, di fare affari con i lanisti[1] in cerca di passatempi da letto a basso costo per i loro
gladiatori sopravvissuti. Le ricche matrone come me non avevano bisogno di
sporcarsi pubblicamente: facevano disporre dai loro servitori visite discrete
alle scuole dei gladiatori o semplicemente facevano consegnare alle loro case i
gladiatori in ceppi, per una notte di servigi da stalloni. Mi veniva da ridere
all’amara ironia della ragazza dai capelli ramati che aveva lasciato Roma da
schiava e prostituta, per tornare due anni dopo da donna libera sposata a uno
degli uomini più ricchi della città, e che ora stava vagando nel Foro come una
comune sgualdrina. Ero diventata libera e ricca a causa di Massimo… ed era a
causa di Massimo che stavo girovagando nel Foro tra le prostitute. Il senso
dell’umorismo degli dei doveva essere ancora più crudele e contorto di quanto
pensassi.
La folla
istintivamente si divise attorno a me, come fanno le folle alla vista di coloro
che mostrano l’autorità dei ricchi e una fiducia in se stessi che, anche
enormemente compromessa come era la mia in quel momento, supera di gran lunga
la fiducia in sé che saranno mai in grado di assommare nelle loro intere vite.
Continuai a camminare verso la bancarella e poi, li vidi. L’origine del suono
tintinnante e dell’interesse della folla.
Bambolotti raffiguranti gladiatori.
Bambolotti
raffiguranti Massimo.
Ne avevo udito
parlare, ma non ne avevo mai visti. Erano articolate figurine grottesche,
tagliate dalla latta in forma di un uomo con spalline di cuoio armato con le
armi del suo lavoro, poi dipinto rozzamente per rappresentare la tunica blu e
la corazza nera che gli avevo visto indossare alla cella di esibizione.
L’artigiano che aveva creato i bambolotti raffiguranti Massimo aveva avuto buon
occhio per il dettaglio, e aveva fornito le figure di capelli neri tagliati
cortissimi e d’una barba accuratamente rifinita. E aveva posto particolare
attenzione ai mostruosi peni eretti che spuntavano da sotto l’orlo della
tunica, che s’incurvavano oscenamente contro il torso, la testa di un leone
ruggente o di un toro alla carica incisa dove avrebbe dovuto esserci la punta
dell’organo maschile.
Gladiatori.
Leoni. Tori. Simboli di virilità. Di potere sessuale maschile.
I bambolotti
raffiguranti i gladiatori vengono appesi dalle classi inferiori alla porta
principale delle loro case come feticci mascolini, che servano ad assicurare la
virilità permanente al padrone di casa o la fertilità della padrona di casa,
non so. Probabilmente, per assicurare entrambe.
Improvvisamente,
vidi nella mia mente una scena da lungo tempo dimenticata. Qualche tempo dopo
che Eugenia aveva dato alla luce il suo bambino, io ero stata portata a Roma
per servire un giovane magistrato che sembrava non solo contento, ma genuinamente
infatuato di me. Così egli mi tenne più a lungo rispetto all’iniziale accordo e
io mi trovavo nell’Urbe il 15 febbraio di quell’anno. La primavera, il periodo
in cui si semina, era ufficialmente iniziata dieci giorni prima. Essendo un
magistrato, ci si aspettava che l’uomo intervenisse alle festività dei Lupercalia[2] e mi portò con sé. Avevo sentito parlare della celebrazione della
fertilità ma non l’avevo mai vista e, men che meno, vi avevo mai preso parte,
essendo la fertilità qualcosa da evitare, nel mio ex lavoro. Cionondimeno,
avendo poche possibilità di girovagare da sola per le vie di Roma poiché i
doveri del giovane richiedevano che rimanesse con gli altri magistrati,
accettai di buon grado l’opportunità di essere libera per qualche ora.
