Diario
di Giulia (indice capitoli) |
Julia’s Journal Siti originali
(in inglese) |
Quando Massimo emerse
dalla seconda camera ero riuscita a ricompormi, abbastanza da offrirgli un
aspetto piacevole e calmo, la perfetta padrona di casa che dà il benvenuto al suo onorato
ospite. Egli aveva scelto la tunica color sabbia, che metteva in risalto la sua intensa abbronzatura ed i capelli
e la barba scuri. Era un po’ attillata al petto e l’orlo era un paio di pollici
troppo corto, ma Massimo non era il genere d’uomo che si lasciasse infastidire
da imperfezioni sartoriali e indossava qualunque cosa gli mettevano addosso,
fossero pellicce di lupo o una rozza tunica da schiavo, con un’inconsapevole
eleganza che molti imperatori avrebbero invidiato. Tra il corto orlo e i
sandali, potei ammirare le sue gambe nude e abbronzate: erano assurdamente
belle. La sua vita era avvolta in una cintura di morbida pelle e portava un
laccio di cuoio attorno
al collo, dal quale pendevano un paio di zanne d’animale. Improvvisamente mi
ricordai di aver visto il laccio di cuoio in Mesia, ma ciò che pendeva da esso
era sempre rimasto nascosto sotto la sua tunica militare. In verità, io non
l’avevo visto, ma accidentalmente lo avevo scoperto mentre gli baciavo e
lambivo il collo in una piccola alcova cortinata.
Con i capelli
ancora umidi, pulito di fresco e vagamente profumato di pino, Massimo era
semplicemente splendido.
Io ero seduta su
uno dei divani, e con la mano stavo dando da mangiare a Rubia piccoli pezzi di
gambero, che essa mordicchiava delicatamente. La gatta osservò Massimo con occhi
verdi socchiusi, sembrò approvarlo e continuò a mangiare. Si sa che i gatti
hanno un gusto eccellente.
- Ti senti
meglio?
- Oh, sì!
L’ovvio
entusiasmo nella sua risposta mi fece sorridere, e gli indicai
la sedia vicino al tavolo mentre mi lavavo le dita in una ciotola d’argento.
- Non t’importa,
vero? Voglio dire, i gatti…
- No, perché
dovrei?
- Ad alcuni
uomini non piacciono i gatti…
- A me piacciono.
Sono belli e intelligenti… Come te…
“Come te”, volevo dire. L’apparizione fugace della pelle
nuda, abbronzata e scintillante, che avevo avuto
attraverso la stretta apertura della porta ancora bruciava nella mia mente,
mentre silenziosamente ammiravo la qualità felina della sua bellezza,
l’inconscia grazia dei suoi movimenti. Per una volta, riuscii a non arrossire.
Invece, gli offrii un gran sorriso in cambio del suo complimento, e proseguii:
- Questa è Rubia, - dissi, in un tono che suggeriva che invece di un enorme
gatto dai tre colori stavo presentando una figlia in età da marito. - Fu la mia
prima amica quando ritornai a Roma. Un’ottima amica. La trovai quando era una
micina, nell’accampamento pretoriano…
- Che cosa ci facevi nell’accampamento pretoriano?
- Trascorsi del
tempo lì, al mio arrivo a Roma…
Massimo sollevò
le sopracciglia in modo interrogativo.
- Forse ti
ricordi che fui mandata a Roma insieme alle altre
donne, sotto la custodia della legione che l’imperatore rispedì in Italia…
Egli annuì mentre
con una certa cautela accomodava la sua imponente figura sulla sedia, come se
avesse passato così tanto tempo lontano dalla mobilia
civilizzata da aver paura di poterla rompere. Quando
fu sicuro che essa avrebbe tenuto, Massimo si rilassò visibilmente e io dovetti
fare uno sforzo per nascondere la mia ilarità.
- Il mio
affrancamento fu gestito in modo diverso da quello delle altre donne…
L’ufficiale incaricato mi lasciò al castra praetoria mentre lui si occupava dei miei documenti, poi
venne a riprendermi e mi portò a Roma. Nel frattempo io trovai Rubia sotto un
carro. Si era perduta ed era affamata. Cornelio Crasso voleva portarmi a casa
della sua famiglia…
- Cornelio
Crasso?
- L’ufficiale
incaricato. Un brav’uomo. Egli andò ben oltre il suo dovere e gli ordini
dell’imperatore e mi aiutò…
Era la prima
volta che parlavo apertamente della mia gratitudine
verso il giovane questore, un argomento che menzionavo sempre con riluttanza
anche quando parlavo con Apollinario. Ma in compagnia di Massimo e dopo tutti
quegli anni, sembrava naturale e privo di rischio dare voce a qualcosa che non
potevo negare: Cornelio Crasso era stato un uomo buono e si era preso la briga
di aiutarmi quando e dove sia Massimo che Marco Aurelio erano
usciti dalla mia vita. Mentre parlavo, stavo guardando
direttamente negli occhi di Massimo e vidi qualcosa lampeggiare nelle
profondità di quelle pozze verdazzurre che in un istante potevano trasformarsi
da fiamma bruciante ad abisso di ghiaccio… Qualcosa di sconcertante e burrascoso. Confusa, sbattei
le palpebre al suo sguardo duro. Forse la luce delle lampade ad olio mi stava
ingannando.
- L’imperatore mi affidò a lui. Mi disse che era uno
dei suoi uomini più fidati a Roma. L’ultima volta che lo vidi, indossava una toga senatoriale…
Le sopracciglia
di Massimo si sollevarono ancora di più.
- Tu conoscesti Marco Aurelio?
- Ecco… sì. Mi
fece portare alla sua tenda, la notte del suo arrivo
in Mesia…
- Tu andasti alla
sua tenda?
Negli anni
trascorsi da quella notte… una delle notti più dolorose della mia vita… ero giunta a considerare quell’incontro segreto tra una
giovane prostituta schiava ed un anziano imperatore romano come qualcosa di
assolutamente naturale. La reazione allarmata di Massimo mi ricordò che non lo
era.
- Sì… voleva
ringraziarmi per aver salvato la vita del suo generale prediletto… la tua…
Adesso Massimo
sembrava concretamente sbalordito e senza parole.
