Diario
di Giulia (indice capitoli) |
Julia’s Journal Siti originali
(in inglese) |
Massimo mi guardò perplesso e sorpreso
ad un tempo.
- Voglio dire, tu sei nato in Ispania e
non eri mai stato a Roma prima… prima… di questo. Io
sono nata a Roma, ma schiava, probabilmente figlia di prigionieri di guerra…
Chiaramente stupito, Massimo sostenne il
mio sguardo, ma non disse
nulla.
Io mi morsi il labbro inferiore e cercai
di spiegare quello che non avevo mai spiegato a nessuno, dando finalmente voce
ad alcune mie paure più intime e dolorose.
- Non ho mai visto nessuno che assomigliasse a me per davvero… Voglio dire,
quando ero schiava, avevo il terrore di trovare
qualche bambina con i miei lineamenti e le mie fattezze, perché avrebbe
significato che mia madre poteva essere da qualche parte nei dintorni, vicina e
ancora viva… a generare altri bambini, come un animale da riproduzione…
Massimo corrugò la fronte alle mie
parole, ma ancora si astenne dal parlare.
- Eppure, allo stesso tempo, mi
ritrovavo a guardarmi intorno, a cercare persone che avessero un aspetto simile
al mio… Talvolta trovavo una donna con capelli ramati,
ma gli occhi erano diversi oppure non era alta come me… - Deglutii a fatica,
distogliendo lo sguardo, e mi appoggiai contro lo schienale del divano. - Ma un
giorno… al porto di Ostia… - Deglutii di nuovo,
incapace di proseguire.
Con calma, Massimo prese la mia mano sinistra
nella sua e la strinse in modo rassicurante, un gesto semplice con il quale
offriva non solo conforto, ma anche calore e forza. Il calore e la forza di cui
avevo un disperato bisogno.
- Che cosa accadde, Giulia? - chiese dolcemente. - Che cosa accadde al porto?
Io sospirai, presi a parlare, poi
sospirai di nuovo, prima di riprendere.
- Ero sposata da poco tempo. Una volta sistematami alla villa, divenni curiosa
della città. Apollinario mi accompagnò e girovagammo per ore… Volevo vedere il
faro e lui mi prendeva in giro, dicendo che l’imperatore Claudio aveva fatto un
gran lavoro, ma il faro non era grande e meraviglioso come quello di Alessandria… Stavamo passeggiando lungo il porto quando
li vidi…
Una civetta ululò in lontananza e io rabbrividii
involontariamente. Non sono superstiziosa né mi spavento facilmente, ma
l’ululato risuonò troppo simile al richiamo di
un’anima solitaria e affranta. Un’anima sola e affranta come la mia… e come
quella di Massimo.
Mi sforzai di tornare al racconto.
- C’erano uomini, donne e bambini… venti persone circa… in catene… che
scendevano dalla passerella di una nave… I moli erano sempre pieni di gente.
Non solo marinai e schiavi che scaricavano navi, ma persone che non avevano
nulla da fare e ciondolavano attorno. Li guardavano come se fossero bestie
esotiche… Gli schiavi erano alti, anche i bambini, maschi e femmine che non
potevano avere più di dieci anni e che tuttavia erano alti quasi quanto molti
romani… - Mi riadagiai sul divano e chiusi gli occhi, vedendo
nella mia mente la scena che mi aveva tormentata per anni… La scena che ancora
ritornava nei miei sogni malgrado fossero passati molti anni … - Gli uomini
erano robusti, fieri, con lunghi capelli ramati… Le donne erano belle, con
riccioli ondulati lunghi fiono alla schiena… Anche i loro capelli erano ramati…
La loro carnagione era molto chiara e tutti avevano occhi azzurri, non
quell’azzurro chiaro o il grigiazzurro dei romani di colorito chiaro, ma un
azzurro profondo… come quello dei miei occhi.
Massimo intrecciò le dita con le mie e
attese pazientemente che continuassi.
- Era stata una giornata mite, la brezza
aveva soffiato dolcemente, tenendo lontana la calura. Quando
avevo visto i prigionieri dai capelli rossi mi ero fermata e non ero più
riuscita a muovermi. Era come se avessi messo radici, - continuai, con gli
occhi ancora chiusi, rivivendo un episodio di cui non avevo mai parlato prima.
- Quando ritrovai la voce, chiesi ad Apollinario chi fossero.
Egli li guardò e disse “Keltoi”. Io già parlavo un greco fluente, ma mi ci volle un momento per capire cosa avesse detto. Celti.
Apollinario talvolta lo fa. Voglio dire, usare una parola greca anche se sta parlando in latino. Quando lo
fa, significa che pensa che la parola greca esprima meglio l’idea. Aveva
ragione in questo caso, perché “Keltoi” significa molto di più di razza o
colore…
Con gli occhi chiusi, era facile
immaginare che la terrazza fosse svanita e che mi trovassi di nuovo sui moli,
osservando in silenzio gli schiavi appena arrivati.