Faceva freddo ed
era nuvoloso e il cielo minacciava pioggia. Rimasi vicino al Palatino,
raggomitolata nel mio mantello, in piedi tra le migliaia di persone che si
erano radunate fin dall’alba. I venditori ambulanti vendevano a basso prezzo
vino speziato e caldarroste. Un rombo lontano annunciò che i luperci[3]
aveva iniziato la loro corsa, uomini nudi vestiti solo della pelle dei caproni
che avevano appena sacrificato a Luperco, la divinità conosciuta anche col nome
di Pan, nel luogo dove si pensava che Romolo e Remo fossero stati nutriti dalla
Lupa. Corsero attorno ai limiti del Palatino, rappresentando la rituale
purificazione annuale e portando nelle mani destre fruste fatte con strisce
della pelle di un cane anch’esso sacrificato all’alba. Le donne si spingevano
tra di loro per guadagnare le prime file e addirittura correvano per andare
incontro ai luperci, offrendo loro le mani e le
schiene, che essi sferzavano con le fruste, lasciando su di loro strisce
sanguinanti ad ogni colpo. Tuttavia esse si offrivano desiderose ai colpi e al
sangue, una tradizionale benedizione che avrebbe assicurato la fertilità come
mai nessun’erba o formula magica o preghiera avrebbe fatto. In piedi vicino
all’ultima fila, guardavo con affascinato orrore mentre gli uomini nudi correvano
verso di me, il sangue che colava dalle pelli fresche di capra, imbrattando le
loro cosce e gocciolando a terra. Le acclamazioni della folla erano assordanti.
Le donne strillavano istericamente intorno a me, spingendomi di lato per
avvicinarsi ai luperci, per ricevere la
benedizione… Quell’anno avevo circa quindici anni e, ad un’età in cui la
maggior parte delle fanciulle romane va al letto nuziale, nulla di quello che
un uomo possa fare ad una donna, o lei a lui, avrebbe potuto ancora
sconcertarmi. Tuttavia c’era qualcosa di indescrivibilmente osceno concernente
il rito che stava avendo luogo davanti ai miei occhi…
Qualcuno mi
spinse forte, un singolo colpo tra le scapole e io vacillai. Feci due passi,
cercando invano di mantenere l’equilibrio, poi caddi sulle ginocchia. Come
alzai la testa, vidi con orrore impotente che uno dei luperci
si voltava verso di me. Era giovane e bello, come tutti i luperci,
dal momento che vengono scelti tra i figli promettenti delle famiglie patrizie,
Marco Antonio essendo il più famoso tra coloro che corsero la sacra corsa,
mentre un già predestinato Giulio Cesare presiedeva alla celebrazione. Il luperco si chinò su di me, i ricci capelli umidi appiccicati
alla faccia, mentre rivoli di sudore gli scivolavano dal muscoloso corpo
oliato, malgrado il freddo. Sogghignò, e c’era qualcosa di ferale in quel ghigno, qualcosa
d’inquietante. Lo vidi alzare la frusta e istintivamente mi coprii il viso con
le mani… solo per sentire il colpo delle strisce di cuoio su di esse.
- Una pronta gravidanza
e un parto sicuro per te, signora! - disse… e giuro che, nonostante il ruggito
della folla, lo udii ridere di scherno.
Rimasi là, a
terra in ginocchio, rabbrividendo di freddo e orrore, la folla che ruggiva
intorno a me, i luperci che correvano via a
completare la loro corsa e i loro riti... Non c’era bisogno che guardassi le
mie mani per sapere che erano insanguinate, la benedizione mi era stata
concessa, il mio peggior incubo... rimanere incinta e vedere la mia bambina
fatta crescere come una prostituta, come lo ero stata io, o vedermi strappato
mio figlio, come quello di Eugenia… Ci vollero ore perché il giovane magistrato
mi trovasse e quando vi riuscì, era troppo sconvolto dal mio aspetto per essere
arrabbiato con una schiava disobbediente. Ero accovacciata sul freddo pavimento
bagnato accanto ad una fontana pubblica, e mi strofinavo le mani ciecamente,
freneticamente, per liberarmi di una macchia di sangue che avevo lavato via
nell’acqua gelida molto prima, ma che continuavo a vedere nella mia mente…
L’uomo guardò i miei vestiti sporchi ed il mio aspetto scarmigliato, pensò probabilmente che ero stata
aggredita nelle stradine e mi portò a casa sua, dove feci un bagno ristoratore,
bevvi un infuso calmante e fui messa in un letto caldo, dove mi fu permesso di
dormire indisturbata prima di ritornare alla villa di Cassio. Il giovane era
stato gentile con me, ma io non mi ero nemmeno accorta della sua gentilezza,
perché il fantasma del luperco, il suo sorriso ferale e la sua risata sardonica
perseguitarono i miei sogni per mesi e mesi.
