Diario di Giulia – Parte seconda

Capitolo III - La mia nuova vita, parte seconda - 174 d.C.

Rimasi per tre giorni a casa di Silvia Cornelia mentre suo fratello si occupava di documenti e magistrati e sovrintendeva agli inventari imperiali, la qual cosa precedeva la vendita all’asta di tutte le proprietà di Avidio Cassio, perché la casa e la villa romane di lui dovevano essere svuotate prima di essere trasferite allo stato. Inutile dire che non furono giorni piacevoli. Non vidi mai Silvia Cornelia perché preferivo restare nella mia stanza dall’aria viziata piuttosto che rischiare la di lei furia altezzosa e lingua mordace. Ma, come dissi, la nobilissima signora non aveva bisogno di un confronto diretto per avere a che fare con la sua inaspettata… e indesiderata… ospite.

 

Avrei presto scoperto che Silvia Cornelia non solo era incinta ma aveva già cinque bambini, quattro di loro ragazzi rumorosi, cattivi, detestabili che traevano gran divertimento nel tirar calci alla mia porta, schernire e spaventare Rufa quando si avventurava fuori e, una volta scoperta Rubia, cercare di strapparmela via. Ma Rubia era troppo veloce per loro, e indenne da civiltà e buone maniere, e non perse tempo cercando di ragionare o di essere educata. Al contrario, mandò via in lacrime e con una guancia sanguinante il ragazzo che aveva cercato di prenderla.

 

Quando questo accadde, spronai Rufa ad esser pronta a lasciare la casa non appena l’offesa matrona fosse giunta alla mia camera ordinando che la gattina fosse cacciata via.
Ma Silvia Cornelia non si materializzò mai. Invece, tutti i nostri pasti arrivarono tardi e freddi, o tardi e bruciati, o semplicemente non arrivarono e il vino che li accompagnava, quando accadeva, era del tipo che i padroni senza pretese
servono ai loro schiavi, in verità più aceto che vino. Né acqua né latte furono mai mandati ai nostri soffocanti quartieri e non mi venne mai offerta l’opportunità di fare un bagno. I servi sogghignavano quando mi sorprendevano a bere dalla fontana del cortile. Radunando la mia calpestata dignità chiesi loro un po’ d’acqua calda per lavarmi, ma se ne andarono senza una parola. Rufa più tardi mi raccontò che un ragazzo schiavo che svolgeva commissioni le aveva sussurrato che era stato loro ordinato di non dare ascolto ad alcuna richiesta che venisse da me. Silvia Cornelia era abbastanza sicura che non mi sarei lagnata con suo fratello e, se l’avessi fatto, ella avrebbe sempre potuto incolpare gli schiavi, avendo nel contempo una comoda scusa per farli fustigare se le avesse fatto piacere. Così vanno le cose in molte casate romane.

 

Come schiava servente che non veniva tenuta per il piacere, Rufa era per certi versi molto più piena di risorse di me e presto avrei saputo che aveva preso le precauzioni di chi sa che cosa significhi essere affamati e non vuole provarlo più. Il secondo giorno a casa di Silvia Cornelia, quando il nostro pasto serale non comparve e il mio stomaco grugniva in protesta, ella frugò nella sacca di cuoio che teneva sempre con sé ed estrasse pere e mele secche, pane, formaggio di capra e un pezzo di favo col miele.

 

- Dove hai preso tutto questo, Rufa? - chiesi tra morsi affamati. Eravamo sedute a gambe incrociate sul letto, imboccando una famelica Rubia con pezzetti di formaggio e gocce di miele.

 

- Accampamento, - disse brevemente e i suoi occhi scintillarono birichini.

 

- L’accampamento pretoriano?

 

La piccola numida annuì e masticò con tenacia la sua porzione.

 

- Se i pretoriani ti avessero presa, ti avrebbero punita!

 

Fece spallucce.
- Nessuno prenderà mai Rufa, - disse offrendomi una pera.