- Quando gli parlai capii perché tu volevi così bene a Marco
Aurelio. Era un grand’uomo… Ho portato il lutto per lui…
- Parlasti con
l’imperatore? - insisté Massimo, ancora chiaramente incapace di credere che
Marco Aurelio fosse stato interessato a conoscermi. Scelsi né di sentirmi
offesa né di ricordargli che il mio ruolo nel salvare l’impero non era stato
esattamente di secondo piano.
- Sì, parlammo.
Per lo più di te… Ti amava, Massimo… Mi disse che tu
eri il figlio che avrebbe dovuto avere… - dissi dolcemente.
Massimo rimase in
silenzio, ma io potei vedere le sue labbra tremare leggermente e come le
premesse strettamente per impedir loro di farlo. Gli concessi un momento per
riprendersi, poi indicai il cibo. Avendo congedato i servitori, dovevamo
servirci da soli.
- Vino? - chiesi, alzando un sopracciglio. Egli sorrise imbarazzato.
- Soltanto un
po’. Non lo annacqui?
Risi.
- No, preferisco berne poco, ma senz’acqua. Inoltre, annacquare il Cecubo è un
crimine. Ma se desideri annacquare il tuo…
Non aggiunsi che,
anche se preferivo non mettere alla prova quella capacità, probabilmente io
riuscivo a reggere l’alcool meglio di lui. Qualsiasi donna della mia ex
professione imparava in fretta a gestire sia il proprio disappunto che il vino. Se non lo faceva, si
poteva aspettare soltanto una morte più miserabile della sua già miserabile
vita.
Esitante, le
sopracciglia corrugate, Massimo bevve un sorso. Poi sorrise.
- Questo non ha niente a che fare con il vino che si beve nell’esercito…
- No, è il genere
di vino che bevono aristocratici e senatori. Pagano molto per esso… e le mie
navi lo trasportano fino ai quattro angoli dell’impero…
Presi qualche gambero ed un po’ di
verdura e cominciai a mangiare. Massimo sembrò esitare per un momento, poi si
riempì il piatto accuratamente. Io ero molto affamata e anche lui doveva
esserlo. Tuttavia sembrava diffidente, chiaramente non uso
al lusso di una tavola come la mia. Prese un carciofo sottaceto e lo morsicò con attenzione, poi il suo viso
s’illuminò. Mi chiesi quando era stata l’ultima volta che aveva mangiato un tal
genere di cibo prelibato, come quello che faceva mostra davanti a lui. Era passato molto
tempo, di sicuro. Forse non lo aveva fatto nemmeno nei sei anni trascorsi da
quando ero stata seduta su uno sgabello accanto a lui, disteso su un divano
mentre gli imboccavo piccoli assaggi, con lui che giocava con i miei capelli e
mi accarezzava le braccia…
Dopo il primo
morso, cominciò a mangiare di gusto. Per essere un soldato e contadino, a
tavola aveva delle maniere piuttosto buone.
Mangiammo in amichevole silenzio per un
po’, poi Massimo parlò.
- E’ quello che facesti, vero?
- Scusa?
- Salvarmi la
vita. E’ ciò che facesti in Mesia. E io non ti ho mai
ringraziato…
- Va tutto bene,
Massimo…
- No, non va
bene. Tu mi salvasti la vita e io non ti ringraziai… e tu hai
cercato di salvarmi di nuovo e io non ti ho ringraziata nemmeno questa volta …
- Non hai bisogno
di ringraziarmi. Tu salvasti me quando mi donasti la libertà. Siamo pari…
- Devi aver
pensato che fossi un ingrato molto prima che divenissi
uno schiavo…
Fu il mio turno
di rimanere in silenzio. Gli occhi di Massimo si addolcirono.
- Grazie, Giulia.
Annuii, sollevai
la coppa alle labbra e bevvi un piccolo sorso per evitare di dover parlare.
Il silenzio cadde
di nuovo su di noi e fu Massimo a romperlo.
- Per quanto tempo sei stata sposata?
- Tre anni. Mio
marito morì due anni fa.
- Ed era un costruttore navale…
- Sì, un
costruttore navale molto esperto, e un abile uomo d’affari. Abitava nella stessa palazzina di appartamenti dove vivevo io, al Quirinale…
Massimo appariva
confuso.
- Il Quirinale? - chiese.
- Il quartiere
sul Colle Quirinale, vicino alla Via Nomentana…
- Giulia, io non
sono mai stato a Roma prima… e i soli luoghi di Roma che conosco sono i
quartieri dei gladiatori e il Colosseo…
Adesso ero io ad
essere stupefatta.
- Non sei mai stato a Roma?
Egli mi offrì un
sorriso schivo e scosse la testa.
- No, sono nato in Ispania e ho trascorso tutta la vita nelle province in stato
di guerra, per lo più in Germania. La prima volta che vidi Roma fu quando il
carro di schiavi su cui mi trovavo superò le mura
della città…
Mi mancò l’aria
come se fossi stata colpita. Invano annaspai in cerca di parole, poi presi il tovagliolo
e nervosamente lo contorsi fingendo di pulirmi le dita.
Non era mai stato
a Roma.
Mai.
Come poteva essere? Come poteva il generale prediletto del defunto imperatore
non essere mai venuto all’Urbe, nemmeno in missione? Come
poteva un uomo che aveva dedicato la sua vita a combattere e proteggere Roma e
tutto quello che essa significava non aver mai messo piede nella capitale? Ma, soprattutto, quale dio geloso lo aveva tenuto lontano da
Roma e ve lo aveva portato solo quando era uno schiavo, degradato a combattere
per il divertimento della folla? Quale divinità crudele e vanesia gli aveva
impedito di percorrere a cavallo la Via Trionfale vestito di seta scarlatta e
con una corazza dorata, incoronato con un serto e ricoperto di fiori lanciati
da una folla adorante?
- Mi…mi dispiace…
sa… sapevo che eri nato in Ispania e che non provenivi da una famiglia romana
m… ma…
- Va tutto bene,
Giulia. Mi stavi dicendo di tuo marito…?
Trassi un
profondo respiro.