- La gente parlava con ammirazione della
mercanzia umana. Lodavano la forza degli uomini e la bellezza delle donne e
delle bambine. Cercavano di indovinare da che cifra sarebbe partita l’asta…
Quella parola mi fece decidere. Marciai verso la nave e Apollinario ebbe a malapena il tempo di fermarmi prima che scalassi la
passerella… - Aprii gli occhi e vidi che Massimo mi guardava intensamente, il
viso imperscrutabile. Probabilmente stava rivivendo la propria esperienza, a
Zucchabar, ma io non potevo fermarmi. Chiusi di nuovo gli occhi e ripresi a
parlare. Nella mia mente, udivo la voce di Apollinario
come se fosse lui, e non Massimo, ad essere accanto a me…
- Giulia, che cosa stai facendo? Dove stai andando?
- Voglio sapere chi è il proprietario di
questi schiavi… - dissi cercando di divincolare il mio braccio.
- Perché…? - cominciò lui, ma io non gli
permisi di finire la frase.
- Li voglio comprare io! L’intero lotto!
- Giulia, non puoi!
- Certo che posso! Non sono forse
sposata ad un fottuto ricco armatore? Non sono una donna libera? Non siete
forse tutti voi quelli che stanno a ricordarmi sempre
quanto sono ricca e libera adesso, e che devo abituarmici ed agire di
conseguenza? Ebbene, voglio agire di conseguenza e
voglio farlo adesso! Voglio comprare quegli schiavi!
Apollinario sussultò, poi arrossì, ma
non mi lasciò andare il braccio. Al contrario, strinse di più la presa.
- Giulia, come condizione per il matrimonio tu hai imposto a tuo marito di
liberare tutti i suoi schiavi! Perché ora vuoi
comprare questi qui?
- Ma non
capisci? - Stavo gridando e i presenti cominciavano a guardarci. Non
m’importava. Tutto quello che contava era ottenere quegli schiavi. Ottenerli
prima che fossero portati al mercato, dove sarebbero stati esibiti con cartelli
appesi al collo, dettaglianti le loro virtù, fossero la forza degli uomini o la
verginità delle ragazze. Prima che fossero portati al mercato, dove mariti e
mogli sarebbero stati separati, se non lo erano già stati prima, e i bambini
sarebbero stati portati via alle loro madri. Dove
sarebbero stati denudati e ispezionati come bestiame. Dove eventuali compratori
avrebbero palpato i seni delle donne e aperto le gambe alle
ragazze, per essere sicuri di comprare quello che era stato loro
promesso. - Non capisci, Apollinario? - gridai di nuovo. - Sei cieco? Hanno i
capelli ramati! Capelli ramati e occhi azzurri! Non capisci? Non vedi che
somigliano a me? A me, Apollinario! A me!
Mi fermai un istante e Massimo mi strinse
la mano. Mi passai la lingua sulle labbra inaridite e parlai di nuovo.
- Apollinario era sconvolto. Guardava gli schiavi, poi me. Io tremavo come una
foglia. Questo lo fece decidere…
- Giulia, ascoltami. Non puoi salire su
quella nave, mi senti? Non puoi parlare con il capitano. Nessuna signora rispettabile
lo farebbe e tu adesso sei una donna sposata.
Prima che potessi protestare, mi fermò, con la mano sollevata.
- Ascoltami! Se vuoi quegli schiavi, ti aiuterò io. Ma tu farai come dico io, d’accordo?
Io stavo ansimando per lo sforzo di
riprendere il controllo di me stessa. In qualche modo, trovai il modo di annuire il mio riluttante assenso. Volevo salire io
sulla passerella. Volevo parlare io al capitano. Volevo sapere se era uno dei
capitani di mio marito e se era di Mario Servilio la
nave che trasportava quegli schiavi alti, dagli occhi azzurri. Volevo… che
cosa? Che cosa volevo veramente? Troppo confusa
perfino per piangere, cercai di ricompormi.
A poco a poco Apollinario diminuì la
stretta al mio braccio, chiaramente pronto a trattenermi di nuovo se avessi anche solo tentato di sfuggire. Quando
fu certo che non l’avrei fatto, mi lasciò andare e si diresse alla nave,
voltandosi frequentemente per vedere se lo seguivo. Ma
io rimasi là, ancora ansimando, le mani strette a pugno, lo sguardo fisso sugli
schiavi dai capelli ramati.
I celti rimasero calmi e distaccati,
guardando lontano, gli uni vicini agli altri, ma non pigiati assieme come fanno
i prigionieri impauriti. Se erano impressionati dal
porto, non lo mostrarono. Se capivano i rozzi commenti
della folla che li guardava, lo tennero per sé.
