Diario di Giulia - Parte seconda

Diario di Giulia (indice capitoli)
Diario di Giulia - Parte seconda (indice capitoli)


Storie de Il Gladiatore

Julia’s Journal
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Capitolo XIV - Insieme, 180 d.C.

Massimo mi guardò perplesso e sorpreso ad un tempo.

- Voglio dire, tu sei nato in Ispania e non eri mai stato a Roma prima… prima… di questo. Io sono nata a Roma, ma schiava, probabilmente figlia di prigionieri di guerra…

Chiaramente stupito, Massimo sostenne il mio sguardo, ma non disse nulla.

Io mi morsi il labbro inferiore e cercai di spiegare quello che non avevo mai spiegato a nessuno, dando finalmente voce ad alcune mie paure più intime e dolorose.
- Non ho mai visto nessuno che assomigliasse a me per davvero… Voglio dire, quando ero schiava, avevo il terrore di trovare qualche bambina con i miei lineamenti e le mie fattezze, perché avrebbe significato che mia madre poteva essere da qualche parte nei dintorni, vicina e ancora viva… a generare altri bambini, come un animale da riproduzione

Massimo corrugò la fronte alle mie parole, ma ancora si astenne dal parlare.

- Eppure, allo stesso tempo, mi ritrovavo a guardarmi intorno, a cercare persone che avessero un aspetto simile al mio… Talvolta trovavo una donna con capelli ramati, ma gli occhi erano diversi oppure non era alta come me… - Deglutii a fatica, distogliendo lo sguardo, e mi appoggiai contro lo schienale del divano. - Ma un giorno… al porto di Ostia… - Deglutii di nuovo, incapace di proseguire.

Con calma, Massimo prese la mia mano sinistra nella sua e la strinse in modo rassicurante, un gesto semplice con il quale offriva non solo conforto, ma anche calore e forza. Il calore e la forza di cui avevo un disperato bisogno.
- Che cosa accadde, Giulia? - chiese dolcemente. - Che cosa accadde al porto?

Io sospirai, presi a parlare, poi sospirai di nuovo, prima di riprendere.
- Ero sposata da poco tempo. Una volta sistematami alla villa, divenni curiosa della città. Apollinario mi accompagnò e girovagammo per ore… Volevo vedere il faro e lui mi prendeva in giro, dicendo che l’imperatore Claudio aveva fatto un gran lavoro, ma il faro non era grande e meraviglioso come quello di Alessandria… Stavamo passeggiando lungo il porto quando li vidi…

Una civetta ululò in lontananza e io rabbrividii involontariamente. Non sono superstiziosa né mi spavento facilmente, ma l’ululato risuonò troppo simile al richiamo di un’anima solitaria e affranta. Un’anima sola e affranta come la mia… e come quella di Massimo.

Mi sforzai di tornare al racconto.
- C’erano uomini, donne e bambini… venti persone circa… in catene… che scendevano dalla passerella di una nave… I moli erano sempre pieni di gente. Non solo marinai e schiavi che scaricavano navi, ma persone che non avevano nulla da fare e ciondolavano attorno. Li guardavano come se fossero bestie esotiche… Gli schiavi erano alti, anche i bambini, maschi e femmine che non potevano avere più di dieci anni e che tuttavia erano alti quasi quanto molti romani… - Mi riadagiai sul divano e chiusi gli occhi, vedendo nella mia mente la scena che mi aveva tormentata per anni… La scena che ancora ritornava nei miei sogni malgrado fossero passati molti anni … - Gli uomini erano robusti, fieri, con lunghi capelli ramati… Le donne erano belle, con riccioli ondulati lunghi fiono alla schiena… Anche i loro capelli erano ramati… La loro carnagione era molto chiara e tutti avevano occhi azzurri, non quell’azzurro chiaro o il grigiazzurro dei romani di colorito chiaro, ma un azzurro profondo… come quello dei miei occhi.

Massimo intrecciò le dita con le mie e attese pazientemente che continuassi.

- Era stata una giornata mite, la brezza aveva soffiato dolcemente, tenendo lontana la calura. Quando avevo visto i prigionieri dai capelli rossi mi ero fermata e non ero più riuscita a muovermi. Era come se avessi messo radici, - continuai, con gli occhi ancora chiusi, rivivendo un episodio di cui non avevo mai parlato prima. - Quando ritrovai la voce, chiesi ad Apollinario chi fossero. Egli li guardò e disse “Keltoi”. Io già parlavo un greco fluente, ma mi ci volle un momento per capire cosa avesse detto. Celti. Apollinario talvolta lo fa. Voglio dire, usare una parola greca anche se sta parlando in latino. Quando lo fa, significa che pensa che la parola greca esprima meglio l’idea. Aveva ragione in questo caso, perché “Keltoi” significa molto di più di razza o colore…

Con gli occhi chiusi, era facile immaginare che la terrazza fosse svanita e che mi trovassi di nuovo sui moli, osservando in silenzio gli schiavi appena arrivati.

