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Rimasi per
tre giorni a casa di Silvia Cornelia mentre suo fratello si occupava di
documenti e magistrati e sovrintendeva agli inventari imperiali, la qual cosa
precedeva la vendita all’asta di tutte le proprietà di Avidio
Cassio, perché la casa e la villa romane di lui dovevano essere svuotate prima
di essere trasferite allo stato. Inutile dire che non
furono giorni piacevoli. Non vidi mai Silvia Cornelia perché
preferivo restare nella mia stanza dall’aria viziata piuttosto che rischiare la
di lei furia altezzosa e lingua mordace. Ma,
come dissi, la nobilissima signora non aveva bisogno
di un confronto diretto per avere a che fare con la sua inaspettata… e
indesiderata… ospite.
Avrei
presto scoperto che Silvia Cornelia non solo era
incinta ma aveva già cinque bambini, quattro di loro ragazzi rumorosi, cattivi,
detestabili che traevano gran divertimento nel tirar calci alla mia porta,
schernire e spaventare Rufa quando si avventurava fuori e, una volta scoperta
Rubia, cercare di strapparmela via. Ma Rubia era troppo
veloce per loro, e indenne da civiltà e buone maniere, e non perse tempo
cercando di ragionare o di essere educata. Al contrario, mandò via in lacrime e
con una guancia sanguinante il ragazzo che aveva cercato di prenderla.
Quando
questo accadde, spronai Rufa ad esser pronta a lasciare la casa non appena
l’offesa matrona fosse giunta alla mia camera ordinando
che la gattina fosse cacciata via.
Ma Silvia Cornelia non si materializzò mai. Invece,
tutti i nostri pasti arrivarono tardi e freddi, o tardi e bruciati, o
semplicemente non arrivarono e il vino che li accompagnava, quando accadeva,
era del tipo che i padroni senza pretese servono ai loro schiavi, in verità più aceto che vino. Né
acqua né latte furono mai mandati ai nostri soffocanti
quartieri e non mi venne mai offerta l’opportunità di fare un bagno. I servi
sogghignavano quando mi sorprendevano a bere dalla fontana del cortile.
Radunando la mia calpestata dignità chiesi loro un po’ d’acqua calda per
lavarmi, ma se ne andarono senza una parola. Rufa più
tardi mi raccontò che un ragazzo schiavo che svolgeva commissioni le aveva sussurrato che era stato loro ordinato di non dare ascolto
ad alcuna richiesta che venisse da me. Silvia Cornelia era abbastanza sicura
che non mi sarei lagnata con suo fratello e, se l’avessi fatto, ella avrebbe
sempre potuto incolpare gli schiavi, avendo nel contempo una comoda scusa per
farli fustigare se le avesse fatto piacere. Così vanno le cose in molte casate
romane.
Come
schiava servente che non veniva tenuta per il piacere, Rufa era per certi versi
molto più piena di risorse di me e presto avrei saputo
che aveva preso le precauzioni di chi sa che cosa significhi essere affamati e
non vuole provarlo più. Il secondo giorno a casa di Silvia Cornelia, quando il
nostro pasto serale non comparve e il mio stomaco grugniva in protesta, ella frugò nella
sacca di cuoio che teneva sempre con sé ed estrasse pere e mele secche, pane,
formaggio di capra e un pezzo di favo col miele.
- Dove hai preso tutto questo, Rufa? - chiesi tra morsi
affamati. Eravamo sedute a gambe incrociate sul letto, imboccando una famelica
Rubia con pezzetti di formaggio e gocce di miele.
-
Accampamento, - disse brevemente e i suoi occhi scintillarono birichini.
-
L’accampamento pretoriano?
La piccola
numida annuì e masticò con tenacia la sua porzione.
- Se i
pretoriani ti avessero presa, ti avrebbero punita!
Fece
spallucce.
- Nessuno prenderà mai Rufa, - disse offrendomi una
pera.
