Diario di Giulia - Parte seconda

Diario di Giulia (indice capitoli)
Diario di Giulia - Parte seconda (indice capitoli)


Storie de Il Gladiatore

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Capitolo XIII - Riscoprirsi, 180 d.C.

Quando Massimo emerse dalla seconda camera ero riuscita a ricompormi, abbastanza da offrirgli un aspetto piacevole e calmo, la perfetta padrona di casa che dà il benvenuto al suo onorato ospite. Egli aveva scelto la tunica color sabbia, che metteva in risalto la sua intensa abbronzatura ed i capelli e la barba scuri. Era un po’ attillata al petto e l’orlo era un paio di pollici troppo corto, ma Massimo non era il genere d’uomo che si lasciasse infastidire da imperfezioni sartoriali e indossava qualunque cosa gli mettevano addosso, fossero pellicce di lupo o una rozza tunica da schiavo, con un’inconsapevole eleganza che molti imperatori avrebbero invidiato. Tra il corto orlo e i sandali, potei ammirare le sue gambe nude e abbronzate: erano assurdamente belle. La sua vita era avvolta in una cintura di morbida pelle e portava un laccio di cuoio attorno al collo, dal quale pendevano un paio di zanne d’animale. Improvvisamente mi ricordai di aver visto il laccio di cuoio in Mesia, ma ciò che pendeva da esso era sempre rimasto nascosto sotto la sua tunica militare. In verità, io non l’avevo visto, ma accidentalmente lo avevo scoperto mentre gli baciavo e lambivo il collo in una piccola alcova cortinata.

Con i capelli ancora umidi, pulito di fresco e vagamente profumato di pino, Massimo era semplicemente splendido.

Io ero seduta su uno dei divani, e con la mano stavo dando da mangiare a Rubia piccoli pezzi di gambero, che essa mordicchiava delicatamente. La gatta osservò Massimo con occhi verdi socchiusi, sembrò approvarlo e continuò a mangiare. Si sa che i gatti hanno un gusto eccellente.

- Ti senti meglio?

- Oh, sì!

L’ovvio entusiasmo nella sua risposta mi fece sorridere, e gli indicai la sedia vicino al tavolo mentre mi lavavo le dita in una ciotola d’argento.

- Non t’importa, vero? Voglio dire, i gatti…

- No, perché dovrei?

- Ad alcuni uomini non piacciono i gatti…

- A me piacciono. Sono belli e intelligenti… Come te…

Come te”, volevo dire. L’apparizione fugace della pelle nuda, abbronzata e scintillante, che avevo avuto attraverso la stretta apertura della porta ancora bruciava nella mia mente, mentre silenziosamente ammiravo la qualità felina della sua bellezza, l’inconscia grazia dei suoi movimenti. Per una volta, riuscii a non arrossire. Invece, gli offrii un gran sorriso in cambio del suo complimento, e proseguii:
- Questa è Rubia, - dissi, in un tono che suggeriva che invece di un enorme gatto dai tre colori stavo presentando una figlia in età da marito. - Fu la mia prima amica quando ritornai a Roma. Un’ottima amica. La trovai quando era una micina, nell’accampamento pretoriano…

- Che cosa ci facevi nell’accampamento pretoriano?

- Trascorsi del tempo lì, al mio arrivo a Roma…

Massimo sollevò le sopracciglia in modo interrogativo.

- Forse ti ricordi che fui mandata a Roma insieme alle altre donne, sotto la custodia della legione che l’imperatore rispedì in Italia…

Egli annuì mentre con una certa cautela accomodava la sua imponente figura sulla sedia, come se avesse passato così tanto tempo lontano dalla mobilia civilizzata da aver paura di poterla rompere. Quando fu sicuro che essa avrebbe tenuto, Massimo si rilassò visibilmente e io dovetti fare uno sforzo per nascondere la mia ilarità.

- Il mio affrancamento fu gestito in modo diverso da quello delle altre donne… L’ufficiale incaricato mi lasciò al castra praetoria mentre lui si occupava dei miei documenti, poi venne a riprendermi e mi portò a Roma. Nel frattempo io trovai Rubia sotto un carro. Si era perduta ed era affamata. Cornelio Crasso voleva portarmi a casa della sua famiglia…

- Cornelio Crasso?

- L’ufficiale incaricato. Un brav’uomo. Egli andò ben oltre il suo dovere e gli ordini dell’imperatore e mi aiutò…

Era la prima volta che parlavo apertamente della mia gratitudine verso il giovane questore, un argomento che menzionavo sempre con riluttanza anche quando parlavo con Apollinario. Ma in compagnia di Massimo e dopo tutti quegli anni, sembrava naturale e privo di rischio dare voce a qualcosa che non potevo negare: Cornelio Crasso era stato un uomo buono e si era preso la briga di aiutarmi quando e dove sia Massimo che Marco Aurelio erano usciti dalla mia vita. Mentre parlavo, stavo guardando direttamente negli occhi di Massimo e vidi qualcosa lampeggiare nelle profondità di quelle pozze verdazzurre che in un istante potevano trasformarsi da fiamma bruciante ad abisso di ghiaccio… Qualcosa di sconcertante e burrascoso. Confusa, sbattei le palpebre al suo sguardo duro. Forse la luce delle lampade ad olio mi stava ingannando.
- L’imperatore mi affidò a lui. Mi disse che era uno dei suoi uomini più fidati a Roma. L’ultima volta che lo vidi, indossava una toga senatoriale…

Le sopracciglia di Massimo si sollevarono ancora di più.
- Tu conoscesti Marco Aurelio?

- Ecco… sì. Mi fece portare alla sua tenda, la notte del suo arrivo in Mesia…

- Tu andasti alla sua tenda?

Negli anni trascorsi da quella notte… una delle notti più dolorose della mia vita… ero giunta a considerare quell’incontro segreto tra una giovane prostituta schiava ed un anziano imperatore romano come qualcosa di assolutamente naturale. La reazione allarmata di Massimo mi ricordò che non lo era.

- Sì… voleva ringraziarmi per aver salvato la vita del suo generale prediletto… la tua…

Adesso Massimo sembrava concretamente sbalordito e senza parole.

