Diario
di Giulia (indice capitoli) |
Julia’s Journal Siti
originali (in inglese) |
Sidereum fu il
cavallo più mite e gentile che mai avrei avuto. Gli piaceva stare vicino alla
gente e amava essere accarezzato, in special modo sulla fronte. Se posavo
contro di essa il palmo della mano senza spostarlo, Sidereum cominciava a dare
colpi leggeri su e giù con la testa e a strofinarla da solo. Una volta sellato,
diventava molto serio, attirando l’attenzione per il suo portamento fiero.
Teneva sempre la testa molto alta. Il suo passo era molto lungo, il suo trotto
veloce e confortevole, il suo piccolo galoppo lento e cullante. E non si
spaventava mai, sia che lo portassi nei boschi, sulle colline o sulla spiaggia.
Dal momento del suo arrivo, presi l’abitudine di cavalcare almeno un’ora al
giorno quando il tempo era bello e fu allora che cominciai ad esplorare davvero
la proprietà, che includeva anche un grande laghetto pescoso al di là di un
grazioso campo coperto d’erba tenera e fiori selvatici. Talvolta Apollinario si
costringeva a prendere un vecchio cavallo tranquillo e cavalcava con me, ma il
mio precettore non era mai stato a suo agio con questi grossi animali e non era
un cavaliere abbastanza bravo per galoppare accanto a me. In quanto a Mario
Servilio, aveva cavalcato molto in gioventù, ma adesso si tratteneva dal farlo
a causa della sua salute, perché si stancava sempre più facilmente e non poteva
rischiare di cadere. Così la maggior parte del tempo cavalcavo da sola e ne ero
ancor più lieta.
Dopo averlo preso
per cavalcare, mi piaceva strigliare io stessa Sidereum e quell’operazione
finiva sempre tra risate e sbuffi perché lui mi ripagava per le mie attenzioni
mordicchiandomi delicatamente i vestiti, come se io fossi un altro cavallo e
lui stesse cercando di aiutarmi a pulire il mio mantello. Gli piacevano in modo
particolare le cinture di morbida pelle delle tuniche che usavo per cavalcare,
e io ridacchiavo inerme mentre lui mi solleticava la pancia tirandole
giocosamente. E quando finivo di spazzolargli il mantello, gli piaceva mettere
il muso sul mio collo e stare lì, soffiandomi nell’orecchio… Erano momenti di
pace incredibile, nella mia vita affacendata e sempre in mutamento. E anche
quei momenti mi rammentavano Massimo e io non potevo che chiedermi una volta di
più dove egli fosse, che cosa stesse facendo, se si trovava in Germania o in
Ispania, se era nel suo accampamento o alla sua fattoria, se era solo o con sua
moglie o se si era preso un’amante nonostante il suo rifiuto di avere me per
amore della donna che aveva sposato… la donna che amava tanto da rifiutare di
diventare il genero dell’imperatore e forse il suo erede. Mi chiedevo se fosse
al sicuro o in pericolo, se fosse stato ferito in battaglia o, peggio ancora,
ucciso in qualche tetra foresta. E, mentre respiravo il confortante odore di cavalli,
cuoio e fieno che permeava la stalla, mi chiedevo se avesse mai pensato a me,
ad una schiava prostituta di diciotto anni dai capelli rosso-oro che aveva
condiviso con lui il pericolo e l’intimità… invariabilmente, questa linea di
pensiero finiva con un secco singhiozzo contro il collo caldo di Sidereum ed
esso rispondeva al mio sconforto soffiandomi gentilmente nell’orecchio una
volta di più, offrendomi il conforto della sua compagnia, e la sua lealtà e il
suo grande corpo robusto nel modo altruista che solo gli animali conoscono.