 

Ma la presero. O, a dire la verità, presero entrambe mentre cercavamo di introdurci furtivamente nella cucina di Silvia Cornelia in cerca di un po’ di latte per Rubia. Era solo una micina e si stancava presto di masticare. Formaggio e miele non erano sufficienti per la perpetuamente affamata cosina pelosa che stava crescendo alla sorprendente velocità di una tigrotta e non provava alcun senso di colpa nel pretendere il suo cibo. Così, dopo una notte insonne di rumorosi reclami del felino, ci dirigemmo in punta di piedi alla volta della cucina quando era ancora buio, per cercare di procurarci una ciotola di latte.

 

Non conoscendo la casa, non eravamo preparate al fatto che alcuni schiavi dormivano sul pavimento della cucina e per poco non li calpestammo. Il conseguente putiferio attirò il capo cuoco, un grosso uomo biondo che non fu per niente felice di essere disturbato mentre dormiva e che ci guardò come se fossimo colpevoli di omicidio.

 

- Noi…, - cominciai e poi mi corressi. - Io… la mia… ho bisogno…

 

L’uomo stirò le labbra con disgusto e fece scorrere uno sguardo d’apprezzamento sul mio corpo. A quella familiare occhiata lasciva mi sentii accapponare la pelle. Le mie mani afferrarono lo scialle che mi ero gettata sulla camicia da notte. Sarebbe sempre stato così?

 

Il cuoco sorrise in modo sgradevole e drizzò la testa.

 

- Mi serve del latte… - balbettai.

 

L’omone biondo venne verso di me e io indietreggiai… solo per ritrovarmi intrappolata contro il ceppo da macellaio. Il mio cuore batté rapido per il terrore e io vidi il cuoco tendere una mano massiccia verso di me. Aveva intenzione di toccarmi… e se l’avesse fatto, io avrei urlato, e se avessi cominciato ad urlare, ero sicura che sarei diventata pazza. Per tutta la mia vita mi avevano messo le mani addosso, ero stata molestata e maltrattata. Dopo quella prima notte a casa del vecchio senatore avevo imparato a padroneggiare le mie emozioni e a nascondere odio e risentimento sempre più crescenti che palpeggiamenti, molestie e maltrattamenti scatenavano. Ma una notte, non troppo tempo prima, in un accampamento romano vicino al Mar Nero, le cose erano cambiate per sempre. Perché le grandi, forti mani callose che avevano toccato e accarezzato il mio viso, i miei capelli, il mio corpo, l’avevano fatto non con lussuria ma con meraviglia e tenerezza, con attenzione e desiderio e sotto quelle mani il mio corpo si era risvegliato ed era divenuto non più il vascello di egoistici piaceri maschili ma quello vivente e appassionato del mio.

 

Il cuoco si avvicinò di più.

 

L’uomo sapeva che cos’ero e stava per abusare di me, come ogni uomo eccetto Massimo aveva fatto fin da quando ero una bambina. Quello che non sapeva era che io avevo ucciso l’uomo che mi aveva ridotta quella che ero… e che ero pronta ad uccidere chiunque altro avesse cercato ancora di fare di me una prostituta.

 

- Ti ho resa una donna libera e una donna libera sarai! Il meno che tu possa fare è agire come tale!

 

Una donna libera.

 

Io ero una donna libera. Non una schiava. Non una prostituta.

 

Un uomo rispettabile mi aveva trattata come una donna rispettabile anche se non ero altro che una schiava e una prostituta. Un imperatore mi aveva resa libera e ricca e mi doveva un debito che tutto l’oro dell’impero romano non avrebbe potuto pagare.

 

Ero una donna libera. Avevo salvato un impero. E l’uomo che amavo.

 

Se una donna libera vuole essere toccata da uno schiavo maschio, gli ordina semplicemente di andare al suo letto e lo fa frustare se non lo fa.

 

Raddrizzai la schiena e sollevai il mento.
- Come osi guardarmi come se fossi un mio pari? - Le mie parole rimbalzarono contro i muri della cucina. Quasi non riconobbi la mia stessa voce fredda e indignata. Il cuoco sobbalzò come se lo avessi schiaffeggiato e la mano gli ricadde al fianco. Dietro di lui, gli occhi degli schiavi della cucina si spalancarono.