- La gente parlava con ammirazione della mercanzia umana. Lodavano la forza degli uomini e la bellezza delle donne e delle bambine. Cercavano di indovinare da che cifra sarebbe partita l’asta… Quella parola mi fece decidere. Marciai verso la nave e Apollinario ebbe a malapena il tempo di fermarmi prima che scalassi la passerella… - Aprii gli occhi e vidi che Massimo mi guardava intensamente, il viso imperscrutabile. Probabilmente stava rivivendo la propria esperienza, a Zucchabar, ma io non potevo fermarmi. Chiusi di nuovo gli occhi e ripresi a parlare. Nella mia mente, udivo la voce di Apollinario come se fosse lui, e non Massimo, ad essere accanto a me…

 

- Giulia, che cosa stai facendo? Dove stai andando?

- Voglio sapere chi è il proprietario di questi schiavi… - dissi cercando di divincolare il mio braccio.

- Perché…? - cominciò lui, ma io non gli permisi di finire la frase.

- Li voglio comprare io! L’intero lotto!

- Giulia, non puoi!

- Certo che posso! Non sono forse sposata ad un fottuto ricco armatore? Non sono una donna libera? Non siete forse tutti voi quelli che stanno a ricordarmi sempre quanto sono ricca e libera adesso, e che devo abituarmici ed agire di conseguenza? Ebbene, voglio agire di conseguenza e voglio farlo adesso! Voglio comprare quegli schiavi!

Apollinario sussultò, poi arrossì, ma non mi lasciò andare il braccio. Al contrario, strinse di più la presa.
- Giulia, come condizione per il matrimonio tu hai imposto a tuo marito di liberare tutti i suoi schiavi! Perché ora vuoi comprare questi qui?

- Ma non capisci? - Stavo gridando e i presenti cominciavano a guardarci. Non m’importava. Tutto quello che contava era ottenere quegli schiavi. Ottenerli prima che fossero portati al mercato, dove sarebbero stati esibiti con cartelli appesi al collo, dettaglianti le loro virtù, fossero la forza degli uomini o la verginità delle ragazze. Prima che fossero portati al mercato, dove mariti e mogli sarebbero stati separati, se non lo erano già stati prima, e i bambini sarebbero stati portati via alle loro madri. Dove sarebbero stati denudati e ispezionati come bestiame. Dove eventuali compratori avrebbero palpato i seni delle donne e aperto le gambe alle ragazze, per essere sicuri di comprare quello che era stato loro promesso. - Non capisci, Apollinario? - gridai di nuovo. - Sei cieco? Hanno i capelli ramati! Capelli ramati e occhi azzurri! Non capisci? Non vedi che somigliano a me? A me, Apollinario! A me!

 

Mi fermai un istante e Massimo mi strinse la mano. Mi passai la lingua sulle labbra inaridite e parlai di nuovo.
- Apollinario era sconvolto. Guardava gli schiavi, poi me. Io tremavo come una foglia. Questo lo fece decidere…

 

- Giulia, ascoltami. Non puoi salire su quella nave, mi senti? Non puoi parlare con il capitano. Nessuna signora rispettabile lo farebbe e tu adesso sei una donna sposata.

Prima che potessi protestare, mi fermò, con la mano sollevata.
- Ascoltami! Se vuoi quegli schiavi, ti aiuterò io. Ma tu farai come dico io, d’accordo?

Io stavo ansimando per lo sforzo di riprendere il controllo di me stessa. In qualche modo, trovai il modo di annuire il mio riluttante assenso. Volevo salire io sulla passerella. Volevo parlare io al capitano. Volevo sapere se era uno dei capitani di mio marito e se era di Mario Servilio la nave che trasportava quegli schiavi alti, dagli occhi azzurri. Volevo… che cosa? Che cosa volevo veramente? Troppo confusa perfino per piangere, cercai di ricompormi.

A poco a poco Apollinario diminuì la stretta al mio braccio, chiaramente pronto a trattenermi di nuovo se avessi anche solo tentato di sfuggire. Quando fu certo che non l’avrei fatto, mi lasciò andare e si diresse alla nave, voltandosi frequentemente per vedere se lo seguivo. Ma io rimasi là, ancora ansimando, le mani strette a pugno, lo sguardo fisso sugli schiavi dai capelli ramati.

I celti rimasero calmi e distaccati, guardando lontano, gli uni vicini agli altri, ma non pigiati assieme come fanno i prigionieri impauriti. Se erano impressionati dal porto, non lo mostrarono. Se capivano i rozzi commenti della folla che li guardava, lo tennero per sé.