Soltanto il trambusto che avevo creato
io discutendo con Apollinario sembrava aver attratto la loro attenzione… o
erano stati i miei capelli ramati e la mia altezza? Due
uomini e una donna mi stavano guardando intensamente, con occhi azzurro scuro fin troppo familiari. Il sole e la brezza di
mare disegnavano delicate sfumature rosa sulla loro
pelle chiara, come facevano sulla mia. Erano a piedi nudi, vestiti di stoffa
tessuta in casa e cuoio, ma indossavano pesanti torciglioni al collo, non gli
impressionanti monili, di cui avevo letto, d’oro massiccio, ma di rame.
Tuttavia l’abilità dell’artigiano che aveva trasformato
quelle spirali di fili di rame intrecciati in gioielli esotici non aveva
nulla da invidiare a quella della sua controparte romana. I lunghi capelli
degli uomini erano legati con lacci di cuoio. Quelli della donna erano sciolti
e le arrivavano fino alle anche… molto simili ai miei quando li liberavo dai pettini e dalle forcine che li tenevano
raccolti in nome della romana decenza.
I tre celti sembravano studiarmi come io
stavo studiando loro. Probabilmente non sapevano una parola di latino, solo il
loro dialetto tribale. Ma non avevano bisogno di
parole per dirmi quello che vedevano. I loro penetranti occhi azzurri parlavano
da soli: una di loro, malgrado gli ornamenti e i
gioielli romani e i capelli dignitosamente raccolti…
Deglutii con sforzo e fu il mio turno di
stringere la mano di Massimo, cercando ancora un po’ del suo calore e della sua forza per riuscire a finire la mia storia. Egli avvolse
l’altra sua mano attorno alle nostre dita intrecciate, in tal modo offrendomi tacitamente
entrambi.
Il ritorno di Apollinario
mi riportò dalla sorta di catalessi in cui sembravo essere caduta. Mi guardò
per un momento e scosse la testa in segno negativo. Prima che potessi dar voce
alla mia protesta, egli mi prese la mano e disse:
- Quegli schiavi non sono in vendita, Giulia. Sono un dono per la famiglia
reale, inviato a Marco Aurelio da un generale, Antistio Mineo Ausonio. E’ un
nipote di Tito Gaio…
Tito Gaio… Il nome suonava familiare…
Poi mi ricordai di lui. Un signore attempato, famoso avvocato ai
tempi dell’imperatore Adriano. Anche se praticava ancora, al presente si
concentrava prevalentemente sullo scrivere testi molto
apprezzati sulla legge romana. Ed era stato
nostro ospite a Roma più d’una volta.
- Non c’è nulla che tu possa fare,
Giulia. Faremmo meglio a tornare alla villa.
Apollinario mi tirò gentilmente per la
mano e io mi sforzai di muovere le gambe insensibili. Il mio precettore mi
allontanò dalla nave e dai celti e io lo seguii senza opporre resistenza, tutto il mio interesse per il faro e l’allegria
che avevo provato nel passeggiare perduti a me per sempre. La gente ci guardava
con curiosità, ma io ne ignorai gli sguardi e i commenti. Avevamo quasi
raggiunto la via che ci avrebbe allontanato definitivamente dai moli, quando io
mi fermai così all’improvviso che feci sobbalzare Apollinario. Mi voltai per
guardare un’ultima volta i celti, ma non c’erano più… Il mio precettore ed
amico mi avvolse gentilmente un braccio intorno alle
spalle e, quando guardai nei suoi occhi nocciola, vi vidi preoccupazione.
- Erano… erano…?
- Keltoi? Sì. Il capitano mi ha detto che venivano da qualche piccola tribù sperduta in
Elvezia che si è ribellata al governo locale… Non tormentarti per loro, Giulia.
Saranno mandati all’imperatore… Avrebbe potuto andar loro molto peggio…
Aveva ragione. Ad entrambi noi era andata molto peggio e io avevo affidato una ragazzina
numida alla figlia prediletta dell’imperatore che non avevo mai conosciuto. Non parlai più finché non ci sedemmo uno di fronte all’altra
nella mia lettiga e i portatori ci sollevarono con
un grugnito collettivo.
- La nave…?
Apollinario mi strinse la mano in modo
rassicurante.
- No, Giulia, non era una di quelle di tuo marito…
Quando
raggiungemmo la villa, ero riuscita a ricompormi. Anche
se i sogni cominciarono proprio quella notte, non nominammo più quell’episodio.
Aprii gli occhi e vidi che Massimo mi
fissava. I suoi occhi erano colmi di preoccupazione come lo erano stati quelli di Apollinario… occhi verdazzurri, del colore dell’oceano,
diverso dall’azzurro chiaro o dal grigiazzurro dei romani di pelle chiara.
- Allora, - dissi, - credi che noi siamo
veri romani, Massimo?
Egli strinse le labbra, poi trasse un
profondo respiro e parlò con voce dolce e bassa.
