Diario di Giulia - Parte seconda

Diario di Giulia (indice capitoli)
Diario di Giulia - Parte seconda (indice capitoli)


Storie de Il Gladiatore

Julia’s Journal
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Capitolo VIII - Vedovanza, 178 d.C. - Parte seconda

Sidereum fu il cavallo più mite e gentile che mai avrei avuto. Gli piaceva stare vicino alla gente e amava essere accarezzato, in special modo sulla fronte. Se posavo contro di essa il palmo della mano senza spostarlo, Sidereum cominciava a dare colpi leggeri su e giù con la testa e a strofinarla da solo. Una volta sellato, diventava molto serio, attirando l’attenzione per il suo portamento fiero. Teneva sempre la testa molto alta. Il suo passo era molto lungo, il suo trotto veloce e confortevole, il suo piccolo galoppo lento e cullante. E non si spaventava mai, sia che lo portassi nei boschi, sulle colline o sulla spiaggia. Dal momento del suo arrivo, presi l’abitudine di cavalcare almeno un’ora al giorno quando il tempo era bello e fu allora che cominciai ad esplorare davvero la proprietà, che includeva anche un grande laghetto pescoso al di là di un grazioso campo coperto d’erba tenera e fiori selvatici. Talvolta Apollinario si costringeva a prendere un vecchio cavallo tranquillo e cavalcava con me, ma il mio precettore non era mai stato a suo agio con questi grossi animali e non era un cavaliere abbastanza bravo per galoppare accanto a me. In quanto a Mario Servilio, aveva cavalcato molto in gioventù, ma adesso si tratteneva dal farlo a causa della sua salute, perché si stancava sempre più facilmente e non poteva rischiare di cadere. Così la maggior parte del tempo cavalcavo da sola e ne ero ancor più lieta.

Dopo averlo preso per cavalcare, mi piaceva strigliare io stessa Sidereum e quell’operazione finiva sempre tra risate e sbuffi perché lui mi ripagava per le mie attenzioni mordicchiandomi delicatamente i vestiti, come se io fossi un altro cavallo e lui stesse cercando di aiutarmi a pulire il mio mantello. Gli piacevano in modo particolare le cinture di morbida pelle delle tuniche che usavo per cavalcare, e io ridacchiavo inerme mentre lui mi solleticava la pancia tirandole giocosamente. E quando finivo di spazzolargli il mantello, gli piaceva mettere il muso sul mio collo e stare lì, soffiandomi nell’orecchio… Erano momenti di pace incredibile, nella mia vita affacendata e sempre in mutamento. E anche quei momenti mi rammentavano Massimo e io non potevo che chiedermi una volta di più dove egli fosse, che cosa stesse facendo, se si trovava in Germania o in Ispania, se era nel suo accampamento o alla sua fattoria, se era solo o con sua moglie o se si era preso un’amante nonostante il suo rifiuto di avere me per amore della donna che aveva sposato… la donna che amava tanto da rifiutare di diventare il genero dell’imperatore e forse il suo erede. Mi chiedevo se fosse al sicuro o in pericolo, se fosse stato ferito in battaglia o, peggio ancora, ucciso in qualche tetra foresta. E, mentre respiravo il confortante odore di cavalli, cuoio e fieno che permeava la stalla, mi chiedevo se avesse mai pensato a me, ad una schiava prostituta di diciotto anni dai capelli rosso-oro che aveva condiviso con lui il pericolo e l’intimità… invariabilmente, questa linea di pensiero finiva con un secco singhiozzo contro il collo caldo di Sidereum ed esso rispondeva al mio sconforto soffiandomi gentilmente nell’orecchio una volta di più, offrendomi il conforto della sua compagnia, e la sua lealtà e il suo grande corpo robusto nel modo altruista che solo gli animali conoscono.