Dopo Sidereum,
mio marito continuò a mandarmi regali con stupefacente regolarità tuttavia non
me li consegnò mai più personalmente. Invece, li faceva consegnare come aveva
fatto in passato tramite i suoi segretari, la mia governante, il mio precettore
o l’intendente. Fu solo un anno dopo che mi aveva donato Sidereum che mi diede
un altro regalo personalmente. Per allora, io avevo già imparato abbastanza del
suo commercio da essere in grado di rilevarlo da molti incarichi gravosi e lui
poté concentrarsi nella costruzione della Sirena.
Tuttavia un pomeriggio egli mi chiese di andare con lui su un piccolo carro già
fermo alla porta principale della villa.
Io fui sorpresa di scoprire che lo stava guidando lui stesso.
Discendemmo la strada principale della proprietà, ombreggiata da alberi, e poco
dopo giungemmo ad un sentiero polveroso e lasciammo la strada. Mezz’ora dopo,
raggiungemmo il campo con la sua deliziosa mescolanza di tenere erbe e fiori
selvatici. Non ero stata lì che una volta o due, cavalcando Sidereum, ma anche
se mi piaceva moltissimo il laghetto, non mi ero attardata nei dintorni e avevo
invece galoppato fino alla spiaggia. Ora, una strana forma spuntava dal centro
del campo. Socchiusi gli occhi, cercando di distinguerla…
No… era
impossibile. Eppure, eccola: una nave si stagliava placidamente nel centro del
laghetto, una nave mercantile di dimensioni naturali, con alberi e vele
avvolte. Una nave molto simile a quelle che avevo visto al porto. Una nave
pronta per il mare… Nondimeno se ne stava in mezzo allo stagno, sembrando quasi
attraccata lì. La
circondavano sculture di marmo raffiguranti ogni specie di creatura marina, sculture
poste su piedistalli sommersi che, come la nave, non c’erano quando avevo visto
il laghetto l’ultima volta.
Mi meravigliai
alla vista dei dettagli del vascello di legno: le vele legate, il suo sartiame
che gemeva nel vento. Sul ponte c’erano barili e casse da imballaggio, proprio
come avrebbe dovuto averne una vera nave mercantile. Sbalordita mi voltai verso
mio marito ed egli sorrise.
- E’ una copia a grandezza naturale del Poseidon, -
disse. - Dal momento che sei spaventata dalle navi vere, pensavo che avresti
dovuto averne una tutta per te, una nave sicura in un luogo sicuro.
Mario Servilio mi
fece cenno di scendere dal carro e andammo verso gli arbusti che circondavano
il laghetto. C’era un passaggio ed un sentiero che conduceva alla nave, fatto
di pietre piatte spaziate in modo regolare per rendere facile il cammino. Il
sentiero si allungava verso la sponda, poi continuava nell’acqua. Io ero
stupefatta: Mario Servilio aveva fatto costruire un sentiero sicuro e
confortevole apposta per me, così che fossi in grado di raggiungere la nave
senza entrare nell’acqua. Incerta, feci un passo sulla prima pietra, poi
ridacchiai: un pesce sfrecciò tra i suoi fratelli di pietra, piante acquatiche
spuntarono dalle profondità del laghetto in tonalità scure di fiori verdi e
blu. Era come camminare sull’acqua!
Mentre mi
avventuravo più avanti nello stagno studiai le sculture di marmo di pesci
guizzanti e contorti mostri marini. Otto passi dopo raggiungemmo la nave; Mario
Servilio afferrò la scala di corda e mi aiutò a salire a bordo prima di tirarsi da solo sul ponte con
un agio nato da lunga pratica. Alzai lo sguardo sull’albero maestro
dall’altezza vertiginosa, poi guardai i barili e le casse. Il ponte risuonava
sotto i nostri passi e l’acqua era ben lontana sotto di noi, tuttavia io ero
talmente affascinata dall’assoluta bellezza e magia della nave adagiata nel
laghetto e dalla premura dell’uomo che avevo sposato, da dimenticare che avevo
paura di annegare. In silenzio camminai fino alla poppa. Sul davanti della nave
c’era la statua di marmo di una sensuale sirena, con la coda di pesce che le si
arricciava in modo seducente attorno ai fianchi e i lunghi capelli che le
nascondevano i seni.