- Non molto tempo fa, ti avrei detto senza alcun dubbio che sì, noi siamo veri romani. Adesso…
adesso non ho risposte, Giulia. Solo domande…
Annuii in silenzio. Non aveva bisogno di
dire altro. Conoscevo le domande che lo tormentavano. “Perché
io? Perché la mia famiglia? E
adesso?” Erano le stesse domande che avevano tormentato me durante la maggior
parte della mia vita. Le domande che ancora, ogni singolo giorno, mi
tormentavano, malgrado la ricchezza e la libertà.
Massimo sollevò la mano che aveva
avvolto attorno alle nostre dita intrecciate, e spostò delicatamente i riccioli
che la brezza della notte mi aveva spinto sul viso. Persa nei ricordi di quel
giorno al porto, neanche me ne ero accorta.
- Sai, i tuoi capelli mi piacciono molto di più sciolti che
raccolti… - disse in tono conversazionale, cercando di alleviare l’umore tetro
che era caduto su di noi.
Gli ofrii un tenue sorriso.
- Anche a me piacciono molto di più sciolti che
raccolti. In verità, è la prima volta che li tengo
sciolti al di fuori del mio appartamento, da quando mi sono sposata. Il povero
Atenodoro non è riuscito a mascherare il suo stupore.
Massimo sorrise e continuò a giocare con
i miei capelli, come aveva fatto in Mesia, sembrando ancora una volta incapace
di trattenersi dal toccarmi. C’era qualcosa di cullante nel movimento delle sue
grandi dita sui miei capelli. Improvvisamente capii perché ai gatti piace tanto
essere accarezzati.
- Mi piacciono molto di più sciolti che raccolti, - ripetei, - ma al momento non ho scelta ed al
contrario ho una “reputazione” da curare… - Riuscii ad infondere nella parola
“reputazione” tanto di quel sarcasmo che suonò come un insulto. Le dita di
Massimo si fermarono per un momento, poi le affondò
nella mia chioma e li pettinò. Aveva un modo di farlo che suggeriva ben più
d’un fiero e mascolino senso di possesso.
- Non c’è bisogno che si sappia il tuo
passato, Giulia, - suggerì dolcemente.
- Cornelio Crasso disse la stessa cosa…
- dissi senza riflettere. Le dita che pettinavano i miei capelli si fermarono
per una frazione di secondo, poi ritornarono al loro compito con ferocia a
malapena contenuta. I felini non sono soltanto intelligenti e belli. Sono anche
gelosi e fieramentete possessivi di ciò che reclamano come loro, sia che si
tratti di compagni gatti o di quegli umani talmente pazzi da credere di essere loro i padroni. E così
era Massimo.
- Questo Cornelio Crasso… sapeva che… -
Massimo pronunciò ogni parola in un tono attentamente neutrale.
- Me lo fece capire con delicatezza. Disse che sapeva delle mie “circostanze sfortunate”… Sua
sorella non fu così delicata. Non ebbe alcun problema nel chiamarmi “puttana”.
Le dita che mi accarezzavano i capelli
si fermarono di nuovo e quelle intrecciate alle mie strinsero la loro presa. Un
fuoco blu luccicò nelle profondità dei suoi occhi.
Risi amaramente. Non potevo far altro che
ridere. Eccomi lì, una donna nata schiava e costretta a prostituirsi, che ora
doveva aver cura della virtù di cui era stata privata.
- Oh, non era che una cagna patrizia ma, secondo la
sua educazione, io ero una puttana, - dissi, e prima che Massimo potesse
protestare, aggiunsi. - La trattai come avevo fatto con suo fratello.
Diversamente da lei, lui era un uomo ragionevole…
Saggiamente, Massimo si trattenne dal
chiedere che cosa il ragionevole Cornelio Crasso
avesse fatto per dover essere “trattato”. Invece, alzò le nostre dita
intrecciate e si portò la mia mano alle labbra. Non mi baciò le dita o il
palmo, ma il polso. Non c’era la cicatrice su di esso.
Sei anni prima, non avevo tagliato abbastanza profondamente per
lasciare una cicatrice, ancor meno per suicidarmi. Diversamente dalle sue, le
mie cicatrici erano invisibili, mascherate da bellezza perfetta e freddo
distacco. Ma c’erano, e Massimo lo sapeva.
Le sue labbra erano calde e asciutte,
come le ricordavo da quella prima volta in cui lui mi aveva colta
di sorpresa e baciata appassionatamente sulla bocca. La sua barba solleticò il
fragile tessuto che copriva pulsanti vene blu.
La sua bocca rimase sulla mia pelle più a lungo di quanto un bacio rispettoso
richiedesse ed io mi sentii serrare la gola.
Massimo sollevò la testa e guardò le
stelle e la luna, poi me.
- E’ tardi e sembri stanca.
Io volevo negare, ma un improvviso
sbadiglio me lo impedì. Malgrado le lunghe ore in cui
avevo dormito, mi sentivo stranamente stanca. Massimo sorrise.
- A letto, Giulia Antonina!