- Quando gli parlai capii perché tu volevi così bene a Marco Aurelio. Era un grand’uomo… Ho portato il lutto per lui…

- Parlasti con l’imperatore? - insisté Massimo, ancora chiaramente incapace di credere che Marco Aurelio fosse stato interessato a conoscermi. Scelsi né di sentirmi offesa né di ricordargli che il mio ruolo nel salvare l’impero non era stato esattamente di secondo piano.

- Sì, parlammo. Per lo più di te… Ti amava, Massimo… Mi disse che tu eri il figlio che avrebbe dovuto avere… - dissi dolcemente.

Massimo rimase in silenzio, ma io potei vedere le sue labbra tremare leggermente e come le premesse strettamente per impedir loro di farlo. Gli concessi un momento per riprendersi, poi indicai il cibo. Avendo congedato i servitori, dovevamo servirci da soli.
- Vino? - chiesi, alzando un sopracciglio. Egli sorrise imbarazzato.

- Soltanto un po’. Non lo annacqui?

Risi.
- No, preferisco berne poco, ma senz’acqua. Inoltre, annacquare il Cecubo è un crimine. Ma se desideri annacquare il tuo…

Non aggiunsi che, anche se preferivo non mettere alla prova quella capacità, probabilmente io riuscivo a reggere l’alcool meglio di lui. Qualsiasi donna della mia ex professione imparava in fretta a gestire sia il proprio disappunto che il vino. Se non lo faceva, si poteva aspettare soltanto una morte più miserabile della sua già miserabile vita.

Esitante, le sopracciglia corrugate, Massimo bevve un sorso. Poi sorrise.
- Questo non ha niente a che fare con il vino che si beve nell’esercito…

- No, è il genere di vino che bevono aristocratici e senatori. Pagano molto per esso… e le mie navi lo trasportano fino ai quattro angoli dell’impero…

Presi qualche gambero ed un po’ di verdura e cominciai a mangiare. Massimo sembrò esitare per un momento, poi si riempì il piatto accuratamente. Io ero molto affamata e anche lui doveva esserlo. Tuttavia sembrava diffidente, chiaramente non uso al lusso di una tavola come la mia. Prese un carciofo sottaceto e lo morsicò con attenzione, poi il suo viso s’illuminò. Mi chiesi quando era stata l’ultima volta che aveva mangiato un tal genere di cibo prelibato, come quello che faceva mostra davanti a lui. Era passato molto tempo, di sicuro. Forse non lo aveva fatto nemmeno nei sei anni trascorsi da quando ero stata seduta su uno sgabello accanto a lui, disteso su un divano mentre gli imboccavo piccoli assaggi, con lui che giocava con i miei capelli e mi accarezzava le braccia…

Dopo il primo morso, cominciò a mangiare di gusto. Per essere un soldato e contadino, a tavola aveva delle maniere piuttosto buone.

Mangiammo in amichevole silenzio per un po’, poi Massimo parlò.
- E’ quello che facesti, vero?

- Scusa?

- Salvarmi la vita. E’ ciò che facesti in Mesia. E io non ti ho mai ringraziato…

- Va tutto bene, Massimo…

- No, non va bene. Tu mi salvasti la vita e io non ti ringraziai… e tu hai cercato di salvarmi di nuovo e io non ti ho ringraziata nemmeno questa volta …

- Non hai bisogno di ringraziarmi. Tu salvasti me quando mi donasti la libertà. Siamo pari…

- Devi aver pensato che fossi un ingrato molto prima che divenissi uno schiavo…

Fu il mio turno di rimanere in silenzio. Gli occhi di Massimo si addolcirono.
- Grazie, Giulia.

Annuii, sollevai la coppa alle labbra e bevvi un piccolo sorso per evitare di dover parlare.

Il silenzio cadde di nuovo su di noi e fu Massimo a romperlo.
- Per quanto tempo sei stata sposata?

- Tre anni. Mio marito morì due anni fa.

- Ed era un costruttore navale…

- Sì, un costruttore navale molto esperto, e un abile uomo d’affari. Abitava nella stessa palazzina di appartamenti dove vivevo io, al Quirinale…

Massimo appariva confuso.
- Il Quirinale? - chiese.

- Il quartiere sul Colle Quirinale, vicino alla Via Nomentana…

- Giulia, io non sono mai stato a Roma prima… e i soli luoghi di Roma che conosco sono i quartieri dei gladiatori e il Colosseo…

Adesso ero io ad essere stupefatta.
- Non sei mai stato a Roma?

Egli mi offrì un sorriso schivo e scosse la testa.
- No, sono nato in Ispania e ho trascorso tutta la vita nelle province in stato di guerra, per lo più in Germania. La prima volta che vidi Roma fu quando il carro di schiavi su cui mi trovavo superò le mura della città…

Mi mancò l’aria come se fossi stata colpita. Invano annaspai in cerca di parole, poi presi il tovagliolo e nervosamente lo contorsi fingendo di pulirmi le dita.

Non era mai stato a Roma.

Mai.

Come poteva essere? Come poteva il generale prediletto del defunto imperatore non essere mai venuto all’Urbe, nemmeno in missione? Come poteva un uomo che aveva dedicato la sua vita a combattere e proteggere Roma e tutto quello che essa significava non aver mai messo piede nella capitale? Ma, soprattutto, quale dio geloso lo aveva tenuto lontano da Roma e ve lo aveva portato solo quando era uno schiavo, degradato a combattere per il divertimento della folla? Quale divinità crudele e vanesia gli aveva impedito di percorrere a cavallo la Via Trionfale vestito di seta scarlatta e con una corazza dorata, incoronato con un serto e ricoperto di fiori lanciati da una folla adorante?

- Mi…mi dispiace… sa… sapevo che eri nato in Ispania e che non provenivi da una famiglia romana m… ma…

- Va tutto bene, Giulia. Mi stavi dicendo di tuo marito…?

