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Rallentati dalla tempesta e da altri due brevi periodi di brutto tempo, non
raggiungemmo l’Italia prima dell’autunno. L’autunno a Roma è bello ed è sempre
stata la mia stagione preferita. Ma presto fui talmente assorbita dalle mie
paure e dal dolore che a mala pena mi accorsi delle tonalità d’oro e rame delle
foglie o del modo in cui il sole splendeva sulle ultime messi.
Marco Aurelio aveva ordinato alle legioni di andare in fretta a Roma, ma
per una legione andare a Roma non significava entrare nella città murata, bensì
accamparsi nella più vicina base militare ad Ostia. Era un accordo tra gli
imperatori e i comandanti d’esercito in vigore da un secolo. Allo stesso modo
in cui le lettere SPQR venivano disegnate come stemma in ogni aquila e
monumento pubblico e perfino tatuate con l’inchiostro nei bicipiti sinistri di
ogni uomo dell’esercito, i generali tenevano le loro armate fuori della
capitale. Perché allo stesso modo quelle quattro lettere ricordavano agli
uomini che combattevano per e servivano il Senatus PopulusQue Romanus,
il Senato ed il Popolo Romano, e non le personali ambizioni degli imperatori,
l’interdire alle legioni di entrare nel perimetro della capitale era anche un
modo per ricordare ai governanti la fragilità della loro posizione e quanto essi
dipendessero dalla lealtà dei loro eserciti.
Così ci dirigemmo alla base militare di Ostia, vicino al porto dove le navi
provenienti dall’Egitto e dalla Grecia e da molte altre province facevano
arrivare il loro prezioso carico, e arrivammo là in un assolato pomeriggio
d’autunno allestendo l’accampamento per l’ultima volta.
Da quella nostra conversazione nella mia tenda durante la tempesta, Cornelio
Crasso mi aveva fatto visita regolarmente per adempiere i suoi ordini, ma
invece di darmi istruzioni sulla mia libertà acquisita di recente o sulla
discrezione richiesta dal mio nuovo stato sociale, per la maggior parte del
tempo mi interrogò su dove aveva abitato il generale Cassio, la posizione della
sua villa e il numero di schiave adulte e ragazze che vi vivevano. Mi chiese
ancora educatamente se avevo bisogno o volevo qualcosa ma mai, mai riparlò di
poesia o della sua giovinezza o dell’affascinante uomo che chiamava Apollinario
e mi scoprii più delusa di quanto mi curassi mostrare.
Eravamo ad Ostia da quattro giorni quando Cornelio Crasso comparve alla mia
tenda e mi trovò ancora una volta a lottare con un papiro, come avevo fatto
ogni notte da quando mi aveva parlato della poesia e del suo amore per Ovidio.
Io ero mortificata per essere stata sorpresa per la seconda volta nel pieno
della mia inadeguatezza, ma Cornelio Crasso agì come se fosse la cosa più
naturale del mondo trovare un’ex-schiava e prostituta appena letterata intenta
a cercare di decifrare poesie.
- Accetta le mie scuse per averti interrotto, domina, - disse con la sua
voce quieta e colta, - ma sono venuto ad informarti che domani ti trasferirò da
questo accampamento. Andremo all’accampamento pretoriano ai confini della
città, dove ho affari da sbrigare. Poi ti porterò a Roma.
Pur disagevole com’era, la vita d’accampamento era stata buona cosa per me,
dacché la quotidianità militare mi aveva aiutato ad acquietare i miei sensi per
la durata del viaggio. Era stato una sorta di conforto l’essere obbligata ad
alzarmi all’alba ogni giorno, prendere le mie cose, montare a cavallo e
cavalcare per ore ed ore solo per fermarsi, vedere alzare la mia tenda e
disfare i bagagli per la notte, poi riempirmi lo stomaco con cibo preparato da
altri e finalmente cadere addormentata sulla mia branda per una notte di sonno
esausto e senza sogni. Ma adesso era finita, come era finita la cura e
protezione di Massimo quando ero stata congedata da lui e dall’imperatore e il
momento temuto di essere gettata nel mondo per provvedere da sola a me stessa
era più vicino che mai.
- Partiremo di mattina presto e rimarremo là per la notte. Il giorno dopo
porterò te e la tua cameriera a casa di mia sorella.