Trasalii al suono del mio nome da
liberta. Poco prima egli aveva detto che se lo ricordava dal rapporto dell’agente sulla mia
scomparsa, ma udirglielo pronunciare era un’altra cosa, completamente
differente. Di nuovo, non potei fare a meno di pensare al miele scuro e
selvatico sulla sua lingua.
- Temo che adesso mi chiamo
Giulia Servilia.
Egli sembrò prendere in considerazione
il mio nome da sposata per un attimo.
- Preferisco Giulia Antonina, - disse. - Giulia Servilia suona più solenne, ma
anche freddo... intimidente. Giulia Antonina è più amichevole, come i tuoi
capelli sciolti.
Sorrisi in
risposta, principalmente per nascondere il mio stupore davanti al semplice ma
accurato modo in cui aveva descritto me e la mia vita presente.
Ero la signora Giulia Servilia, una bellezza fredda, una potente donna d’affari
che portava i capelli raccolti e teneva tutti a distanza. Ero stata Giulia
Antonina per appena un anno e l’assenza di lui aveva impedito alla donna
affettuosa, vibrante e ridente che avrei potuto
essere di affiorare e sbocciare. Vagamente mi chiesi se quella donna vivesse
ancora ed anche se il tocco di Massimo sarebbe stato sufficiente a farla uscire
dal suo nascondiglio. A volte, potevo quasi sentirla sotto la mia pelle, come
se stesse spiandomi da dietro i miei stessi occhi...
Massimo si alzò, riportandomi indietro
dalle mie riflessioni. Mi alzai anch’io e, mano nella mano, rientrammo.
Soltanto quando feci un passo dentro notai che avevo
lasciato i sandali sotto il divano, ma mi sentivo troppo insonnolita per
tornare a riprenderli.
Atenodoro aveva spento tutte le lampade
in salotto, tranne una, e Nicia ne aveva accesa
qualcuna nella mia camera da letto. La porta della mia camera e quella di
Massimo erano aperte e la luce dorata che proveniva da esse
lanciava ombre spettrali sui tendaggi e sulla mobilia. Un silenzio pesante era
caduto sulla villa. Era più tardi di quanto pensassi.
Ci fermammo sulla porta della mia
camera, ma Massimo non fece alcuno sforzo per disintrecciare le dita. Improvvisamente,
mi sentii timida come una vergine al suo primo amante. Timida come non mi ero
mai sentita da quella volta nell’alcova cortinata in Mesia. Abbassai gli occhi
con una modestia che avrebbe meritato l’approvazione della vergine Vestale
Massima.
- Starai bene? - Chiesi con voce bassa.
- Voglio dire, hai tutto ciò di cui hai bisogno?
- Sì, Giulia. Non devi preoccuparti. Il
tuo amico e i famigli sono stati molto efficienti. E
tu molto, molto generosa. Non sono ancora riuscito a ringraziarti per questo...
Accennai verso la porta del mio studio
per interromperlo.
- Quello è il mio studio privato, - dissi. - Ci tengo alcuni dei miei libri
preferiti. Se hai voglia di leggere, sentiti libero di
prenderne uno.
Sentii, più che vedere, il suo cenno di assenso.
- Se c’è qualcos’altro di cui hai bisogno o che desideri... non devi far altro che
dirmelo.
- Va bene, Giulia.
Con cautela, sollevai lo sguardo e vidi
che mi fissava. I suoi occhi bruciavano d’un fuoco verdazzurro dolce e fermo.
Arrossii e deglutii. Massimo si chinò un pochino e mi diede un bacio casto
sulla guancia.
- Buona notte, Giulia.
- Buona notte, Massimo.
Rimase lì. In
attesa. Lentamente, molto lentamente, districai le mie dita e voltandomi,
entrai nella mia camera, poi chiusi la porta fra noi,
per la seconda notte di fila.
Due ore più
tardi e malgrado il cibo, il vino e la sensazione di essere
emozionalmente svuotata, ero ancora ben sveglia. La luna inondava la mia camera
di luce argentea, e la brezza notturna muoveva i tendaggi trasparenti dell’arcata
che conduceva alla terrazza con una cadenza ipnotica. Dagli angoli bui
provenivano ombre blu, i fantasmi degli schiavi
celti che cinque anni prima avevo fugacemente visto al
porto di Ostia sembravano spiarmi. Il suono sussurrante della risacca non
riusciva a cullarmi e a farmi dormire ed al contrario si era trasformato in un
inquietante ronzio, molto simile a quello di un
fastidioso insetto estivo. Sul divano da lettura, Nigra sospirò dolcemente e
miagolò nel sonno, agitata da qualche sogno felino particolarmente vivido.