Trassi un profondo respiro.
- Si chiamava Mario Servilio Tibullo ed era di più di trent’anni più vecchio di me… Un uomo retto… Intelligente, onesto, un gran lavoratore… Era malato… una debolezza del midollo spinale. Era vedovo da molti anni e il suo unico figlio era morto alla nascita, insieme a sua moglie. Quando venne a sapere che anche lui stava per morire, decise di prendere una moglie che lo aiutasse nei suoi ultimi giorni. Io lo rifiutai, gli dissi che non volevo sposarmi. Non servì a nulla, così gli rivelai che ero stata una prostituta schiava, ma egli insisté ed alla fine raggiungemmo un accordo… Era molto buono con me, anche se non mi amava…

- Come poteva non amarti? - sbottò Massimo. - Qualsiasi uomo sano di mente… - Si bloccò, chiaramente imbarazzato. Io finsi di non averlo udito, ma l’euforia che provai alle sue parole fu così intensa che pensai di stare per soffocare. In qualche modo, riuscii a continuare a parlare con noncuranza.
- Era molto buono con me e io giunsi ad apprezzarlo e rispettarlo anche se anch’io non potevo amarlo.

- Eri felice? Voglio dire…

- So che cosa vuoi dire… - Alzai le spalle. - Massimo, siamo di origini molto diverse. Tu eri nato libero e io ero nata schiava. Tu sei un uomo e io sono una donna. Le nostre vite sono state molto diverse… Dubito che pensiamo alla felicità negli stessi termini…

Il silenzio cadde di nuovo su di noi, ma questa volta aveva una connotazione melanconica. Eravamo talmente vicini eppure sapevamo così poco l’uno dell’altra. Continuammo a mangiare per un po’ prima che Massimo rompesse il silenzio per la terza volta.
- Sei diventata non solo una donna d’affari, ma anche una filosofa!

Non potei trattenere una risata ed egli sorrise, il suo sorriso dolce e fanciullesco. Come sempre, esso gli illuminò il bel viso e sembrò cancellare le rughe che anni di pesanti responsabilità e preoccupazioni avevano impresso su di esso, riuscendo allo stesso tempo a fare sussultare il mio cuore.
- Ebbene, devi ringraziare Apollinario per questo!

Massimo ridivenne serio.
- Come s’inserisce il tuo amico nella storia?

- Conobbi Apollinario tramite Cornelio Crasso, il questore militare che mi accompagnò a Roma. Condividevamo un interesse nella poesia…

Massimo aggrottò la fronte e sembrò ponderare quello che avevo detto. Era un uomo d’azione, non di parole. Fu solo allora che mi attraversò la mente l’idea che forse egli non aveva mai letto un libro in vita sua. L’alfabetizzazione era obbligatoria nell’esercito romano, che non solo addestrava i suoi uomini nell’uso della spada, ma insegnava loro anche ad usare la testa. Ma le tattiche militari non erano poesia e la corrispondenza ufficiale non aveva nulla a che fare con la filosofia. Ci sono uomini militari che sono anche letterati, ma sono nati in case patrizie sul Colle Palatino, non in un’umile fattoria in Ispania.

- In quei giorni sapevo a malapena leggere o scrivere, ma volevo imparare con tutte le mie forze… Cornelio Crasso mi portò a casa di sua sorella, mi aiutò a stabilirmi a Roma e poi mi mandò Apollinario come regalo d’addio…

Massimo aggrottò la fronte ancora di più.
- Regalo d’addio?

- L’imperatore lo mandò in missione in Britannia…

La tempestosa luce inquietante era di nuovo lì, un fuoco freddo nelle profondità dei suoi splendidi occhi. No, non era la luce che giocava scherzi, ma qualcosa di diverso. Interiormente ordinai a me stessa di non osare nemmeno sperare. Naturalmente, fu inutile. Il mio cuore mi martellò selvaggiamente nel petto mentre continuavo a parlare.
- Apollinario era stato il precettore suo e di suo fratello. Cominciò ad insegnare a me e diventammo buoni amici. Lui… anche lui era stato uno schiavo… abbiamo molto in comune… - Spiegai, indicando con il mio tono che non ero incline a rivelare la vita privata del mio amico. Massimo ascoltava in silenzio. - Quando mi sposai, scelse di venire con me e mi aiutò ad imparare come gestire la proprietà e la servitù, poi diventò il mio segretario… e quando restai vedova ed ereditai gli affari, divenne il mio braccio destro…

Nigra entrò dalla terrazza e andò da Massimo, sembrando felice di rivedere il suo compagno di dormite. Strofinò il suo lucido mantello nero contro la caviglia di lui e intonò un dolce "Mrrrrrrt!". Massimo arcuò le sopracciglia e mi guardò per avere la traduzione.

- Vuole del cibo, - spiegai e il viso di lui si rilassò visibilmente. Egli guardò la varietà di portate di fronte a sé ed esitò tra la pernice arrosto e il pesce alla griglia. Io sospinsi un piattino di formaggio affumicato verso di lui. - Ecco. Se vuoi diventare il suo nuovo migliore amico, prova a darle questo. - Massimo accettò il piatto e strappò un pezzetto di formaggio, poi lo offrì alla grassottella gattina nera.

Per dare da mangiare a Nigra ci volle del tempo, ma quando la cosa finì e Massimo si allungò verso la ciotola per pulirsi le dita prima di ritornare al suo stesso pasto, stava sorridendo. A metà dall’asciugarsi le mani, improvvisamente alzò la testa e chiese:
- Che cosa accadde alle altre donne? A Eugenia?

I miei occhi si spalancarono per la sorpresa.
- Tu ti ricordi di Eugenia?

- Certo che sì. Lei e le altre furono molto coraggiose quando ci aiutarono.

Io arrossii leggermente al suo uso di “ci”.
- Ecco, devo confessare che non so cosa accadde loro. Vedi, Massimo, sulla via del ritorno io fui trattata in modo diverso da loro perché l’imperatore mi aveva affidata personalmente a Cornelio Crasso…

Eccola lì. La fiammata di collera immediatamente dopo aver menzionato il nome del questore. Massimo sospettava che fosse accaduto qualcosa tra Cornelio Crasso e me? Che il giovane ufficiale patrizio avesse osato farmi proposte? Che io lo avessi assecondato o addirittura incoraggiato? Qualsiasi cosa pensasse, non gli piaceva. Qualsiasi cosa pensasse, non la voleva. Non aveva voluto né che un altro uomo mi toccasse, né l’idea che a me piacesse che un altro uomo lo facesse. Qualsiasi cosa pensasse e incurante del tempo trascorso e di che cosa avrebbe potuto accadere ma non era accaduto tra di noi, egli mi considerava sua. Sorseggiai un po’ di vino per mascherare la mia irrefrenabile euforia.