Ma la presero. O, a dire la verità, presero entrambe mentre cercavamo di
introdurci furtivamente nella cucina di Silvia Cornelia in cerca di un po’ di
latte per Rubia. Era solo una micina e si stancava presto di masticare. Formaggio e miele non erano sufficienti per la perpetuamente
affamata cosina pelosa che stava crescendo alla sorprendente velocità di una
tigrotta e non provava alcun senso di colpa nel pretendere il suo cibo.
Così, dopo una notte insonne di rumorosi reclami del felino, ci dirigemmo in
punta di piedi alla volta della cucina quando era ancora buio, per cercare di
procurarci una
ciotola di latte.
Non
conoscendo la casa, non eravamo preparate al fatto che alcuni schiavi dormivano
sul pavimento della cucina e per poco non li calpestammo. Il conseguente
putiferio attirò il capo cuoco, un grosso uomo biondo che non fu per niente
felice di essere disturbato mentre dormiva e che ci guardò come se fossimo
colpevoli di omicidio.
- Noi…,
- cominciai e poi mi corressi. - Io… la mia… ho
bisogno…
L’uomo
stirò le labbra con disgusto e fece scorrere uno sguardo d’apprezzamento sul
mio corpo. A quella familiare occhiata lasciva mi sentii accapponare la pelle.
Le mie mani afferrarono lo scialle che mi ero gettata
sulla camicia da notte. Sarebbe sempre stato così?
Il cuoco
sorrise in modo sgradevole e drizzò la testa.
- Mi
serve del latte… - balbettai.
L’omone
biondo venne verso di me e io indietreggiai… solo per
ritrovarmi intrappolata contro il ceppo da macellaio. Il mio cuore batté rapido
per il terrore e io vidi il cuoco tendere una mano massiccia verso di me. Aveva
intenzione di toccarmi… e se l’avesse fatto, io avrei urlato, e se avessi
cominciato ad urlare, ero sicura che sarei diventata pazza. Per tutta la mia
vita mi avevano messo le mani addosso, ero stata
molestata e maltrattata. Dopo quella prima notte a casa del vecchio senatore
avevo imparato a padroneggiare le mie emozioni e a nascondere odio e
risentimento sempre più crescenti che palpeggiamenti, molestie e maltrattamenti
scatenavano. Ma una notte, non troppo tempo prima, in
un accampamento romano vicino al Mar Nero, le cose erano cambiate per sempre.
Perché le grandi, forti mani callose che avevano toccato e accarezzato il mio
viso, i miei capelli, il mio corpo, l’avevano fatto non con lussuria ma con
meraviglia e tenerezza, con attenzione e desiderio e sotto quelle mani il mio corpo si era
risvegliato ed era divenuto non più il vascello di egoistici
piaceri maschili ma quello vivente e appassionato del mio.
Il cuoco
si avvicinò di più.
L’uomo
sapeva che cos’ero e stava per abusare di me, come
ogni uomo eccetto Massimo aveva fatto fin da quando ero una bambina. Quello che
non sapeva era che io avevo ucciso l’uomo che mi aveva ridotta
quella che ero… e che ero pronta ad uccidere chiunque altro avesse cercato
ancora di fare di me una prostituta.
- Ti ho
resa una donna libera e una donna libera sarai! Il
meno che tu possa fare è agire come tale!
Una
donna libera.
Io ero
una donna libera. Non una schiava. Non una prostituta.
Un uomo
rispettabile mi aveva trattata come una donna
rispettabile anche se non ero altro che una schiava e una prostituta. Un
imperatore mi aveva resa libera e ricca e mi doveva un
debito che tutto l’oro dell’impero romano non avrebbe potuto pagare.
Ero una
donna libera. Avevo salvato un impero. E l’uomo che
amavo.
Se una donna libera
vuole essere toccata da uno schiavo maschio, gli ordina semplicemente di andare
al suo letto e lo fa frustare se non lo fa.
Raddrizzai
la schiena e sollevai il mento.
- Come osi guardarmi come se fossi un mio pari? - Le
mie parole rimbalzarono contro i muri della cucina. Quasi non riconobbi la mia
stessa voce fredda e indignata. Il cuoco sobbalzò come se lo avessi
schiaffeggiato e la mano gli ricadde al fianco. Dietro
di lui, gli occhi degli schiavi della cucina si spalancarono.