Soltanto il trambusto che avevo creato io discutendo con Apollinario sembrava aver attratto la loro attenzione… o erano stati i miei capelli ramati e la mia altezza? Due uomini e una donna mi stavano guardando intensamente, con occhi azzurro scuro fin troppo familiari. Il sole e la brezza di mare disegnavano delicate sfumature rosa sulla loro pelle chiara, come facevano sulla mia. Erano a piedi nudi, vestiti di stoffa tessuta in casa e cuoio, ma indossavano pesanti torciglioni al collo, non gli impressionanti monili, di cui avevo letto, d’oro massiccio, ma di rame. Tuttavia l’abilità dell’artigiano che aveva trasformato quelle spirali di fili di rame intrecciati in gioielli esotici non aveva nulla da invidiare a quella della sua controparte romana. I lunghi capelli degli uomini erano legati con lacci di cuoio. Quelli della donna erano sciolti e le arrivavano fino alle anche… molto simili ai miei quando li liberavo dai pettini e dalle forcine che li tenevano raccolti in nome della romana decenza.

I tre celti sembravano studiarmi come io stavo studiando loro. Probabilmente non sapevano una parola di latino, solo il loro dialetto tribale. Ma non avevano bisogno di parole per dirmi quello che vedevano. I loro penetranti occhi azzurri parlavano da soli: una di loro, malgrado gli ornamenti e i gioielli romani e i capelli dignitosamente raccolti…

 

Deglutii con sforzo e fu il mio turno di stringere la mano di Massimo, cercando ancora un po’ del suo calore e della sua forza per riuscire a finire la mia storia. Egli avvolse l’altra sua mano attorno alle nostre dita intrecciate, in tal modo offrendomi tacitamente entrambi.

 

Il ritorno di Apollinario mi riportò dalla sorta di catalessi in cui sembravo essere caduta. Mi guardò per un momento e scosse la testa in segno negativo. Prima che potessi dar voce alla mia protesta, egli mi prese la mano e disse:
- Quegli schiavi non sono in vendita, Giulia. Sono un dono per la famiglia reale, inviato a Marco Aurelio da un generale, Antistio Mineo Ausonio. E’ un nipote di Tito Gaio…

Tito Gaio… Il nome suonava familiare… Poi mi ricordai di lui. Un signore attempato, famoso avvocato ai tempi dell’imperatore Adriano. Anche se praticava ancora, al presente si concentrava prevalentemente sullo scrivere testi molto apprezzati sulla legge romana. Ed era stato nostro ospite a Roma più d’una volta.

- Non c’è nulla che tu possa fare, Giulia. Faremmo meglio a tornare alla villa.

Apollinario mi tirò gentilmente per la mano e io mi sforzai di muovere le gambe insensibili. Il mio precettore mi allontanò dalla nave e dai celti e io lo seguii senza opporre resistenza, tutto il mio interesse per il faro e l’allegria che avevo provato nel passeggiare perduti a me per sempre. La gente ci guardava con curiosità, ma io ne ignorai gli sguardi e i commenti. Avevamo quasi raggiunto la via che ci avrebbe allontanato definitivamente dai moli, quando io mi fermai così all’improvviso che feci sobbalzare Apollinario. Mi voltai per guardare un’ultima volta i celti, ma non c’erano più… Il mio precettore ed amico mi avvolse gentilmente un braccio intorno alle spalle e, quando guardai nei suoi occhi nocciola, vi vidi preoccupazione.

- Erano… erano…?

- Keltoi? Sì. Il capitano mi ha detto che venivano da qualche piccola tribù sperduta in Elvezia che si è ribellata al governo locale… Non tormentarti per loro, Giulia. Saranno mandati all’imperatore… Avrebbe potuto andar loro molto peggio…

Aveva ragione. Ad entrambi noi era andata molto peggio e io avevo affidato una ragazzina numida alla figlia prediletta dell’imperatore che non avevo mai conosciuto. Non parlai più finché non ci sedemmo uno di fronte all’altra nella mia lettiga e i portatori ci sollevarono con un grugnito collettivo.
- La nave…?

Apollinario mi strinse la mano in modo rassicurante.
- No, Giulia, non era una di quelle di tuo marito…

Quando raggiungemmo la villa, ero riuscita a ricompormi. Anche se i sogni cominciarono proprio quella notte, non nominammo più quell’episodio.

 

Aprii gli occhi e vidi che Massimo mi fissava. I suoi occhi erano colmi di preoccupazione come lo erano stati quelli di Apollinario… occhi verdazzurri, del colore dell’oceano, diverso dall’azzurro chiaro o dal grigiazzurro dei romani di pelle chiara.

- Allora, - dissi, - credi che noi siamo veri romani, Massimo?

Egli strinse le labbra, poi trasse un profondo respiro e parlò con voce dolce e bassa.