- L’imperatore firmò personalmente il mio affrancamento e mi fece diventare una liberta imperiale. Anche la mia ricompensa fu diversa. Diede ordine al suo banchiere di aiutarmi a stabilirmi a Roma e Cornelio Crasso fu incaricato di supervisionare le procedure e di fare rapporto a lui. Inoltre… - Mi morsicai il labbro, esitando sulle parole successive. - Inoltre, io volevo rifarmi una vita. Una nuova vita, davvero… perciò decisi che per farlo avevo bisogno di allontanarmi da loro. Onestamente, non volevo finire con l’aprire un bordello e tornare alla mia vecchia vita… il che, sospetto, è quello che almeno qualcuna di loro deve aver fatto… - Guardai Massimo con sincerità. - Non ci sono molte cose che una donna possa fare da sola a Roma e temo che alcune di loro possano aver finito col fare come le cortigiane pagate. Gli dei sanno che io non le biasimo, ma non era ciò che volevo per me… - Abbassai gli occhi alle mani, ordinatamente ripiegate nel mio grembo. Era stranamente difficile parlare di questo, dopo aver attentamente evitato per anni anche solo di pensare ad Eugenia, Onora e le altre. Mi ero rifiutata di comprarmi documenti falsi per cancellare il mio sordido passato, ma mi ero anche rifiutata di rimanere vicina alle persone che me lo ricordavano. Ero sparita di mia libera volontà, tuttavia mi sentivo in qualche modo colpevole per quello che poteva esser accaduto alle mie compagne schiave prostitute. Io ero stata colei alla quale esse si rivolgevano in cerca di consiglio, aiuto e conforto. In cerca di una guida. E io le avevo abbandonate quando ne avevano avuto maggiormente bisogno. - Fu duro lasciarle, ma dovevo farlo, - dissi, sperando di essere giunta a patti con la mia decisione e sapendo che non vi sarei più tornata sopra. Almeno non completamente. - Perfino Eugenia, che era la persona più vicina ad un’amica che avessi mai avuto. Ma dovevo farlo e lo feci. Credo che Eugenia sapesse, ma non mi fece domande, anche se la ferì vedermi abbandonarla… Così, semplicemente sparii…

- Di sicuro lo facesti.

- Scusa?

- Tu sparisti, Giulia. Sparisti così completamente che non riuscii a trovarti.

Il mio rantolo dovette essere esplosivo, perché sia Nigra che Rubia sollevarono la testolina e mi guardarono con occhi obliqui da differenti angoli della stanza.
- Tu mi cercasti? - chiesi, sicura di aver udito male e che mi stavo rendendo ridicola.

- Lo feci.

- M…ma ha…hai appena de…detto c…che n…non sei mai sta…stato a Roma…

Massimo sollevò una mano per fermare il mio balbettio. Poi, mise giù il calice sul tavolo, posò i gomiti sulle cosce e mi guardò intensamente, parlando con voce bassa e grave.
- Non sono mai stato a Roma prima. Non venni a cercarti personalmente. Ma pochi mesi dopo che tu fosti rimandata qui, quando io ritornai nell’accampamento della mia legione a Vindobona dopo un periodo di licenza, decisi di verificare come te la stessi cavando… non potevo venire personalmente e non sapevo dove cercarti, così chiesi consiglio al pretore della mia legione. Egli mi indirizzò ad un agente in Roma, un uomo competente che aveva eseguito molte commissioni
per lui e per altri ufficiali. Lo assunsi per fare ricerche su di te ed informarmi su come te la cavavi… - Massimo si chinò verso di me, il lampo nei suoi occhi verdazzurri addolcito ad una fiamma bassa e dosata. - L’uomo ti cercò per mesi, ma non riuscì a trovarti. Solo il tuo nome da liberta nei registri del censore. Niente di più. A proposito, il tuo nome da liberta è bello… e adatto.

Mi sentivo come se fossi stata colpita da un colpo fulminante. Mi aveva cercata… quando era tornato dall’Ispania e da sua moglie, aveva assunto un agente per cercarmi a Roma… e io lo avevo accusato che non si era curato di me, che mi aveva allontanata dalla sua vita senza pensarci due volte. Inghiottendo dolorosamente, abbassai lo sguardo al mio grembo e di riflesso il mio pollice sinistro cercò l’anello di nozze, per girarlo attorno al dito medio come sempre facevo quando ero preoccupata o angustiata… ma il polpastrello del pollice trovò solo la leggera incisione lasciatavi dalla fascetta d’oro. Quando parlai, fu con un sussurrio così basso che potevo a malapena sentirmi io stessa.
- Perché mi cercasti?

La risposta ci mise così tanto ad arrivare che pensai che egli non mi avesse udita. Quando fui sul punto di ripetere la mia domanda, Massimo parlò di nuovo.
- Ero preoccupato. Eri da sola nel mondo e il mondo non è un luogo per una donna sola. Volevo sapere se stavi bene, se avevi bisogno di aiuto…

- Aiuto?

Massimo sospirò leggermente.
- Ero preoccupato che tu potessi essere stata obbligata a tornare… alla tua vita precedente. Sapevo che non lo avresti fatto di tua libera volontà, ma le circostanze potevano averti costretta a… Speravo che non fosse il tuo caso.

- E se lo fosse stato?

- Ero pronto ad aiutarti.

Il silenzio che seguì fu così assoluto che anche i gatti alzarono la testa, turbati dall’assenza di suoni.

Massimo mi aveva cercata. Era stato preoccupato per me. Era stato preoccupato che fossi stata costretta a prostituirmi per sopravvivere… o forse semplicemente per solitudine. Era stato pronto ad aiutarmi se fosse stato così… ma che cosa significava “aiuto” in questo caso? Come se mi avesse letto nella mente, Massimo rispose alla mia domanda inespressa.

- All’agente fu commissionato di provvedere a te con qualsiasi cosa avessi bisogno, se era il caso. Ero pronto ad aiutarti finanziariamente e di offrire il mio… supporto morale.