Mi guardai intorno con disgusto. Non avevo bisogno di fingere. Ero amaramente adirata. E la cucina era disordinata e annerita dal fumo. Sapevo abbastanza di gestione di case per capire che questa era governata da una donna troppo assorbita dal proprio egocentrismo per abbassarsi a dare un’occhiata intorno… e che il suo dispensiere era troppo felice della conveniente situazione per lamentarsi.

 

Tornai a guardare il cuoco e i suoi assistenti.

 

- C’è del latte fresco in questo porcile che chiamate cucina?

 

- S-sì, domina, - borbottò il cuoco, poi in fretta chinò la testa.

 

- Voglio una ciotola di latte fresco! ADESSO!

 

Le schiave si affrettarono a riempire una ciotola d’argilla con latte, versandone un po’ per la fretta e dell’altro quando me la offrirono.

 

- Ti sembro un fattorino? - sbottai. La schiava negò freneticamente. - Dàlla alla mia domestica.

 

Mormorando le sue scuse, la donna s’inchinò di nuovo e diede la ciotola a Rufa. Mi rivolsi di nuovo al personale di cucina.

 

- Non siete che un branco di pigri, sporchi zotici che meritano di essere frustati e spediti al mercato… Forse un buon banditore potrebbe ottenere un prezzo decente… vendendovi ai bordelli della Suburra. Tutti voi! - La mia voce era forte, fredda e calma. Più tardi mi sarei resa conto che stavo adottando lo stesso tono determinato che Massimo aveva usato quando aveva arrestato gli ufficiali di Cassio nella tenda di Marcello. Gli schiavi potevano essere pigri e male istruiti, ma reagirono prontamente ad una voce che dava ordini e al latino della classe superiore. Forse ero illetterata, ma avevo imparato maniere e modo di parlare da consoli e senatori. - Ma dubito che ne valiate la pena. In ogni caso, siete state messi nel luogo a cui appartenete: l’ignobile tenuta di una cagna che s’illude di essere una signora! - Voltandomi di scatto mi precipitai fuori della cucina.

 

Non potevo tornare a dormire. Anzi, giacqui sveglia mentre Rufa russava dolcemente accanto a me e Rubia faceva le fusa soddisfatta, col pancino caldo e pieno grazie al latte di Silvia Cornelia. Io rimasi immobile, guardando il soffitto della stanza priva d’aria, e se la mancanza di finestre lasciava al bando la luce, gli uccelli che cinguettavano nel cortile proclamavano l’alba.

 

Ero irrequieta. Mi alzai e in silenzio sedetti al tavolino, di fronte allo specchio che Rufa aveva messo lì per me e con cura dispiegai forcine, spazzole e pettini d’avorio. Poi mi spazzolai i capelli lunghi fino alla vita, lisciando le morbide onde che Massimo aveva carezzato con tenerezza e afferrato con passione. Non mi ero mai raccolta i capelli fuorché sommariamente quando facevo il bagno. Maldestramente, li divisi e ancor più goffamente cercai prima di intrecciarli e, non riuscendovi, di raccoglierli. Fallii di nuovo. E ancora. E ancora. Le forcine mi scappavano dalle mani, i riccioli si rifiutavano di rimanere dove volevo che stessero e ostinatamente mi ricadevano sul viso. Mi morsicai il labbro inferiore in dolorosa concentrazione fino a che fu gonfio. Le mani mi tremavano, le braccia mi dolevano. L’aria di rispettabilità mi eludeva nello stesso modo e con la stessa crudeltà con cui le matrone romane come Silvia Cornelia eludevano quelle come me.

 

All’improvviso, la frustrazione divenne amara, bruciante collera. Il mio braccio destro spazzò la superficie del tavolino con violenza malamente contenuta. Pettini, forcine e spazzole volarono intorno. Un piccolo scrigno si abbatté sul pavimento, dove il coperchio si aprì riversandone il contenuto. Rufa si svegliò di soprassalto per il rumore. Rubia saltò sotto il letto.

