Diario di Giulia – Parte seconda

Capitolo V - Il liberto, 174 d.C.

Fu solo quando la porta del mio appartamento si chiuse dietro la schiena di Rufa e di Cornelio Crasso che cominciai veramente a capire che cosa mi era accaduto e come la mia vita era cambiata. Ed ero terrorizzata.

Avevo camminato in silenzio per tutta la strada da e per il Quirinale, ignorando ostinatamente la presenza di Cornelio Crasso. Se l’atto finale a casa di sua sorella lo aveva in qualche modo turbato, il questore non lo diede a vedere. Io camminavo svelta, portando Rubia in braccio, il mento alzato, lo sguardo fisso sull’orizzonte, come quando mi ero allontanata dall’accampamento militare in Moesia e dall’unico uomo che avessi mai amato.

Per traslocare i miei effetti personali, Cornelio Crasso aveva portato quattro uomini, probabilmente schiavi dalla casa di suo fratello. Gli onnipresenti pretoriani ci affiancavano come un muro vivente nero e minaccioso. Quando arrivammo alla palazzina, fui sconcertata nello scoprire che avevo preso la ricevuta di pagamento dall’ufficio del banchiere, ma mi ero completamente dimenticata di chiedere la chiave. Non sapendo che cosa fare, finsi di cercarla nella mia borsa mentre la mia mente correva freneticamente, cercando un modo per uscirne e, soprattutto, un modo per evitare il sogghigno beffardo degli uomini che mi circondavano. Senza una parola, Cornelio Crasso estrasse la chiave dalla sua corazza, la mise nella serratura e aprì la porta. Poi si spostò di lato per farmi entrare per prima. Arrossii violentemente, ma ancora rifiutai di mostrare riconoscenza per lui o per il suo aiuto.

Non appena attraversai la soglia mi accorsi che qualcuno aveva spolverato l’appartamento e spazzato i pavimenti. Vidi anche una dozzina di lampade riempite e pronte, una fiaschetta d’olio, e pietra focaia per accenderle, e perfino una ciotola di frutta fresca su un vecchio tavolo. Il mio primo pensiero fu che Emilio Trebuzio Flacco aveva deciso di prendere precauzioni extra per assicurarsi la benevolenza dell’imperatore. Ma il fatto che Cornelio Crasso avesse preso la chiave che io avevo dimenticato di chiedere e l’avesse con ogni evidenza tenuta con sé durante il giorno precedente gettava un imbarazzante sospetto. Lo guardai brevemente ed egli mi restituì lo sguardo vitreo con il più cordiale dei suoi. Strinsi le labbra e andai alla terrazza, lasciando che gli schiavi mettessero le casse dove gli pareva e che Rufa si prendesse cura della gatta mentre i pretoriani aspettavano nel corridoio.

La terrazza era piccola ma graziosa, e anch’essa era stata attentamente spazzata. Si apriva su un bel giardino interno che, nonostante fosse autunno, aveva ancora fiori in boccio nelle sue aiuole ordinatamente potate. Anche gli alberi sembravano ben curati e c’era una fontana di marmo e una piccola vasca riflettente con un grosso pesce rosso che sfrecciava da una parte all’altra. Ma fu la fontana ad attirare la mia attenzione perché invece dell’usuale ninfa o satiro che adornava la maggior parte delle fontane romane, la sua sommità sorreggeva una nave di marmo. Strizzando gli occhi contro il sole mattutino, la guardai con attenzione e mi meravigliai al dettaglio della scultura che scivolava sotto l’acqua gorgogliante che aggraziatamente le cadeva sopra. Era evidente che chiunque abitasse in quell’appartamento era ricco. La tassa per l’acqua pagata per connettere la casa al più vicino castellum[1] sarebbe stata esosa quanto quelle pagate dalle case senatoriali.

Cornelio Crasso entrò in silenzio nella terrazza e si fermò accanto a me, vicino alla balaustra... abbastanza vicino da farmi percepire la sua presenza, ma non tanto da sfiorarmi. Rimase in silenzio per un lungo istante, poi parlò con la sua voce bassa e colta.
- I facchini hanno già portato tutte le tue cose nell’appartamento, domina. Adesso, io porterò la tua cameriera alla tenuta imperiale…

Mi voltai per guardarlo in viso. Volevo rifiutare, dire che volevo che Rufa restasse con me ancora per qualche giorno per aiutarmi a sistemare l’appartamento, che avevo bisogno di tempo per parlarle perché accettasse il cambiamento in un modo che le avrebbe evitato di essere un problema per i suoi nuovi padroni. Volevo raccontare una scusa qualunque pur di evitare di farla andare via… Ma non dissi nulla. Non ve n’era bisogno. Egli vide tutto questo e molto di più, quello che io non avrei mai ammesso liberamente… che ero spaventata, che non volevo essere lasciata sola… nei miei occhi. E io vidi nei suoi che, se gli avessi detto che avevo cambiato idea e volevo che Rufa fosse mia schiava, la cosa si sarebbe potuta facilmente accomodare perché Marco Aurelio aveva dato ordini in proposito proprio nel caso avessi chiesto. Ma io strinsi le labbra e rifiutai di parlare. Rifutai di chiedere. Avevo promesso a me stessa che non avrei mai più chiesto niente e a nessuno, ed ero pronta ad onorare la promessa anche se mi costava la compagnia di Rufa.