Alzai gli occhi e guardai nei suoi, col bisogno non solo di udire la sua risposta, ma anche di vederla. Col bisogno di vedere oltre quelle splendide pozze verdazzurre e dentro il suo cuore e la sua anima.

- Saresti venuto da me se mi avesse trovata?

Massimo rivolse lo sguardo al soffitto nello stesso modo in cui lo aveva fatto la notte prima, quando era stato incatenato ad una colonna di marmo, non tanto lontana da dove eravamo seduti. Chiuse gli occhi e inghiottì a fatica e io non potei che fremere alla vista dei muscoli della sua gola abbronzata che si muovevano, notando distrattamente che alcuni peli schiariti dal sole sfuggivano alla scollatura della sua tunica e si rendevano visibili contro il marrone scuro del laccio di cuoio. Dopo un lungo momento, egli abbassò il capo e quando parlò di nuovo la sua voce era sommessa, tuttavia riuscivo a sentirla vibrare nelle profondità del suo petto e trovare un eco nelle profondità della mia anima.

- Non ti ho mai mentito, Giulia, e non comincerò adesso. Onestamente, no. Il problema non era questione se io lo volessi o no, ma i miei doveri e le mie responsabilità. Mentre tu venivi a Roma, io andai in Ispania e quando tornai a Vindobona, ebbi una sola opportunità di lasciare la Germania. Fu tre anni fa… e fu l’ultima volta che vidi la mia famiglia… Fu l’ultima volta che li vidi vivi. - Massimo esitò per un momento e si leccò le labbra prima di parlare ancora. - Poi arrivò la tua lettera e io capii perché tu eri scomparsa… Ti eri sposata…

La mia lettera.

La lettera che avevo scritto un anno dopo essermi sposata, quando il nome di Massimo era improvvisamente saltato fuori in una conversazione durante un banchetto alla villa stessa. La lettera che avevo affidato ad Emilio Trebuzio Flacco per farla recapitare all’allora Comandante delle Legioni Settentrionali. La lettera la cui risposta avevo aspettato a lungo dopo che la fredda ragione avrebbe dovuto respingere qualsiasi accenno di speranza.

- Mi dispiace di non aver risposto alla tua lettera, Giulia. Erano momenti difficili. Tutto andò storto… La persi… Quando la ritrovai, era già troppo tardi.

La mia lettera.

Ricordavo ogni singola parola di essa. Non avevo bisogno di averne una copia perché avevo imparato a memoria ogni parola e là esse erano rimaste, insieme ad ogni piccola cosa riguardante Massimo. Insieme a pochi baci e carezze e parole sussurrate in un’alcova cortinata e in una vasca da bagno piena d’acqua calda, profumata d’olio e rosei petali di rosa ma, soprattutto, insieme alle sensazioni non dette che avevano bruciato nei nostri silenzi.

Era stata una lettera formale, una missiva appropriata per una donna sposata ad un uomo che non era suo marito, rispettata ogni garbata formula e la calligrafia fluente ed elegante come il latino della classe superiore che io così facilmente padroneggiavo. Gli avevo raccontato del mio arrivo a Roma, della mia istruzione e del matrimonio ad un uomo ricco, e lo ringraziavo educatamente e profusamente per avermi aiutato a divenire una donna libera e aver reso così possibile tutto questo. Volevo mostrargli che potevo essere più che bella. Che potevo essere più di una schiava prostituta. Che ero divenuta istruita e raffinata, una donna degna di essere la moglie di un uomo potente e rispettabile. Ma, mentre scrivevo, il mio cuore e la mia mano avevano bruciato per il bisogno di dirgli che nessuna libertà né ricchezza sarebbero bastati a farmi dimenticare lui. Nemmeno per attenuare il vuoto nel mio cuore. Bruciavo dalla voglia di dirgli quanto lo amassi e lo desiderassi e che senza di lui non mi sarei mai sentita completa, perché lui era l’altra metà del mio cuore e della mia anima. Bruciavo dalla voglia di dire a Massimo che solo stando con lui sarei stata capace di dire addio alla bambina spaventata che ancora viveva dentro di me, e sarei stata capace di dire addio anche alla prostituta triste e sola latente in me, perché solo stando con lui sarei arrivata a guarire e a riscattarmi, e così la donna che egli aveva visto al di là della bambina spaventata e della prostituta triste e sola. Che solo stando con lui, quella donna sarebbe stata in grado di salire in superficie e sbocciare.

Avrei voluto scrivere tutte queste cose, ma non c’ero riuscita. Tuttavia ogni cosa era stata lì, nella lettera, e c’erano voluti soltanto gli occhi di una donna... gli occhi di Olivia... per vedere la verità al di là della fraseologia del linguaggio formale. Anche lui l’aveva vista? Supposi di sì. Il lampo nei suoi occhi verdazzurri mi disse così.

- Mi dispiace, Giulia, - continuò Massimo dopo una pausa. - La lettera arrivò insieme alla mia corrispondenza ufficiale. Avrei dovuto cercare di risalire a te, cercarti. Non ricordavo il tuo nome da sposata, ma il tuo nome da donna libera... Se avessi provato, se avessi provato davvero con insistenza, sarei riuscito a trovarti alla fine, ma...

Allungai la mano attraverso il tavolo e la posai sulla sua. Le mani di Massimo erano grandi e calde e forti. Mani da contadino. Mani da soldato. Mi facevano sempre pensare a terreno nero e sangue rosso e fertilità. Non la fertilità oscena dei Lupercalia ma quella della Terra e della natura... e al bambino che avevamo cullato tra di noi in un sogno dolcemente doloroso.

- Non posso... non ho scuse... Ecco quello che stavo cercando di spiegarti la scorsa notte...

Mi chinai verso di lui e sollevando l’altra mia mano bloccai le sue giustificazioni posandogli l’indice contro le labbra. Erano morbide e calde e leggermente umide.
- Shhh, Massimo. Va tutto bene. Inoltre, ti devo chiedere scusa per... lo sai... la scorsa notte...

Massimo mi offrì un leggero sorriso e avvolse la mia mano in entrambe le sue. Le loro palme incallite mi graffiarono la pelle, ma c’era qualcosa di estremamente rassicurante in esse, il loro calore mi avvolgeva teneramente mentre io seguivo col dito il contorno della sua guancia barbuta, mettendo gentilmente la mano a coppa sul suo mento fermo con la fossetta.