- Vuoi un
bambolotto, mia signora? Ne vuoi uno per assicurarti che il tuo uomo sia
abbastanza potente?
La voce
pesantemente accentata mi riportò dalle mie fantasticherie. Il venditore ambulante
stava sogghignando. Più vecchio della sua età. Alcuni denti mancavano, altri
erano cariati. Probabilmente a causa del malnutrimento. Una faccia come
migliaia nell’Urbe. La faccia di una Roma anonima, così diversa dalle statue e
dai busti solenni, congelati per sempre nella loro dignità di età indefinibile.
- Questo è
l’Ispanico, signora. Il gladiatore più bravo di tutti i tempi. Molto virile
anche… Forte come un ispanico toro selvaggio.
La folla intorno
a me era caduta in silenzio, una rara oasi di tranquillità nel Foro rumoroso, e
mi stava guardando con curiosità. Seguendone lo sguardo mi accorsi che, mentre
ero persa nei miei inorriditi ricordi dei Lupercalia, avevo camminato verso la
fila davanti e avevo teso la mano verso i grotteschi bambolotti di gladiatori
appesi sopra il chiosco, le dita che sfioravano la superficie delle figure di
metallo nello stesso modo in cui esse avevano tracciato il nome di Massimo sul
muro di marmo. Sconvolta, ritrassi la mano… ma uno dei pezzi di metallo aveva
un bordo acuminato che mi graffiò la pelle, facendola sanguinare. Con lo stesso
affascinato orrore che avevo provato in quel nuvoloso giorno di febbraio, vidi
il sangue sporcarmi la mano, la mano che il luperco aveva sferzato con la sua
frusta quando mi aveva benedetta quasi dieci anni prima….
- La madre Iside ti
favorisce, padrona Giulia. Come non potrebbe? Tu sei una donna… Il tuo tempo
verrà. E prima di quanto ti aspetti.
Le parole di
Merith echeggiarono nella mia mente prima d’essere sommerse dal ruggito di cinquantamila
romani già seduti nel Colosseo.
- Massimo!
Massimo! Massimo!
Mi voltai e corsi
verso l’anfiteatro.
Quando trovai il
mio sedile accanto ad Apollinario nel secondo ordine di posti, ero riuscita a
ricompormi abbastanza da fingere che qualunque mio strano comportamento
obbediva al mio stato di agitazione. Non che importasse. Apollinario sembrava
piuttosto accalorato dagli incontri della giornata. La sua faccia era arrossata
e i suoi movimenti agitati, una cosa del tutto inusuale per la sua tranquilla
personalità. Cercai di parlargli, di alleviare quello che pensavo fosse il
disagio di un uomo sensibile per ore ed ore di fronte alla violenza insensata… ma presto notai
che il suo sguardo era incollato alla porta da dove Massimo avrebbe fatto il
suo ingresso e che il suo respiro affannoso era causato da più che semplice
ripulsa.
- Siediti! Siediti! - disse dando un colpetto sul posto accanto a sé senza
distogliere lo sguardo dall’arena.
Le trombe
risuonarono, il cancello si aprì e una figura solitaria emerse. La folla eruppe in grida ed applausi.
Massimo.
Sembrava così
piccolo laggiù! Così solo! E così bello!
Afferrai la mano
del mio compagno e la strinsi forte, ma Apollinario non si voltò verso di me,
completamente concentrato su Massimo.
- E’ lui? - gridò
per farsi sentire al di sopra della folla ruggente.
- Sì.
Disse
qualcos’altro, ma io riuscii a malapena a udire il parlare eccitato di
Apollinario, i miei occhi ora fissi su Massimo. Egli sembrava sicuro di sé,
mentre il suo familiare lungo passo regolare inghiottiva la sabbia. Da quanto
riuscivo a distinguere da quella distanza, era in buona forma, ma io
rabbrividii quando notai che non aveva né elmo né armatura di metallo, solo la
corazza e la spada. Poi lo vidi chiaramente sogghignare mentre, di fronte
all’imperatore, rifiutava di recitare il saluto rituale dei gladiatori.