Cornelio Crasso mi guardò con gentilezza e disse:
- E’ meglio così.

 Io annuii e sussurrai:
- Voglio restare un momento in privato con lei. - Fu il suo turno di annuire e io lasciai la terrazza in cerca di Rufa.

La trovai nell’anticamera. La ragazza numida aveva posato la micina in un vecchio divanetto mangiato dai tarli e la stava accarezzando con aria assente. Sentendo l’imminenza della nostra separazione, la recentemente acquisita sicurezza di sé di Rufa sembrò essere sul punto di abbandonarla. In quanto a me, l’idea di perdere la sua silenziosa compagnia era improvvisamente più angosciante di quanto mi fossi aspettata. Il mio breve addio ad Eugenia non era stato così duro, anche quando la mia vaga promessa di tenerci in contatto era suonata falsa alle mie stesse orecchie e lo sguardo nei suoi deliziosi occhi smeraldo mi aveva detto che sapeva che io stavo per scomparire per sempre dalla sua vita.

- Rufa, - chiamai sommessamente.

Sollevò la testa e mi guardò con grandi occhi da cucciolo, sospettosamente lucidi, e io dovetti farmi forza per non lasciare che i miei si offuscassero di lacrime.

- Rufa, - cominciai, - ne abbiamo già parlato e sai che devi andare dall’Augusta Lucilla e dal principino Lucio e perché… L’imperatore fa il suo dovere per Roma ed il suo popolo, e si aspetta che anche noi facciamo il nostro…

La ragazza numida tirò su dal naso rumorosamente, ma annuì con energia. Rovistai nel mio portamonete, trovai la catenina d’oro con lo scarabeo egizio di smalto che il figlio del senatore mi aveva dato e gliela misi attorno al collo mentre continuavo a parlare in quello che speravo fosse un tono tranquillizzante, ma che sospettai avesse una punta di crescente isteria.
- L’imperatore è stato molto generoso. Tu andrai nella sua famiglia e a tempo debito diventerai una liberta imperiale. I liberti imperiali sono grandemente rispettati in Roma e tu sarai perfino al di sopra della maggior parte di loro, perché sarai colei che curava il principino Lucio ed egli un giorno potrebbe diventare imperatore… Sono talmente orgogliosa di te…

Riuscii a controllare le mie mani tremanti abbastanza a lungo da abbracciarla.
- Questo viene dall’Egitto, - continuai, - dove gli dei sono più forti di quelli di Roma e proteggono davvero coloro che credono in loro e si curano di loro anche nell’Aldilà…

Rufa sorrise debolmente. Da africana puro sangue ella non poteva considerare gli dei romani se non come un pugno di egoistiche figure eccentriche piuttosto divertenti la cui dignità era talvolta dubbia quanto quella dei patrizi dell’impero.

- Questo è il simbolo del loro dio sole, - proseguii. - Dicono che il sole è così splendente in Egitto che non si può dubitare che sia la sua terra prescelta…

Adesso stavo farfugliando, cercando un modo per allungare quel momento, per rimandare la separazione dal mio ultimo legame con l’unico mondo che avessi mai conosciuto mentre allo stesso tempo lottavo per mantenere la mia dignità.

Un tossire discreto ci fece sobbalzare entrambe. Cornelio Crasso era alla porta. Mi inginocchiai e presi il volto di Rufa tra le mani. La mia pelle pallida sembrava come avorio sui suoi lineamenti d’ebano.
- Rufa! - la incalzai a voce bassa. - Ricorda la tua promessa! Stai attenta al principino Lucio e servi l’Augusta Lucilla lealmente come hai servito me! E non dimenticare il messaggio segreto!

Rufa annuì solennemente. Cornelio Crasso rimase sulla soglia, abbastanza lontano da non udire il nostro scambio.
- Ricordi il messaggio, Rufa? - le chiesi a voce bassa. Ella annuì ancora e sussurrò con il suo latino gutturale dall’accento marcato.
- Qualcuno venire con messaggio. Onora un debito nonno promesso pagare… - Di colpo, Rufa si accigliò. - Sarai tu, padrona Giulia?

Era solo una bambina. Il mistero l’aveva affascinata, prevalendo sulla sua angoscia come avrebbero fatto con la sua paura, se tutto andava bene, la novità del palazzo e la sua nuova posizione. Sorrisi e annuii. Il suo viso s’illuminò.
- Verrai a palazzo, padrona Giulia?

- Sì, Rufa, un giorno verrò a palazzo e tu mi racconterai la tua meravigliosa vita laggiù, - risposi e prima che potesse pormi un’altra domanda, l’abbracciai, poi le baciai le guance e mi alzai in piedi. - Vai, Rufa. Non fare aspettare il questore!