 

- Padrona Giulia? - chiese la ragazzina con aria esitante.

 

Non risposi. Stavo guardando il pavimento, dove un sacchetto di cuoio giaceva ai miei piedi. Un altro più piccolo rotolò poco più in là prima di fermarsi. Non vedevo quei sacchetti dalla fatidica notte in Moesia, quando avevo incontrato Massimo e la mia vita era cambiata per sempre. Il più grosso conteneva una dozzina di rotonde spugnette greche. Il più piccolo, un costoso miscuglio di erbe che a più di una donna romana sarebbe piaciuto avere. Erbe e spugne mi avevano preservato dalle conseguenze dei miei doveri e uno stiletto rubato aveva ricavato vendetta dall’uomo che mi aveva imposto quei doveri. Eppure il mio sordido passato sbeffeggiava me ed i miei tentativi di sembrare quella che si supponeva dovessi sembrare da quel momento in poi.

 

- Padrona Giulia?

 

La testolina color ruggine spuntò da sotto il letto. Non era che una micina e in lei la giocosa curiosità era al momento più forte della stanchezza. Saltò sul sacchetto più grosso come se esso fosse una palla, attaccandolo felicemente con artigli e dentini. Non sopportavo più quella stanza. Mi alzai in piedi, andai alla porta e uscii, sbattendola con tale violenza che il rumore dovette avere svegliato chiunque stesse dormendo nella ancor silenziosa casa.

 

 

 

Cornelio Crasso venne da me la mattina seguente. Quando io entrai nell’atrio lui era solo, la sua nobile sorella e i nobili nipoti non in vista. Il questore si accigliò quando vide Rufa alle mie calcagna, portando l’onnipresente cestino per la gattina. Ma il cestino era vuoto e io reggevo Rubia tra le braccia.

 

- Domina, andremo dal banchiere dell’imperatore. Non è necessario che ti porti la tua cameriera e la tua micia. Ritorneremo.

 

- Verranno con me, - dissi secca e andai verso la porta senza attendere la sua risposta. Il portinaio doveva aver saputo del trambusto in cucina, perché inciampò per la fretta di aprire la porta. Nemmeno mi accorsi della sua presenza.

 

Uscii dalla casa di Silvia Cornelia solo per inciampare in un piede pretoriano calzato da stivale. Stupita, incespicai, ma l’uomo ammantato di nero non perse la sua compostezza. Si limitò a guardarmi con quell’espressione imperscrutabile che è obbligatoria per le guardie imperiali. Ma Rubia sibilò con furia al soldato e quello indietreggiò. Sentendomi vendicata, cominciai ad allontanarmi a passo svelto. Non andai lontano.

 

Cornelio Crasso mi afferrò il braccio e mi obbligò a voltarmi dicendo:
- Da questa parte, domina!

 

Il pretoriano non era solo. Con lui c’erano altri cinque uomini completamente armati. Si allinearono in fretta affiancandoci da entrambi i lati, una formidabile scorta per una ragazza diciottenne dai capelli rosso-oro, un questore militare in completi regalia, una piccola cameriera numida e un gattino dai tre colori. Cornelio Crasso mi lasciò andare il braccio prima che avessi il tempo di scuotermi la sua mano di dosso.

 

Camminavo in silenzio, ostinatamente ignorando sia la presenza del questore sia le occhiate curiose della gente che incrociavamo per strada. Erano passati solo due anni da quando avevo visto le strade di Roma per l’ultima volta, ma la città era cambiata. O forse io la stavo guardando con occhi completamente diversi. Di certo la mia ultima visita a Roma non avrebbe potuto essere più diversa da quella di adesso. Due anni prima ero stata recapitata su una lettiga d’oro e mogano ai cancelli della casa di un agiato membro del senato, nei pressi del Palatino. Ero avvolta in seta turchese e la mia pelle era stata cosparsa di polvere d’oro, il mio corpo un’offerta proveniente da un uomo potente desideroso di appoggio per i suoi progetti politici ad un altro uomo potente che non poteva resistere ad un pezzo di carne leggiadramente modellato che sapeva anche come farlo sentirlo potente in un’arena completamente differente dal pavimento del Senato. Era una buona cosa che Cornelio Crasso non avesse portato una lettiga o una sedia per trasportarmi a casa del banchiere. Come ho detto, era un uomo intelligente.