Mi
guardai intorno con disgusto. Non avevo bisogno di fingere. Ero amaramente
adirata. E la cucina era disordinata e annerita dal
fumo. Sapevo abbastanza di gestione di case per capire che questa era governata
da una donna troppo assorbita dal proprio egocentrismo per abbassarsi a dare un’occhiata intorno… e che il suo dispensiere era
troppo felice della conveniente situazione per lamentarsi.
Tornai a
guardare il cuoco e i suoi assistenti.
- C’è
del latte fresco in questo porcile che chiamate cucina?
- S-sì, domina, - borbottò il cuoco, poi in fretta chinò la
testa.
- Voglio
una ciotola di latte fresco! ADESSO!
Le
schiave si affrettarono a riempire una ciotola d’argilla con latte, versandone
un po’ per la fretta e dell’altro quando me la offrirono.
- Ti
sembro un fattorino? - sbottai. La schiava negò freneticamente. - Dàlla alla
mia domestica.
Mormorando
le sue scuse, la donna s’inchinò di nuovo e diede la ciotola a Rufa. Mi rivolsi
di nuovo al personale di cucina.
- Non siete che un branco di pigri, sporchi zotici che
meritano di essere frustati e spediti al mercato… Forse un buon banditore
potrebbe ottenere un prezzo decente… vendendovi ai bordelli della Suburra. Tutti
voi! - La mia voce era forte, fredda e calma. Più tardi mi
sarei resa conto che stavo adottando lo stesso tono determinato che Massimo
aveva usato quando aveva arrestato gli ufficiali di Cassio nella tenda di
Marcello. Gli schiavi potevano essere pigri e male
istruiti, ma reagirono prontamente ad una voce che dava ordini e al
latino della classe superiore. Forse ero illetterata, ma avevo imparato maniere
e modo di parlare da consoli e senatori. - Ma dubito
che ne valiate la pena. In ogni caso, siete state messi nel luogo a
cui appartenete: l’ignobile tenuta di una cagna che s’illude di essere
una signora! - Voltandomi di scatto mi precipitai fuori della cucina.
Non
potevo tornare a dormire. Anzi, giacqui sveglia mentre Rufa russava dolcemente accanto
a me e Rubia faceva le fusa soddisfatta, col pancino
caldo e pieno grazie al latte di Silvia Cornelia. Io rimasi immobile, guardando
il soffitto della stanza priva d’aria, e se la mancanza di finestre lasciava al
bando la luce, gli uccelli che cinguettavano nel cortile proclamavano l’alba.
Ero
irrequieta. Mi alzai e in silenzio sedetti al tavolino, di fronte allo specchio
che Rufa aveva messo lì per me e con cura dispiegai
forcine, spazzole e pettini d’avorio. Poi mi spazzolai i capelli lunghi fino
alla vita, lisciando le morbide onde che Massimo aveva carezzato con tenerezza
e afferrato con passione. Non mi ero mai raccolta i capelli fuorché
sommariamente quando facevo il bagno. Maldestramente, li divisi e ancor più
goffamente cercai prima di intrecciarli e, non riuscendovi, di raccoglierli.
Fallii di nuovo. E ancora. E
ancora. Le forcine mi scappavano dalle mani, i riccioli si rifiutavano di
rimanere dove volevo che stessero e ostinatamente mi
ricadevano sul viso. Mi morsicai il labbro inferiore in dolorosa concentrazione
fino a che fu gonfio. Le mani mi tremavano, le braccia
mi dolevano. L’aria di rispettabilità mi eludeva nello stesso modo e con la stessa crudeltà con cui le matrone romane come Silvia
Cornelia eludevano quelle come me.
All’improvviso,
la frustrazione divenne amara, bruciante collera. Il mio braccio destro spazzò
la superficie del tavolino con violenza malamente
contenuta. Pettini, forcine e spazzole volarono intorno. Un piccolo scrigno si
abbatté sul pavimento, dove il coperchio si aprì riversandone il contenuto.
Rufa si svegliò di soprassalto per il rumore. Rubia saltò sotto il letto.