Valorosamente, Rufa andò verso di lui e Cornelio Crasso mise la sua mano destra sulla spalla della ragazza, guidandola gentilmente verso l’ingresso. Prima di voltarsi, egli chinò la testa educatamente, poi se ne andò.

La porta si chiuse con la finalità di un coperchio che si chiude violentemente su un sarcofago egizio laccato. All’improvviso pensai che se i cadaveri imbalsamati preparati per l’eternità mantenevano i loro sensi e avessero potuto udire quel suono, probabilmente si sarebbero sentiti condannati e soli come mi sentivo io in quel momento.

 

Dormii nel divanetto mangiato dai tarli. La mia cassapanca da viaggio mi rifornì di lenzuola e coperte. La mattina dopo mi obbligai a far piani per la mia nuova casa. Non essendo stata una schiava di servizio non avevo mai avuto a che fare con i doveri domestici, però avevo sempre vissuto in luoghi puliti e ordinati e gestito anche una tenuta, così avevo un’idea di che cosa ci fosse da fare.

Attaccai il compito con ferocia, e non solo riuscii ad ottenere un paio di vesciche quando cercai di accendere il fuoco sul piano di cottura e tre unghie spezzate quando spostai la mobilia, ma anche una qualche parvenza di casa. Tuttavia rifiutai di uscire dall’appartamento durante i primi tre giorni e solo quando non vi fu più frutta nella ciotola dovetti uscire per forza. Mi lavai meglio che potei, tirai su un cestino, la fiaschetta dell’olio e lo strigile[2] e, dopo essermi vestita con una discreta tunica blu e un mantello in tinta, uscii.

Il Quirinale era un quartiere tranquillo, pulito e ventilato. Le case erano di solida pietra e buona muratura, le loro finestre si aprivano sui cortili interni. Le porte principali rimanevano sprangate ed erano curate da portinai che aprivano i pesanti lucchetti di ferro per fare entrare o uscire schiavi che portavano ceste, controllavano i visitatori e uomini e donne portati su sedie o lettighe. A certi angoli c’erano piccole bancarelle pulite, di cui molte vendevano frutta o pane. Radunando il mio coraggio, andai verso la donna che ne gestiva una e mentre stavo comprando del pane le chiesi dov’erano i bagni più vicini. Ella mi indirizzò ad un luogo piccolo e tranquillo dove pagai la tassa d’iscrizione, ottenni un posto dove lasciare i miei vestiti e la cesta e mi affidai alle mani delle inservienti.

Fui sorpresa di scoprire che mi sentivo imbarazzata nel togliermi i vestiti. La nudità era stata una parte importante della mia vita passata e avevo condiviso i bagni alla villa di Cassio e all’accampamento in Moesia con una dozzina di altre donne, per tacer delle ragazze schiave e delle schiave inservienti. Ma, chissà perché, spogliarsi di fronte ad estranee era più sconcertante di quanto mi aspettassi. Probabilmente le schiave che mi strofinavano con olio fragrante e mi frizionavano la pelle con lo strigile pensavano che ero un pochino strana o forse nuova nei costumi dell’Urbe. Ma erano ben preparate e a poco a poco mi rilassai sotto le loro cure. Quando uscii dalla stanza del vapore mi sentivo molto più a mio agio e permisi loro di lavarmi i capelli prima di andare nel tepidarium. Come sempre, evitai il frigidarium perché non potrò mai capire che genere di soddisfazione si possa ottenere dall’immergersi nell’acqua gelida.

Quando uscii dai bagni… pulita, strigliata e profumata solo per il mio piacere e non per quello del successivo uomo… mi sentivo molto più fiduciosa. Sulla via per casa, mi fermai ad un’altra bancarella per comprare un po’ di frutta e un isolato avanti scoprii un luogo dove le vitellina fricta[3] avevano un aroma meraviglioso. Seguendo un impulso improvviso, ne comprai una porzione e sobbalzai quando l’uomo dietro il bancone lo avvolse in un vecchio rotolo che sembrava coperto di poesie… Mi affrettai verso casa per riuscire a salvare almeno in parte lo scritto. Ci fu un momento di panico quando pensai che mi ero persa e mi resi conto che non sapevo il nome della via o il numero della casa dove ora abitavo… ma riuscii comunque a mantenermi abbastanza calma da ritrovare la palazzina. Quando misi il mio pacchetto su un piatto, il grasso aveva intriso l’involto e fu chiaro che il papiro era irrecuperabile. All’improvviso, non importava. Avevo appena scoperto di sentirmi affamata. Il vitello fritto era delizioso.

Il primo visitatore bussò alla mia porta due giorni dopo. Non fui sorpresa di trovare alla soglia Cornelio Crasso, perché era l’unico oltre al banchiere a sapere dove abitavo. Ci guardammo in silenzio. Poi, egli sorrise con aria esitante.
- Buon giorno, domina. Posso entrare?