Rimanemmo così per un lungo momento dolcemente melanconico. Rimanemmo in silenzio, perduti ognuno nei propri pensieri, tuttavia parlandoci silenziosamente attraverso le mani e gli occhi, una sensazione stranamente intima ma non molesta. Era serena, in verità, e soddisfacente e io non potei fare a meno di chiedermi se fosse questo ciò che condividono coloro che hanno la benedizione di amare ed essere riamati.

Era talmente rasserenante che, quando qualcuno bussò alla porta, nessuno di noi sussultò o si affrettò a lasciar andare l’altro. Invece, ci voltammo all’unisono verso la porta mentre io ordinavo a chi stava bussando di venire avanti.

Atenodoro e Nicia entrarono e chinarono rispettosamente le teste, poi chiesero il permesso di portar via i piatti, se avevamo finito con il pasto. Mi voltai per chiedere a Massimo se lui aveva finito e lo scoprii a sorridere impacciato: tra chiacchiere e ricordi e confessioni eravamo riusciti a ripulire un pasto impressionante. Ridacchiai come una ragazzina e dissi ad Atenodoro di procedere, mi alzai e feci cenno a Massimo di seguirmi in terrazza. Mentre mi voltavo, i miei capelli sciolti mi ricaddero sulla schiena e mi fluttuarono attorno come un mantello e io udii il mio domestico trattenere il fiato. Andando verso la terrazza, non riuscii a reprimere un sorriso: da quando ero diventata la sua padrona, egli non mi aveva mai vista con i capelli sciolti. Non avevo bisogno di voltarmi per sapere che sua moglie, mia cameriera personale, lo stava energicamente spingendo via col piede per la sua fin troppo evidente indiscrezione.

Era una di quelle belle serate nelle quali le stelle sembrano più vicine, il loro splendore sorprendente contro il velluto scuro del cielo. Una leggera brezza salmastra soffiava dal mare e muoveva gentilmente le foglie degli alberi e delle piante in vaso, sollevando un suono sussurrante e frusciante che si fondeva col brusio della risacca.

Come rispondendo ad una sorta di silenzioso, segreto richiamo, Massimo si staccò da me e con passi felpati andò verso la balaustra di marmo, dove appoggiò i gomiti, guardando intentamente nel buio e ascoltando il movimento costante e inarrestabile delle onde incessanti. Io mi trattenni dall’andare da lui, sapendo di prima mano quanto può essere affascinante ritrovarsi improvvisamente vicino al mare. Era stato un contadino e un soldato, l’acqua non essendo il suo elemento, bensì la terra ed il fuoco.

Invece, mi tolsi i sandali e mi sdraiai su un divano da lettura che tenevo sotto una copertura di tela della terrazza, stirandomi come una gatta.

- Quanto dista il mare? - chiese Massimo voltandosi.

- Non molto, davvero, - dissi incrociando le caviglie. - Di giorno lo si può vedere da qui. E di notte, ti svegli e senti la risacca. E’ confortante.

Massimo camminò verso di me e, dopo una breve esitazione, sedette sul divano mettendosi di fronte a me. Non potei fare a meno di ricordare un altro tempo, sei anni prima, quando egli si era seduto in un altro divano dove io giacevo, drogata per suo ordine e terribilmente sconvolta per aver pugnalato il mio padrone.

- A volte ci sono tempeste terrificanti, ma c’è una certa bellezza in esse. Mi piace abitare vicino al mare. Questo è il mio posto preferito della villa. Non importa quanto stanca o preoccupata io sia, quando vengo qui ci vogliono solo pochi minuti per rilassarmi e sentirmi meglio.

- Succede frequentemente?

- Venire qui o essere stanca e preoccupata?

- Tutt’e due.

Scossi le spalle.

- I miei affari sono davvero vasti e impegnativi. Apollinario è di grande aiuto, ma io devo tuttora impegnarvi molte ore ogni giorno se voglio che tutto funzioni senza intoppi. - Scossi di nuovo le spalle. - Mio marito li gestiva agevolmente e mi insegnò bene, ma io mi sono ingrandita ancor di più e al momento è un’impresa più complessa. Non si tratta soltanto delle navi e dei cantieri navali, ma anche dei carichi e dei magazzini e del soddisfare gli ordini e le scadenze. Inoltre, mi sento responsabile… mio marito dedicò tutta la sua vita al commercio marittimo ed era molto orgoglioso delle sue conquiste. Fu molto generoso da parte sua lasciarlo in eredità a me e a me sola. E’ mia responsabilità farlo continuare a funzionare come voleva fare lui. E anche la villa e la gestione della proprietà hanno bisogno della mia attenzione.

- E’ davvero grande, vero? Voglio dire, la proprietà…

- Enorme è un vocabolo più adeguato. Non comprende solo la casa, i giardini e i quartieri degli schiavi, ma anche le scuderie e i capannoni per le vetture, la bottega del fabbro e quella del falegname, il granaio, le scorte, i frutteti… Io estesi la proprietà comprando una piccola fattoria che ci fornisce alimenti e c’è persino un vivaio di pesci. Ti piacerebbe fare un giro nei dintorni?

- Sei sicura che non trascurerai i tuoi doveri facendomi passeggiare nei dintorni?

- Ho già chiarito che non sarò disponibile per nessuno o per nessun affare mentre tu sarai qui. Domani ti porterò a spasso.

Mentre parlavo, sollevai la mia mano e toccai con le dita i denti minacciosi pendenti dal laccio di cuoio, evitando attentamente di toccare il suo petto, anche se non potei impedire che il suo calore mi raggiungesse.
- Di quale animale sono questi?

Ci fu un’esitazione infinitesimale, poi Massimo disse:
- Di un lupo.

- Avevi un laccio di cuoio attorno al collo quando ci conoscemmo in Mesia, - dissi continuando a toccare i denti leggermente curvi. - E’ questo qui? Tenesti sempre il ciondolo sotto la tunica.