-
Padrona Giulia? - chiese la ragazzina con aria esitante.
Non
risposi. Stavo guardando il pavimento, dove un sacchetto di cuoio giaceva ai
miei piedi. Un altro più piccolo rotolò poco più in là prima di fermarsi. Non
vedevo quei sacchetti dalla fatidica notte in Moesia, quando avevo incontrato
Massimo e la mia vita era cambiata per sempre. Il più grosso conteneva una
dozzina di rotonde spugnette greche. Il più piccolo, un costoso miscuglio di erbe che a più di una donna romana sarebbe piaciuto
avere. Erbe e spugne mi avevano preservato dalle conseguenze
dei miei doveri e uno stiletto rubato aveva ricavato vendetta dall’uomo che mi
aveva imposto quei doveri. Eppure il mio sordido passato sbeffeggiava me
ed i miei tentativi di sembrare quella che si supponeva dovessi
sembrare da quel momento in poi.
-
Padrona Giulia?
La
testolina color ruggine spuntò da sotto il letto. Non era che
una micina e in lei la giocosa curiosità era al momento più forte della
stanchezza. Saltò sul sacchetto più grosso come se esso fosse una palla,
attaccandolo felicemente con artigli e dentini. Non sopportavo più quella
stanza. Mi alzai in piedi, andai alla porta e uscii, sbattendola con tale
violenza che il rumore dovette avere svegliato chiunque stesse dormendo nella
ancor silenziosa casa.
Cornelio
Crasso venne da me la mattina seguente. Quando io
entrai nell’atrio lui era solo, la sua nobile sorella e i nobili nipoti non in
vista. Il questore si accigliò quando vide Rufa alle mie calcagna, portando
l’onnipresente cestino per la gattina. Ma il cestino
era vuoto e io reggevo Rubia tra le braccia.
-
Domina, andremo dal banchiere dell’imperatore. Non è necessario che ti porti la
tua cameriera e la tua micia. Ritorneremo.
-
Verranno con me, - dissi secca e andai verso la porta senza attendere la sua
risposta. Il portinaio doveva aver saputo del trambusto in cucina, perché
inciampò per la fretta di aprire la porta. Nemmeno mi accorsi della sua
presenza.
Uscii
dalla casa di Silvia Cornelia solo per inciampare in un piede pretoriano
calzato da stivale. Stupita, incespicai, ma l’uomo ammantato di nero non perse
la sua compostezza. Si limitò a guardarmi con quell’espressione imperscrutabile
che è obbligatoria per le guardie imperiali. Ma Rubia
sibilò con furia al soldato e quello indietreggiò. Sentendomi vendicata, cominciai ad
allontanarmi a passo svelto. Non andai lontano.
Cornelio
Crasso mi afferrò il braccio e mi obbligò a voltarmi dicendo:
- Da questa parte, domina!
Il
pretoriano non era solo. Con lui c’erano altri cinque uomini completamente
armati. Si allinearono in fretta affiancandoci da entrambi i lati, una
formidabile scorta per una ragazza diciottenne dai capelli rosso-oro, un
questore militare in completi regalia, una
piccola cameriera numida e un gattino dai tre colori. Cornelio Crasso mi lasciò
andare il braccio prima che avessi il tempo di
scuotermi la sua mano di dosso.
Camminavo
in silenzio, ostinatamente ignorando sia la presenza del questore sia le
occhiate curiose della gente che incrociavamo per strada. Erano passati solo
due anni da quando avevo visto le strade di Roma per l’ultima volta, ma la
città era cambiata. O forse io la stavo guardando con
occhi completamente diversi. Di certo la mia ultima visita a Roma non avrebbe
potuto essere più diversa da quella di adesso. Due anni prima ero stata
recapitata su una lettiga d’oro e mogano ai cancelli della casa di un agiato
membro del senato, nei pressi del Palatino. Ero
avvolta in seta turchese e la mia pelle era stata cosparsa di polvere d’oro, il
mio corpo un’offerta proveniente da un uomo potente desideroso di appoggio per i suoi progetti politici ad un altro uomo
potente che non poteva resistere ad un pezzo di carne leggiadramente modellato
che sapeva anche come farlo sentirlo potente in un’arena completamente
differente dal pavimento del Senato. Era una buona cosa che Cornelio Crasso non
avesse portato una lettiga o una sedia per trasportarmi a casa del banchiere. Come ho detto, era un uomo intelligente.