 

Camminammo verso il Foro, il nostro passaggio affrettato dalla presenza minacciosa delle guardie pretoriane. Roma assalì i miei sensi con le sue genti, i suoi colori, i suoi odori, il suo rumore. Le persone voltavano le teste per guardarci, chiaramente intrigate dalla nostra strana processione, ma venditori di strada, borsaioli e mendicanti se ne stavano sulle loro, sei guardie imperiali essendo troppe per venire stoltamente ignorate. Dopo alcuni isolati, avevo udito una dozzina di lingue diverse, visto i lineamenti di una dozzina di nazioni differenti e odorato sudore, spezie, urina e le più squisite fragranze che un mercato di profumi orientali può offrire. Ero a casa.

 

Ci fermammo ad una casa imponente che aveva l’aspetto di una fortezza e l’ufficiale pretoriano bussò alla porta con il bastone che denotava il suo rango. Cornelio Crasso scambiò qualche parola con il portinaio e fummo tutti ammessi nella casa senza ulteriore ritardo.

 

- Siamo a casa di Emilio Trebuzio Flacco, - mi spiegò il questore a bassa voce. - E’ uno dei banchieri personali dell’imperatore. Gli parlerò io e poi tu gli consegnerai la lettera sigillata che l’imperatore ti diede….

 

Emilio Trebuzio Flacco scelse quel momento per fare il suo ingresso. Era un uomo alto con un fisico più adeguato ad un lottatore professionista che ad un banchiere, e un naso aquilino. Indossava una veste di pregiata lana bianca degna della toga di un senatore e nella mano destra ostentava un enorme anello con sigillo. Il banchiere era seguito da due segretari, schiavi istruiti o uomini affrancati che sapevano tutto delle azioni del loro padrone e probabilmente tenevano ben informato dei suoi spostamenti il capo delle spie dell’imperatore. Così vanno le cose a Roma.

 

- Cornelio Crasso! Che piacere rivederti! Come sta il Divino Marco Aurelio? Sacrificai una grassa oca a Giove quando seppi che era vivo!

 

- L’imperatore è in buona salute, siano lodati gli dei, e tornerà a Roma non appena si sarà occupato di certi affari che richiedono il suo personale intervento, - rispose il questore in un tono amabile che non lasciava alcun dubbio su cosa pensasse di quell’uomo.

 

Il banchiere mi guardò brevemente, poi il suo sguardo volò di nuovo su Cornelio Crasso. Gli uomini raramente portano le loro mogli… e mai le loro mantenute… con sé quando visitano banchieri. Di certo Emilio Trebuzio Flacco era ben consapevole dello stato celibe del questore e nessuna mantenuta circolava per Roma scortata da sei pretoriani. Almeno non al  tempo di Marco Aurelio. L’uomo era chiaramente sorpreso e la cosa non gli piaceva.

 

Cornelio Crasso, invece, sembrava godere della situazione.
- Emilio Trebuzio Flacco, - intonò il questore nella sua miglior voce da oratore offrendomi una visione fugace del suo futuro al senato se la sua famiglia si fosse potuta permettere un posto laggiù per un figlio cadetto. - L’imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto altamente stima te e i tuoi servigi che hai sempre fedelmente offerto a lui e alla sua famiglia, servigi per i quali tu sei sempre stato generosamente ricompensato. Oggi egli richiede il tuo aiuto, come suo banchiere e suddito,
per risolvere un problema che è della massima importanza per la sua Divina Persona.

 

Il banchiere annuì in silenzio e fece strada al suo ufficio, allontanò i suoi segretari e chiuse le porte, lasciando fuori i pretoriani, Rufa e la mia gattina.