Arcuai le sopracciglia con aria interrogativa.
- Ci vorrà del tempo prima che riesca a farti stabilire in Roma come
l’imperatore ha ordinato, domina. Dovrò lasciarti sola mentre eseguo le
commissioni dell’imperatore e tu non puoi alloggiare da sola in una locanda
perché non è rispettabile. - Sollevò una mano per fermarmi prima che potessi parlare.
- Voglio che tu rimanga in un luogo dove sarai al sicuro e curata mentre io
sarò occupato a preparare gli atti legali di Cesare. Ti porterei a casa della
mia famiglia, ma mio fratello sta prestando servizio in Siria e la moglie è con
lui e noi non possiamo alloggiare sotto lo stesso tetto senza la loro presenza.
- Che ne sarà delle donne?
- Verranno con noi all’accampamento pretoriano dove
rimarranno mentre i pretori tratteranno il loro affrancamento e la loro
sistemazione. I tuoi sono già stati risolti
dall’editto imperiale e io non devo far altro che farlo iscrivere nei pubblici
registri. I pretori si prenderanno anche cura delle schiave alla villa…
Lo stomaco mi si contrasse dolorosamente.
- Sei… stato alla…
- Tutto fatto. Abbiamo liberato diciassette donne. Tre di loro sono
incinte.
Rabbrividii.
- Stanno bene e saranno liberate e riceveranno un’indennità. Non devi
preoccuparti.
- E le bambine? Le neonate?
- Abbiamo trovato otto bambine e tre neonate. Cesare ha dato ordine di
provvedere a loro. Le neonate rimarranno con le loro madri e le bambine saranno
sistemate nello stesso modo delle altre. L’imperatore è un uomo
compassionevole.
Un dolore sordo mi colmò. Strinsi forte le labbra per controllare le mie
agitate emozioni.
- Verrò da te all’alba. Per favore, sii pronta a partire.
Annuii in silenzio, non fidandomi della mia voce. Poi mi voltai, ansiosa
come sempre di essere lasciata da sola. Non avevo fatto che due passi quando la
voce di Cornelio Crasso mi raggiunse di nuovo.
- E, domina, ti prego di riconsiderare le mie parole. Non ti sto giudicando.
Ma ti è stata data l’opportunità di ricominciare da zero. Per favore, fai a te
stessa il favore di osservare qualche convenzione. Raccogliti i capelli.
Fu nei castra praetoria che trovai Rubia. Ho sempre amato i gatti.
Sono belli, eleganti, intelligenti, pieni di dignità e fieramente indipendenti.
Sono silenziosi ed osservatori, saggi e riservati, eleganti e sicuri di sé. E
perfino quando consentono di condividere le loro vite con noi, guardano gli umani
con un misto di divertimento ed esasperazione che non manca mai di stupirmi. E’
come se per loro noi fossimo creature curiose ed un pochino ottuse. E riescono
sempre a stabilire chi ha la mano migliore e ad andarsene con l’ultima parola.
Ciononostante, non sono insensibili come molti credono. Semplicemente si
rifiutano di permetterci di coinvolgerli nella meschinità delle nostre vite
perché essa è al di sotto di loro. Ma quando le nostre tristezze sono genuine e
non nate dalla nostra stupidità, possiamo esser certi che ci porteranno
conforto nel loro silenzioso modo misterioso.
Inutile dire che nella stessa misura in cui non avevo mai avuto una bambola,
non avevo mai neanche avuto un gatto perché non c’era posto alla villa di
Cassio per animali che non fossero segugi da caccia. Ma in un modo o
nell’altro, io riuscivo a sfamare i randagi che venivano sia alla villa che
all’accampamento in Moesia e a passare con loro momenti benedetti di silenzioso
conforto.
Rubia era solo una micina e io fui richiamata al suo nascondiglio sotto un
carro dal suo insistente miagolio, un lamento esigente che la diceva lunga sul
carattere della pelosa creatura. Aveva circa un mese, era di tre colori e aveva
grandi occhi verdi. Era ovvio che si era persa ed aveva fame, tuttavia sibilò e
soffiò come una tigre in miniatura quando cercai di prenderla. Ci volle molta
pazienza e una ciotola di latte di capra per farla uscire e nel frattempo mi
sporcai la tunica e le mani e riuscii ad attrarre molta attenzione da parte
degli uomini dai mantelli neri che non sembravano capaci di decidersi tra il
divertimento e l’esasperazione. Dimentica di tutto e di tutti continuai ad
attirare la gattina e la trassi da sotto il carro. Finalmente, quando ebbe
bevuto a sazietà, fece le fusa soddisfatta, permettendomi di prenderla e
portarla alla mia tenda.