Camminammo
verso il Foro, il nostro passaggio affrettato dalla presenza minacciosa delle
guardie pretoriane. Roma assalì i miei sensi con le sue genti, i suoi colori, i suoi odori, il suo rumore. Le persone
voltavano le teste per guardarci, chiaramente intrigate dalla nostra strana
processione, ma venditori di strada, borsaioli e mendicanti se ne stavano sulle
loro, sei guardie imperiali essendo troppe per venire
stoltamente ignorate. Dopo alcuni isolati, avevo udito una dozzina di lingue
diverse, visto i lineamenti di una dozzina di nazioni differenti e odorato
sudore, spezie, urina e le più squisite fragranze che un
mercato di profumi orientali può offrire. Ero a casa.
Ci fermammo ad una casa imponente che aveva l’aspetto di una
fortezza e l’ufficiale pretoriano bussò alla porta con il bastone che denotava
il suo rango. Cornelio Crasso scambiò
qualche parola con il portinaio e fummo tutti ammessi nella casa senza ulteriore
ritardo.
- Siamo
a casa di Emilio Trebuzio Flacco, - mi spiegò il
questore a bassa voce. - E’ uno dei banchieri personali dell’imperatore. Gli
parlerò io e poi tu gli consegnerai la lettera sigillata che l’imperatore ti
diede….
Emilio
Trebuzio Flacco scelse quel momento per fare il suo ingresso. Era un uomo alto
con un fisico più adeguato ad un lottatore professionista che ad un banchiere,
e un naso aquilino. Indossava una veste di pregiata lana bianca degna della
toga di un senatore e nella mano destra ostentava un enorme anello con sigillo.
Il banchiere era seguito da due segretari, schiavi istruiti o uomini affrancati
che sapevano tutto delle azioni del loro padrone e
probabilmente tenevano ben informato dei suoi spostamenti il capo delle spie
dell’imperatore. Così vanno le cose a Roma.
-
Cornelio Crasso! Che piacere rivederti! Come sta il Divino Marco Aurelio? Sacrificai una grassa oca
a Giove quando seppi che era vivo!
-
L’imperatore è in buona salute, siano lodati gli dei, e tornerà a Roma non appena
si sarà occupato di certi affari che richiedono il suo personale intervento, -
rispose il questore in un tono amabile che non lasciava alcun dubbio su cosa
pensasse di quell’uomo.
Il
banchiere mi guardò brevemente, poi il suo sguardo volò di nuovo su Cornelio
Crasso. Gli uomini raramente portano le loro mogli… e mai le loro
mantenute… con sé quando visitano banchieri. Di certo Emilio Trebuzio Flacco
era ben consapevole dello stato celibe del questore e nessuna mantenuta
circolava per Roma scortata da sei pretoriani. Almeno non al tempo di Marco Aurelio. L’uomo era
chiaramente sorpreso e la cosa non gli piaceva.
Cornelio
Crasso, invece, sembrava godere della situazione.
- Emilio Trebuzio Flacco, - intonò il questore nella sua miglior voce da
oratore offrendomi una visione fugace del suo futuro al senato se la sua famiglia si fosse potuta permettere un posto laggiù per
un figlio cadetto. - L’imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto
altamente stima te e i tuoi servigi che hai sempre fedelmente offerto a lui e
alla sua famiglia, servigi per i quali tu sei sempre stato generosamente
ricompensato. Oggi egli richiede il tuo aiuto, come suo banchiere e suddito, per risolvere un problema
che è della massima importanza per la sua Divina Persona.
Il banchiere
annuì in silenzio e fece strada al suo ufficio,
allontanò i suoi segretari e chiuse le porte, lasciando fuori i pretoriani,
Rufa e la mia gattina.