- Buon giorno, questore. Prego, entra.

Se Cornelio Crasso fu sorpreso di trovarmi vestita con una semplice tunica color sabbia e con un pezzo di tela legato intorno alla vita come un improvvisato grembiule, non lo diede a vedere. E non diede a vedere neanche se lo sorprese o turbò il fatto che, nonostante il suo consiglio, io tenevo sciolti i miei capelli lunghi fino alla vita.

- Domina, sono venuto a portarti il tuo anello con sigillo. Ti permetterà di pagare i conti e di fare altre transazioni bancarie. Tienilo in un posto sicuro. - Mi porse una piccola borsa molto più semplice di quella che mi aveva dato l’imperatore per tenere il suo anello a sigillo. Il mio non era grosso come quello di un uomo e molto più leggero, ma sembrava abbastanza solenne. Quando girai l’anello per dare un’occhiata al sigillo che avrei dovuto imprimere su ceralacca, mi venne da ridere perché la figura che avrebbe validato le mie future lettere e i documenti era quella di una civetta.

La civetta è il simbolo della dea Minerva, un culto quasi dimenticato tra i principali dodici dèi che Roma ereditò dalla Grecia. Non era sorprendente che i suoi altari nell’Urbe fossero scarsi e negletti, i suoi seguaci pochi, le sue sacerdotesse ancor meno perché che utilità poteva avere per Roma una vergine guerriera patrocinatrice sia della saggezza che della guerra? Come avrebbero potuto, i coraggiosi soldati romani, prima di ingaggiare battaglia, chiedere la protezione di una fanciulla con l’elmo in capo? E come avrebbero potuto, i potenti uomini che decidevano il futuro di milioni di persone dai loro seggi di marmo al Senato, abbassarsi a chiedere la guida di una fredda bellezza che vestiva una corazza militare sopra la tunica muliebre? Come avrebbero potuto, le loro pie mogli e figlie, interessarsi ad una femmina vendicativa che trasformò il corvo dal pristino bianco al nero pece e in un orribile ragno una bella donna mortale che osava mettere in dubbio le sue capacità ricamatrici, una deità che sconfiggeva in combattimento gli immortali che cercavano di stuprarla e non era nemmeno nata da un’altra dea, ma dal cervello di suo padre? No, i romani amavano il potente Giove e il profetico Apollo e il collerico Marte e anche il chiassoso Bacco, il dio del vino e della divina pazzia. E quando si tratta di deità femminili, hanno la voluttuosa Venere e la casta Vesta. Accettano la virginale Diana perché è patrona della caccia e qualsiasi cosa che implica lo spargimento di sangue ottiene immediatamente l’approvazione romana… e se vogliono una moglie modello, si rivolgono a Giunone, che sopporta le infedeltà di Giove e gli dà figli legittimi, proprio come ci si aspetta che facciano le matrone romane. No, a differenza degli antichi Greci, che fecero di Pallade Atena la patrona della loro capitale, seconda solo al suo onnipotente padre Zeus, la sua versione romana è soltanto una stranezza che può attrarre unicamente l’interesse di persone come me… una ex schiava prostituta che vuole imparare a leggere e scrivere… che sono esse stesse delle stranezze. Brevemente mi chiesi quali dei e dee avrebbe adorato Massimo, perché ero certa che, diversamente da me, egli fosse un uomo religioso. Essendo un soldato, probabilmente Marte aveva un posto d’onore nel suo altare personale. Ma era anche un contadino e Cerere, la dea delle messi, probabilmente aveva la sua quota di preghiere e offerte.

- E qui c’è il documento che certifica la tua emancipazione, - disse Cornelio Crasso, riportandomi alla realtà. - Ti ho già iscritta nei pubblici registri come liberta. Poiché eri di proprietà di un uomo accusato di tradimento la cui ricchezza è stata confiscata, tecnicamente il tuo ultimo proprietario era l’imperatore così tu sarai considerata una liberta imperiale. Il documento dice così e io suggerisco che lo tieni nella tua cassetta bancaria. Ti sarà richiesto di mostrarlo in alcuni casi, per esempio se vorrai comprare una proprietà o… prima che venga scritto il tuo contratto di matrimonio.

Prima che potessi ripetere che non avevo intenzione di sposarmi egli continuò a parlare.
- Dal momento che non mi hai detto con quale nome volevi essere chiamata da donna libera, mi sono preso la libertà di sceglierlo per te. Spero che non ne sarai delusa.

Srotolai il documento che mi stava porgendo e gli diedi una breve scorsa: anche essendo quasi analfabeta riuscii a distinguere il mio nome proprio, seguito dal patronimico che il questore aveva scelto per me. Non potei fare a meno di sorridere. No, non ero delusa. Semplicemente divertita.

Cornelio Crasso mi stava guardando intento. Riuscii ad offrirgli un sorriso.
- Grazie, questore, - dissi tranquillamente.