- Sì, è questo… Ho questo ciondolo da molti, molti anni… Era di mio fratello…

Alle sue parole, sollevai il capo e i miei occhi fissarono i suoi. I miei erano spalancati per la sorpresa, i suoi attentamente schivi.

- Hai un fratello?

- Avevo. Morì molti anni fa.

- Mi dispiace. Era più grande di te?

Massimo sospirò e sembrò riflettere sulla saggezza di continuare a parlare dell’argomento. Dopo un breve momento, raggiunse una decisione.
- Più piccolo. Morì quando lui aveva sei anni e io otto. Si chiamava Giulio.

- Giulio? - Malgrado la nota triste nella sua voce io non potei fare a meno di sorridere. Massimo aveva avuto un fratello e il suo nome era stato la versione maschile del mio.

- Giulio Decimo Meridio. Fu lui a prendere il nome di nostro padre, non io, nonostante fossi il primo nato.

Era strano e ragionevole allo stesso tempo. Strano perché sono i figli maggiori, usualmente, a prendere il nome del padre, tuttavia Massimo aveva chiamato Marco il suo unico figlio, in onore dell’imperatore che egli amava. E ragionevole perché Massimo era un uomo inusuale e non era facile immaginare un umile contadino ispanico che non solo dava quel nome a suo figlio, ma che pure lui si chiamava Massimo.

- Che cosa accadde a Giulio?

- Ci fu un incendio… Io non ero a casa… La fattoria fu completamente distrutta… I miei genitori e Giulio morirono…

Io rimasi senza fiato alla rivelazione della sua prematura tragedia, al pensiero del ragazzo che era stato… quanti anni prima? Non sapevo con certezza l’età di Massimo, ma egli non sembrava avere più di dieci anni più di me… Forse aveva trent’anni.

Inghiottii a fatica al pensiero del bambino di otto anni privato della sua casa, dei suoi genitori e del fratello, lasciato a badare a se stesso in un mondo che non è adatto a donne o bambini soli.

- Eri un orfano? - sussurrai.

Massimo annuì.
- Un prozio mi prese con sé e io andai a vivere con lui e la sua famiglia in un’altra parte dell’Ispania… rimasi là per sei anni… La sua fattoria non era prospera come quella della mia famiglia e lui aveva nove bambini da sfamare… Quando ebbi quattordici anni, il mio prozio ed io andammo ad un mercato per vendere qualche prodotto agricolo e sul tragitto superammo l’accampamento di una legione… Io non ero che un contadinello, non avevo mai visto dei soldati… Non avrei mai immaginato niente di simile… Così magnifici… All’improvviso, la mia vita ebbe uno scopo. Capii che appartenevo a quel mondo. Tornai indietro e mi arruolai nell’esercito romano… L’esercito divenne la mia famiglia…

- Ti sentivi solo…

Gli occhi di Massimo guardarono oltre me, al di là della terrazza e della balaustra di marmo. Guardò nella notte come se volesse obbligarla a liberare i suoi segreti. Come se la volesse obbligare a portare a galla le risposte alle domande che dovevano averlo tormentato fin dall’infanzia.

- Non fu solo perché avevo perso i miei genitori e mio fratello, ma la vita a casa del mio prozio era molto diversa… Io non ero loro figlio… Fu gentile da parte loro prendermi con sé. Era lo zio più giovane di mia madre, solo sette o otto anni più grande di mio padre… Erano poveri e io ero soltanto un parente alla lontana. La mia famiglia era piccola. Erano i soli parenti viventi che avevo…

Rimase in silenzio per un lungo momento, verosimilmente perso nei suoi pensieri e ricordi e io non osai invadere la sua intimità, consentendogli di trovare un suo proprio ritmo, guardando le emozioni non celate giocare sul suo bel viso, il suo usuale stretto controllo dimenticato o semplicemente sopraffatto dal dolore a lungo trattenuto.

- Questi denti erano il tesoro di mio fratello. Mio padre glieli diede dopo aver snidato un lupo che aveva ucciso i nostri animali. In una situazione normale avrebbe dato un dente a ciascuno di noi, ma Giulio si era rotto la gamba ed era seccato di essere impossibilitato a giocare, così fummo d’accordo nel dare a lui entrambi i denti per farlo contento… - Massimo sorrise debolmente al lontano ricordo del fratello da lungo tempo perduto. - Quando arrivai alla fattoria, il fuoco si era estinto… e quando le ceneri furono abbastanza fredde, cercai qualcosa in mezzo ad esse, qualsiasi cosa appartenesse alla mia famiglia… Cercai per giorni, ma riuscii a trovare soltanto un dente…

Continuò a contemplare la notte, ma io vidi i suoi occhi brillare ed in fretta egli respinse le lacrime. - Tornai per la prima volta alla fattoria dopo molti, molti anni. Ero già un tribuno e avevo passato parecchio tempo in Germania. Era tempo di tornare. Come figlio maggiore di mio padre, era mio diritto reclamare la fattoria e lo feci. Fu allora che trovai il secondo dente… Era rimasto là, sepolto nelle ceneri per più di dieci anni. Le piogge devono averlo lasciato scoperto…

Lentamente, Massimo si voltò verso di me e mi guardò negli occhi. Aveva riguadagnato il controllo del viso, ma i suoi occhi erano pozze profonde di tristezza verdazzurra.
- Una volta essi erano tutto quello che mi era rimasto della mia famiglia e della mia vita… e adesso lo sono di nuovo.

Io mi sollevai a sedere e gli toccai leggermente la spalla, desiderando intensamente prenderlo tra le mie braccia e offrirgli conforto. Desiderando offrirgli qualunque conforto potevo dare all’orfano di otto anni che era stato. Al bambino addolorato e sofferente che ancora viveva dentro di lui.
- Ma tu fosti adottato da una famiglia di classe senatoriale…

Massimo congedò l’idea con un leggero movimento della mano.