Dopo Sidereum, mio marito continuò a mandarmi regali con stupefacente regolarità tuttavia non me li consegnò mai più personalmente. Invece, li faceva consegnare come aveva fatto in passato tramite i suoi segretari, la mia governante, il mio precettore o l’intendente. Fu solo un anno dopo che mi aveva donato Sidereum che mi diede un altro regalo personalmente. Per allora, io avevo già imparato abbastanza del suo commercio da essere in grado di rilevarlo da molti incarichi gravosi e lui poté concentrarsi nella costruzione della Sirena. Tuttavia un pomeriggio egli mi chiese di andare con lui su un piccolo carro già fermo alla porta principale della villa.  Io fui sorpresa di scoprire che lo stava guidando lui stesso. Discendemmo la strada principale della proprietà, ombreggiata da alberi, e poco dopo giungemmo ad un sentiero polveroso e lasciammo la strada. Mezz’ora dopo, raggiungemmo il campo con la sua deliziosa mescolanza di tenere erbe e fiori selvatici. Non ero stata lì che una volta o due, cavalcando Sidereum, ma anche se mi piaceva moltissimo il laghetto, non mi ero attardata nei dintorni e avevo invece galoppato fino alla spiaggia. Ora, una strana forma spuntava dal centro del campo. Socchiusi gli occhi, cercando di distinguerla…

No… era impossibile. Eppure, eccola: una nave si stagliava placidamente nel centro del laghetto, una nave mercantile di dimensioni naturali, con alberi e vele avvolte. Una nave molto simile a quelle che avevo visto al porto. Una nave pronta per il mare… Nondimeno se ne stava in mezzo allo stagno, sembrando quasi attraccata lì. La circondavano sculture di marmo raffiguranti ogni specie di creatura marina, sculture poste su piedistalli sommersi che, come la nave, non c’erano quando avevo visto il laghetto l’ultima volta.

Mi meravigliai alla vista dei dettagli del vascello di legno: le vele legate, il suo sartiame che gemeva nel vento. Sul ponte c’erano barili e casse da imballaggio, proprio come avrebbe dovuto averne una vera nave mercantile. Sbalordita mi voltai verso mio marito ed egli sorrise.
- E’ una copia a grandezza naturale del Poseidon, - disse. - Dal momento che sei spaventata dalle navi vere, pensavo che avresti dovuto averne una tutta per te, una nave sicura in un luogo sicuro.

Mario Servilio mi fece cenno di scendere dal carro e andammo verso gli arbusti che circondavano il laghetto. C’era un passaggio ed un sentiero che conduceva alla nave, fatto di pietre piatte spaziate in modo regolare per rendere facile il cammino. Il sentiero si allungava verso la sponda, poi continuava nell’acqua. Io ero stupefatta: Mario Servilio aveva fatto costruire un sentiero sicuro e confortevole apposta per me, così che fossi in grado di raggiungere la nave senza entrare nell’acqua. Incerta, feci un passo sulla prima pietra, poi ridacchiai: un pesce sfrecciò tra i suoi fratelli di pietra, piante acquatiche spuntarono dalle profondità del laghetto in tonalità scure di fiori verdi e blu. Era come camminare sull’acqua!

Mentre mi avventuravo più avanti nello stagno studiai le sculture di marmo di pesci guizzanti e contorti mostri marini. Otto passi dopo raggiungemmo la nave; Mario Servilio afferrò la scala di corda e mi aiutò a salire a bordo prima di tirarsi da solo sul ponte con un agio nato da lunga pratica. Alzai lo sguardo sull’albero maestro dall’altezza vertiginosa, poi guardai i barili e le casse. Il ponte risuonava sotto i nostri passi e l’acqua era ben lontana sotto di noi, tuttavia io ero talmente affascinata dall’assoluta bellezza e magia della nave adagiata nel laghetto e dalla premura dell’uomo che avevo sposato, da dimenticare che avevo paura di annegare. In silenzio camminai fino alla poppa. Sul davanti della nave c’era la statua di marmo di una sensuale sirena, con la coda di pesce che le si arricciava in modo seducente attorno ai fianchi e i lunghi capelli che le nascondevano i seni.
- Considerando il nome che hai scelto per la nuova nave, sembrava appropriato metterla in quel punto, - disse Mario Servilio appoggiando i gomiti sulla ringhiera. Rimanemmo lì, in silenzio cameratesco, per un lungo momento. Poi, io posi la domanda che gli avevo fatto più di una volta nel corso dei quasi tre anni che eravamo sposati.
- Perché?