- Non molto tempo fa, ti avrei detto senza alcun dubbio che sì, noi siamo veri romani. Adesso… adesso non ho risposte, Giulia. Solo domande…

Annuii in silenzio. Non aveva bisogno di dire altro. Conoscevo le domande che lo tormentavano. “Perché io? Perché la mia famiglia? E adesso?” Erano le stesse domande che avevano tormentato me durante la maggior parte della mia vita. Le domande che ancora, ogni singolo giorno, mi tormentavano, malgrado la ricchezza e la libertà.

Massimo sollevò la mano che aveva avvolto attorno alle nostre dita intrecciate, e spostò delicatamente i riccioli che la brezza della notte mi aveva spinto sul viso. Persa nei ricordi di quel giorno al porto, neanche me ne ero accorta.
- Sai, i tuoi capelli mi piacciono molto di più sciolti che raccolti… - disse in tono conversazionale, cercando di alleviare l’umore tetro che era caduto su di noi.

Gli ofrii un tenue sorriso.
- Anche a me piacciono molto di più sciolti che raccolti. In verità, è la prima volta che li tengo sciolti al di fuori del mio appartamento, da quando mi sono sposata. Il povero Atenodoro non è riuscito a mascherare il suo stupore.

Massimo sorrise e continuò a giocare con i miei capelli, come aveva fatto in Mesia, sembrando ancora una volta incapace di trattenersi dal toccarmi. C’era qualcosa di cullante nel movimento delle sue grandi dita sui miei capelli. Improvvisamente capii perché ai gatti piace tanto essere accarezzati.

- Mi piacciono molto di più sciolti che raccolti, - ripetei, - ma al momento non ho scelta ed al contrario ho una “reputazione” da curare… - Riuscii ad infondere nella parola “reputazione” tanto di quel sarcasmo che suonò come un insulto. Le dita di Massimo si fermarono per un momento, poi le affondò nella mia chioma e li pettinò. Aveva un modo di farlo che suggeriva ben più d’un fiero e mascolino senso di possesso.

- Non c’è bisogno che si sappia il tuo passato, Giulia, - suggerì dolcemente.

- Cornelio Crasso disse la stessa cosa… - dissi senza riflettere. Le dita che pettinavano i miei capelli si fermarono per una frazione di secondo, poi ritornarono al loro compito con ferocia a malapena contenuta. I felini non sono soltanto intelligenti e belli. Sono anche gelosi e fieramentete possessivi di ciò che reclamano come loro, sia che si tratti di compagni gatti o di quegli umani talmente pazzi da credere di essere loro i padroni. E così era Massimo.

- Questo Cornelio Crasso… sapeva che… - Massimo pronunciò ogni parola in un tono attentamente neutrale.

- Me lo fece capire con delicatezza. Disse che sapeva delle mie “circostanze sfortunate”… Sua sorella non fu così delicata. Non ebbe alcun problema nel chiamarmi “puttana”.

Le dita che mi accarezzavano i capelli si fermarono di nuovo e quelle intrecciate alle mie strinsero la loro presa. Un fuoco blu luccicò nelle profondità dei suoi occhi.

Risi amaramente. Non potevo far altro che ridere. Eccomi lì, una donna nata schiava e costretta a prostituirsi, che ora doveva aver cura della virtù di cui era stata privata.
- Oh, non era che una cagna patrizia ma, secondo la sua educazione, io ero una puttana, - dissi, e prima che Massimo potesse protestare, aggiunsi. - La trattai come avevo fatto con suo fratello. Diversamente da lei, lui era un uomo ragionevole…

Saggiamente, Massimo si trattenne dal chiedere che cosa il ragionevole Cornelio Crasso avesse fatto per dover essere “trattato”. Invece, alzò le nostre dita intrecciate e si portò la mia mano alle labbra. Non mi baciò le dita o il palmo, ma il polso. Non c’era la cicatrice su di esso. Sei anni prima, non avevo tagliato abbastanza profondamente per lasciare una cicatrice, ancor meno per suicidarmi. Diversamente dalle sue, le mie cicatrici erano invisibili, mascherate da bellezza perfetta e freddo distacco. Ma c’erano, e Massimo lo sapeva.

Le sue labbra erano calde e asciutte, come le ricordavo da quella prima volta in cui lui mi aveva colta di sorpresa e baciata appassionatamente sulla bocca. La sua barba solleticò il fragile tessuto che copriva pulsanti vene blu. La sua bocca rimase sulla mia pelle più a lungo di quanto un bacio rispettoso richiedesse ed io mi sentii serrare la gola.

Massimo sollevò la testa e guardò le stelle e la luna, poi me.
- E’ tardi e sembri stanca.