 

Poco dopo, l’uomo stava guardando ad occhi spalancati la pergamena srotolata sul suo enorme scrittoio. Cornelio Crasso stava in piedi di fronte ad esso guardando amabilmente il banchiere mentre io rimanevo seduta su un panchetto, sentendomi goffa e inadeguata come al solito. Nessuno dei due uomini mi aveva rivolto la parola da quando eravamo entrati nella stanza.

 

Il questore tossì e Emilio Trebuzio Flacco alzò la testa.
- Il denaro sarà depositato a nome della signora immediatamente…

 

- Suppongo che la signora verrà dotata della solita cassetta bancaria, - disse Cornelio Crasso. Il banchiere annuì vigorosamente e suonò per un segretario. Quando l’uomo arrivò, egli animatamente lo istruì sulla cassetta dove la mia ricchezza stava per essere salvaguardata. Il segretario era un uomo magro, con fattezze orientali e malinconici occhi scuri. Mi guardò brevemente e poi s’inchinò e lasciò la stanza.

 

Emilio Trebuzio Flacco si rivolse a Cornelio Crasso.
- Ti darò la chiave oggi ma l’anello con sigillo per autorizzare le transazioni richiederà
qualche giorno. Lo farò consegnare a casa tua quando sarà pronto.

 

Il questore annuì con condiscendenza.

 

- Cos’altro posso fare per l’imperatore?

 

- La signora necessita di un luogo in cui vivere. L’imperatore sarebbe molto grato se tu l’aiutassi a stabilirsi a Roma.

 

- Devo capire che la signora non ha famiglia?

 

- No, non l’ha.

 

- Be’… la sorella di mia moglie è vedova…

 

- All’imperatore piacerebbe che la signora si sentisse a suo agio e al sicuro.

 

- Mia cognata vive in una villa di campagna.

 

Sapevo abbastanza della società romana per essere conscia che da una rispettabile donna affrancata ci si aspetta che guardi umilmente il pavimento e rimanga in silenzio mentre i maschi discutono di lei come se fosse parte della mobilia. Alcune settimane prima non ero altro che una schiava. E una prostituta. Una matrona romana e il suo cuoco schiavo non avevano avuto bisogno che di un’occhiata per sapere che potevo anche essere libera, ma non ero rispettabile. Lei mi aveva trattata come feccia e lui aveva cercato di approfittarsi di me. Adesso, un patrizio e un banchiere recitavano la farsa della superiorità maschile e si aspettavano  che io recitassi quella della modestia femminile.

 

- Sono certo che sarà felice di servire l’imperatore ospitando la signora…

 

- La signora non vuole essere ospitata o portata in una villa di campagna da una vedova che non ce la vuole e la tratterebbe come immondizia. La signora può pensare e parlare per sé e sa perfettamente quello che desidera.

 

La mia voce suonò perfettamente ragionevole e assolutamente calma. Entrambi gli uomini mi guardarono con due varianti di stupore. Quella di Cornelio Crasso era mista a caldi accenni di ammirazione e divertito scetticismo. Quella del banchiere, era d’incredulità. Nel loro mondo, le donne non discutono o contraddicono gli uomini. Si limitano a imbrogliare o manipolare.

 

Fissai i miei occhi su Emilio Trebuzio Flacco. Sapevo che erano freddi e duri. Duri come erano stati quando avevo incalzato Eugenia a spalleggiarmi per aiutare Massimo.
- Voglio un appartamento in un posto tranquillo e appartato. Almeno quattro stanze. Arioso. Pulito. Impianto idraulico interno.

 

Il banchiere guardò fugacemente Cornelio Crasso poi di nuovo me. Continuai martellando le mie richieste.
- Ho un gatto. Non voglio che mi infastidiscano
a causa sua. E voglio trasferirmi immediatamente.

 

Emilio Trebuzio Flacco guardò di nuovo il questore, ma vedendo che da lui non avrebbe ottenuto alcun aiuto, si voltò di nuovo verso di me.

 

- Domina… io… io credo di poterti aiutare.

 

Fece una pausa. Io non risposi. Lui continuò.