Quando vi giunsi, Rufa stava dormendo e io la sconcertai ordinandole di
aiutarmi a preparare un posticino per la gattina e circondando di premure
l’animale come non mi aveva mai vista fare. E quando all’imbrunire arrivò
Cornelio Crasso, mi trovò a cullare l’ancor addormentata micina che
avevo già chiamato Rubia, perché tra i suoi colori l’arancio-ramato era quello
dominante e quel colore acceso s’intonava perfettamente alla personalità della
gattina.
Cornelio Crasso guardò me e la gattina con qualcosa di prossimo
all’incredulità e io lo guardai arcigna, sfidando silenziosamente il questore
ad osare essere in disaccordo con l’adozione. Il suo sguardo divenne divertito.
Era chiaro che aveva saputo dai pretoriani della mia avventura.
- Vedo che ti sei trovata un animale da compagnia, domina, - disse
togliendosi l’elmo. - E’ un bene che ti sia trovata un’amica, ma dovrai essere
molto cauta quando la porterai in città perché potrebbe perdersi facilmente.
Serrai la mia stretta sulla gattina e lo guardai offesa come se avesse
messo in dubbio la mia idoneità alla maternità. La gatta si svegliò e miagolò
in segno di protesta per l’essere lisciata. Io la coccolai e zittii mentre guardavo accigliata il questore,
biasimandolo silenziosamente per aver disturbato Rubia. Cornelio Crasso
sospirò.
- Domina, sii pronta a partire dopo mezzogiorno perché porterò te e la tua
cameriera… e la tua gatta… in città.
Mi morsi il labbro.
- Le donne? - chiesi ancora una volta con voce sottile.
- Non devi preoccuparti, domina. Saranno liberate entro pochi giorni.
Voglio che tu sia la prima ad arrivare a Roma. - Mi guardò brevemente negli
occhi e aggiunse. - Puoi metterti in contatto con loro più avanti… - Esitò.
Sapevo cosa in realtà voleva dire: che dovevo dimenticarle, metterle da
parte come Massimo aveva fatto con me. Che quelle donne sfortunate non erano
che prostitute e non sarebbero mai state altro, anche se da quel momento in poi
sarebbero state pagate per l’uso dei loro corpi esperti.
Rimasi in silenzio. Non aveva bisogno di sapere che io avevo già deciso di
andare per la mia strada e lasciarle, non perché fossi migliore di loro, ma
perché se ero costretta a badare a me stessa, allora volevo lasciarmi alle
spalle tutto quello che riguardava la mia vecchia vita. E perché non potevo
sopportare l’idea di vedere quelle donne sfortunate ritornare alla
prostituzione, non per il denaro o perché piacesse loro, ma semplicemente
perché era il solo modo per poter evitare la solitudine. Non aveva bisogno di
sapere cose che non poteva capire semplicemente perché, come Massimo, era nato
maschio ed era nato libero.
Giungemmo alla casa della sorella di Cornelio Crasso la sera presto e ancor
prima di bussare alla porta dell’elegante casa, era chiaro che il nostro arrivo
non avrebbe potuto essere più intempestivo, perché la casa era piena di luce e
straripante di ospiti. Pur se sorpreso, Cornelio Crasso bussò alla porta ed il
portinaio lo salutò caldamente, ma fu colto alla sprovvista quando Cornelio Crasso chiese il motivo
della celebrazione e spiegò con voce sommessa che era natalicia nobilisima
Silvia Cornelia, la festa di compleanno della signora, che il questore
pareva aver completamente dimenticato.
Cornelio Crasso si passò stancamente una mano sulla fronte. Gli ultimi due
giorni erano stati tremendi anche per quell’esperto soldato. Provenendo da
Ostia, eravamo entrati in Roma attraverso la Porta Ostiense e da lì andare ai castra
praetoria significava attraversare a piedi la città da un limite all’altro,
perché viaggiavamo alla luce del giorno. Anche se una scorta pretoriana aveva
accelerato la nostra marcia, era una lunga distanza tra vie affollate e
rumorose. Arrivare dall’accampamento pretoriano a quella casa elegante nel
Primo Distretto e vicina a Porta Capena aveva quasi significato ripetere
l’intero percorso.