- Si chiamava Mario Servilio Tibullo ed era di più di
trent’anni più vecchio di me… Un uomo retto… Intelligente, onesto, un
gran lavoratore… Era malato… una debolezza del midollo spinale. Era vedovo da
molti anni e il suo unico figlio era morto alla nascita, insieme a sua moglie. Quando venne a sapere
che anche lui stava per morire, decise di prendere una moglie che lo aiutasse
nei suoi ultimi giorni. Io lo rifiutai, gli dissi che
non volevo sposarmi. Non servì a nulla, così gli rivelai che ero stata una
prostituta schiava, ma egli insisté ed alla fine raggiungemmo un accordo… Era
molto buono con me, anche se non mi amava…
- Come poteva non amarti? - sbottò Massimo. - Qualsiasi uomo
sano di mente… - Si bloccò, chiaramente imbarazzato. Io finsi di non averlo
udito, ma l’euforia che provai alle sue parole fu così intensa che pensai
di stare per soffocare. In qualche modo, riuscii a continuare a parlare con
noncuranza.
- Era molto buono con me e io giunsi ad apprezzarlo e rispettarlo anche se
anch’io non potevo amarlo.
- Eri felice?
Voglio dire…
- So che cosa vuoi dire… - Alzai le spalle. - Massimo, siamo di origini molto diverse. Tu eri nato libero e io ero nata
schiava. Tu sei un uomo e io sono una donna. Le nostre vite sono state molto
diverse… Dubito che pensiamo alla felicità negli
stessi termini…
Il silenzio cadde
di nuovo su di noi, ma questa volta aveva una connotazione melanconica. Eravamo
talmente vicini eppure sapevamo così poco l’uno dell’altra. Continuammo a
mangiare per un po’ prima che Massimo rompesse il silenzio per la terza volta.
- Sei diventata non solo una donna d’affari, ma anche una filosofa!
Non potei
trattenere una risata ed egli sorrise, il suo sorriso dolce e fanciullesco.
Come sempre, esso gli illuminò il bel viso e sembrò cancellare le rughe che
anni di pesanti responsabilità e preoccupazioni avevano impresso su di esso, riuscendo allo stesso tempo a fare sussultare il mio
cuore.
- Ebbene, devi ringraziare Apollinario per questo!
Massimo ridivenne
serio.
- Come s’inserisce il tuo amico nella storia?
- Conobbi
Apollinario tramite Cornelio Crasso, il questore militare che mi accompagnò a
Roma. Condividevamo un interesse nella poesia…
Massimo aggrottò
la fronte e sembrò ponderare quello che avevo detto. Era un uomo d’azione, non
di parole. Fu solo allora che mi attraversò la mente l’idea che forse egli non
aveva mai letto un libro in vita sua. L’alfabetizzazione era obbligatoria
nell’esercito romano, che non solo addestrava i suoi uomini nell’uso della
spada, ma insegnava loro anche ad usare la testa. Ma le tattiche militari non erano poesia e la corrispondenza ufficiale non aveva nulla a
che fare con la filosofia. Ci sono uomini militari che sono anche letterati, ma
sono nati in case patrizie sul Colle Palatino, non in un’umile fattoria in
Ispania.
- In quei giorni
sapevo a malapena leggere o scrivere, ma volevo imparare con tutte le mie
forze… Cornelio Crasso mi portò a casa di sua sorella, mi aiutò a stabilirmi a
Roma e poi mi mandò Apollinario come regalo d’addio…
Massimo aggrottò
la fronte ancora di più.
- Regalo d’addio?
- L’imperatore lo
mandò in missione in Britannia…
La tempestosa
luce inquietante era di nuovo lì, un fuoco freddo nelle profondità dei suoi splendidi
occhi. No, non era la luce che giocava scherzi, ma qualcosa di diverso.
Interiormente ordinai
a me stessa di non osare nemmeno sperare. Naturalmente, fu inutile. Il mio
cuore mi martellò selvaggiamente nel petto mentre continuavo a parlare.
- Apollinario era stato il precettore suo e di suo
fratello. Cominciò ad insegnare a me e diventammo buoni amici. Lui… anche lui
era stato uno schiavo… abbiamo molto in comune… - Spiegai, indicando con il mio
tono che non ero incline a rivelare la vita privata
del mio amico. Massimo ascoltava in silenzio. - Quando mi sposai, scelse di
venire con me e mi aiutò ad imparare come gestire la
proprietà e la servitù, poi diventò il mio segretario… e quando restai vedova
ed ereditai gli affari, divenne il mio braccio destro…
Nigra entrò dalla
terrazza e andò da Massimo, sembrando felice di rivedere il suo compagno di
dormite. Strofinò il suo lucido mantello nero contro la caviglia di lui e intonò
un dolce "Mrrrrrrt!". Massimo arcuò le sopracciglia e mi guardò per
avere la traduzione.
- Vuole del cibo,
- spiegai e il viso di lui si rilassò visibilmente. Egli guardò la varietà di
portate di fronte a sé ed esitò tra la pernice arrosto
e il pesce alla griglia. Io sospinsi un piattino di formaggio affumicato verso
di lui. - Ecco. Se vuoi diventare il suo nuovo
migliore amico, prova a darle questo. - Massimo accettò il piatto e strappò un
pezzetto di formaggio, poi lo offrì alla grassottella gattina nera.
Per dare da
mangiare a Nigra ci volle del tempo, ma quando la cosa finì e Massimo si
allungò verso la ciotola per pulirsi le dita prima di ritornare al suo stesso
pasto, stava sorridendo. A metà dall’asciugarsi le mani, improvvisamente alzò
la testa e chiese:
- Che cosa accadde alle altre donne? A Eugenia?
I miei occhi si
spalancarono per la sorpresa.
- Tu ti ricordi di Eugenia?
- Certo che sì.
Lei e le altre furono molto coraggiose quando ci aiutarono.
Io arrossii
leggermente al suo uso di “ci”.
- Ecco, devo confessare che non so cosa accadde loro. Vedi, Massimo, sulla via
del ritorno io fui trattata in modo diverso da loro perché l’imperatore mi
aveva affidata personalmente a Cornelio Crasso…
Eccola lì. La
fiammata di collera immediatamente dopo aver menzionato il nome del questore.
Massimo sospettava che fosse accaduto qualcosa tra Cornelio Crasso e me? Che il giovane ufficiale patrizio avesse osato farmi
proposte? Che io lo avessi assecondato o addirittura
incoraggiato? Qualsiasi cosa pensasse, non gli piaceva. Qualsiasi cosa
pensasse, non la voleva. Non aveva voluto né che un altro uomo mi toccasse, né
l’idea che a me piacesse che un altro uomo lo facesse. Qualsiasi cosa pensasse
e incurante del tempo trascorso e di che cosa avrebbe potuto accadere ma non
era accaduto tra di noi, egli mi considerava sua.