- C’è… c’è un’altra ragione perché sono venuto a farti visita, domina. Sto per lasciare Roma. Ordini di Cesare. Alcune questioni in Britannia richiedono che vada laggiù…

Come era accaduto quella notte alla mia tenda durante la tempesta, Cornelio Crasso ora sembrava vulnerabile, solo e giovane. Vagamente mi chiesi se i suoi ordini di partenza non fossero altro che un’ulteriore prova della disinvoltura con cui Marco Aurelio sapeva leggere nei cuori di uomini e donne e se, sapendo che il giovane questore sarebbe diventato più interessato nel suo “incarico personale” di quanto fosse bene per lui, l’imperatore gli avesse concesso il tempo sufficiente per fare il suo dovere prima di spostarlo dalla città per evitargli di rendersi ridicolo.
- Mi aspettavo di rimanere a Roma più a lungo, - disse come rispondendo ad una domanda inespressa. - Ma parto per Ostia domani e tra un paio di giorni salperò per la Britannia. Non so per quanto vi rimarrò…

Io rimasi in silenzio e Cornelio Crasso trasse un profondo respiro.
- Domina, come sai io sono un leale servo dell’imperatore e quando tu aiutasti a salvare l’impero contribuisti anche a salvare la sua vita. Per questo, ti sono grato. Speravo di avere abbastanza tempo per mostrarti la mia gratitudine e lealtà, ma sono un servitore di Roma e ancora una volta mi si chiede di fare il mio dovere. - Fece una breve pausa. Poi continuò. - Speravo di portarti un regalo per provarti la mia gratitudine, ma impiegherà un po’ ad arrivare e quando accadrà io sarò lontano. Però ho preso i necessari accordi e lo avrai non appena giungerà a Roma…

Ero stupefatta. Un regalo? Cominciai a protestare, ma lui mi fermò con la mano.
- Sono riuscito a trovare per te un regalo che è degno del prezzo del riscatto di un re, ma non ti comprometterà. Sono certo che ne farai il miglior uso possibile.

Non sapevo che cosa dire e Cornelio Crasso stava visibilmente facendo uno sforzo per mantenere il volto inespressivo.
- Grazie, questore, - mormorai solo per rompere il silenzio imbarazzante.

Egli annuì, poi si voltò e andò verso la porta. Lo seguii e lui mi aspettò prima di aprire la porta. Attraversò la soglia e si voltò per guardarmi ancora una volta.
- Addio, domina. Possano gli dei proteggerti.

- Addio, questore. Possano vegliare su di te e portarti felicità.
Egli s’inchinò, girò sui talloni e uscì dalla mia vita.

 

Una settimana dopo, stavo ancora cercando di trasformare il grande appartamento vuoto in qualcosa di simile ad una casa. Quella mattina stavo cercando di decidere il modo migliore per spostare il vecchio divanetto dall’anticamera nella camera da letto, quando trasalii nell’udire bussare alla mia porta. Rubia, che era stata a guardarmi dal suo posto sul tavolo, contrasse gli orecchi.

Mi accigliai. Chi poteva essere? Cornelio Crasso? No, era in viaggio per la Britannia e io sapevo dallo sguardo nei suoi occhi quando mi avevano guardata per l’ultima volta che aveva preso la sua decisione e non sarebbe mai ritornato. Una delle donne? Non era probabile. Dovevano essere troppo occupate o troppo accecate dalle loro stesse vite per avere tempo ed energia per cercarmi e anche in questo caso non avrebbero saputo da dove cominciare… Chiunque fosse, stava bussando di nuovo obbligandomi ad andare alla porta. I miei passi echeggiarono nelle stanze per lo più vuote, e il visitatore bussò una terza volta prima che io raggiungessi la porta e l’aprissi.

Era un uomo che non avevo mai visto prima. Era alto e sulla quarantina, con una folta chioma di bei ricci bianchi.  La sua pelle era leggermente abbronzata, gli occhi nocciola e i lineamenti piacevoli ma non banali, il genere di lineamenti che rivelano sia intelligenza che sensibilità. Era ben sbarbato, indossava un’elegante toga immacolata e aveva un portamento disinvolto ed elegante.
Mi guardò per un momento e sorrise. E il suo sorriso era uno di quei sorrisi contagiosi che non si può fare a meno di contraccambiare anche se nemmeno ci si accorge di sorridere in risposta. Era un sorriso che invitava alla confidenza e offriva conforto. Poi l’uomo parlò e la sua voce era come ci si aspetta che sia: gentile, istruita, rasserenante ma con un sottofondo di umorismo.
- Dunque aveva ragione, - disse mentre il suo sorriso si allargava. - Sei esattamente come immaginavamo che fossero le sirene.

 

L’uomo dai capelli bianchi che era stato il tutore di Cornelio Crasso chinò la testa e disse con la sua piacevole voce colta:
- Perdonami, domina, non volevo essere irrispettoso. E’ solo che ho sempre avuto un debole per le sirene, ma non ho mai avuto l’opportunità di incontrarne una di persona.