- Perché?, - ripeté. - Perché? Perché non voglio che il Poseidon scompaia completamente dalla faccia della terra. Mi ha reso servizi eccellenti e io sono un padrone riconoscente. Perché trent’anni fa, quando seppi che stavo per diventare padre, costruii una copia della nave affinché mio figlio ci potesse giocare con sicurezza ed imparasse ad amare il mare. Perché mio figlio morì alla nascita e mia moglie con lui e fu solo quando la malattia mi colpì che mi resi conto di quanto mi fossi negato d’essere felice. Perché tu mi hai portato un genere di felicità che non mi ero mai aspettato di sperimentare. Perché hai paura dell’acqua e volevo che scoprissi che cos’è che spinge gli uomini a sconfiggere Oceano e ad avventurarsi nell’ignoto…

La sua voce si affievolì. Aveva ragione. A bordo di questa nave saldamente ormeggiata ad un laghetto nell’entroterra, persino per me era facile capire Odisseo ed i suoi uomini.

- E, - concluse lui, - perché quando non ci sarò più la tua vita sarà affollata e affacendata oltre ogni tua immaginazione ed il tuo appartamento non sarà sufficiente a darti riservatezza quando vorrai davvero stare da sola. Così potrai venire qui… C’è una piccola cabina dove puoi riposare e leggere. Dovrai occuparti di arredarla. Sei molto più brava di me in questo…

Mi offrì il braccio e io lo presi dopo una breve esitazione. Insieme visitammo la nave.  Quando finimmo, mi sforzai di parlare.
- Gr-grazie, domine, - dissi. - Mi hai fatto molti regali, ma farò tesoro di questo per sempre.

Egli sorrise.
- Ne sono certo, domina. - Sollevò la testa per verificare la posizione del sole, poi rabbrividì. - E’ tardi. Torniamo a casa.

 

Fu l’ultima volta che uscimmo insieme. Poco dopo essere arrivati alla villa, Mario Servilio si sentì poco bene e andò a letto. Più tardi quella notte ebbe un’emorragia. Non lasciò più il suo appartamento. Non visse neanche abbastanza per vedere la Sirena messa in acqua. Volevo accelerare la costruzione tuttavia egli non mi permise di farlo.
- Certe cose non possono essere affrettate, - disse pazientemente. - Ci vuole un certo tempo per bollire un uovo, generare un bambino e costruire una buona nave. Se non sarà pronta in tempo, tu ti prenderai buona cura della mia nave…

Trascorsi gli ultimi mesi accanto a lui. Talvolta Apollinario o Merith venivano a tenermi compagnia ma molto spesso le loro responsabilità li reclamavano. Quando Mario Servilio stava abbastanza bene, lo informavo brevemente sugli affari e discutevo contratti e idee con lui. Ma, col passare delle settimane, egli diventava sempre più debole e la febbre tornava sempre più spesso. Aveva dolori, sanguinava, aveva perfino le convulsioni ogni tanto. Il suo povero corpo rifiutava il cibo e i pasti finivano spesso in vomito. I suoi reni si indebolirono. Poi il suo cuore. Ormai Sesostris gli stava dando pericolose dosi di oppio e digitale per aiutarlo a sopportare il dolore ed impedire che il suo cuore cessasse di battere. A rendere peggiori le cose, Mario Servilio non si lamentò mai o si arrabbiò o infuriò contro l’iniquità del suo fato. Al contrario, giaceva nel letto, guardando i modellini navali e i murali marini, silenzioso ed estremamente dignitoso nell’indegnità assoluta della malattia.