Sorseggiai un po’ di vino per mascherare la mia irrefrenabile euforia.
- L’imperatore
firmò personalmente il mio affrancamento e mi fece diventare una liberta
imperiale. Anche la mia ricompensa fu diversa. Diede ordine al suo banchiere di aiutarmi a stabilirmi a
Roma e Cornelio Crasso fu incaricato di supervisionare le procedure e di fare
rapporto a lui. Inoltre… - Mi morsicai il labbro, esitando sulle parole
successive. - Inoltre, io volevo rifarmi una vita. Una nuova vita, davvero…
perciò decisi che per farlo avevo bisogno di allontanarmi da loro. Onestamente,
non volevo finire con l’aprire un bordello e tornare alla mia vecchia vita… il che, sospetto, è quello che almeno qualcuna di loro deve
aver fatto… - Guardai Massimo con sincerità. - Non ci sono molte cose che una
donna possa fare da sola a Roma e temo che alcune di
loro possano aver finito col fare come le cortigiane pagate. Gli dei sanno che
io non le biasimo, ma non era ciò che volevo per me… - Abbassai gli occhi alle
mani, ordinatamente ripiegate nel mio grembo. Era stranamente difficile parlare
di questo, dopo aver attentamente evitato per anni anche solo di pensare ad
Eugenia, Onora e le altre. Mi ero rifiutata di comprarmi documenti falsi per
cancellare il mio sordido passato, ma mi ero anche rifiutata di rimanere vicina
alle persone che me lo ricordavano. Ero sparita di mia libera volontà, tuttavia mi
sentivo in qualche modo colpevole per quello che poteva esser accaduto alle mie
compagne schiave prostitute. Io ero stata colei alla quale esse si rivolgevano
in cerca di consiglio, aiuto e conforto. In cerca di una guida. E io le avevo
abbandonate quando ne avevano avuto maggiormente
bisogno. - Fu duro lasciarle, ma dovevo farlo, -
dissi, sperando di essere giunta a patti con la mia decisione e sapendo che non
vi sarei più tornata sopra. Almeno non completamente. - Perfino Eugenia, che
era la persona più vicina ad un’amica che avessi mai
avuto. Ma dovevo farlo e lo feci. Credo che Eugenia
sapesse, ma non mi fece domande, anche se la ferì vedermi abbandonarla… Così,
semplicemente sparii…
- Di sicuro lo
facesti.
- Scusa?
- Tu sparisti,
Giulia. Sparisti così completamente che non riuscii a
trovarti.
Il mio rantolo
dovette essere esplosivo, perché sia Nigra che Rubia
sollevarono la testolina e mi guardarono con occhi obliqui da differenti angoli della stanza.
- Tu mi cercasti? - chiesi, sicura di aver udito male
e che mi stavo rendendo ridicola.
- Lo feci.
- M…ma ha…hai
appena de…detto c…che n…non sei mai sta…stato a Roma…
Massimo sollevò
una mano per fermare il mio balbettio. Poi, mise giù il calice sul tavolo, posò i gomiti sulle cosce e mi guardò intensamente, parlando
con voce bassa e grave.
- Non sono mai stato a Roma prima. Non venni a cercarti personalmente. Ma pochi
mesi dopo che tu fosti rimandata qui, quando io ritornai nell’accampamento
della mia legione a Vindobona dopo un periodo di licenza, decisi di verificare
come te la stessi cavando… non potevo venire
personalmente e non sapevo dove cercarti, così chiesi consiglio al pretore
della mia legione. Egli mi indirizzò ad un agente in
Roma, un uomo competente che aveva eseguito molte commissioni per lui e per altri ufficiali. Lo
assunsi per fare ricerche su di te ed informarmi su come te la cavavi… -
Massimo si chinò verso di me, il lampo nei suoi occhi verdazzurri addolcito ad
una fiamma bassa e dosata. - L’uomo ti cercò per mesi, ma non riuscì a
trovarti. Solo il tuo nome da liberta nei registri del censore. Niente di più.
A proposito, il tuo nome da liberta è bello… e adatto.
Mi sentivo come
se fossi stata colpita da un colpo fulminante. Mi aveva cercata… quando era
tornato dall’Ispania e da sua moglie, aveva assunto un agente per cercarmi a
Roma… e io lo avevo accusato che non si era curato di me, che mi aveva allontanata dalla sua vita senza pensarci due volte.
Inghiottendo dolorosamente, abbassai lo sguardo al mio grembo e di riflesso il
mio pollice sinistro cercò l’anello di nozze, per girarlo attorno al dito medio
come sempre facevo quando ero preoccupata o
angustiata… ma il polpastrello del pollice trovò solo la leggera incisione
lasciatavi dalla fascetta d’oro. Quando parlai, fu con un sussurrio così basso
che potevo a malapena sentirmi io stessa.
- Perché mi cercasti?
La risposta ci
mise così tanto ad arrivare che pensai che egli non mi avesse udita. Quando fui sul punto di
ripetere la mia domanda, Massimo parlò di nuovo.
- Ero preoccupato. Eri da sola nel mondo e il mondo
non è un luogo per una donna sola. Volevo sapere se stavi bene, se avevi
bisogno di aiuto…
- Aiuto?
Massimo sospirò
leggermente.
- Ero preoccupato che tu potessi essere stata obbligata a tornare… alla tua
vita precedente. Sapevo che non lo avresti fatto di tua libera volontà, ma le
circostanze potevano averti costretta a… Speravo che non fosse il tuo caso.
- E se lo fosse stato?
- Ero pronto ad
aiutarti.
Il silenzio che
seguì fu così assoluto che anche i gatti alzarono la testa, turbati
dall’assenza di suoni.
Massimo mi aveva cercata. Era stato preoccupato per me. Era stato preoccupato
che fossi stata costretta a prostituirmi per sopravvivere… o forse
semplicemente per solitudine. Era stato pronto ad aiutarmi se fosse stato così…
ma che cosa significava “aiuto” in questo caso? Come
se mi avesse letto nella mente, Massimo rispose alla mia domanda inespressa.
- All’agente fu commissionato
di provvedere a te con qualsiasi cosa avessi bisogno,
se era il caso. Ero pronto ad aiutarti finanziariamente e di offrire il mio… supporto
morale.