Poco
dopo, l’uomo stava guardando ad occhi spalancati la pergamena srotolata sul suo enorme scrittoio.
Cornelio Crasso stava in piedi di fronte ad esso guardando amabilmente il
banchiere mentre io rimanevo seduta su un panchetto, sentendomi goffa e
inadeguata come al solito. Nessuno dei due uomini mi
aveva rivolto la parola da quando eravamo entrati nella stanza.
Il
questore tossì e Emilio Trebuzio Flacco alzò la testa.
- Il denaro sarà depositato a nome della signora
immediatamente…
-
Suppongo che la signora verrà dotata della solita
cassetta bancaria, - disse Cornelio Crasso. Il banchiere annuì vigorosamente e
suonò per un segretario. Quando l’uomo arrivò, egli
animatamente lo istruì sulla cassetta dove la mia ricchezza stava per essere
salvaguardata. Il segretario era un uomo magro, con fattezze orientali e
malinconici occhi scuri. Mi guardò brevemente e poi s’inchinò e lasciò la
stanza.
Emilio
Trebuzio Flacco si rivolse a Cornelio Crasso.
- Ti darò la chiave oggi ma l’anello con sigillo per autorizzare le transazioni
richiederà qualche
giorno. Lo farò consegnare a casa tua quando sarà
pronto.
Il questore
annuì con condiscendenza.
-
Cos’altro posso fare per l’imperatore?
- La
signora necessita di un luogo in cui vivere. L’imperatore sarebbe molto grato
se tu l’aiutassi a stabilirsi a Roma.
- Devo
capire che la signora non ha famiglia?
- No,
non l’ha.
- Be’…
la sorella di mia moglie è vedova…
-
All’imperatore piacerebbe che la signora si sentisse a suo agio e al sicuro.
- Mia
cognata vive in una villa di campagna.
Sapevo abbastanza della società romana per essere conscia
che da una rispettabile donna affrancata ci si aspetta che guardi umilmente il
pavimento e rimanga in silenzio mentre i maschi discutono di lei come se fosse
parte della mobilia. Alcune settimane
prima non ero altro che una schiava. E una prostituta.
Una matrona romana e il suo cuoco schiavo non avevano avuto bisogno che di
un’occhiata per sapere che potevo anche essere libera, ma non ero rispettabile. Lei mi aveva trattata
come feccia e lui aveva cercato di approfittarsi di me. Adesso, un patrizio e
un banchiere recitavano la farsa della superiorità maschile e si aspettavano che io recitassi
quella della modestia femminile.
- Sono
certo che sarà felice di servire l’imperatore
ospitando la signora…
- La signora non vuole essere ospitata o portata in una
villa di campagna da una vedova che non ce la vuole e la tratterebbe come
immondizia. La signora può pensare e
parlare per sé e sa perfettamente quello che desidera.
La mia voce suonò perfettamente ragionevole e assolutamente
calma. Entrambi gli uomini mi guardarono
con due varianti di stupore. Quella di Cornelio Crasso era mista a caldi
accenni di ammirazione e divertito scetticismo. Quella
del banchiere, era d’incredulità. Nel loro mondo, le donne non discutono o
contraddicono gli uomini. Si limitano a imbrogliare o
manipolare.
Fissai i
miei occhi su Emilio Trebuzio Flacco. Sapevo che erano freddi e duri. Duri come erano stati quando avevo incalzato Eugenia a
spalleggiarmi per aiutare Massimo.
- Voglio un appartamento in un posto tranquillo e appartato. Almeno quattro
stanze. Arioso. Pulito. Impianto idraulico interno.
Il
banchiere guardò fugacemente Cornelio Crasso poi di nuovo me. Continuai
martellando le mie richieste.
- Ho un gatto. Non voglio che mi infastidiscano a causa sua. E voglio trasferirmi immediatamente.
Emilio
Trebuzio Flacco guardò di nuovo il questore, ma vedendo che da lui non avrebbe
ottenuto alcun aiuto, si voltò di nuovo verso di me.
-
Domina… io… io credo di poterti aiutare.
Fece una
pausa. Io non risposi. Lui continuò.