- Una pura formalità. Quando ebbi vent’anni, l’imperatore visitò la mia legione in Germania e… accadde qualcosa che accelerò la mia promozione a centurione. Poco tempo dopo, Marco Aurelio accettò la petizione di un senatore di adottarmi. Si chiamava Marco Licinio Marcello, ma io chiesi di mantenere il mio nome. Ci fu qualche bega legale sulla cosa, ma io rifiutai l’adozione a qualunque altra condizione. Preferivo rimanere per tutta la vita un centurione senior piuttosto che abbandonare il nome della mia famiglia… Sarebbe stato come uccidere di nuovo mia madre, mio padre e mio fratello… Come dicevo, non avevo altri parenti in vita, a parte i miei prozii, e venivamo da gens[1] diverse. Ora che il mio unico figlio è morto, non ci sarà nessuno a portare il mio nome, una volta che mi sarò riunito a lui…

Mi morsi il labbro inferiore per impedirmi non solo di prenderlo tra le mie braccia, ma anche di dirgli che non c’era bisogno che andasse in quel modo. Che se solo avesse voluto, avrebbe potuto avere un’altra opportunità. Un’altra famiglia. Che io ero pronta ad abbandonare tutto e a seguirlo ovunque volesse andare. Che io gli avrei dato altri bambini, maschi e femmine, per portare il suo nome ed illuminare le nostre vite… Io non ero mai rimasta incinta. Non ne avevo mai nemmeno avuto il sospetto, come altre donne che avevo conosciuto, ed ero già oltre l’età in cui si ha il primo figlio. Ma ero sicura, completamente sicura, che potevo dargli almeno un figlio… Il figlio di cui aveva un così grande bisogno e che io desideravo tanto…

- Mi fu concessa la cittadinanza romana allo scopo di poter servire nella legione, invece che essere inviato alle truppe ausiliarie come avrei dovuto, perché io ero un provinciale. Ma non potevo andare oltre il grado di centurione e l’imperatore voleva che potessi salire più in alto. Non rividi più il senatore ed egli morì pochi anni fa. - Massimo fece pausa per un momento, poi si strofinò pensierosamente il mento barbuto. - Come suo figlio adottivo, io provvidi alle sue figlie e alla vedova, restituii loro quello che l’uomo mi aveva lasciato in eredità e troncai ogni mio legame con la famiglia. Non che non fossi grato, perché l’adozione mi permise di diventare il generale Massimo, ma… la sua non era la mia famiglia. Una volta avevo una famiglia mia, e la persi. Poi, ne trovai un’altra… e mi fu presa…

La voce di Massimo si perse nella brezza ed egli chiuse gli occhi.

- L’imperatore ti amava, Massimo, - dissi, cercando di offrirgli un po’ di conforto che non implicasse parlare di argomenti delicati e personali. - Quando parlammo di te, Marco Aurelio non solo disse che tu eri il figlio che avrebbe dovuto avere, ma che avrebbe dovuto adottarti lui stesso…

Non aggiunsi che Marco Aurelio mi aveva anche detto di avergli offerto di sposare la sua figlia prediletta e come egli l’avesse respinta perché la cosa implicava divorziare da Olivia. Nemmeno che non ci era voluto molto ad indovinare che l’Augusta Lucilla lo amava, che lo aveva amato da quando aveva diciott’anni. Massimo non aveva bisogno di sapere che io lo sapevo, e io non volevo che il fantasma della pallida bellezza regale del pulvinare si intromettesse tra di noi. Era già abbastanza che egli fosse pronto a morire per proteggere il figlio di lei.

- Massimo, ricordi i tuoi genitori e tuo fratello?

Egli aprì gli occhi e sembrò considerare le mie parole per un momento.
- Per lo più ricordo dei dettagli… - disse, poi aggrottò la fronte. - La voce e la risata di mio padre… Rideva spesso e la sua voce era bassa e profonda, ma mai in collera… Ricordo il suo odore… odorava sempre di terra… Il suolo di Tergillium
[2] è nero e fertile, diverso da qualunque altro terreno abbia visto in altri luoghi… suolo nero, buono per essere arato e seminato

Massimo si premette le labbra e il suo cipiglio si approfondì, come un bambino che cerchi di ricordare una lezione difficile.

- Ricordo che mia madre cantava… spensierata… e mio fratello… era un bambino felice e chiassoso …

Un debole rumore venne dagli alberi in vaso all’estremità della terrazza, poi un pipistrello sfrecciò attraverso il cielo buio, intimidito dalla luce delle lanterne e delle torce. Nessuno di noi vi prestò attenzione.

- C’era un roseto vicino alla porta di casa. Sbocciava con grappoli rosa profumati… la finestra della mia cameretta era vicina ad esso e in estate giacevo sveglio nel mio pagliericcio e riuscivo a sentire l’odore delle rose… - Massimo mi guardò con sincerità, i suoi occhi riflettevano il bambino spensierato che era stato, l’orfano addolorato, l’adolescente solo e l’adulto forte e orgoglioso. - Le rose e la menta che mia madre coltivava nel suo giardino d’erbe… Non ricordo altro…

Massimo sospirò. Un lungo silenzio profondo e vibrante. Era probabilmente la prima volta da anni che parlava della sua famiglia perduta. Forse perfino la prima volta nella sua vita. Il dolore e la colpa danzavano nei suoi occhi. Dolore per la perdita. Colpa per essere sopravvissuto. Dolore per il vuoto lasciato dai suoi cari. Colpa per non essere stato in grado di riportarli in vita, nemmeno attraverso i suoi ricordi. Tuttavia aveva qualcosa da essi, anche se non più di pochi suoni e odori, ed un paio di denti di lupo.

- Io non ho mai saputo chi fossero i miei genitori… - dissi sorprendendomi a parlare a voce alta. - Crebbi nella villa di Cassio insieme a molte altre bambine e donne… Apollinario, almeno, visse con sua madre per alcuni anni, prima di essere venduto…

Potevo percepire l’attenzione di Massimo spostarsi e concentrarsi su di me. Probabilmente era grato d’avere una scusa per accantonare la sua storia personale.

- Sono una donna ricca, Massimo. Molto ricca. Perfino potente… tuttavia non ho nulla. Non un nome vero. Non un antenato. Non un ricordo. Non un figlio.

Alzandomi leggermente, misi la mia mano sul suo avambraccio e posi a Massimo la domanda che non avevo mai osato porre prima. Nemmeno ad Apollinario.

- Massimo, tu credi che siamo romani, tu ed io? Veri romani?



[1] In latino: famiglia.

[2] Nome latino della città spagnola di Trujillo, nell’odierna provincia dell’Estremadura.