- Considerando il nome che hai scelto per la nuova nave, sembrava appropriato
metterla in quel punto, - disse Mario Servilio appoggiando i gomiti sulla
ringhiera. Rimanemmo lì, in silenzio cameratesco, per un lungo momento. Poi, io
posi la domanda che gli avevo fatto più di una volta nel corso dei quasi tre
anni che eravamo sposati.
- Perché?
- Perché?, -
ripeté. - Perché? Perché non voglio che il Poseidon
scompaia completamente dalla faccia della terra. Mi ha reso servizi eccellenti
e io sono un padrone riconoscente. Perché trent’anni fa, quando seppi che stavo
per diventare padre, costruii una copia della nave affinché mio figlio ci
potesse giocare con sicurezza ed imparasse ad amare il mare. Perché mio figlio
morì alla nascita e mia moglie con lui e fu solo quando la malattia mi colpì
che mi resi conto di quanto mi fossi negato d’essere felice. Perché tu mi hai
portato un genere di felicità che non mi ero mai aspettato di sperimentare.
Perché hai paura dell’acqua e volevo che scoprissi che cos’è che spinge gli
uomini a sconfiggere Oceano e ad avventurarsi nell’ignoto…
La sua voce si
affievolì. Aveva ragione. A bordo di questa nave saldamente ormeggiata ad un
laghetto nell’entroterra, persino per me era facile capire Odisseo ed i suoi
uomini.
- E, - concluse
lui, - perché quando non ci sarò più la tua vita sarà affollata e affacendata oltre ogni tua immaginazione ed il
tuo appartamento non sarà sufficiente a darti riservatezza quando vorrai
davvero stare da sola. Così potrai venire qui… C’è una piccola cabina dove puoi
riposare e leggere. Dovrai occuparti di arredarla. Sei molto più brava di me in
questo…
Mi offrì il
braccio e io lo presi dopo una breve esitazione. Insieme visitammo la
nave. Quando finimmo, mi sforzai di
parlare.
- Gr-grazie, domine, - dissi. - Mi hai fatto molti regali, ma farò tesoro di
questo per sempre.
Egli sorrise.
- Ne sono certo, domina. - Sollevò la testa per verificare la posizione del
sole, poi rabbrividì. - E’ tardi. Torniamo a casa.
Fu l’ultima volta
che uscimmo insieme. Poco dopo essere arrivati alla villa, Mario Servilio si
sentì poco bene e andò a letto. Più tardi quella notte ebbe un’emorragia. Non
lasciò più il suo appartamento. Non visse neanche abbastanza per vedere la Sirena messa in acqua. Volevo accelerare la costruzione
tuttavia egli non mi permise di farlo.
- Certe cose non possono essere affrettate, - disse pazientemente. - Ci vuole
un certo tempo per bollire un uovo, generare un bambino e costruire una buona
nave. Se non sarà pronta in tempo, tu ti prenderai buona cura della mia nave…
Trascorsi gli
ultimi mesi accanto a lui. Talvolta Apollinario o Merith venivano a tenermi
compagnia ma molto spesso le loro responsabilità li reclamavano. Quando Mario
Servilio stava abbastanza bene, lo informavo brevemente sugli affari e
discutevo contratti e idee con lui. Ma, col passare delle settimane, egli diventava
sempre più debole e la febbre tornava sempre più spesso. Aveva dolori,
sanguinava, aveva perfino le convulsioni ogni tanto. Il suo povero corpo
rifiutava il cibo e i pasti finivano spesso in vomito. I suoi reni si
indebolirono. Poi il suo cuore. Ormai Sesostris gli stava dando pericolose dosi
di oppio e digitale per aiutarlo a sopportare il dolore ed impedire che il suo
cuore cessasse di battere. A rendere peggiori le cose, Mario Servilio non si
lamentò mai o si arrabbiò o infuriò contro l’iniquità del suo fato. Al contrario, giaceva nel
letto, guardando i modellini navali e i murali marini, silenzioso ed
estremamente dignitoso
nell’indegnità assoluta della malattia.