 

- Accade che io possegga un edificio di appartamenti al Quirinale… un luogo rispettabile, pulito, sicuro.

 

Conoscevo il Quirinale. Abbastanza piacevole da far sembrare irreali gli orrori della Suburra ma non abbastanza elegante da rammentarmi che cosa era accaduto dietro le porte chiuse nelle patrizie case del Colle Palatino. Molti prosperi mercanti e provinciali benestanti vi vivevano. La famiglia dell’imperatore Vespasiano aveva tenuto la sua casa romana al Quirinale prima che il loro illustre figlio marciasse verso il Palazzo.

Rimasi in silenzio.

 

- E’ una palazzina, solo cinque appartamenti. Uno al secondo piano è vuoto. Sono certo che è all’altezza delle tue aspettative.

 

Io rimanevo ancora in silenzio.

 

- Io… sarei felice di essere utile all’imperatore prestandotela per tutto il tempo che vorrai.

 

- Non voglio che me la presti, ma che me l’affitti. Fai un prezzo.

 

Adesso stavo vantandomi. Non ne sapevo abbastanza di prezzi da capire che cosa fosse ragionevole e che cosa no. Cornelio Crasso sembrava sul punto di venire in mio soccorso. Qualcosa nei miei occhi gli impedì di farlo. Emilio Trebuzio Flacco suonò di nuovo per il suo segretario e chiese le chiavi.

 

Mezz’ora dopo, i pretoriani scortavano la nostra curiosa processione, che ora includeva il banchiere e il suo segretario, al Quirinale. L’appartamento era stato vacante per anni. Era polveroso ma in buone condizioni. Aveva sei stanze e un piccolo bagno. C’era anche una bella terrazza che guardava sul grazioso giardino interno dell’appartamento il quale occupava completamente il primo piano. Era soleggiato ed arioso e c’erano alcuni pezzi di mobilio che sembravano abbastanza robusti da offrire ancora un po’ di servigi. Il banchiere parlava dei vantaggi di vivere in un quartiere sicuro che la notte veniva pattugliato, popolato da gente piacevole che possedeva case piacevoli. Io non gli prestai attenzione. Ero troppo occupata a visionare la mia prima vera casa.

 

Due ore dopo, tornai alla casa di Silvia Cornelia per un’ultima notte prima di trasferirmi la mattina seguente. Portavo con me la chiave di ferro della mia cassetta bancaria, un borsellino pieno di monete e la ricevuta di pagamento del mio primo anno d’affitto. Il banchiere mi aveva dato l’appartamento per quella che sospettavo fosse una miseria, perché era ancora incerto sulla mia relazione con l’imperatore e il suo favore valeva più di qualunque oro. Io non obiettai. Troppi uomini si erano approfittati di me ed erano stati ripagati. Egli promise di mandare il contratto e l’anello con sigillo tramite Cornelio Crasso. Io annuii e lasciai la sua casa. Solo quando il portinaio di Silvia Cornelia aprì la porta della casa di lei io mi accorsi che stavo sorridendo come un’idiota.

 

Quella notte riuscii a malapena a dormire. Impacchettavo e disimballavo, prendevo mentalmente nota di comprarmi qualche abito più pratico… e rispettabile… e impilavo alcuni di quelli particolarmente scandalosi per scartarli. Come direttrice delle schiave di piacere della tenuta di Cassio, avevo un cofanetto che custodiva i gioielli usati per adornarci a feste ed incontri più privati. Lo avevo completamente dimenticato e fui sorpresa di trovare i gioielli tra i miei effetti personali. Anche questo avrebbe dovuto sparire ma, come con i miei abiti da prostituta, avrebbe dovuto aspettare finché avessi potuto andare da un sarto. Ripensandoci, aprii la scatola che conservava i gioielli di mia proprietà… regalini datimi da alcuni uomini… e li gettai nell’altro scrigno. Tenni solo un pezzo, una catenina d’oro con un piccolo pendente egiziano: uno scarabeo d’oro e smalto con un disco dorato del sole tra le sue antenne, che il figlio quattordicenne del senatore mi aveva dato come fanciullesco regalo d’addio.