Stavo considerando la saggezza di
accendere una lampada e andare in cerca d’un libro quando fui improvvisamente
sorpresa da un forte scricchiolio. Doveva essere realmente forte perché lo
udissi così chiaro attraverso le solide porte di quercia. Mi accigliai udendo
di nuovo quel suono cigolante... Una porta che si apriva su cardini da tempo
privi di un’adeguata lubrificazione... La porta della seconda camera da
letto... Stupidamente, presi mentalmente nota di dire ad Atenodoro di mandare
qualcuno ad oliare i cardini, poi mi riscossi.
Massimo.
Smisi di respirare, desiderando udire al di là del silenzio caduto di nuovo sul mio appartamento.
Disturbata dal rumore, Nigra aveva sollevato la testa ed ora guardava la porta,
gli orecchi tesi e le vibrisse appiattite contro il muso, tipici segni che era
completamente all’erta.
Il silenzio era così profondo che
persino la risacca sembrava essersi arrestata. Poi, ascoltai un secondo suono
smorzato. Passi nel salotto.
Massimo.
Come me apparentemente
incapace di dormire, si era alzato ed i suoi sandali facevano un debole rumore
mentre camminava sul lucido pavimento a mosaico. Nessuna luce filtrava dalla
fessura sotto la porta della mia camera. Ad un certo momento, la solitaria
lampada in salotto doveva essersi spenta e Massimo procedeva attento in
quell’ambiente sconosciuto, facendosi strada fra la
mobilia, alla luce della luna che scaturiva dall’arcata aperta sulla terrazza.
Massimo che camminava verso la mia
camera da letto.
Mi sedetti sul letto; il cuore mi
martellava così forte che sentivo il seno sollevarsi come un uccello in gabbia,
e così rumorosamente che avrebbe potuto essere udito
fino a Roma.
Massimo, incapace di dormire, che veniva
da me nel cuore della notte.
Inghiottii a fatica e scioccamente mi
guardai attorno per assicurarmi che la mia camera fosse ordinata come di
consueto, poi i miei occhi dardeggiarono di nuovo
verso la porta.
Avrebbe bussato prima di entrare o
avrebbe semplicemente girato la maniglia e sarebbe entrato? Avrebbe detto
qualcosa o si sarebbe limitato a venire da me? Avrebbe esitato una volta fatto
il primo passo o camminato verso il letto per prendermi tra le sue braccia? Mi
avrebbe baciata e accarezzata o avrebbe spinto le
lenzuola da parte per coprirmi con il suo corpo possente? Mi avrebbe spogliata con cura o avrebbe semplicemente strappato la mia
camicia da notte, cercando avidamente la mia carne? Mi avrebbe guardata negli occhi quando mi avrebbe presa o li avrebbe
tenuti chiusi, fingendo che io fossi un’altra, la donna amata morta? Mi avrebbe
amata con tenerezza o schiacciata sotto di lui in una
frenesia di bisogno a lungo negato? Sarebbe stato delicato con me o avrebbe
soltanto ricordato che ero stata una prostituta e mi avrebbe usata
rudemente?
Tante domande e così poco tempo, prima
che bussasse alla porta o che questa si aprisse... Tante domande e, al di sopra
di ognuna di esse, quella più importante. La domanda
che non avevo mai osato pormi per timore della
risposta: sarei stata capace di farlo? Sarei stata capace di andare tra le sue
braccia e concedermi alle sue carezze e al suo
possesso? Sarei stata capace di rilassarmi sotto il suo corpo tanto da darmi a
lui? Il mio inesorabile amore per lui, la sua evidente tenerezza e
presumibile passione sarebbero stati sufficienti a cancellare dalla mia mente e
dal mio corpo i ricordi degli egoistici amplessi che
avevo sopportato per anni? Oppure, non essendo stata
toccata da sei anni, mi sarei irrigidita sotto le sue carezze, la mia ultima
felicità rubatami mentre i fantasmi del mio sudicio passato mi avrebbero
crudelmente deriso dagli angoli bui della mia camera?
Improvvisamente notai che i passi si
erano allontanati, per ritornare un attimo dopo,
distintamente più forti, ma da una direzione diversa. Corrugai la
fronte. La terrazza. Provenivano dalla terrazza. Massimo non si era diretto
verso la mia camera, ma verso la terrazza e la notte...
Confusa, mi alzai, andai
verso l’arcata e guardai fuori.
Eccolo là, in piedi, alla balaustra di
marmo, come lo era stato ore prima, la schiena rivolta
a me mentre fissava nella notte e nel mare invisibile. Phoenion era seduto
sulla balaustra, con l’aggraziata negligenza con cui soltanto i gatti possono
sedersi sul bordo d’un precipizio, e osservava Massimo con curiosità. Poi il
gatto si alzò e silenziosamente andò verso l’uomo egualmente silenzioso e gli
urtò il braccio. Massimo si girò verso l’animale e alla luce fioca della luna e
della lanterna che veniva sempre lasciata accesa in
terrazza, lo vidi sorridere al gatto abissino. Gli accarezzò il pelo con mano
tenera ed esperta e fu il mio turno di sorridere, immaginando Phoenion fare le
fusa rumorosamente.