Io ero sconcertata. Non per il complimento… anche se era esageratamente stravagante… ma perché le parole d’addio di Cornelio Crasso adesso acquistavano un senso. Il questore avrebbe potuto cercare di allettarmi con gioielli e sete a divenire la sua mantenuta, tuttavia aveva scelto di aiutarmi a trovare la mia strada dandomi il regalo promesso, che valeva il riscatto di un re ma non mi avrebbe compromesso. E il suo regalo era lì, pazientemente in piedi alla mia soglia, sorridendomi con cordialità.

- Posso entrare, domina? - chiese l’uomo. - Credo che dovremmo parlare.

Mormorando parole di scusa, aprii di più la porta per farlo entrare nell’appartamento mentre farfugliavo qualche incoerenza sul non essere preparata a ricevere ospiti. Apollinario congedò le mie scuse con un movimento della sua mano elegante e si guardò intorno.
- Io sono Apollinario, domina. Ma sono certo che questo tu lo sai e che sai anche che ero il tutore di Cornelio Crasso. Il questore pensava che ti sarebbe piaciuto conoscermi.

- Che cosa ti ha raccontato di me Cornelio Crasso? - chiesi notando distrattamente che per la prima volta avevo chiamato il questore per nome.

- Che sei tanto intelligente quanto bella e che ti piacerebbe ricevere un’istruzione. Se sei interessata a che io ti faccia da precettore, domina, al momento sono libero e sarei felicissimo di insegnarti. Ma devi sapere che io non ho mai fatto da istitutore ad una signora o ad un adulto…

Mi afferrai le mani nervosamente. Eravamo in piedi nel centro di una stanza quasi vuota, le nostre voci echeggianti nella vacuità della stanza. Il sole passava attraverso un’imposta aperta e incorniciava il bel profilo dell’uomo, che sembrava sentirsi davvero a suo agio malgrado la mancanza di comodità che lo circondava e la goffaggine della donna di fronte a lui.

Il mio disagio all’improvviso divenne irritazione.
- Sai che cosa intendo!

Lui continuò a guardarmi nel suomodo gentile, cordiale e disse:
- Domina, non vi è nulla di cui preooccuparsi…

- Non prenderti gioco di me! - sbottai.

L’uomo dai capelli bianchi mi guardò per un lungo momento, poi andò verso il tavolo e prese Rubia nelle sue mani curate. La micina accettò felice le sue carezze, riuscendo nel contempo ad accrescere la mia irritazione: Rubia aveva sempre rifiutato chiunque eccetto Rufa e me. Guardai con cipiglio la gatta, ma essa fece le fusa rumorosamente mentre l’uomo sapientemente le grattava le orecchie. Egli andò verso il divanetto e vi si sedette, sempre accarezzando la gattina, apparentemente perso nei suoi pensieri. Quando sollevò la testa, il suo viso non era più una maschera amabile, ma un libro aperto. Sapeva che io sapevo che cosa lui era. Un uomo che non s’innamorava delle donne. Un ex schiavo come me. Qualcuno che aveva conosciuto dolore e umiliazione e solitudine. Un sopravvissuto. Qualcuno che amava i libri e le le parole e la bellezza e i gatti. Qualcuno che poteva comprendermi… pertanto, qualcuno che io ero sia ansiosa che spaventata di conoscere. Era qualcuno di cui avevo bisogno, perciò era pericoloso.

- Sono nato in Grecia, ma quando avevo sei anni fui portato via a mia madre e spedito per nave ad Alessandria, - cominciò. - Non ero solo. C’erano altri ragazzi e ragazze della mia età ed eravamo tutti terrorizzati, ma stavamo anche troppo male perfino per piangere. Ad Alessandria ci fu possibile ristabilirci, fummo nutriti, lavati e strigliati, ma non ci furono dati abiti. Eravamo nudi quando ci misero sul blocco dell’asta. Fummo palpati ed esaminati dai nostri possibili acquirenti che sembrarono soddisfatti di noi perché il lotto fu venduto in fretta. Io fui preso insieme ad altri ragazzi da uomini dai capelli scuri e dagli occhi scuri vestiti di abiti esotici. Presto stavo di nuovo navigando, questa volta verso la Siria. Molto prima di arrivare ad Antiochia, sapevo quale sarebbe stato il mio fato. Non appena fummo al largo, i nostri nuovi padroni ci stuprarono ad uno ad uno… - Fece una pausa e io andai in silenzio verso il divano e gli sedetti accanto, affascinata dalla sua voce, soggiogata dalla sua tragedia e dalla dignità che era riuscito a serbare. - Fui venduto ad un bordello maschile, lussuoso, preferito dai ricchi con quell’inclinazione e anche da magistrati romani. All’inizio, mi ribellai… e fui severamente punito. Imparai la lezione e da allora in poi fui ben nutrito, ben vestito, perfino ben rimpinzato, mi furono insegnate le sottigliezze del mio commercio… e fui obbligato a ripagare generosamente ai miei padroni il prezzo che essi avevano pagato per me. Sopportai. Sopravvissi. Crebbi. Ma quando ebbi sedici anni, divenni irrequieto. Volevo di più. Volevo respirare aria che fosse priva delle nauseanti fragranze degli oli profumati che bruciavano giorno e notte nel bordello e mi venivano strofinati sulla pelle. Volevo studiare. Viaggiare. Fare domande e ricevere risposte. Volevo essere libero…