Io volevo negare, ma un improvviso sbadiglio me lo impedì. Malgrado le lunghe ore in cui avevo dormito, mi sentivo stranamente stanca. Massimo sorrise.
- A letto, Giulia Antonina!

Trasalii al suono del mio nome da liberta. Poco prima egli aveva detto che se lo ricordava dal rapporto dell’agente sulla mia scomparsa, ma udirglielo pronunciare era un’altra cosa, completamente differente. Di nuovo, non potei fare a meno di pensare al miele scuro e selvatico sulla sua lingua.

- Temo che adesso mi chiamo Giulia Servilia.

Egli sembrò prendere in considerazione il mio nome da sposata per un attimo.
- Preferisco Giulia Antonina, - disse. - Giulia Servilia suona più solenne, ma anche freddo... intimidente. Giulia Antonina è più amichevole, come i tuoi capelli sciolti.

Sorrisi in risposta, principalmente per nascondere il mio stupore davanti al semplice ma accurato modo in cui aveva descritto me e la mia vita presente. Ero la signora Giulia Servilia, una bellezza fredda, una potente donna d’affari che portava i capelli raccolti e teneva tutti a distanza. Ero stata Giulia Antonina per appena un anno e l’assenza di lui aveva impedito alla donna affettuosa, vibrante e ridente che avrei potuto essere di affiorare e sbocciare. Vagamente mi chiesi se quella donna vivesse ancora ed anche se il tocco di Massimo sarebbe stato sufficiente a farla uscire dal suo nascondiglio. A volte, potevo quasi sentirla sotto la mia pelle, come se stesse spiandomi da dietro i miei stessi occhi...

Massimo si alzò, riportandomi indietro dalle mie riflessioni. Mi alzai anch’io e, mano nella mano, rientrammo. Soltanto quando feci un passo dentro notai che avevo lasciato i sandali sotto il divano, ma mi sentivo troppo insonnolita per tornare a riprenderli.

Atenodoro aveva spento tutte le lampade in salotto, tranne una, e Nicia ne aveva accesa qualcuna nella mia camera da letto. La porta della mia camera e quella di Massimo erano aperte e la luce dorata che proveniva da esse lanciava ombre spettrali sui tendaggi e sulla mobilia. Un silenzio pesante era caduto sulla villa. Era più tardi di quanto pensassi.

Ci fermammo sulla porta della mia camera, ma Massimo non fece alcuno sforzo per disintrecciare le dita. Improvvisamente, mi sentii timida come una vergine al suo primo amante. Timida come non mi ero mai sentita da quella volta nell’alcova cortinata in Mesia. Abbassai gli occhi con una modestia che avrebbe meritato l’approvazione della vergine Vestale Massima.

- Starai bene? - Chiesi con voce bassa. - Voglio dire, hai tutto ciò di cui hai bisogno?

- Sì, Giulia. Non devi preoccuparti. Il tuo amico e i famigli sono stati molto efficienti. E tu molto, molto generosa. Non sono ancora riuscito a ringraziarti per questo...

Accennai verso la porta del mio studio per interromperlo.
- Quello è il mio studio privato, - dissi. - Ci tengo alcuni dei miei libri preferiti. Se hai voglia di leggere, sentiti libero di prenderne uno.

Sentii, più che vedere, il suo cenno di assenso.

- Se c’è qualcos’altro di cui hai bisogno o che desideri... non devi far altro che dirmelo.

- Va bene, Giulia.

Con cautela, sollevai lo sguardo e vidi che mi fissava. I suoi occhi bruciavano d’un fuoco verdazzurro dolce e fermo. Arrossii e deglutii. Massimo si chinò un pochino e mi diede un bacio casto sulla guancia.

- Buona notte, Giulia.

- Buona notte, Massimo.

Rimase lì. In attesa. Lentamente, molto lentamente, districai le mie dita e voltandomi, entrai nella mia camera, poi chiusi la porta fra noi, per la seconda notte di fila.

 

Due ore più tardi e malgrado il cibo, il vino e la sensazione di essere emozionalmente svuotata, ero ancora ben sveglia. La luna inondava la mia camera di luce argentea, e la brezza notturna muoveva i tendaggi trasparenti dell’arcata che conduceva alla terrazza con una cadenza ipnotica. Dagli angoli bui provenivano ombre blu, i fantasmi degli schiavi celti che cinque anni prima avevo fugacemente visto al porto di Ostia sembravano spiarmi. Il suono sussurrante della risacca non riusciva a cullarmi e a farmi dormire ed al contrario si era trasformato in un inquietante ronzio, molto simile a quello di un fastidioso insetto estivo. Sul divano da lettura, Nigra sospirò dolcemente e miagolò nel sonno, agitata da qualche sogno felino particolarmente vivido.