 

Mentre impacchettavo, Rufa se ne stava sulle sue, stringendo la gattina tra le braccia mentre guardava me e il trambusto che stavo facendo nella stanza con occhi pazientemente sofferenti. La ragazza numida era una buona cameriera. Perfino alla sua tenera età, sapeva che la sua padrona si stava rendendo ridicola e che lei avrebbe potuto fare il trasloco più velocemente ed efficientemente di lei. E stava mettendo in chiaro che lei non si era mossa per scelta, lasciando che io mi rendessi ridicola. Vagamente divertita pensai che aveva davanti a sé un luminoso futuro al palazzo imperiale.

Si spostò dal letto solo una volta, quando silenziosamente mi offrì il sacchetto di spugne greche che lei aveva salvato da artigli e dentini di Rubia, ma non prima che la micina avesse il tempo di masticare a dovere il cuoio. La ringraziai con aria assente e stavo andando a mettere il sacchetto nello scrigno che conteneva la roba scartata, quando qualcosa mi fermò. Chiusi a palla il pugno e schiacciai le spugne un tempo importanti, mentre un freddo sorriso si allargava sul mio volto.

 

Cornelio Crasso venne da me subito dopo colazione, un pasto che questa volta, e non ne fui affatto sorpresa, era abbondante e si presentò alla mia stanza in perfetto orario. Quando scesi le scale, Silvia Cornelia era astiosamente in piedi accanto al fratello… come sapevo avrebbe fatto: poteva aver rifiutato di farsi presentare a me e fatto del suo meglio per rendere la mia vita impossibile, ma non v’era modo di farle rischiare di non essere presente nel caso in cui avessi deciso di lagnarmi con Cornelio Crasso. Se il questore era contrariato di essere stato  incaricato di un trasloco dal suo imperatore, non lo diede a vedere. Invece mi salutò con snervante cortesia e mi chiese se ero pronta ad andare.

 

Io acconsentii con la medesima creanza, poi mi voltai per guardare in faccia Silvia Cornelia e sorrisi.
- Signora, permettimi di ringraziarti per la tua gentilezza. Sei stata la più cortese delle padrone di casa. E la mia permanenza in questa casa una delle più piacevoli… So che la cortesia richiede un dono dall’ospite alla padrona di casa, ma io sono appena arrivata a Roma e non ho avuto il tempo di stabilirmi. Tuttavia talvolta un buon consiglio è dono molto più prezioso dell’argento o dell’oro….

 

Con la coda dell’occhio vidi Cornelio Crasso accigliarsi. Sapeva che stavo per combinare qualcosa e quel qualcosa non era piacevole. Per niente piacevole.

 

- Perciò lascia che ti dia un piccolo consiglio, Silvia Cornelia. Poiché è ovvio dalla tua condizione… e da quella figliata degna della moglie di un barcaiolo ubriaco che chiami tuoi bambini… che non sei brava a tenere tuo marito lontano dal tuo letto, almeno dovresti cercare di imparare come gioire delle sue attenzioni. Farebbe meraviglie per il tuo umore e la tua bellezza e ti aiuterebbe anche a mantenerti più giovane dei tuoi… trent’anni? - La udii ansimare, ma continuai a sorridere amabilmente alla sconcertata matrona. - Tuttavia se trovi il compito troppo eccessivo per il tuo cervello patrizio, almeno impara come evitare che lui ti metta incinta ogni volta che svezzi il tuo ultimo cucciolo. - Lanciai il sacchetto di cuoio contenente le mie spugne ai piedi della donna sbigottita, presi la gattina dalle braccia di Rufa e uscii dalla casa. Cornelio Crasso sbuffò come fanno gli uomini quando cercano di reprimere le risa e subito si dominò, ma non prima che io cogliessi una visione fugace della sua attonita espressione ammirata. Mentre raggiungevo la porta, udii la risatina repressa del portinaio. Soltanto Silvia Cornelia rimase in silenzio.

 

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