La fine venne un pomeriggio tranquillo di primavera, poco dopo il terzo anniversario delle nostre nozze. Eravamo soli. Per giorni e giorni egli era stato tra il delirio e la coscienza. Era un giorno inadeguatamente sereno, con il sole che filtrava dalla finestra, la brezza che muoveva gentilmente le tende, il profumo di fiori e il ronzare delle api a riempire l’aria. Eppure la morte va e viene con volontà propria e sembra trovare uno speciale piacere nel prendersi gioco di noi, così non fui sorpresa che scegliesse quella bella giornata per reclamare l’uomo forte e giusto che avevo sposato per vendetta e che ero giunta a considerare un amico.

- Giulia…

La voce di Mario Servilio era così debole che a malapena raggiunse le mie orecchie. Alzai la testa dal rotolo che stavo cercando invano di leggere e sentii un dolore sordo al cuore. Quanto poco rimaneva dell’uomo affascinante che avevo sposato! In qualche modo, egli riuscì a sorridere. Mi alzai e andai verso il suo letto, vi sedetti e gli presi la mano ossuta e fredda nella mia. Con grande sforzo, mio marito riuscì a stringerla in modo rassicurante.

- E’ la fine… Giulia… - sussurrò nel suo tono sempre ragionevole.

Serrai le labbra per impedir loro di tremare.
- Domine, ti prego… non ti sforzare. Hai bisogno delle tue forze…

- E’ finita, Giulia. Lo sappiamo entrambi…

Aveva ragione. Era finita. Il momento in cui si staccava da sofferenza e dolore, dall’indecorosità della malattia… Il momento in cui usciva dalla mia vita. Inghiottii dolorosamente. Prima che potessi parlare di nuovo, egli continuò:
- Ho avuto una buona vita… Ho fatto quello che volevo fare… non molti possono dire lo stesso… Oh, alla fine, non aiuta! Rende la dipartita ancora più difficile…

Sempre lottando per le parole, lottando per l’aria, io strinsi la sua mano in risposta.

- Non essere triste per me, Giulia…

- Domine… - per metà sussurrai, per metà singhiozzai.

Non potevo sopportarlo. Non potevo vederlo soffrire. Non potevo lasciarlo andare.

- Shhhh… Giulia… Giulia… non essere triste. Come ho detto, ho avuto comunque una buona vita…

Si fermò e sospirò profondamente. Dolorosamente. Io esaminai il suo volto emaciato con ansietà alimentata dal panico.

- Non ho che un rimpianto… Mi dispiace non aver punito l’uomo che ti ha reso così triste…

Inghiottii di nuovo, ma il groppo nella mia gola rifiutò di andarsene. Cercai di sorridere.

- E’… è cosa passata, domine. Non possiamo cambiare il passato. L’imperatore mi ha restituito la libertà e tu mi hai insegnato ad affrontare la vita…

Egli rise. Era un suono secco e doloroso che gorgogliò nella sua gola serrata.

- No, Giulia, non il tuo padrone, ma l’uomo che ami… l’uomo che non ti ama… E’ uno stupido…

Sconcertata guardai negli occhi morenti di Mario Servilio e vi vidi quel genere di lucidità che raggiungiamo soltanto quando siamo alle soglie della morte, perché altrimenti non saremmo mai in grado di sopportarne le rivelazioni.

- E’ uno stupido… - ripeté. - E anch’io sono stato uno stupido … Avrei dovuto essere un marito per te… un vero marito… non la patetica cosa che sono stato…

- Tu sei un buon marito, domine, - dissi, e non stavo mentendo.