Prima che avesse il tempo di dire qualcosa, la nobilissima e chiaramente
incinta Silvia Cornelia apparve nell’atrio. La somiglianza tra fratello e
sorella era sorprendente. La giovane matrona era sui venticinque anni e aveva
gli stessi occhi verde muschio e capelli castano chiaro che portava, a
differenza di me, decorosamente raccolti. E, come lui, avrebbe potuto essere
bella se non si fosse presa tanto sul serio. Ma Silvia Cornelia si prendeva
molto sul serio e non fu felice di trovare al suo atrio il suo stanco fratello
vestito nell’uniforme logora e polverosa mentre lei riceveva coloro che, a
differenza di lui, sembravano aver ricordato l’importante data. E fu meno che
felice nello scoprire che egli non solo era venuto nel più inconveniente dei
momenti ed evidentemente non annunciato, ma trascinando con sé il suo “incarico
personale”, per tacer della ragazza numida che reggeva un cesto nel quale
dormiva un gattino.
Uno sguardo a Silvia Cornelia fu tutto quello di cui ebbi bisogno per
capire il genere di donna che era, una di quelle mogli d’alto ceto che tengono
in grande considerazione solo il loro nome e le loro virtù, il loro lignaggio
perfetto e la loro fertilità. Viene loro insegnato a tessere e cucire e a
gestire una casa, a trattare con gli schiavi e a sottomettersi alla volontà dei
loro padri subendo matrimoni
combinati e generando bambini, mentre compiono i loro doveri coniugali ma non
prendono parte ad essi, limitandosi a giacere sulla schiena mentre i loro
mariti fanno quel che occorre per seminare nei loro ventri costosi pargoli di
sangue puro. E a Silvia Cornelia non bastò che un’occhiata per decidere che io
ero merce avariata.
Prima che il fratello potesse parlare, la giovane matrona sollevò il mento
appuntito e gli si rivolse in tono non troppo gentile.
- Dal momento che non hai annunciato la tua visita, devo supporre che non ti
ricordi che giorno è oggi, - disse brusca.
- Mi dispiace molto, sorella. Come sai, sono stato in servizio e sono
appena tornato in città. Non avrei dovuto venire senza farmi annunciare se non
fosse stato per bisogno… - cominciò il questore.
- Per bisogno? Scegli il tuo tempo malamente, fratello. Come puoi vedere,
sto intrattenendo ospiti. Ospiti importanti.
Cornelio Crasso sospirò.
- Non sapevo di aver bisogno di un invito per visitare la mia famiglia.
- No infatti. Ma è da maleducati dimenticare il compleanno di tua sorella. E ancor peggio portare un’altra
persona senza chiedere il permesso.
- Silvia, lascia che ti presenti.
- Non credo di voler essere presentata.
Rubia scelse quel momento per svegliarsi, far spuntare la testolina color
arancio sopra il bordo del cesto e fissare sulla matrona i curiosi occhi verdi.
- Un gatto! - strillò Silvia Cornelia. - Che ci fa quella sudicia bestia
nella mia casa?
Allarmata dalla voce della signora, Rubia saltò dal cestino e corse
all’interno della nobilissima casa. Senza pensarci due volte, corsi dietro la
gattina, spingendo da parte Silvia Cornelia e suo fratello. Vagamente udii
delle strilla dietro di me e i passi degli stivali del questore seguirono
quelli più leggeri del portinaio, probabilmente.
Rubia correva alla cieca, cercando un luogo in cui nascondersi e io le corsi
dietro. Troppo tardi mi accorsi che la porta del triclinio era stata aperta e
che la bestiola si stava dirigendo direttamente in quella stanza. Spaventata
dall’ondata di luce e dal rumore, la gattina all’improvviso si fermò e mentre
io cercavo di evitare di correrle sopra, scivolai sul lucido mosaico e caddi
pesantemente carponi. Il dolore mi attraversò il corpo e il respiro mi
abbandonò. Mentre rimanevo lì, in preda alle vertigini e ansimante, usai le mie
ultime forze per afferrare Rubia per il pelo della nuca e impedirle di
cacciarsi in altri guai.