- Accade
che io possegga un edificio di appartamenti al
Quirinale… un luogo rispettabile, pulito, sicuro.
Conoscevo
il Quirinale. Abbastanza piacevole da far sembrare irreali gli orrori della
Suburra ma non abbastanza elegante da rammentarmi che cosa era
accaduto dietro le porte chiuse nelle patrizie case del Colle Palatino.
Molti prosperi mercanti e provinciali benestanti vi vivevano. La famiglia
dell’imperatore Vespasiano aveva tenuto la sua casa romana al Quirinale prima
che il loro illustre figlio marciasse verso il Palazzo.
Rimasi
in silenzio.
- E’ una
palazzina, solo cinque appartamenti. Uno al secondo piano è vuoto. Sono certo
che è all’altezza delle tue aspettative.
Io
rimanevo ancora in silenzio.
- Io…
sarei felice di essere utile all’imperatore prestandotela
per tutto il tempo che vorrai.
- Non
voglio che me la presti, ma che me l’affitti. Fai un prezzo.
Adesso
stavo vantandomi. Non ne sapevo abbastanza di prezzi da capire che cosa fosse ragionevole e che cosa no. Cornelio Crasso sembrava
sul punto di venire in mio soccorso. Qualcosa nei miei occhi gli impedì di
farlo. Emilio Trebuzio Flacco suonò di nuovo per il suo segretario e chiese le
chiavi.
Mezz’ora
dopo, i pretoriani scortavano la nostra curiosa processione, che ora includeva
il banchiere e il suo segretario, al Quirinale. L’appartamento era stato
vacante per anni. Era polveroso ma in buone condizioni. Aveva sei stanze e un
piccolo bagno. C’era anche una bella terrazza che guardava sul grazioso
giardino interno dell’appartamento il quale occupava completamente il primo
piano. Era soleggiato ed arioso e c’erano alcuni pezzi di mobilio che
sembravano abbastanza robusti da offrire ancora un po’ di servigi. Il banchiere
parlava dei vantaggi di vivere in un quartiere sicuro che la notte veniva pattugliato, popolato da gente piacevole che
possedeva case piacevoli. Io non gli prestai attenzione. Ero troppo occupata a
visionare la mia prima vera casa.
Due ore
dopo, tornai alla casa di Silvia Cornelia per un’ultima notte prima di
trasferirmi la mattina seguente. Portavo con me la chiave di ferro della mia
cassetta bancaria, un borsellino pieno di monete e la ricevuta di pagamento del
mio primo anno d’affitto. Il banchiere mi aveva dato l’appartamento per quella
che sospettavo fosse una miseria, perché era ancora incerto sulla mia relazione
con l’imperatore e il suo favore valeva più di qualunque oro. Io non obiettai.
Troppi uomini si erano approfittati di me ed erano stati ripagati. Egli promise
di mandare il contratto e l’anello con sigillo tramite Cornelio Crasso. Io
annuii e lasciai la sua casa. Solo quando il portinaio di Silvia Cornelia aprì
la porta della casa di lei io mi accorsi che stavo sorridendo come un’idiota.
Quella
notte riuscii a malapena a dormire. Impacchettavo e disimballavo, prendevo
mentalmente nota di comprarmi qualche abito più pratico… e rispettabile… e
impilavo alcuni di quelli particolarmente scandalosi per scartarli. Come direttrice delle schiave di piacere della tenuta di Cassio, avevo un
cofanetto che custodiva i gioielli usati per adornarci a feste ed incontri più
privati. Lo avevo completamente dimenticato e fui sorpresa di trovare i
gioielli tra i miei effetti personali. Anche questo avrebbe
dovuto sparire ma, come con i miei abiti da prostituta, avrebbe dovuto
aspettare finché avessi potuto andare da un sarto. Ripensandoci, aprii la
scatola che conservava i gioielli di mia proprietà… regalini datimi da alcuni
uomini… e li gettai nell’altro scrigno. Tenni solo un
pezzo, una catenina d’oro con un piccolo pendente egiziano: uno scarabeo d’oro e smalto con un disco dorato del sole tra le sue
antenne, che il figlio quattordicenne del senatore mi aveva dato come
fanciullesco regalo d’addio.