La fine venne un
pomeriggio tranquillo di primavera, poco dopo il terzo anniversario delle
nostre nozze. Eravamo soli. Per giorni e giorni egli era stato tra il delirio e
la coscienza. Era un giorno inadeguatamente sereno, con il sole che filtrava
dalla finestra, la brezza che muoveva gentilmente le tende, il profumo di fiori
e il ronzare delle api a riempire l’aria. Eppure la morte va e viene con
volontà propria e sembra trovare uno speciale piacere nel prendersi gioco di
noi, così non fui sorpresa che scegliesse quella bella giornata per reclamare
l’uomo forte e giusto che avevo sposato per vendetta e che ero giunta a
considerare un amico.
- Giulia…
La voce di Mario
Servilio era così debole che a malapena raggiunse le mie orecchie. Alzai la
testa dal rotolo che stavo cercando invano di leggere e sentii un dolore sordo
al cuore. Quanto poco rimaneva dell’uomo affascinante che avevo sposato! In
qualche modo, egli riuscì a sorridere. Mi alzai e andai verso il suo letto, vi
sedetti e gli presi la mano ossuta e fredda nella mia. Con grande sforzo, mio
marito riuscì a stringerla in modo rassicurante.
- E’ la fine…
Giulia… - sussurrò nel suo tono sempre ragionevole.
Serrai le labbra
per impedir loro di tremare.
- Domine, ti prego… non ti sforzare. Hai bisogno delle tue forze…
- E’ finita,
Giulia. Lo sappiamo entrambi…
Aveva ragione.
Era finita. Il momento in cui si staccava da sofferenza e dolore,
dall’indecorosità della malattia… Il momento in cui usciva dalla mia vita.
Inghiottii dolorosamente. Prima che potessi parlare di nuovo, egli continuò:
- Ho avuto una buona vita… Ho fatto quello che volevo fare… non molti possono
dire lo stesso… Oh, alla fine, non aiuta! Rende la dipartita ancora più
difficile…
Sempre lottando
per le parole, lottando per l’aria, io strinsi la sua mano in risposta.
- Non essere
triste per me, Giulia…
- Domine… - per
metà sussurrai, per metà singhiozzai.
Non potevo
sopportarlo. Non potevo vederlo soffrire. Non potevo lasciarlo andare.
- Shhhh… Giulia…
Giulia… non essere triste. Come ho detto, ho avuto comunque una buona vita…
Si fermò e
sospirò profondamente. Dolorosamente. Io esaminai il suo volto emaciato con
ansietà alimentata dal panico.
- Non ho che un
rimpianto… Mi dispiace non aver punito l’uomo che ti ha reso così triste…
Inghiottii di
nuovo, ma il groppo nella mia gola rifiutò di andarsene. Cercai di sorridere.
- E’… è cosa
passata, domine. Non possiamo cambiare il passato. L’imperatore mi ha
restituito la libertà e tu mi hai insegnato ad affrontare la vita…
Egli rise. Era un
suono secco e doloroso che gorgogliò nella sua gola serrata.
- No, Giulia, non
il tuo padrone, ma l’uomo che ami… l’uomo che non ti ama… E’ uno stupido…
Sconcertata
guardai negli occhi morenti di Mario Servilio e vi vidi quel genere di lucidità
che raggiungiamo soltanto quando siamo alle soglie della morte, perché
altrimenti non saremmo mai in grado di sopportarne le rivelazioni.
- E’ uno stupido…
- ripeté. - E anch’io sono stato uno stupido … Avrei dovuto essere un marito
per te… un vero marito… non la patetica cosa che sono stato…
- Tu sei un buon
marito, domine, - dissi, e non stavo mentendo.