A poco a poco notai che tutti i suoni erano cessati attorno a me e mentre
alzavo lo sguardo dalla tremante gattina vidi che ero circondata da un
semicerchio di uomini e donne elegantemente vestiti, palesemente i patrizi
ospiti di Silvia Cornelia. Vidi le donne guardarmi diffidenti ed arcigne. E
vidi gli uomini arcuare le sopracciglia e sorridere con aria d’apprezzamento
mentre i loro sguardi vagavano sul mio corpo. Torreggiando sopra di me, gli
ospiti maschi di Silvia Cornelia avevano un’ampia visuale del mio seno
ondeggiante.
Cornelio Crasso venne a fermarsi accanto a me, mi afferrò per il braccio e
senza troppe cerimonie mi tirò in piedi.
- Stai bene, domina? - chiese con tono d’avvertimento. - Io annuii in silenzio,
arrossendo penosamente e odiandomi
per aver dato spettacolo davanti a quei ricchi romani.
L’improvvisa apparizione di un ufficiale romano d’alto rango in completa regalia
che seguiva quella di una donna dai capelli rosso-oro che non era per nulla
aristocratica… per tacer del gattino a tre colori e della servetta dalla pelle
nera che arrivò dietro i talloni di Cornelio Crasso… era davvero troppo per la
curiosità degli ospiti. Come obbedendo ad un segnale, tutti cominciarono a
parlare e a fare domande contemporaneamente.
Silvia Cornelia arrivò a questo punto e dopo avermi trafitta con un’occhiata
omicida, si plasmò un sorriso sulla faccia e ricondusse gli ospiti nel
triclinio facendo cadere qua e là qualche parola sulle province e il dovere e
come doverosamente il suo caro fratello servisse Roma e l’imperatore.
Seguimmo un servo lungo le scale ed un corridoio al secondo piano. Durante
tutto il tragitto, Cornelio Crasso mi strinse il braccio e io non protestai. Mi
sentivo esausta ed umiliata e le ginocchia avevano già cominciato a farmi molto
male. Rubia era ancora irrigidita dalla paura. Una Rufa silenziosa chiudeva la
marcia.
Il servo si fermò ad una porta all’estremità più lontana del corridoio e
l’aprì.
Cornelio Crasso mi lasciò andare il braccio e si scusò.
- Domina, sarai al sicuro qui. Mettiti a tuo agio e riposa mentre mi cambio con
abiti civili e scendo alla festa di compleanno di mia sorella… ho bisogno di
parlarle… Verrò da te non appena avrò finito di scrivere i tuoi documenti. - Mi
scrutò il viso, ma io ero troppo stanca per ricomporlo in una maschera
indecifrabile com’era mia abitudine e di certo esso sottolineava quanto mi
sentissi svuotata. - Riposati! - ripeté, ma io non riuscii a capire se fosse un
consiglio gentile o un sottile ammonimento. Ciò detto, egli s’inchinò
leggermente e se ne andò.
Quando
entrai nella stanza, Rufa aveva già acceso le uniche due lampade ed era ovvio
che non era certo la migliore stanza per ospiti della casa. Era piccola, senza
finestre e odorava di polvere e muffa. La mobilia era vecchia e non c’era altro
posto in cui Rufa potesse dormire se non il tappeto sfilacciato. Ritraendomi
raccapricciata, mi sedetti sul letto e guardai intorno mentre la piccola numida
si dedicava filosoficamente alla prassi di ogni sera. Improvvisamente, scoprii
che la invidiavo.
La sete mi svegliò. Rufa aveva
abbassato le lampade prima di accoccolarsi accanto a me sul letto, ma anche
nella luce tenue riuscii a vedere che non c’era alcuna brocca d’acqua nella
stanza. Mi alzai cercando di non svegliare la ragazza addormentata e la
gattina, che si era acciambellata in mezzo a noi, e camminai verso la porta. Aprendo uno spiraglio notai
che la festa era terminata e la casa era silenziosa, ma alcune torce bruciavano
ancora nel cortile. L’acqua gorgogliava in una fontana vicina e a quel suono
gorgogliante che prometteva dolce sollievo la sete divenne una belva furente
che mi strappava le viscere. Avanzai silenziosamente verso le scale e le scesi
velocemente a piedi nudi.