Alzai gli occhi e
guardai nei suoi, col bisogno non solo di udire la sua risposta, ma anche di
vederla. Col bisogno di vedere oltre quelle splendide pozze verdazzurre e
dentro il suo cuore e la sua anima.
- Saresti venuto
da me se mi avesse trovata?
Massimo rivolse
lo sguardo al soffitto nello stesso modo in cui lo aveva fatto la notte prima,
quando era stato incatenato ad una colonna di marmo, non tanto lontana da dove
eravamo seduti. Chiuse gli occhi e inghiottì a fatica e io non potei che fremere
alla vista dei muscoli della sua gola abbronzata che si muovevano, notando
distrattamente che alcuni peli schiariti dal sole sfuggivano alla
scollatura della sua tunica e si rendevano visibili contro il marrone
scuro del laccio di cuoio. Dopo un lungo momento, egli abbassò il capo e quando
parlò di nuovo la sua voce era sommessa, tuttavia riuscivo
a sentirla vibrare nelle profondità del suo petto e trovare un eco nelle
profondità della mia anima.
- Non ti ho mai
mentito, Giulia, e non comincerò adesso. Onestamente, no. Il problema non era questione
se io lo volessi o no, ma i miei doveri e le mie
responsabilità. Mentre tu venivi a Roma, io andai in
Ispania e quando tornai a Vindobona, ebbi una sola opportunità di lasciare la
Germania. Fu tre anni fa… e fu l’ultima volta che vidi la mia famiglia… Fu
l’ultima volta che li vidi vivi. - Massimo esitò per un momento e si leccò le
labbra prima di parlare ancora. - Poi arrivò la tua lettera e io capii perché tu eri scomparsa… Ti eri sposata…
La mia lettera.
La lettera che avevo scritto un anno dopo essermi sposata, quando il nome di Massimo era improvvisamente saltato fuori in una conversazione durante un banchetto alla villa stessa. La lettera che avevo affidato ad Emilio Trebuzio Flacco per farla recapitare all’allora Comandante delle Legioni Settentrionali. La lettera la cui risposta avevo aspettato a lungo dopo che la fredda ragione avrebbe dovuto respingere qualsiasi accenno di speranza.
- Mi dispiace di
non aver risposto alla tua lettera, Giulia. Erano momenti difficili. Tutto andò
storto… La persi… Quando la ritrovai, era già troppo
tardi.
La mia lettera.
Ricordavo ogni
singola parola di essa. Non avevo bisogno di averne
una copia perché avevo imparato a memoria ogni parola e là esse erano rimaste,
insieme ad ogni piccola cosa riguardante Massimo.
Insieme a pochi baci e carezze e parole sussurrate in un’alcova cortinata e in
una vasca da bagno piena d’acqua calda, profumata d’olio e rosei petali di rosa
ma, soprattutto, insieme alle sensazioni non dette che avevano bruciato nei nostri
silenzi.
Era stata una
lettera formale, una missiva appropriata per una donna sposata ad un uomo che
non era suo marito, rispettata ogni garbata formula e la calligrafia fluente
ed elegante come il latino della classe superiore che io così facilmente
padroneggiavo. Gli avevo raccontato del mio arrivo a Roma, della mia istruzione e del matrimonio ad un uomo ricco, e lo
ringraziavo educatamente e profusamente per avermi aiutato a divenire una donna
libera e aver reso così possibile tutto questo. Volevo mostrargli che potevo
essere più che bella. Che potevo essere più di una
schiava prostituta. Che ero divenuta istruita e
raffinata, una donna degna di essere la moglie di un uomo potente e
rispettabile. Ma, mentre scrivevo, il mio cuore e la mia mano avevano bruciato per
il bisogno di dirgli che nessuna libertà né ricchezza sarebbero
bastati a farmi dimenticare lui. Nemmeno per attenuare il vuoto nel mio cuore.
Bruciavo dalla voglia di dirgli quanto lo amassi e lo desiderassi e che senza
di lui non mi sarei mai sentita completa, perché lui era l’altra metà del mio
cuore e della mia anima. Bruciavo dalla voglia di dire
a Massimo che solo stando con lui sarei stata capace di dire addio alla bambina
spaventata che ancora viveva dentro di me, e sarei stata capace di dire addio anche
alla prostituta triste e sola latente in me, perché solo stando con lui sarei
arrivata a guarire e a riscattarmi, e così la donna che egli aveva visto al di là della bambina spaventata e della prostituta triste
e sola. Che solo stando con lui, quella donna sarebbe
stata in grado di salire in superficie e sbocciare.
Avrei voluto
scrivere tutte queste cose, ma non c’ero riuscita. Tuttavia ogni cosa era stata
lì, nella lettera, e c’erano voluti soltanto gli occhi di una donna... gli
occhi di Olivia... per vedere la verità al di là della
fraseologia del linguaggio formale. Anche lui l’aveva
vista? Supposi di sì. Il lampo nei suoi occhi verdazzurri mi disse così.
- Mi dispiace,
Giulia, - continuò Massimo dopo una pausa. - La lettera arrivò insieme alla mia
corrispondenza ufficiale. Avrei dovuto cercare di risalire a te, cercarti. Non
ricordavo il tuo nome da sposata, ma il tuo nome da donna libera... Se avessi provato, se avessi provato davvero con insistenza,
sarei riuscito a trovarti alla fine, ma...
Allungai la mano
attraverso il tavolo e la posai sulla sua. Le mani di Massimo erano grandi e
calde e forti. Mani da contadino. Mani da soldato. Mi facevano sempre pensare a
terreno nero e sangue rosso e fertilità. Non la fertilità oscena dei Lupercalia
ma quella della Terra e della natura... e al bambino che avevamo cullato tra di noi in un sogno dolcemente doloroso.
- Non posso... non ho scuse... Ecco quello che stavo cercando
di spiegarti la scorsa notte...
Mi chinai verso
di lui e sollevando l’altra mia mano bloccai le sue giustificazioni posandogli l’indice
contro le labbra. Erano morbide e calde e leggermente umide.
- Shhh, Massimo. Va tutto bene. Inoltre, ti devo chiedere scusa per... lo
sai... la scorsa notte...
Massimo mi offrì
un leggero sorriso e avvolse la mia mano in entrambe le sue. Le loro palme
incallite mi graffiarono la pelle, ma c’era qualcosa di estremamente
rassicurante in esse, il loro calore mi avvolgeva teneramente
mentre io seguivo col dito il contorno della sua guancia barbuta, mettendo gentilmente
la mano a coppa sul suo mento fermo con la fossetta.