Mentre
impacchettavo, Rufa se ne stava sulle sue, stringendo la gattina tra le braccia
mentre guardava me e il trambusto che stavo facendo
nella stanza con occhi pazientemente sofferenti. La ragazza numida era una
buona cameriera. Perfino alla sua tenera età, sapeva che la sua
padrona si stava rendendo ridicola e che lei avrebbe potuto fare il trasloco
più velocemente ed efficientemente di lei. E stava
mettendo in chiaro che lei non si era mossa per scelta, lasciando che io mi
rendessi ridicola. Vagamente divertita pensai che aveva
davanti a sé un luminoso futuro al palazzo imperiale.
Si spostò
dal letto solo una volta, quando silenziosamente mi offrì il sacchetto di
spugne greche che lei aveva salvato da artigli e dentini di Rubia, ma non prima
che la micina avesse il tempo di masticare a dovere il cuoio. La ringraziai con
aria assente e stavo andando a mettere il sacchetto nello scrigno che conteneva
la roba scartata, quando qualcosa mi fermò. Chiusi a palla il pugno e
schiacciai le spugne un tempo importanti, mentre un freddo sorriso si allargava
sul mio volto.
Cornelio
Crasso venne da me subito dopo colazione, un pasto che questa volta, e non ne fui affatto sorpresa, era abbondante e si presentò
alla mia stanza in perfetto orario. Quando scesi le
scale, Silvia Cornelia era astiosamente in piedi accanto al fratello… come sapevo avrebbe fatto:
poteva aver rifiutato di farsi presentare a me e fatto del suo meglio per
rendere la mia vita impossibile, ma non v’era modo di farle rischiare di non
essere presente nel caso in cui avessi deciso di lagnarmi con Cornelio Crasso.
Se il questore era contrariato di essere stato incaricato di un trasloco dal suo
imperatore, non lo diede a vedere. Invece mi salutò con snervante cortesia e mi
chiese se ero pronta ad andare.
Io
acconsentii con la medesima creanza, poi mi voltai per guardare in faccia Silvia
Cornelia e sorrisi.
- Signora, permettimi di ringraziarti per la tua gentilezza. Sei stata la più
cortese delle padrone di casa. E la mia permanenza in
questa casa una delle più piacevoli… So che la cortesia richiede un dono
dall’ospite alla padrona di casa, ma io sono appena arrivata a Roma e non ho
avuto il tempo di stabilirmi. Tuttavia talvolta un buon consiglio è dono molto più prezioso dell’argento o dell’oro….
Con la
coda dell’occhio vidi Cornelio Crasso accigliarsi. Sapeva che stavo per combinare
qualcosa e quel qualcosa non era piacevole. Per niente
piacevole.
- Perciò lascia che ti dia un piccolo consiglio, Silvia
Cornelia. Poiché è ovvio dalla tua condizione… e da quella figliata degna della
moglie di un barcaiolo ubriaco che chiami tuoi bambini… che non sei brava a tenere tuo marito lontano dal tuo letto, almeno
dovresti cercare di imparare come gioire delle sue attenzioni. Farebbe
meraviglie per il tuo umore e la tua bellezza e ti
aiuterebbe anche a mantenerti più giovane dei tuoi… trent’anni? - La udii
ansimare, ma continuai a sorridere amabilmente alla sconcertata matrona. -
Tuttavia se trovi il compito troppo eccessivo per il tuo cervello patrizio,
almeno impara come evitare che lui ti metta incinta
ogni volta che svezzi il tuo ultimo cucciolo. - Lanciai il sacchetto di cuoio
contenente le mie spugne ai piedi della donna sbigottita, presi la gattina
dalle braccia di Rufa e uscii dalla casa. Cornelio Crasso sbuffò come fanno gli
uomini quando cercano di reprimere le risa e subito si dominò, ma non prima che
io cogliessi una visione fugace della sua attonita espressione ammirata. Mentre raggiungevo la porta, udii la risatina repressa del
portinaio. Soltanto Silvia Cornelia rimase in silenzio.