A suo modo, egli era stato un consorte migliore di molti uomini. Non mi aveva mai insultata pavoneggiandosi con amanti o bambini bastardi. Non mi aveva usata per avanzare socialmente o per nascondere un’inclinazione per ragazzi dai volti lisci e dagli occhi dipinti. Non aveva sperperato il mio denaro scommettendo alle corse delle bighe o ai dadi né mi aveva picchiata in un eccesso da ubriaco. Al contrario, mi aveva trattata con rispetto e deferenza. Aveva avuto cura di me. Mi aveva incoraggiata a migliorarmi. Mi aveva onorata come moglie e come donna. Mi aveva trattata come un’amica. All’improvviso, mi sentii sopraffatta dalla presenza della morte. Dalla presenza dell’amore. Dall’immensità della perdita. Dall’immensità della solitudine. Dalla finalità del tutto.

- Giulia… Giulia… solo una volta… di’ il mio nome, Giulia… chiamami per nome…

Il suo nome. Da quando ero diventata una donna libera mi ero cocciutamente rifiutata di chiamare qualunque uomo per nome, tranne Apollinario. E Massimo, ma Massimo non c’era. Non c’era da anni. L’intimità di usare i nomi degli uomini era più di quanto fossi pronta ad accettare. Adesso, era la cosa giusta da fare, tuttavia lottavo contro la mia gola secca e serrata ed il senso di tradimento.

- M-Mario… - riuscii finalmente a sussurrare. Ma non avevo bisogno di guardare negli occhi di mio marito per sapere che era morto.

 

Preparai io stessa Mario Servilio per la pira funebre. Lavai il suo povero corpo smagrito e pettinai i suoi capelli d’argento. Strofinai olio fragrante sulla sua pelle raggrinzita e lo avvolsi nella sua toga picta. Lo vegliai da sola, piangendo la sua perdita, guardando nel suo volto e non vedendo l’emaciato cadavere di un uomo che aveva perso una battaglia senza speranza contro la malattia ma l’uomo vibrante, giovane e ridente che Pollia Sabina Marcia aveva sposato. L’uomo che io avevo solo intravisto.

L’uomo che adesso era perduto a me per sempre.

 

Seguendo le sue istruzioni, ordinai di cremarlo sulla spiaggia. I lavoratori del cantiere fecero a pezzi la vecchia nave la cui copia orgogliosamente aveva sede al laghetto della villa e prepararono la pira. Come aveva previsto con la sua mente pratica, c’era abbastanza legna in essa per prendersi cura dei suoi resti. Una folla si radunò sulla sabbia. Soci d’affari. Amici. Servitori. Capisquadra. Capitani. Marinai. Commercianti. I suoi ex segretari, ora elevati ad agenti liberi e ricchi. Donne che avevano sperato di sposarlo o che forse lo avevano amato. Anche schiavi. Atenodoro. Nicia. Apollinario. La coppia greca stava piangendo apertamente. Il viso del mio tutore era grave. Sesostris e Merith rimanevano ad occhi asciutti. Avevano visto troppe morti, troppe volte e in modi terribili per esser facilmente portati alle lacrime.

Ci furono elegie. Alcuni uomini parlarono di Mario Servilio Tibullo. Parlarono di lui con rispetto e ammirazione. Perfino con amore. Essi avevano conosciuto l’uomo come io non ero riuscita. Come io mi ero rifiutata.

Quando le elegie terminarono, un uomo robusto prese in mano una torcia. Io mi feci forza per affrontare il momento in cui avrebbe appiccato il fuoco. Il momento dell’addio finale, quando l’estrema solitudine si sarebbe abbattuta su di me … Ma l’uomo si voltò e mi porse la torcia. Tutti gli occhi erano fissi su di me, la vedova ventiduenne. La donna sconosciuta apparsa dal nulla che aveva sposato il ricco armatore che avrebbe potuto essere suo padre. Il ricco armatore che si sarebbe potuto comprare la moglie che voleva, perfino una fanciulla di rango elevato. Invece, egli aveva scelto una solitaria, bella ex prostituta innamorata di un altro uomo. Una giovane dai capelli rosso-oro che non lo aveva sposato per denaro ma per vendetta.