A suo modo, egli
era stato un consorte migliore di molti uomini. Non mi aveva mai insultata
pavoneggiandosi con amanti o bambini bastardi. Non mi aveva usata per avanzare
socialmente o per nascondere un’inclinazione per ragazzi dai volti lisci e
dagli occhi dipinti. Non aveva sperperato il mio denaro scommettendo alle corse
delle bighe o ai dadi né mi aveva picchiata in un eccesso da ubriaco. Al
contrario, mi aveva trattata con rispetto e deferenza. Aveva avuto cura di me.
Mi aveva incoraggiata a migliorarmi. Mi aveva onorata come moglie e come donna.
Mi aveva trattata come un’amica. All’improvviso, mi sentii sopraffatta dalla
presenza della morte. Dalla presenza dell’amore. Dall’immensità della perdita.
Dall’immensità della solitudine. Dalla finalità del tutto.
- Giulia… Giulia…
solo una volta… di’ il mio nome, Giulia… chiamami per nome…
Il suo nome. Da
quando ero diventata una donna libera mi ero cocciutamente rifiutata di
chiamare qualunque uomo per nome, tranne Apollinario. E Massimo, ma Massimo non
c’era. Non c’era da anni. L’intimità di usare i nomi degli uomini era più di
quanto fossi pronta ad accettare. Adesso, era la cosa giusta da fare, tuttavia
lottavo contro la mia gola secca e serrata ed il senso di tradimento.
- M-Mario… -
riuscii finalmente a sussurrare. Ma non avevo bisogno di guardare negli occhi
di mio marito per sapere che era morto.
Preparai io
stessa Mario Servilio per la pira funebre. Lavai il suo povero corpo smagrito e
pettinai i suoi capelli d’argento. Strofinai olio fragrante sulla sua pelle
raggrinzita e lo avvolsi
nella sua toga picta. Lo vegliai da sola,
piangendo la sua perdita, guardando nel suo volto e non vedendo l’emaciato
cadavere di un uomo che aveva perso una battaglia senza speranza contro la
malattia ma l’uomo vibrante, giovane e ridente che Pollia Sabina Marcia aveva
sposato. L’uomo che io avevo solo intravisto.
L’uomo che adesso
era perduto a me per sempre.
Seguendo le sue
istruzioni, ordinai di cremarlo sulla spiaggia. I lavoratori del cantiere
fecero a pezzi la vecchia nave la cui copia orgogliosamente aveva sede al
laghetto della villa e prepararono la pira. Come aveva previsto con la sua
mente pratica, c’era abbastanza legna in essa per prendersi cura dei suoi
resti. Una folla si radunò sulla sabbia. Soci d’affari. Amici. Servitori.
Capisquadra. Capitani. Marinai. Commercianti. I suoi ex segretari, ora elevati
ad agenti liberi e ricchi. Donne che avevano sperato di sposarlo o che forse lo
avevano amato. Anche schiavi. Atenodoro. Nicia. Apollinario. La coppia greca
stava piangendo apertamente. Il viso del mio tutore era grave. Sesostris e
Merith rimanevano ad occhi asciutti. Avevano visto troppe morti, troppe volte e
in modi terribili per esser facilmente portati alle lacrime.
Ci furono elegie.
Alcuni uomini parlarono di Mario Servilio Tibullo. Parlarono di lui con
rispetto e ammirazione. Perfino con amore. Essi avevano conosciuto l’uomo come
io non ero riuscita. Come io mi ero rifiutata.
Quando le elegie
terminarono, un uomo robusto prese in mano una torcia. Io mi feci forza per
affrontare il momento in cui avrebbe appiccato il fuoco. Il momento dell’addio
finale, quando l’estrema solitudine si sarebbe abbattuta su di me … Ma l’uomo si voltò e mi porse la
torcia. Tutti gli occhi erano fissi su di me, la vedova ventiduenne. La donna
sconosciuta apparsa dal nulla che aveva sposato il ricco armatore che avrebbe
potuto essere suo padre. Il ricco armatore che si sarebbe potuto comprare la
moglie che voleva, perfino una fanciulla di rango elevato. Invece, egli aveva
scelto una solitaria, bella ex prostituta innamorata di un altro uomo. Una
giovane dai capelli rosso-oro che non lo aveva sposato per denaro ma per
vendetta.