Rimanemmo così per
un lungo momento dolcemente melanconico. Rimanemmo in silenzio, perduti ognuno
nei propri pensieri, tuttavia parlandoci silenziosamente attraverso le mani e
gli occhi, una sensazione stranamente intima ma non molesta. Era serena,
in verità, e soddisfacente e io non potei fare a meno
di chiedermi se fosse questo ciò che condividono coloro che hanno la
benedizione di amare ed essere riamati.
Era talmente
rasserenante che, quando qualcuno bussò alla porta, nessuno di noi sussultò o
si affrettò a lasciar andare l’altro. Invece, ci voltammo all’unisono verso la
porta mentre io ordinavo a chi stava bussando di venire avanti.
Atenodoro e Nicia
entrarono e chinarono rispettosamente le teste, poi
chiesero il permesso di portar via i piatti, se avevamo finito con il pasto. Mi
voltai per chiedere a Massimo se lui aveva finito e lo scoprii a sorridere
impacciato: tra chiacchiere e ricordi e confessioni eravamo
riusciti a ripulire un pasto impressionante. Ridacchiai come una ragazzina e
dissi ad Atenodoro di procedere, mi alzai e feci cenno a Massimo di seguirmi in
terrazza. Mentre mi voltavo, i miei capelli sciolti mi ricaddero sulla schiena
e mi fluttuarono attorno come un mantello e io udii il
mio domestico trattenere
il fiato. Andando verso la terrazza, non riuscii a reprimere un sorriso: da
quando ero diventata la sua padrona, egli non mi aveva mai vista
con i capelli sciolti. Non avevo bisogno di voltarmi per sapere che sua moglie,
mia cameriera personale, lo stava energicamente spingendo via col piede per la
sua fin troppo evidente indiscrezione.
Era una di quelle
belle serate nelle quali le stelle sembrano più vicine, il loro splendore sorprendente
contro il velluto scuro del cielo. Una leggera brezza salmastra soffiava dal
mare e muoveva gentilmente le foglie degli alberi e delle piante in vaso,
sollevando un suono sussurrante e frusciante che si fondeva col brusio della
risacca.
Come rispondendo ad
una sorta di silenzioso, segreto richiamo, Massimo si staccò da me e con passi
felpati andò verso la balaustra di marmo, dove appoggiò i gomiti, guardando
intentamente nel buio e ascoltando il movimento costante e inarrestabile delle
onde incessanti. Io mi trattenni dall’andare da lui, sapendo di prima mano
quanto può essere affascinante ritrovarsi improvvisamente vicino al mare. Era
stato un contadino e un soldato, l’acqua non essendo il suo elemento, bensì la
terra ed il fuoco.
Invece, mi tolsi
i sandali e mi sdraiai su un divano da lettura che tenevo
sotto una copertura di tela della terrazza, stirandomi come una gatta.
- Quanto dista il
mare? - chiese Massimo voltandosi.
- Non molto,
davvero, - dissi incrociando le caviglie. - Di giorno lo si
può vedere da qui. E di notte, ti svegli e senti la
risacca. E’ confortante.
Massimo camminò
verso di me e, dopo una breve esitazione, sedette sul divano mettendosi di
fronte a me. Non potei fare a meno di ricordare un altro tempo, sei anni prima, quando egli si era seduto in un altro divano dove
io giacevo, drogata per suo ordine e terribilmente sconvolta per aver pugnalato
il mio padrone.
- A volte ci sono
tempeste terrificanti, ma c’è una certa bellezza in esse.
Mi piace abitare vicino al mare. Questo è il mio posto preferito della villa.
Non importa quanto stanca o preoccupata io sia, quando vengo qui ci vogliono
solo pochi minuti per rilassarmi e sentirmi meglio.
- Succede
frequentemente?
- Venire qui o
essere stanca e preoccupata?
- Tutt’e due.
Scossi le spalle.
- I miei affari
sono davvero vasti e impegnativi. Apollinario è di grande aiuto, ma io devo
tuttora impegnarvi molte ore ogni giorno se voglio che tutto funzioni senza
intoppi. - Scossi di nuovo le spalle. - Mio marito li gestiva agevolmente e mi insegnò
bene, ma io mi sono
ingrandita ancor di più e al momento è un’impresa più complessa. Non si tratta
soltanto delle navi e dei cantieri navali, ma anche dei carichi e dei magazzini
e del soddisfare gli ordini e le scadenze. Inoltre, mi
sento responsabile… mio marito dedicò tutta la sua vita al commercio marittimo
ed era molto orgoglioso delle sue conquiste. Fu molto generoso da parte sua lasciarlo in
eredità a me e a me sola. E’ mia responsabilità farlo continuare a funzionare
come voleva fare lui. E anche la villa e la gestione
della proprietà hanno bisogno della mia attenzione.
- E’ davvero
grande, vero? Voglio dire, la proprietà…
- Enorme è un
vocabolo più adeguato. Non comprende solo la casa, i giardini e i quartieri
degli schiavi, ma anche le scuderie e i capannoni per le vetture, la bottega
del fabbro e quella del falegname, il granaio, le scorte, i frutteti… Io estesi
la proprietà comprando una piccola fattoria che ci fornisce alimenti e c’è
persino un vivaio di pesci. Ti piacerebbe fare un giro nei dintorni?
- Sei sicura che
non trascurerai i tuoi doveri facendomi passeggiare nei dintorni?
- Ho già chiarito
che non sarò disponibile per nessuno o per nessun affare mentre tu sarai qui.
Domani ti porterò a spasso.
Mentre parlavo,
sollevai la mia mano e toccai con le dita i denti minacciosi pendenti dal
laccio di cuoio, evitando attentamente di toccare il suo petto, anche se non
potei impedire che il suo calore mi raggiungesse.
- Di quale animale sono questi?
Ci fu
un’esitazione infinitesimale, poi Massimo disse:
- Di un lupo.
- Avevi un laccio
di cuoio attorno al collo quando ci conoscemmo in Mesia, - dissi continuando a
toccare i denti leggermente curvi. - E’ questo qui? Tenesti sempre il ciondolo
sotto la tunica.