Il liberto greco fece di nuovo pausa e, senza una parola, sollevai la mia mano destra e la unii alla sua mentre egli continuava ad accarezzare la mia addirittura estatica gattina. Egli sollevò la testa e mi sorrise, un piccolo sorriso che mi fece gonfiare dolorosamente il cuore, perché era talmente dolce e fanciullesco da ricordarmi quello di Massimo.
- La notte in cui venne al bordello non chiese di me. Non ci eravamo mai incontrati prima. La sola ragione per cui facemmo conoscenza era perché la mia frustrazione e collera mi avevano quasi indotto ad uccidere un cliente particolarmente perfido. Mi vide quando fui trascinato fuori della stanza dalle guardie del bordello e meticolosamente picchiato e preso a calci, mentre il cliente strillava che avrei dovuto essere crocifisso e il mio padrone sembrava sul punto di seguirne il consiglio. Ma egli entrò nel corridoio e ordinò agli sgherri di smetterla di colpirmi. La sua era una voce da comandante, la voce di un uomo abituato ad essere obbedito. Quando sollevai lo sguardo vidi l’alta figura di un uomo sulla cinquantina. Anche se vestito in modo informale, era chiaramente un alto magistrato romano. L’atteggiamento del mio padrone mutò in servilismo e il cliente frustrato all’improvviso ammutolì.  Egli ordinò alle guardie di rimettermi in piedi e usò il proprio fazzoletto per pulire il mio viso insanguinato. “Come ti chiami, bel giovane?” mi chiese e io glielo dissi, perché il suo sguardo era gentile e la sua voce anche. “Quanti anni hai?” continuò e io risposi senza esitare. Egli sorrise. “Ti darò diecimila sesterzi per lui,” disse al mio padrone senza nemmeno guardarlo. Il denaro cambiò di mano e io fui portato alla sua casa...
Era un ex console romano, il suo nome non è importante. Quando mi fui ripreso abbastanza, ci spostammo verso la sua proprietà in Grecia. Aveva trascorso la maggior parte della sua vita nelle province, prima come soldato, poi come magistrato, e ora preferiva vivere da tranquillo studioso, lontano da Roma. Parlavamo per ore ed ore e quando egli scoprì che io morivo dalla voglia di studiare, prese la mia istruzione nelle sue mani. Mi insegnò tutto quello che sapeva e quando questo non fu sufficiente per saziare la mia sete di conoscenza, assunse degli insegnanti e fu orgoglioso dei miei conseguimenti. Mi portava con sé nelle biblioteche, a teatro, alle pubbliche letture. Mi fece suo compagno di viaggi. Diede senza fine e non chiese mai. E quando andai al suo letto non lo feci per dovere ma per amore. Assaporammo dieci anni di beata
felicità e Apollinario, l’amante, sostituì Apollinario, il prostituto.

Pronunciò il proprio nome coun una gradevole cadenza, l’unico, sottile cambiamento nel suo latino assolutamente perfetto.
- Di tanto in tanto, venivamo a Roma. Eravamo qui quando improvvisamente cadde malato e subito capimmo che i nostri giorni erano contati. Per allora, egli mi aveva già reso un uomo libero e aveva provveduto per me. Nel suo testamento, mi lasciò un’eredità rilevante,
ma quando morì, il suo figlio maggiore, che era l’esecutore testamentario, rifiutò di onorare le sue ultime volontà. Non finii sul lastrico, perché avevo una piccola fattoria in Campania e denaro in banca. Ed ero troppo distrutto dal dolore per preoccuparmi del denaro e troppo abbattuto per considerare di citare in giudizio un giovane senatore in carriera a causa del testamento del padre. Radunai i miei libri e andai alla mia fattoria. Volevo togliermi la vita, ma gli avevo promesso sul suo letto di morte di non farlo. Ero condannato a vivere. Condannato ad essere solo…

Gli occhi del liberto erano ora luccicanti di lacrime trattenute. Ma continuò a raccontare.
- Passò quasi un anno ed un giorno un uomo venne alla mia porta. Era un vecchio amico del mio
benefattore, un altro romano di rango elevato che condivideva il suo amore per i libri, la storia e l’arte. Egli aveva sempre elogiato la mia cultura e scherzato sul fatto che fossi il perfetto precettore greco. Lo sguardo preoccupato nei suoi occhi mi disse che dovevo sembrare miserabile e io insolitamente provai vergogna. Bevemmo del vino e l’uomo mi spiegò che mi aveva cercato per mesi. La morte inattesa della figlia vedova lo aveva lasciato con un paio di nipoti da crescere ed istruire. Voleva che io facessi loro da istitutore. Io volevo dire di no, rimanere nella mia fattoria, lontano da Roma e dai miei ricordi. Ma allo stesso tempo, questo visitatore dal passato mi fece desiderare un cambiamento. Venni a Roma con lui. Conobbi i suoi nipoti e cominciai ad insegnare loro. E scoprii quanto possa essere gratificante l’insegnamento, l’orgoglio e la gioia di nutrire una giovane mente affamata. Quando i ragazzi entrarono nell’esercito, il loro nonno mi mandò dai Cornelii…