Stavo considerando la saggezza di accendere una lampada e andare in cerca d’un libro quando fui improvvisamente sorpresa da un forte scricchiolio. Doveva essere realmente forte perché lo udissi così chiaro attraverso le solide porte di quercia. Mi accigliai udendo di nuovo quel suono cigolante... Una porta che si apriva su cardini da tempo privi di un’adeguata lubrificazione... La porta della seconda camera da letto... Stupidamente, presi mentalmente nota di dire ad Atenodoro di mandare qualcuno ad oliare i cardini, poi mi riscossi.

Massimo.

Smisi di respirare, desiderando udire al di là del silenzio caduto di nuovo sul mio appartamento. Disturbata dal rumore, Nigra aveva sollevato la testa ed ora guardava la porta, gli orecchi tesi e le vibrisse appiattite contro il muso, tipici segni che era completamente all’erta.

Il silenzio era così profondo che persino la risacca sembrava essersi arrestata. Poi, ascoltai un secondo suono smorzato. Passi nel salotto.

Massimo.

Come me apparentemente incapace di dormire, si era alzato ed i suoi sandali facevano un debole rumore mentre camminava sul lucido pavimento a mosaico. Nessuna luce filtrava dalla fessura sotto la porta della mia camera. Ad un certo momento, la solitaria lampada in salotto doveva essersi spenta e Massimo procedeva attento in quell’ambiente sconosciuto, facendosi strada fra la mobilia, alla luce della luna che scaturiva dall’arcata aperta sulla terrazza.

Massimo che camminava verso la mia camera da letto.

Mi sedetti sul letto; il cuore mi martellava così forte che sentivo il seno sollevarsi come un uccello in gabbia, e così rumorosamente che avrebbe potuto essere udito fino a Roma.

Massimo, incapace di dormire, che veniva da me nel cuore della notte.

Inghiottii a fatica e scioccamente mi guardai attorno per assicurarmi che la mia camera fosse ordinata come di consueto, poi i miei occhi dardeggiarono di nuovo verso la porta.

Avrebbe bussato prima di entrare o avrebbe semplicemente girato la maniglia e sarebbe entrato? Avrebbe detto qualcosa o si sarebbe limitato a venire da me? Avrebbe esitato una volta fatto il primo passo o camminato verso il letto per prendermi tra le sue braccia? Mi avrebbe baciata e accarezzata o avrebbe spinto le lenzuola da parte per coprirmi con il suo corpo possente? Mi avrebbe spogliata con cura o avrebbe semplicemente strappato la mia camicia da notte, cercando avidamente la mia carne? Mi avrebbe guardata negli occhi quando mi avrebbe presa o li avrebbe tenuti chiusi, fingendo che io fossi un’altra, la donna amata morta? Mi avrebbe amata con tenerezza o schiacciata sotto di lui in una frenesia di bisogno a lungo negato? Sarebbe stato delicato con me o avrebbe soltanto ricordato che ero stata una prostituta e mi avrebbe usata rudemente?

Tante domande e così poco tempo, prima che bussasse alla porta o che questa si aprisse... Tante domande e, al di sopra di ognuna di esse, quella più importante. La domanda che non avevo mai osato pormi per timore della risposta: sarei stata capace di farlo? Sarei stata capace di andare tra le sue braccia e concedermi alle sue carezze e al suo possesso? Sarei stata capace di rilassarmi sotto il suo corpo tanto da darmi a lui? Il mio inesorabile amore per lui, la sua evidente tenerezza e presumibile passione sarebbero stati sufficienti a cancellare dalla mia mente e dal mio corpo i ricordi degli egoistici amplessi che avevo sopportato per anni? Oppure, non essendo stata toccata da sei anni, mi sarei irrigidita sotto le sue carezze, la mia ultima felicità rubatami mentre i fantasmi del mio sudicio passato mi avrebbero crudelmente deriso dagli angoli bui della mia camera?

Improvvisamente notai che i passi si erano allontanati, per ritornare un attimo dopo, distintamente più forti, ma da una direzione diversa. Corrugai la fronte. La terrazza. Provenivano dalla terrazza. Massimo non si era diretto verso la mia camera, ma verso la terrazza e la notte...

Confusa, mi alzai, andai verso l’arcata e guardai fuori.

Eccolo là, in piedi, alla balaustra di marmo, come lo era stato ore prima, la schiena rivolta a me mentre fissava nella notte e nel mare invisibile. Phoenion era seduto sulla balaustra, con l’aggraziata negligenza con cui soltanto i gatti possono sedersi sul bordo d’un precipizio, e osservava Massimo con curiosità. Poi il gatto si alzò e silenziosamente andò verso l’uomo egualmente silenzioso e gli urtò il braccio. Massimo si girò verso l’animale e alla luce fioca della luna e della lanterna che veniva sempre lasciata accesa in terrazza, lo vidi sorridere al gatto abissino. Gli accarezzò il pelo con mano tenera ed esperta e fu il mio turno di sorridere, immaginando Phoenion fare le fusa rumorosamente.