Infatti, Massimo si limitò a sorridere sprezzantemente e roteò la spada mentre
i suoi avversari doverosamente gridavano, “Ave, Cesare, morituri te
salutant!”
La folla ruggì
ancora, ma Massimo non mostrò mai di notare la febbrile adorazione. Invece,
egli si accosciò, sollevò un pugno di sabbia, e la strofinò tra le mani prima
di lasciarla scivolare lentamente di nuovo a terra. Poi si voltò verso i suoi
avversari, due uomini con armatura di metallo e con quello che sembrava un
impressionante assortimento di armi, e il combattimento cominciò...
Non ci vollero
che pochi secondi a Massimo per far cadere a terra come un sasso il primo uomo
nell’arena. Morto. La folla strillò deliziata.
- L’hai visto?
L’hai visto? Per gli dei, quell’uomo è fantastico, Giulia! - gridò Apollinario.
- Ha già fatto fuori un uomo ed ora ha la spada e il tridente. Non avrei mai
immaginato una cosa del genere! E’ così sicuro di sé... ha il pieno controllo
della situazione!
Io ero sconvolta.
Sapevo che Massimo poteva essere un uomo molto pericoloso. Sei anni prima egli
aveva scatenato il suo odio assassino su di me quando aveva sospettato che fossi in combutta
con i traditori. Poco dopo, lo avevo visto uccidere due volte a sangue freddo.
Ma le uccisioni alla tenda di Cassio non potevano essere paragonate a quello
che stava accadendo nell’arena, a quella combinazione letale di disciplina,
allenamento, forza, prontezza e istinto. Una combinazione che aveva innalzato la sete di sangue
della folla eccitata ad un impensabile picco febbrile. Una combinazione che
aveva trasformato perfino l’uomo sensibile, tranquillo e amante della pace
seduto al mio fianco. Soldato o schiavo, Massimo non era cambiato per niente.
Era ancora in tutto e per tutto il generale che avevo conosciuto e di cui mi
ero innamorata. E, anche se combatteva per il divertimento della folla,
riusciva a conservare ogni oncia della sua infinita dignità.
Il secondo
avversario attaccò Massimo e io chiusi gli occhi, incapace di guardare il
combattimento. Chiusi gli occhi e feci quello che non facevo da anni. Quello
che non facevo da quel giorno lontano in cui il luperco mi aveva colpito con la
frusta: pregai. Pregai qualsiasi dio o dea riuscissi a ricordare. Quell’altro
giorno quasi dieci anni prima, li avevo implorati di risparmiarmi l’orrore di
dare alla luce un bambino dal destino già segnato... anche sapendo che nel
profondo desideravo moltissimo avere un bambino, una figlia alla quale dare le bambole che io non
avevo mai avuto. Una bambina con cui
giocare, da stringere contro il mio petto, confortare quando era triste,
proteggere da un mondo brutale e crudele e oscuro, così come io avevo
desiderato giocare, essere abbracciata, confortata, protetta. Adesso li imploravo
di risparmiare la vita di Massimo. Di prendere la mia, invece. Di punire me per
la mia mancanza di fede, ma di permettere a lui di vivere...
Il ruggito della
folla mi obbligò ad aprire gli occhi e io sobbalzai mentre l’uomo con l’elmo
armato di spada attaccò. Ma Massimo semplicemente deviò la spada con la
propria, si accovacciò e affondò, prima seppellendo la spada nella gola
dell’uomo, poi il tridente nella sua coscia. Il sangue che zampillò imbrattò sia l’uomo morente che il suo
esecutore, mentre Massimo ritraeva le armi e le affondava per prima cosa nel
terreno, prima di allontanarsi a passi misurati dai cadaveri e dall’imperatore.
Ignorando ancora le grida della folla adorante, si diresse direttamente verso
il cancello dove aveva fatto il suo ingresso. La porta dei sopravvissuti.