Obbligandomi ad agire, presi la torcia e andai verso la pira. Lambii i pezzi di tela intrisi d’olio di sandalo infilati tra i tronchi e li accesi. Si incendiarono con facilità e presto il fuoco fu dapprima scoppiettante, poi ruggente. Quando le fiamme raggiunsero la fila superiore e circondarono il corpo di mio marito mi voltai e in silenzio tornai verso la casa.

Le donne mi seguirono. E’ dovere degli uomini rimanere finché il corpo sia consumato e le ceneri vengano recuperate per essere poste in un’urna e portate alla cripta di famiglia. L’urna di Mario Servilio sarebbe stata collocata accanto a quella di Pollia Sabina Marcia e del loro bimbo, morti da lungo tempo. Egli meritava di riposare accanto a qualcuno che aveva amato e che lo aveva amato, un magro compenso per una vita di solitudine.

Attraversai le stanze deserte della casa rivestita a lutto e salii le scale verso il mio appartamento, con alle calcagna una Nicia che tirava su dal naso. Mi aiutò a togliere il mantello funebre che mi copriva la testa e, senza una parola, mi sciolse i capelli. Sorrisi debolmente a quel gesto d’attenzione e mi voltai verso di lei.
- Vai a riposare, Nicia. Svegliami all’alba. Ho una nave da costruire.

 

Misi in acqua la Sirena due mesi dopo. Era una bellezza, la miglior nave che la flotta di mio marito avesse mai avuto. Mario Servilio aveva immaginato un vascello potente, affidabile e tuttavia veloce che gli avrebbe permesso di superare ancora una volta i suoi avversari. Io andai anche oltre. Nei due anni successivi, costruii altri sei vascelli simili e intrapresi un ambizioso piano per sostituire i vecchi vascelli ed espandere le operazioni navali. I cantieri navali lavorarono extra per soddisfare i numerosi ordini che ricevetti da altri mercanti. Ma non accettai mai una commissione per costruire una nave come la Sirena per nessun cliente, non importa quanto denaro offrisse. Lo dovevo a Mario Servilio. Le sue navi erano state i figli che non aveva mai avuto e quella in particolare era la sua preferita.

 

Il commercio fiorì. Divenni anora più ricca. Molto prima che il mio periodo di lutto finisse, gli uomini cominciarono a corteggiarmi. C’era troppo in ballo per perdere tempo e gli uomini ambiziosi non permettono di farsi disturbare dalla morale. Una giovane, bella vedova che era anche ricca oltre i loro sogni più selvaggi era troppo allettante. Il fatto che io fossi senza figli ad un’età in cui molte donne avevano dato nascita tre o quattro volte non li preoccupava. Molti erano già divorziati o vedovi e avevano figli. In ogni caso, Roma è una società pratica e l’adozione è molto facile da conseguire.

Non appena il lutto fu finito, alcuni altri uomini si proposero.

In ogni caso, chiarii subito che non mi sarei mai più sposata.

 

Poco prima di partire per Roma per il viaggio decisivo che mi avrebbe inaspettatamente riunita a Massimo, Merith mi fece visita. Lei e Sesostris nel giro di pochi giorni sarebbero tornati ad Alessandria su una delle mie navi. La ricevetti nel mio appartamento, un onore che non ho mai dispensato a nessuno… nemmeno al mio stesso marito… tranne ad Apollinario. Se il suo lusso la impressionò, non lo diede a vedere. Invece, s’inchinò rispettosamente verso i miei gatti e mormorò qualcosa che suonava come una preghiera in quello che suppongo fosse il linguaggio dell’antico Egitto.

- Non volevo partire senza vederti, mia signora.

Merith parlava un latino fluente tuttavia preferiva ancora il greco.