Rimasero così per un lungo istante,
mentre io li osservavo, due animali maschi insolitamente belli. Entrambi pieni
di grazia, orgoglio e dignità. Entrambi magnifici e maestosi
ed egualmente letali.
Una farfalla grossa come un piccolo
pipistrello volò sopra la balaustra e si tuffò in
terrazza, strappando Phoenion alla sua estasi ed innescando le sue abilità di cacciatore. Si lanciò dietro alla falena e
sfrecciò fra le piante e gli alberi in vaso, veloce come un lampo, scomparendo
per un attimo sotto il divano per poi riapparire con la palpitante
farfalla bloccata saldamente fra i denti acuminati. Sfilando fiero come un
generale romano lungo la via Triumphalis, Phoenion si
diresse verso un luogo buio chiaramente deciso a divorare la sua preda.
Sempre sorridendo, Massimo si girò verso l’arcata e io istintivamente feci un passo
indietro, poco disposta ad essere colta ad osservarlo. Egli lanciò una rapida
occhiata verso i tendaggi danzanti, ma poi lasciò la balaustra e andò verso il
divano dove ci eravamo seduti poco prima. Era sul
punto di sedersi quando barcollò leggermente, si riprese e abbassò lo sguardo,
poi si chinò e raccolse qualcosa...
I miei sandali. Era passato sui sandali
che avevo dimenticato vicino al divano, un delicato
tipo di calzatura, di cuoio intrecciato bianco e dorato, con minuscoli
ornamenti d’oro e smalto, che Merith mi aveva inviato da Alessandria con la sua
ultima lettera. Dal mio nascondiglio, riuscivo a vedere i miei
sandali nelle sue mani, mentre li guardava rigirandoli senza sosta,
piacevolmente affascinato. Probabilmente, non aveva mai visto sandali come
quelli. Inconsciamente mossi le dita dei piedi, in involontaria risposta.
Gli schiavi solitamente non amano andare
a piedi nudi, per la maggior parte. Io no. Io non ero stata una schiava comune
che aveva dovuto sudare sui fuochi della cucina o chinarsi a mungere nelle
stalle. Io non avevo mai conosciuto la fame o il duro lavoro e non avevo mai
indossato cenci o camminato a piedi nudi. Al contrario, avevo vissuto in un
lusso indescrivibile ed ero sicura che molte ragazze povere nate
libere sarebbero abbastanza sciocche da invidiarmi.
Amavo andare a piedi nudi. Ancora
adesso.
Quando ero bambina, Turia era solita
sgridarmi perché lasciavo
in giro i miei sandali e mi sporcavo i piedi camminando scalza sull’erba o sul
terreno. Ma io lo rifacevo, rischiando la collera della nostra guardiana,
insieme ad una punizione, perché stare a piedi nudi mi
faceva sentire stranamente libera. Ancora adesso. Togliermi i sandali con un
calcio è la prima cosa che faccio quando entro nel mio appartamento, godendomi
la sensazione del marmo lucido, dei tappeti orientali e delle piastrelle del
terrazzo cotte dal sole, con la mia domestica che mi guarda con
disapprovazione, ma evita di rimproverarmi, viste la
sua posizione e la mia. Ho sempre avuto un debole per le calzature e sono nota
per ordinarne dozzine di paia ad ogni stagione dal mio calzolaio preferito, al
Mercato Traiano. Ma nessun paio di sandali o scarpe può
essere paragonato al senso di libertà di camminare a piedi nudi sulla sabbia
bagnata o sull’erba appena tagliata.
Massimo si rigirò i miei sandali tra le
mani ancora una volta e io fui stranamente eccitata dalla vista di un oggetto
così delicato e femminile nelle sue forti mani callose, abbronzate dal sole.
Con un vago sorriso, le mise sul divano, poi sospirò
profondamente, posò gli avambracci sulle ginocchia divaricate e rimase là,
leggermente chino, immobile, perso nei suoi pensieri, così vicino a me tuttavia
così remoto. Il chiaro di luna giocava sui piani del suo viso, brillava sulla
pelle liscia e abbronzata delle braccia, sottolineando i muscoli superbamente
scolpiti sotto di essa, muscoli che si increspavano ad
ogni singolo movimento del suo corpo possente. Mi morsi il labbro inferiore e
mi premetti una mano alla gola, sentendo un rimescolamento al basso ventre,
Massimo così indescrivibilmente bello al chiaro di luna, così vicino a me e
tuttavia apparentemente così remoto.
Non so quanto tempo rimanemmo così. Lui
seduto là, sul divano in terrazza. Io, in piedi vicino alla colonna di marmo
dell’arcata, nascosta dal buio e dai tendaggi fluttuanti
e trasparenti. Massimo perso nei suoi pensieri, ignaro di essere osservato. Io,
che lo divoravo con gli occhi, il sangue che mi cantava nelle vene la dolce
canzone del desiderio.