Obbligandomi ad
agire, presi la torcia e andai verso la pira. Lambii i pezzi di tela intrisi
d’olio di sandalo infilati tra i tronchi e li accesi. Si incendiarono con
facilità e presto il fuoco fu dapprima scoppiettante, poi ruggente. Quando le
fiamme raggiunsero la fila superiore e circondarono il corpo di mio marito mi voltai e in
silenzio tornai verso la casa.
Le donne mi
seguirono. E’ dovere degli uomini rimanere finché il corpo sia consumato e le
ceneri vengano recuperate per essere poste in un’urna e portate alla cripta di
famiglia. L’urna di Mario Servilio sarebbe stata collocata accanto a quella di
Pollia Sabina Marcia e del loro bimbo, morti da lungo tempo. Egli meritava di
riposare accanto a qualcuno che aveva amato e che lo aveva amato, un magro
compenso per una vita di solitudine.
Attraversai le
stanze deserte della casa rivestita a lutto e salii le scale verso il mio
appartamento, con alle calcagna una Nicia che tirava su dal naso. Mi aiutò a
togliere il mantello funebre che mi copriva la testa e, senza una parola, mi
sciolse i capelli. Sorrisi debolmente a quel gesto d’attenzione e mi voltai
verso di lei.
- Vai a riposare, Nicia. Svegliami all’alba. Ho una nave da costruire.
Misi in acqua la Sirena due mesi dopo. Era una bellezza, la miglior nave che
la flotta di mio marito avesse mai avuto. Mario Servilio aveva immaginato un
vascello potente, affidabile e tuttavia veloce che gli avrebbe permesso di
superare ancora una volta i suoi avversari. Io andai anche oltre. Nei due anni
successivi, costruii altri sei vascelli simili e intrapresi un ambizioso piano
per sostituire i vecchi vascelli ed espandere le operazioni navali. I cantieri
navali lavorarono extra per soddisfare i numerosi ordini che ricevetti da altri
mercanti. Ma non accettai mai una commissione per costruire una nave come la Sirena per nessun cliente, non importa quanto denaro offrisse.
Lo dovevo a Mario Servilio. Le sue navi erano state i figli che non aveva mai
avuto e quella in particolare era la sua preferita.
Il commercio
fiorì. Divenni anora più ricca. Molto prima che il mio periodo di lutto
finisse, gli uomini cominciarono a corteggiarmi. C’era troppo in ballo per
perdere tempo e gli uomini ambiziosi non permettono di farsi disturbare dalla
morale. Una giovane, bella vedova che era anche ricca oltre i loro sogni più
selvaggi era troppo allettante. Il fatto che io fossi senza figli ad un’età in
cui molte donne avevano dato nascita tre o quattro volte non li preoccupava.
Molti erano già divorziati o vedovi e avevano figli. In ogni caso, Roma è una
società pratica e l’adozione è molto facile da conseguire.
Non appena il
lutto fu finito, alcuni altri uomini si proposero.
In ogni caso,
chiarii subito che non mi sarei mai più sposata.
Poco prima di
partire per Roma per il viaggio decisivo che mi avrebbe inaspettatamente
riunita a Massimo, Merith mi fece visita. Lei e Sesostris nel giro di pochi
giorni sarebbero tornati ad Alessandria su una delle mie navi. La ricevetti nel
mio appartamento, un onore che non ho mai dispensato a nessuno… nemmeno al mio
stesso marito… tranne ad Apollinario. Se il suo lusso la impressionò, non lo
diede a vedere. Invece, s’inchinò rispettosamente verso i miei gatti e mormorò
qualcosa che suonava come una preghiera in quello che suppongo fosse il
linguaggio dell’antico Egitto.
- Non volevo
partire senza vederti, mia signora.
Merith parlava un
latino fluente tuttavia preferiva ancora il greco.