- Sì, è questo…
Ho questo ciondolo da molti, molti anni… Era di mio
fratello…
Alle sue parole,
sollevai il capo e i miei occhi fissarono i suoi. I miei erano spalancati per
la sorpresa, i suoi attentamente schivi.
- Hai un
fratello?
- Avevo. Morì molti anni fa.
- Mi dispiace.
Era più grande di te?
Massimo sospirò e
sembrò riflettere sulla saggezza di continuare a parlare dell’argomento. Dopo
un breve momento, raggiunse una decisione.
- Più piccolo. Morì quando lui aveva sei anni e io otto. Si chiamava Giulio.
- Giulio? - Malgrado la nota triste nella sua voce io non potei fare a
meno di sorridere. Massimo aveva avuto un fratello e il suo nome era stato la
versione maschile del mio.
- Giulio Decimo
Meridio. Fu lui a prendere il nome di nostro padre, non io, nonostante fossi il
primo nato.
Era strano e
ragionevole allo stesso tempo. Strano perché sono i figli maggiori, usualmente,
a prendere il nome del padre, tuttavia Massimo aveva chiamato Marco il suo
unico figlio, in onore dell’imperatore che egli amava. E ragionevole perché
Massimo era un uomo inusuale e non era facile
immaginare un umile contadino ispanico che non solo dava quel nome a suo figlio,
ma che pure lui si chiamava Massimo.
- Che cosa accadde a Giulio?
- Ci fu un
incendio… Io non ero a casa… La fattoria fu completamente distrutta… I miei
genitori e Giulio morirono…
Io rimasi senza
fiato alla rivelazione della sua prematura tragedia, al pensiero del ragazzo
che era stato… quanti anni prima? Non sapevo con
certezza l’età di Massimo, ma egli non sembrava avere più di dieci anni più di
me… Forse aveva trent’anni.
Inghiottii a
fatica al pensiero del bambino di otto anni privato
della sua casa, dei suoi genitori e del fratello, lasciato a badare a se stesso
in un mondo che non
è adatto a donne o bambini soli.
- Eri un orfano?
- sussurrai.
Massimo annuì.
- Un prozio mi prese con sé e io andai a vivere con lui e la sua famiglia in
un’altra parte dell’Ispania… rimasi là per sei anni… La sua fattoria non era
prospera come quella della mia famiglia e lui aveva nove bambini da sfamare…
Quando ebbi quattordici anni, il mio prozio ed io andammo ad un mercato per
vendere qualche prodotto agricolo e sul tragitto superammo l’accampamento di
una legione… Io non ero che un contadinello, non avevo mai visto dei soldati… Non avrei mai immaginato niente di simile… Così magnifici…
All’improvviso, la mia vita ebbe uno scopo. Capii che appartenevo a quel mondo.
Tornai indietro e mi arruolai nell’esercito romano… L’esercito
divenne la mia famiglia…
- Ti sentivi
solo…
Gli occhi di
Massimo guardarono oltre me, al di là della terrazza e
della balaustra di marmo. Guardò nella notte come se volesse obbligarla a liberare
i suoi segreti. Come se la volesse obbligare a portare
a galla le risposte alle
domande che dovevano averlo tormentato fin dall’infanzia.
- Non fu solo
perché avevo perso i miei genitori e mio fratello, ma
la vita a casa del mio prozio era molto diversa… Io non ero loro figlio… Fu
gentile da parte loro prendermi con sé. Era lo zio più giovane di mia madre, solo sette o otto anni più grande di mio
padre… Erano poveri e io ero soltanto un parente alla lontana. La mia famiglia
era piccola. Erano i soli parenti viventi che avevo…
Rimase in
silenzio per un lungo momento, verosimilmente perso nei suoi pensieri e ricordi
e io non osai invadere la sua intimità, consentendogli di trovare un suo proprio ritmo, guardando le emozioni non celate giocare sul
suo bel viso, il suo usuale stretto controllo dimenticato o semplicemente
sopraffatto dal dolore a lungo trattenuto.
- Questi denti
erano il tesoro di mio fratello. Mio padre glieli diede dopo aver snidato un
lupo che aveva ucciso i nostri animali. In una situazione normale avrebbe dato
un dente a ciascuno di noi, ma Giulio si era rotto la gamba ed era seccato di
essere impossibilitato a giocare, così fummo d’accordo nel dare a lui entrambi
i denti per farlo contento… - Massimo sorrise debolmente al lontano ricordo del
fratello da lungo tempo perduto. - Quando arrivai alla fattoria, il fuoco si era
estinto… e quando le ceneri furono abbastanza fredde, cercai qualcosa in mezzo
ad esse, qualsiasi cosa appartenesse alla mia
famiglia… Cercai per giorni, ma riuscii a trovare soltanto un dente…
Continuò a contemplare
la notte, ma io vidi i suoi occhi brillare ed in fretta egli respinse le
lacrime. - Tornai per la prima volta alla fattoria dopo molti,
molti anni. Ero già un tribuno e avevo passato parecchio tempo in Germania. Era
tempo di tornare. Come figlio maggiore di mio padre, era mio diritto reclamare
la fattoria e lo feci. Fu allora che trovai il secondo
dente… Era rimasto là, sepolto nelle ceneri per più di dieci anni. Le piogge
devono averlo lasciato scoperto…
Lentamente,
Massimo si voltò verso di me e mi guardò negli occhi. Aveva riguadagnato il
controllo del viso, ma i suoi occhi erano pozze profonde di tristezza
verdazzurra.
- Una volta essi erano tutto quello che mi era rimasto
della mia famiglia e della mia vita… e adesso lo sono di nuovo.
Io mi sollevai a sedere
e gli toccai leggermente la spalla, desiderando intensamente prenderlo tra le
mie braccia e offrirgli conforto. Desiderando offrirgli qualunque conforto
potevo dare all’orfano di otto anni che era stato. Al
bambino addolorato e sofferente che ancora viveva dentro di lui.
- Ma tu fosti adottato da una famiglia di classe
senatoriale…
Massimo congedò l’idea
con un leggero movimento della mano.