L’acqua era fresca e dolce e io la bevvi d’un fiato ansiosamente, senza curarmi
che mi scendesse dal mento e tra i seni. Mi spruzzai il viso e il collo e stavo
di nuovo bevendo avidamente quando il suono di voci e passi mi colse di
sorpresa. Qualcuno stava venendo nel cortile. Ebbi appena il tempo di
nascondermi nelle ombre della galleria e dietro il supporto di un vaso color
miele prima che un’agitata Silvia Cornelia entrasse in giardino seguita dal
fratello. Il questore indossava una semplice tunica bianca e sembrava
decisamente esausto.
- Come osi portare la tua mantenuta in casa mia? - sibilò Silvia Cornelia.
- Silvia, non è la mia mantenuta! Domina Giulia è un mio
incarico…
- Domina Giulia? Chiami quella creatura “Domina Giulia”?
- E’ il suo nome.
- E’ una puttana!
- Ora, Silvia, non essere così dura…
- Si deve solo dare un’occhiata a quella criniera di
capelli che ostenta perché tutti capiscano.
- Non li ostenta, i capelli. Semplicemente, li lascia
sciolti.
- E quale genere di donna lascia i capelli sciolti? Eh?
Dimmelo!
- Quelle molto giovani e nubili. Domina Giulia è
molto giovane e nubile.
- Nostro padre diceva sempre che c’era qualcosa di
sbagliato in te e aveva ragione! Non è abbastanza brutto che alla tua età tu
non sia sposato? Se vuoi avere una mantenuta, è un tuo problema. Ma non
portarla nella mia casa per umiliarmi di fronte ai miei ospiti.
- I tuoi ospiti l’hanno vista solo di sfuggita! -
protestò Cornelio Crasso.
- Abbastanza perché mi chiedessero chi fosse! Ho dovuto
inventare scuse…
- Oh, ma non avresti dovuto, mia cara, - disse il
questore cauto. - Avresti potuto dir loro la verità.
Anche nella luce tenue delle ultime torce riuscii a
vedere che Silvia Cornelia era stupefatta. Prima che potesse continuare a
parlare, il fratello completò la frase.
- La prossima volta che chiedono, Silvia, dì loro che
domina Giulia è sotto la personale protezione dell’imperatore e che Cesare si
fida talmente del tuo inutile fratello che gliel’ha affidata.
La donna si riprese in fretta. Era abituata ad averla vinta o, almeno, ad
avere l’ultima parola. Mi chiesi fugacemente chi fosse il suo innegabilmente
assente marito. Probabilmente un magistrato d’alto rango troppo felice di
risparmiare alla sua nobilissima moglie i disagi della permanenza in una remota
provincia dove egli manteneva una creatura più
piacevole che gli facesse compagnia.
- Quindi non è la tua mantenuta, ma quella dell’imperatore…
- Basta! Non è affar tuo o di chiunque altro giudicare cosa fa Cesare.
Colta di sorpresa dalla reazione furente del fratello, Silvia Cornelia
indietreggiò e io non riuscii a trattenere un debole sorriso.
- E adesso, sorella, come tuo fratello e capo della nostra famiglia in
assenza di Giunio Cornelio, ti ordino di fare il tuo dovere verso la tua
famiglia ed il tuo imperatore e di ospitare domina Giulia per tutto il tempo
necessario.
La matrona non sembrava molto incline a cooperare, ma non poteva negare al
fratello i suoi diritti di temporaneo pater familias. S’irrigidì e
strinse le labbra.
- Assicurati che domina Giulia sia comoda e che la sua permanenza nella tua
nobilissima casa sia piacevole.
Silvia Cornelia rimase muta. Non mi feci illusioni sulla mia permanenza in
quel luogo. Conoscevo il tipo: avevano i loro modi per vendicarsi.
- E per tua conoscenza, Silvia, domina Giulia non è la mantenuta
dell’imperatore.
- Ah, no? - schernì la matrona. - Allora com’è che è così
preziosa per lui?
- Perché ha salvato il suo trono… e l’impero, - disse
Cornelio Crasso con un largo sorriso compiaciuto. Girò sui talloni e lasciò il
giardino.