- Le signore in
Ostia sentiranno la tua mancanza…
- Non c’è bisogno
che si preoccupino. Una delle mie figlie si è sposata qualche settimana fa e
rimarrà in città. Si prenderà buona cura di loro e dei loro bambini.
- Un’altra donna
medico?
Merith rise.
- No, mia signora. La giovane Merith ha sposato uno dei tuoi impiegati! Un
giovane scriba che si pensa avrà un brillante futuro davanti a sé.
- Deve essere
duro per te lasciarla qui… - La famiglia di Merith era sempre sembrata molto
unita.
- Oh, la dea sa
che cosa ella fa e perché. La madre Iside deve avere una buona ragione per
volere qui la mia ragazza.
- Hai una gran
fede nella tua dea, Merith.
- E’ saggia e
potente. Come potrebbe essere diversamente? E’ una donna. Conosce tutte le
forme di felicità e tutte le forme di dolore che ogni donna prova nella vita:
ella ha amato, concepito, dato nascita con dolore e sangue, ha perso il suo
uomo, ha pianto per lui, ha visto suo figlio vendicarlo e, infine, si è riunita
a lui. Non puoi fare a meno di fidarti di una divinità così vicina all’essere
umano…
- Eppure non ha
potuto salvare l’Egitto dai Romani…
- Mia signora,
l’Egitto non è stato sconfitto o tradito dagli dei o dalle dee ma da uomini
infidi, gelosi, corrotti… come sarà Roma a tempo debito.
C’era qualcosa di
inquietante nelle parole della donna egizia. Rabbrividii.
- La madre Iside
non è la Dea Roma, mia signora. Non è una giovane dea ascesa al potere, adorata
da uomini e donne che credono di poter diventare divini o creare divinità a
loro piacimento …
Rimanemmo in
silenzio per un lungo istante, poi Merith si alzò.
- Ti ho preso più
tempo di quanto avrei dovuto… Mia signora, possa la madre Iside proteggerti.
- Grazie, Merith.
Possa la dea benedire anche te e concederti un sicuro ritorno ad Alessandria…
Ci tenemmo le
mani per un momento, poi la femina medica
si voltò per andarsene, mentre io mi voltavo verso la mia camera. Tuttavia,
ella si fermò sulla soglia come se avesse avuto un ripensamento.
- Mia signora? - chiamò. - Ti prego, ricordati di mia figlia…
La guardai
perplessa.
- Vuoi che controlli che stia bene e ti scriva di lei? - chiesi, già certa di
essermi persa qualcosa di importante. Ma forse Merith e Sesostris non si
fidavano completamente del loro genero. Il sorriso di lei mi confermò che avevo
sbagliato.
- La giovane
Merith può perfettamente prendersi cura di se stessa, mia singora. Ciò che
intendevo era che tu ti ricordi di lei quando verrà il tuo tempo…
Sbiancai.
Conoscevo abbastanza Merith da sapere che non stava parlando spinta dalla
cortesia, come le donne che hanno avuto figli parlano a quelle che ancora non
ne hanno avuti o che sono sospettate di essere sterili. Stava insinuando
qualcosa a cui non avevo nemmeno osato pensare. Un sogno che avevo avuto in Moesia
sei anni prima lottò per tornare in superficie e mi colpì il cuore e l’anima
con la sua dolorosa bellezza e il suo amaro risultato. Una vita di schiavitù e
prostituzione e sei anni di libertà, cinque dei quali da donna ricca e potente,
gli ultimi due come donna d’affari e vedova mi avevano insegnato a tenere le
mie emozioni sotto stretto controllo e ad addestrare il mio viso ad essere una
maschera illeggibile. Eppure sapevo che Merith poteva vedere al di là di essa.
Ella sorrise e il suo sorriso impercettibile era molto simile a quello della
sua dea: sereno, saggio, affettuoso.
- Madre Iside ti
favorisce, mia signora. Come non potrebbe? Sei una donna… Il tuo tempo verrà. E
più presto di quanto ti aspetti.