Non si aprì.
Mi strinsi
convulsamente il ventre e rivolsi gli occhi impauriti su Commodo. Il giovane
imperatore stava abbozzando un sorriso duro, gretto, e fu allora che notai sua
sorella. Era la prima volta che vedevo l’Augusta Lucilla. La donna che aveva
amato Massimo. La donna che lo amava ancora. Pallida in viso e tesa, la figlia
di Marco Aurelio sedeva accanto al fratello nel palco imperiale.
Lentamente,
Massimo si voltò per affrontare Commodo, per affrontare il figlio dell’uomo che
lo aveva amato come un figlio e che lui aveva amato come un padre. Per
affrontare l’uomo che in qualche modo doveva essere coinvolto nel suo crollo e
nella sua schiavitù e, anche da lontano, potei vedere le sue labbra incresparsi
in un ringhio.
- Oh, Massimo,
non provocarlo, ti prego, non provocarlo, - sussurrai.
Lentamente, la
folla cadde in silenzio mentre gladiatore e imperatore si guatavano l’un
l’altro attraverso la sabbia insanguinata del Colosseo. Distrattamente, notai
che le macchie cremisi sull’arena non erano solo sangue, ma anche petali di
rosa. Petali identici a quelli che qualcuno aveva fatto piovere sul mio letto
di nozze come offerta a Venere, la dea dell’amore. Petali identici a quelli che
Mario Servilio Tibullo aveva distribuito attorno al busto di Pollia Sabina
Marcia, tributo funebre alla sua adorata moglie...
Lentamente,
Massimo cominciò a tornare verso Commodo che stava in piedi di fronte al
pulvinare, sembrando considerare velocemente le proprie alternative mentre il
gladiatore si avvicinava. Si udirono risolini nervosi da un capo all’altro
della folla. Amavano Massimo quando lo vedevano uccidere, ma lo amavano ancor
di più quando sfidava intrepido un imperatore che aveva indetto i giochi per il
loro divertimento, ma di cui essi non si fidavano e che disprezzavano. Tuttavia
sapevano che Massimo rischiava la vita facendolo, perché Commodo era più
pericoloso dei più abili avversari che mai avrebbero calcato l’arena. Ma la
folla conosce il proprio potere e quando decide di usarlo, nemmeno il potente
Cesare di Roma osa sfidarlo. Il coro ricominciò lentamente e crebbe, sempre di più, come una tempesta,
mentre cinquantamila voci si univano in un grido. Ancor prima di sapere che
cosa stavo facendo, mi alzai e sollevai anch’io il mio grido. Apollinario non
perse tempo e si unì a me.
- Massimo!
Massimo! Massimo!"
Roma gridava e
noi gridavamo con Roma come se le nostre voci da sole avessero il potere di
salvare la vita di Massimo. Potei percepire, più che vedere, l’esitazione dell’imperatore.
Poi, egli brevemente consultò il suo prefetto pretoriano, un uomo alto dal
mantello nero, con un elmo piumato, annuì una volta e il cancello dietro
Massimo si aprì, spalancandosi. Egli si fermò di colpo, fissò Commodo con
un’ultima occhiata omicida, poi si girò e scomparve nelle budella del Colosseo,
mentre la folla, soddisfatta dello spargimento di sangue e della prova del suo
potere, acclamò sia
l’Ispanico che se stessa.
Prosciugata,
caddi sul sedile e mi guardai la mano imbrattata di sangue. La chiusi a pugno,
la premetti contro la bocca e silenziosamente accettai il mio fato.
[1] In Latino, l’allenatore dei gladiatori (N.d.A.).
[2]
Festa celebrata in Roma antica il 15 febbraio con un antico rituale di
purificazione per la fine dell'anno e il rinnovamento primaverile affidato ai luperci, membri di un collegio
sacerdotale. Per le strade, gruppi di giovani colpivano le donne con strisce di
pelle ricavate dagli animali sacrificati, che si credeva conferissero una
magica fertilità (N.d.T.)
[3] In latino, i sacerdoti del dio Luperco, e anche i giovani scelti ogni anno per celebrare i riti di purificazione e fertilità descritti in questo capitolo (N.d.A.).