- Una pura
formalità. Quando ebbi vent’anni, l’imperatore visitò
la mia legione in Germania e… accadde qualcosa che accelerò la mia promozione a
centurione. Poco tempo dopo, Marco Aurelio accettò la petizione di un senatore
di adottarmi. Si chiamava Marco Licinio Marcello, ma io chiesi di mantenere il
mio nome. Ci fu qualche bega legale sulla cosa, ma io rifiutai l’adozione a
qualunque altra condizione. Preferivo rimanere per tutta la vita un centurione senior piuttosto che abbandonare il nome della mia famiglia…
Sarebbe stato come uccidere di nuovo mia madre, mio
padre e mio fratello… Come dicevo, non avevo altri parenti in vita, a parte i
miei prozii, e venivamo da gens[1] diverse. Ora che il mio unico figlio è morto, non ci sarà nessuno
a portare il mio nome, una volta che mi sarò riunito a lui…
Mi morsi il
labbro inferiore per impedirmi non solo di prenderlo tra le mie braccia, ma
anche di dirgli che non c’era bisogno che andasse in
quel modo. Che se solo avesse voluto, avrebbe potuto
avere un’altra opportunità. Un’altra famiglia. Che io ero pronta ad abbandonare
tutto e a seguirlo ovunque volesse andare. Che io gli avrei dato altri bambini, maschi e femmine, per
portare il suo nome ed illuminare le nostre vite… Io non ero mai rimasta incinta.
Non ne avevo mai nemmeno avuto il sospetto, come altre
donne che avevo conosciuto, ed ero già oltre l’età in cui si ha il primo figlio. Ma ero sicura, completamente
sicura, che potevo dargli almeno un figlio… Il figlio di cui aveva un così grande bisogno e che io desideravo tanto…
- Mi fu concessa
la cittadinanza romana allo scopo di poter servire nella legione, invece che
essere inviato alle truppe ausiliarie come avrei dovuto, perché io ero un
provinciale. Ma non potevo andare oltre il grado di centurione e l’imperatore voleva che potessi salire più in alto. Non rividi più il
senatore ed egli morì pochi anni fa. - Massimo fece
pausa per un momento, poi si strofinò pensierosamente il mento barbuto. - Come
suo figlio adottivo, io provvidi alle sue figlie e alla vedova, restituii loro quello che l’uomo mi aveva lasciato in eredità e troncai ogni
mio legame con la famiglia. Non che non fossi grato,
perché l’adozione mi permise di diventare il generale Massimo, ma… la sua non
era la mia famiglia. Una volta avevo una famiglia mia, e la persi. Poi, ne
trovai un’altra… e mi fu presa…
La voce di Massimo
si perse nella brezza ed egli chiuse gli occhi.
- L’imperatore ti
amava, Massimo, - dissi, cercando di offrirgli un po’ di conforto che non implicasse
parlare di argomenti delicati e personali. - Quando
parlammo di te, Marco Aurelio non solo disse che tu
eri il figlio che avrebbe dovuto avere, ma che avrebbe dovuto adottarti lui
stesso…
Non aggiunsi che
Marco Aurelio mi aveva anche detto di avergli offerto di sposare la sua figlia
prediletta e come egli l’avesse respinta perché la
cosa implicava divorziare da Olivia. Nemmeno che non ci era
voluto molto ad indovinare che l’Augusta Lucilla lo amava, che lo aveva amato
da quando aveva diciott’anni. Massimo non aveva bisogno di sapere che io lo
sapevo, e io non volevo che il fantasma della pallida bellezza regale del
pulvinare si intromettesse tra di noi. Era già abbastanza
che egli fosse pronto a morire per proteggere il figlio di lei.
- Massimo,
ricordi i tuoi genitori e tuo fratello?
Egli aprì gli
occhi e sembrò considerare le mie parole per un momento.
- Per lo più ricordo dei dettagli… - disse, poi aggrottò la fronte. - La voce e
la risata di mio padre… Rideva spesso e la sua voce era bassa e profonda, ma
mai in collera… Ricordo il suo odore… odorava sempre di terra… Il suolo di
Tergillium[2] è nero e fertile,
diverso da qualunque altro terreno abbia visto in altri
luoghi… suolo nero, buono per essere arato e seminato …
Massimo si
premette le labbra e il suo cipiglio si approfondì, come un bambino che cerchi
di ricordare una lezione difficile.
- Ricordo che mia
madre cantava… spensierata… e mio fratello… era un
bambino felice e chiassoso …
Un debole rumore
venne dagli alberi in vaso all’estremità della terrazza, poi un pipistrello sfrecciò
attraverso il cielo buio, intimidito dalla luce delle lanterne e delle torce.
Nessuno di noi vi prestò attenzione.
- C’era un roseto
vicino alla porta di casa. Sbocciava con grappoli rosa profumati… la finestra
della mia cameretta era vicina ad esso e in estate
giacevo sveglio nel mio pagliericcio e riuscivo a sentire l’odore delle rose… -
Massimo mi guardò con sincerità, i suoi occhi riflettevano il bambino
spensierato che era stato, l’orfano addolorato, l’adolescente solo e l’adulto forte
e orgoglioso. - Le rose e la menta che mia madre coltivava nel suo giardino
d’erbe… Non ricordo altro…
Massimo sospirò.
Un lungo silenzio profondo e vibrante. Era probabilmente la prima volta da anni
che parlava della sua famiglia perduta. Forse perfino la prima volta nella sua
vita. Il dolore e la colpa danzavano nei suoi occhi. Dolore per la perdita.
Colpa per essere sopravvissuto. Dolore per il vuoto lasciato dai suoi cari. Colpa
per non essere stato in grado di riportarli in vita, nemmeno attraverso i suoi
ricordi. Tuttavia aveva qualcosa da essi, anche se non
più di pochi suoni e odori, ed un paio di denti di lupo.
- Io non ho mai
saputo chi fossero i miei genitori… - dissi sorprendendomi a parlare a voce
alta. - Crebbi nella villa di Cassio insieme a molte altre bambine e donne…
Apollinario, almeno, visse con sua madre per alcuni anni, prima di essere venduto…
Potevo percepire
l’attenzione di Massimo spostarsi e concentrarsi su di me. Probabilmente era
grato d’avere una scusa per accantonare la sua storia personale.
- Sono una donna
ricca, Massimo. Molto ricca. Perfino potente… tuttavia non ho nulla. Non un
nome vero. Non un antenato. Non
un ricordo. Non un figlio.
Alzandomi
leggermente, misi la mia mano sul suo avambraccio e posi a Massimo la domanda
che non avevo mai osato porre prima. Nemmeno ad Apollinario.
- Massimo, tu
credi che siamo romani, tu ed io? Veri romani?