Rimasero così per un lungo istante, mentre io li osservavo, due animali maschi insolitamente belli. Entrambi pieni di grazia, orgoglio e dignità. Entrambi magnifici e maestosi ed egualmente letali.

Una farfalla grossa come un piccolo pipistrello volò sopra la balaustra e si tuffò in terrazza, strappando Phoenion alla sua estasi ed innescando le sue abilità di cacciatore. Si lanciò dietro alla falena e sfrecciò fra le piante e gli alberi in vaso, veloce come un lampo, scomparendo per un attimo sotto il divano per poi riapparire con la palpitante farfalla bloccata saldamente fra i denti acuminati. Sfilando fiero come un generale romano lungo la via Triumphalis, Phoenion si diresse verso un luogo buio chiaramente deciso a divorare la sua preda.

Sempre sorridendo, Massimo si girò verso l’arcata e io istintivamente feci un passo indietro, poco disposta ad essere colta ad osservarlo. Egli lanciò una rapida occhiata verso i tendaggi danzanti, ma poi lasciò la balaustra e andò verso il divano dove ci eravamo seduti poco prima. Era sul punto di sedersi quando barcollò leggermente, si riprese e abbassò lo sguardo, poi si chinò e raccolse qualcosa...

I miei sandali. Era passato sui sandali che avevo dimenticato vicino al divano, un delicato tipo di calzatura, di cuoio intrecciato bianco e dorato, con minuscoli ornamenti d’oro e smalto, che Merith mi aveva inviato da Alessandria con la sua ultima lettera. Dal mio nascondiglio, riuscivo a vedere i miei sandali nelle sue mani, mentre li guardava rigirandoli senza sosta, piacevolmente affascinato. Probabilmente, non aveva mai visto sandali come quelli. Inconsciamente mossi le dita dei piedi, in involontaria risposta.

Gli schiavi solitamente non amano andare a piedi nudi, per la maggior parte. Io no. Io non ero stata una schiava comune che aveva dovuto sudare sui fuochi della cucina o chinarsi a mungere nelle stalle. Io non avevo mai conosciuto la fame o il duro lavoro e non avevo mai indossato cenci o camminato a piedi nudi. Al contrario, avevo vissuto in un lusso indescrivibile ed ero sicura che molte ragazze povere nate libere sarebbero abbastanza sciocche da invidiarmi.

Amavo andare a piedi nudi. Ancora adesso.

Quando ero bambina, Turia era solita sgridarmi perché lasciavo in giro i miei sandali e mi sporcavo i piedi camminando scalza sull’erba o sul terreno. Ma io lo rifacevo, rischiando la collera della nostra guardiana, insieme ad una punizione, perché stare a piedi nudi mi faceva sentire stranamente libera. Ancora adesso. Togliermi i sandali con un calcio è la prima cosa che faccio quando entro nel mio appartamento, godendomi la sensazione del marmo lucido, dei tappeti orientali e delle piastrelle del terrazzo cotte dal sole, con la mia domestica che mi guarda con disapprovazione, ma evita di rimproverarmi, viste la sua posizione e la mia. Ho sempre avuto un debole per le calzature e sono nota per ordinarne dozzine di paia ad ogni stagione dal mio calzolaio preferito, al Mercato Traiano. Ma nessun paio di sandali o scarpe può essere paragonato al senso di libertà di camminare a piedi nudi sulla sabbia bagnata o sull’erba appena tagliata.

Massimo si rigirò i miei sandali tra le mani ancora una volta e io fui stranamente eccitata dalla vista di un oggetto così delicato e femminile nelle sue forti mani callose, abbronzate dal sole. Con un vago sorriso, le mise sul divano, poi sospirò profondamente, posò gli avambracci sulle ginocchia divaricate e rimase là, leggermente chino, immobile, perso nei suoi pensieri, così vicino a me tuttavia così remoto. Il chiaro di luna giocava sui piani del suo viso, brillava sulla pelle liscia e abbronzata delle braccia, sottolineando i muscoli superbamente scolpiti sotto di essa, muscoli che si increspavano ad ogni singolo movimento del suo corpo possente. Mi morsi il labbro inferiore e mi premetti una mano alla gola, sentendo un rimescolamento al basso ventre, Massimo così indescrivibilmente bello al chiaro di luna, così vicino a me e tuttavia apparentemente così remoto.

Non so quanto tempo rimanemmo così. Lui seduto là, sul divano in terrazza. Io, in piedi vicino alla colonna di marmo dell’arcata, nascosta dal buio e dai tendaggi fluttuanti e trasparenti. Massimo perso nei suoi pensieri, ignaro di essere osservato. Io, che lo divoravo con gli occhi, il sangue che mi cantava nelle vene la dolce canzone del desiderio.