Apollinario ora sorrideva con aperto affetto.
- Il questore è sempre stato il mio studente preferito. Era più intelligente del fratello, ma era stato trascurato in malo modo sia dal padre che da quello stupido del suo ex precettore. Il giovane Crasso era una sfida, e non tutti le amano… - Il suo sorriso si allargò. - Mi sono ritirato due anni fa, ma quando il questore venne in Campania a cercarmi disse che a Roma mi aspettava una sfida alla quale non sarei mai stato capace di resistere, una donna intelligente e coraggiosa che aveva l’aspetto delle sirene di cui fantasticavamo. Vedo la tua bellezza con i miei stessi occhi e non v’è dubbio alcuno che tu sia intelligente e coraggiosa ma, sei una sfida, domina?

- Tu che ne pensi? - proruppi prima di riuscire a controllarmi.

Fece un largo sorriso.
- Penso che mi piacerebbe moltissimo insegnarti!

Sorrisi in risposta.
- Quando vuoi cominciare?

Il liberto greco aggrottò la fronte.
- Che ne dici di adesso?

I miei occhi si spalancarono per la sorpresa.
- Adesso? - squittii.

- Hai un piano migliore? - mi rispose.

- N-no, - risposi. Egli sorrise. Risposi al sorriso. Ci guardammo per un momento e poi, come obbedendo ad un misterioso segnale, scoppiammo a ridere all’unisono.

 

Vidi Cornelio Crasso soltanto un’altra volta. Accadde tre anni dopo, a teatro. Mi trovavo là con mio marito e lui era con sua moglie. Sedevano alcune file avanti e io li riconobbi quando lui si voltò casualmente verso di me. Indossava la toga pristina con la striscia porpora, perché a tempo debito il Senato lo aveva voluto. La donna accanto a lui era graziosa in modo morbido e piacevole, mentre io ero una fredda bellezza statuaria che induceva gli uomini a voltare le teste e a chiedere il mio nome. Era vestita con una familiare sfumatura di seta verde mare, invece io ero avvolta in un blu mezzanotte. I capelli di lei erano raccolti in modo ricercato e indossava un discreto ma costoso completo di tiara e collana etrusche. I miei zaffiri erano altrettanto discreti e costosi e la mia acconciatura altrettanto ricercata quanto quella di lei. I miei occhi e quelli di Cornelio Crasso si legarono per un momento e io vidi i suoi scintillare, dapprima in segno di riconoscimento, poi con aperta ammirazione. Poi, mentre egli notava l’elegante uomo dai capelli argentati al mio fianco, ritrovò l’autocontrollo e annuì brevemente. Io annuii in risposta, non avendo alcun dubbio che mio marito si fosse accorto dello scambio. Nulla sfuggiva alla sua attenzione anche se generalmente preferiva non menzionare il fatto. La moglie di Cornelio Crasso gli posò una mano sul braccio per richiamare la sua attenzione, rivelando il suo elegante profilo patrizio. L’ex questore aveva sposato il giusto sangue e un antico patrimonio. Sperai che avesse sposato anche la felicità perché era un uomo buono.

La signora aveva capelli rosso oro.

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[1] Quando entravano nelle città, le acque venivano raccolte in un serbatoio per l’erogazione (castellum acquae) e poi, depurate, scorrevano in tubi diversi e alimentavano le fontane pubbliche, le vasche, le terme, gli edifici pubblici, le case private più ricche, oltre che lavatoi, concerie, tintorie, fucine, impianti artigianali di vasai, posti pubblici di ristoro, abbeveratoi (N.d.T.).

[2] Nell’antichità classica, strumento di osso o di metallo costituito da un manico terminante con una parte ricurva e concava, usato nelle palestre e nelle terme per detergere il corpo dal sudore, dagli oli, dalla polvere o simili (Nd.T.).

[3] Ad Appio Marco Gavio detto Apicio, cittadino romano del I secolo avanti Cristo, viene attribuito il famoso trattato di arte culinaria De re coquinaria (La cucina), che rappresenta il più importante libro di cucina scritto in lingua latina; un ricettario ancora attuale, pieno di ricette che dimostrano come moltissimi piatti della cultura italiana, specialmente quelli regionali, derivino dalla tradizione greca e romana. Chi fosse curioso, consulti http://www.archeoempoli.it/ricette.htm (Nd.T.).