Improvvisamente, non riuscii più a
sopportare i miei vestiti, la mia pelle tesa e bruciante,
i seni gonfi come frutti maturi pronti per essere colti. Tirai i nastri che
chiudevano la mia camicia da notte e la lasciai
cadere, il fragile cotone egizio tessuto così finemente da non pesare più d’una
manciata di spuma.
Poggiai la schiena nuda contro la
colonna, la freddezza del marmo un sollievo benvenuto,
la brezza in aumento che faceva danzare i tendaggi intorno al mio corpo nudo,
il ronzio mormorante della risacca che saliva più alto con la marea crescente
e che sembrava bisbigliarmi.
Invitandomi a lasciare il mio
nascondiglio.
Invitandomi ad attraversare l’arcata ed
entrare nel chiaro di luna.
Per fare un passo nel terrazzo e
rivelarmi a Massimo...
La voce della risacca diveniva più forte nella mia
mente, stuzzicandomi, attirandomi, promettendo... Era come quella, la voce
delle sirene? Era quello che Odisseo aveva udito quando aveva ordinato ai suoi
uomini di legarlo all’albero maestro, e poi sigillato le loro orecchie con la
cera mentre remavano lungo le scogliere, dove le creature a
cui io ero stata paragonata cantavano la loro dolce ma letale canzone?
Chiusi gli occhi. Il mio corpo era teso
per il bisogno e il desiderio, i miei capelli sciolti si riversavano lungo la mia schiena e solleticavano delicatamente le mie natiche
nude. I miei capezzoli erano duri come sassolini e al tocco freddo della brezza
marina i miei seni si coprirono di pelle d’oca. I tendaggi trasparenti
turbinavano intorno a me, ballando la loro danza sfrenata, sfiorandomi a tratti ventre e gambe nudi, la loro spettrale carezza come
una promessa di piaceri inenarrabili che mi attendevano, vicinissimi.
I miei occhi si aprirono di scatto. Come in un sogno, mi staccai dalla colonna e feci un passo
verso l’arcata...
Qualche cosa di peloso mi sfrecciò
accanto, e corse in terrazza facendomi sussultare a tal punto che dovetti
coprirmi la bocca per soffocare un grido.
Bruscamente, Massimo sollevò la testa e
guardò verso il mio nascondiglio, sorpreso dal debole rumore.
Comportandomi di riflesso, feci un passo indietro, il mio cuore martellando
così forte che copriva tutto il suono
intorno a me. Poi, egli vide la gatta nera che aveva condiviso il suo sonno
ubriaco la notte prima e agitò le dita per attirare la sua attenzione. Nigra si
fermò sui suoi passi, poi riconobbe il suo nuovo
migliore amico e trottò felicemente verso Massimo, che le grattò la testa e il
mento, poi se la prese in braccio e la cullò contro il suo petto. Egli rimase
così per qualche istante, poi improvvisamente si alzò e, con la gatta nera sempre
in braccio, tornò nel salotto.
Dal mio nascondiglio, vidi Massimo
allontanarsi, quindi udii il suono smorzato dei suoi sandali mentre tornava in camera sua. Dopo un attimo di silenzio, mi giunse
il suono cigolante della porta.
Rimasi là a lungo, guardando il terrazzo
vuoto al chiaro di luna, circondata dai tendaggi che danzavano nella brezza
sempre più fredda. Distrattamente, mi strofinai le braccia, poi mi fermai a metà nell’atto di abbracciarmi. Con un sospiro,
tornai a letto, senza preoccuparmi di raccogliere la mia camicia da notte
abbandonata. Invece, aprii il baule ai piedi di esso e ne estrassi
la tunica da schiavo di Massimo.
Era ruvida al tatto e mi raspava la pelle
bruciante
e tesa, quando la sollevai ancora una volta al mio viso seppellendolo
tra le sue pieghe, aspirandone avidamente l’odore. Abbracciai la vecchia tunica
azzurra sgualcita e macchiata di sudore, stringendola contro i miei seni nudi,
e sempre abbracciandola mi arrampicai sul letto, strisciando verso il posto
dove ero solita dormire, poi con attenzione dispiegai la tunica di Massimo
accanto ad esso, posandola per metà sul cuscino più
vicino al mio. Rimasi lì, inginocchiata vicino alla tunica azzurra per un lungo
momento, poi mi abbassai accanto ad essa, riposando
dal mio lato, il mio braccio sopra di essa come se, anziché un semplice pezzo
di vecchia tela azzurra sfilacciata, ci fosse un corpo caldo e vivo accanto a
me.
Era come abbracciare il fantasma dell’uomo
vivo e vegeto che dormiva da solo vicino a me, tuttavia meglio che dormire da
sola in un letto enorme, freddo e vuoto.
Avvolta nel maschio profumo
di Massimo se non nelle sue forti braccia, caddi nell’oblio.