Improvvisamente, non riuscii più a sopportare i miei vestiti, la mia pelle tesa e bruciante, i seni gonfi come frutti maturi pronti per essere colti. Tirai i nastri che chiudevano la mia camicia da notte e la lasciai cadere, il fragile cotone egizio tessuto così finemente da non pesare più d’una manciata di spuma.

Poggiai la schiena nuda contro la colonna, la freddezza del marmo un sollievo benvenuto, la brezza in aumento che faceva danzare i tendaggi intorno al mio corpo nudo, il ronzio mormorante della risacca che saliva più alto con la marea crescente e che sembrava bisbigliarmi.

Invitandomi a lasciare il mio nascondiglio.

Invitandomi ad attraversare l’arcata ed entrare nel chiaro di luna.

Per fare un passo nel terrazzo e rivelarmi a Massimo...

La voce della risacca diveniva più forte nella mia mente, stuzzicandomi, attirandomi, promettendo... Era come quella, la voce delle sirene? Era quello che Odisseo aveva udito quando aveva ordinato ai suoi uomini di legarlo all’albero maestro, e poi sigillato le loro orecchie con la cera mentre remavano lungo le scogliere, dove le creature a cui io ero stata paragonata cantavano la loro dolce ma letale canzone?

Chiusi gli occhi. Il mio corpo era teso per il bisogno e il desiderio, i miei capelli sciolti si riversavano lungo la mia schiena e solleticavano delicatamente le mie natiche nude. I miei capezzoli erano duri come sassolini e al tocco freddo della brezza marina i miei seni si coprirono di pelle d’oca. I tendaggi trasparenti turbinavano intorno a me, ballando la loro danza sfrenata, sfiorandomi a tratti ventre e gambe nudi, la loro spettrale carezza come una promessa di piaceri inenarrabili che mi attendevano, vicinissimi.

I miei occhi si aprirono di scatto. Come in un sogno, mi staccai dalla colonna e feci un passo verso l’arcata...

Qualche cosa di peloso mi sfrecciò accanto, e corse in terrazza facendomi sussultare a tal punto che dovetti coprirmi la bocca per soffocare un grido.

Bruscamente, Massimo sollevò la testa e guardò verso il mio nascondiglio, sorpreso dal debole rumore. Comportandomi di riflesso, feci un passo indietro, il mio cuore martellando così forte che copriva tutto il suono intorno a me. Poi, egli vide la gatta nera che aveva condiviso il suo sonno ubriaco la notte prima e agitò le dita per attirare la sua attenzione. Nigra si fermò sui suoi passi, poi riconobbe il suo nuovo migliore amico e trottò felicemente verso Massimo, che le grattò la testa e il mento, poi se la prese in braccio e la cullò contro il suo petto. Egli rimase così per qualche istante, poi improvvisamente si alzò e, con la gatta nera sempre in braccio, tornò nel salotto.

Dal mio nascondiglio, vidi Massimo allontanarsi, quindi udii il suono smorzato dei suoi sandali mentre tornava in camera sua. Dopo un attimo di silenzio, mi giunse il suono cigolante della porta.

Rimasi là a lungo, guardando il terrazzo vuoto al chiaro di luna, circondata dai tendaggi che danzavano nella brezza sempre più fredda. Distrattamente, mi strofinai le braccia, poi mi fermai a metà nell’atto di abbracciarmi. Con un sospiro, tornai a letto, senza preoccuparmi di raccogliere la mia camicia da notte abbandonata. Invece, aprii il baule ai piedi di esso e ne estrassi la tunica da schiavo di Massimo.

Era ruvida al tatto e mi raspava la pelle bruciante e tesa, quando la sollevai ancora una volta al mio viso seppellendolo tra le sue pieghe, aspirandone avidamente l’odore. Abbracciai la vecchia tunica azzurra sgualcita e macchiata di sudore, stringendola contro i miei seni nudi, e sempre abbracciandola mi arrampicai sul letto, strisciando verso il posto dove ero solita dormire, poi con attenzione dispiegai la tunica di Massimo accanto ad esso, posandola per metà sul cuscino più vicino al mio. Rimasi lì, inginocchiata vicino alla tunica azzurra per un lungo momento, poi mi abbassai accanto ad essa, riposando dal mio lato, il mio braccio sopra di essa come se, anziché un semplice pezzo di vecchia tela azzurra sfilacciata, ci fosse un corpo caldo e vivo accanto a me.

Era come abbracciare il fantasma dell’uomo vivo e vegeto che dormiva da solo vicino a me, tuttavia meglio che dormire da sola in un letto enorme, freddo e vuoto.

Avvolta nel maschio profumo di Massimo se non nelle sue forti braccia, caddi nell’oblio.