- Le signore in Ostia sentiranno la tua mancanza…

- Non c’è bisogno che si preoccupino. Una delle mie figlie si è sposata qualche settimana fa e rimarrà in città. Si prenderà buona cura di loro e dei loro bambini.

- Un’altra donna medico?

Merith rise.
- No, mia signora. La giovane Merith ha sposato uno dei tuoi impiegati! Un giovane scriba che si pensa avrà un brillante futuro davanti a sé.

- Deve essere duro per te lasciarla qui… - La famiglia di Merith era sempre sembrata molto unita.

- Oh, la dea sa che cosa ella fa e perché. La madre Iside deve avere una buona ragione per volere qui la mia ragazza.

- Hai una gran fede nella tua dea, Merith.

- E’ saggia e potente. Come potrebbe essere diversamente? E’ una donna. Conosce tutte le forme di felicità e tutte le forme di dolore che ogni donna prova nella vita: ella ha amato, concepito, dato nascita con dolore e sangue, ha perso il suo uomo, ha pianto per lui, ha visto suo figlio vendicarlo e, infine, si è riunita a lui. Non puoi fare a meno di fidarti di una divinità così vicina all’essere umano…

- Eppure non ha potuto salvare l’Egitto dai Romani…

- Mia signora, l’Egitto non è stato sconfitto o tradito dagli dei o dalle dee ma da uomini infidi, gelosi, corrotti… come sarà Roma a tempo debito.

C’era qualcosa di inquietante nelle parole della donna egizia. Rabbrividii.

- La madre Iside non è la Dea Roma, mia signora. Non è una giovane dea ascesa al potere, adorata da uomini e donne che credono di poter diventare divini o creare divinità a loro piacimento …

Rimanemmo in silenzio per un lungo istante, poi Merith si alzò.

- Ti ho preso più tempo di quanto avrei dovuto… Mia signora, possa la madre Iside proteggerti.

- Grazie, Merith. Possa la dea benedire anche te e concederti un sicuro ritorno ad Alessandria…

Ci tenemmo le mani per un momento, poi la femina medica si voltò per andarsene, mentre io mi voltavo verso la mia camera. Tuttavia, ella si fermò sulla soglia come se avesse avuto un ripensamento.
- Mia signora? - chiamò. - Ti prego, ricordati di mia figlia…

La guardai perplessa.
- Vuoi che controlli che stia bene e ti scriva di lei? - chiesi, già certa di essermi persa qualcosa di importante. Ma forse Merith e Sesostris non si fidavano completamente del loro genero. Il sorriso di lei mi confermò che avevo sbagliato.

- La giovane Merith può perfettamente prendersi cura di se stessa, mia singora. Ciò che intendevo era che tu ti ricordi di lei quando verrà il tuo tempo…

Sbiancai. Conoscevo abbastanza Merith da sapere che non stava parlando spinta dalla cortesia, come le donne che hanno avuto figli parlano a quelle che ancora non ne hanno avuti o che sono sospettate di essere sterili. Stava insinuando qualcosa a cui non avevo nemmeno osato pensare. Un sogno che avevo avuto in Moesia sei anni prima lottò per tornare in superficie e mi colpì il cuore e l’anima con la sua dolorosa bellezza e il suo amaro risultato. Una vita di schiavitù e prostituzione e sei anni di libertà, cinque dei quali da donna ricca e potente, gli ultimi due come donna d’affari e vedova mi avevano insegnato a tenere le mie emozioni sotto stretto controllo e ad addestrare il mio viso ad essere una maschera illeggibile. Eppure sapevo che Merith poteva vedere al di là di essa. Ella sorrise e il suo sorriso impercettibile era molto simile a quello della sua dea: sereno, saggio, affettuoso.

- Madre Iside ti favorisce, mia signora. Come non potrebbe? Sei una donna… Il tuo tempo verrà. E più presto di quanto ti aspetti.