Diario
di Giulia (indice capitoli) |
Julia’s Journal Siti originali
(in inglese) |
Al fabbro non ci volle che un istante per liberare Massimo dai suoi ceppi di schiavo. Egli distolse lo sguardo e fece una smorfia, mentre l’uomo alto e molto muscoloso abbatteva il martello, e io mi coprii gli occhi in un gesto infantile e sciocco, incapace di sopportare l’idea che potesse rimanere ferito. Ma l’uomo sapeva il fatto suo, i ceppi si ruppero facilmente e presto Massimo ne fu libero. Annuì al fabbro in segno di ringraziamento, si levò i ceppi di ferro, li fece cadere sul pavimento e li allontanò con un calcio. Non c’era bisogno che dicesse quanto li odiava. La violenza a malapena contenuta del suo gesto era più che sufficiente.
Le nostre mani si urtarono mentre egli cominciava a svolgere le strisce di cuoio nero e io mi affrettai ad aiutarlo. Mi lasciò fare e non oppose resistenza quando io gli massaggiai delicatamente i segni arrossati che esse avevano lasciato sulla sua pelle abbronzata, ansiosa di cancellare ogni segno tangibile della sua schiavitù, almeno per il tempo a venire. Massimo prese le strisce di cuoio e cominciammo a tornare verso casa.
- Ti attende un bagno, e vestiti puliti, poi potremo fare
colazione, - dissi camminando, incerta su come rompere il silenzio imbarazzante
che era caduto su di noi quando io ero emersa dalla mia camera vestita e pronta
ad accompagnarlo alla bottega del fabbro.
Massimo si accigliò, poi sorrise con aria incerta.
- Sembra che abbiamo fatto confusione. E’ come se ci stessimo avvicinando
all’imbrunire, non all’ora di colazione.
- A dire il vero, sei tu che ti sei ubriacato fino a stordirti e
hai dormito per l’intera giornata, - lo presi in giro. Scherzare sembrava
venirmi naturale quando ero vicina a lui. Non riuscivo
a ricordare di aver mai scherzato prima del nostro
incontro in Mesia… e di sicuro non avevo più scherzato durante i sei anni che
erano trascorsi da allora. E avevo goduto ogni istante
delle ore che avevo passato con il capo posato tranquillamente sul suo petto,
cullata dal suo calore e profumo e dal forte battito regolare del suo cuore.
Camminammo lungo il colonnato dov’era la vasca riflettente con le
sue fontane danzanti, la principale con la nave di marmo sulla sommità, le
altre adorne di sirene e tritoni, tutte cantanti la loro canzone gorgogliante
nella brezza delle prime ore della sera. Massimo osservò la casa per tutta la
sua lunghezza, poi rivolse lo sguardo alla vasca riflettente e alle nostre
immagini, che ci seguivano mentre camminavamo. Si bloccò e fissò nell’acqua. La
superficie riflettente restituì l’immagine di un uomo muscoloso in tunica
azzurra ed armatura di cuoio nero, e di una donna snella in seta bianca, con i
lunghi capelli d’oro ramato che le ricadevano sulle
spalle e giù fino alle anche.
Che contrasto.
Anche se io sono una
donna alta, più alta della maggior parte delle donne e alta quanto molti
uomini, a fianco di Massimo sembravo piccola e, soprattutto, fragile. Piccola e
fragile, come mi sentivo sempre accanto a quest’uomo forte e virile.
Le nostre immagini si incresparono e
cambiarono, sembrarono disintegrarsi, solo per riapparire intere e chiare sulla
superficie della vasca seguendo il ritmo delle acque danzanti. Massimo le
guardò a lungo, sembrando affascinato dai cambiamenti, dalla luce e dal colore,
evidentemente perso nei suoi pensieri, quali che fossero. Anch’io guardai il
riflesso, notando che era la prima volta che vedevo noi due
insieme. La prima volta che vedevo quello che gli altri dovevano vedere
quando ci guardavano: una coppia giovane e attraente, la mia femminilità così
perfettamente adatta alla sua inesorabile mascolinità.
I minuti passavano e Massimo non si muoveva. A disagio per il suo
silenzio, infilai il braccio nel suo, le nostre pelli sfiorandosi gentilmente,
la sua abbronzata, la mia lattea.
- Hai l’aria molto affascinante, - dissi guardando il suo riflesso. -
L’armatura ti dona.
Il suo sguardo rimase fisso sulla superficie della vasca. Sembrava
che non mi avesse udita, ma io la sapevo lunga.
Riuscivo a sentire la tensione nel suo corpo e continuai a parlare, sforzandomi
di usare un tono leggero mentre cercavo di alleggerire il suo umore.
- E’ piuttosto evidente che anche la gente che frequenta i giochi la pensa
così. Il tuo nome è scalfito nei muri dell’anfiteatro, insieme ai suggerimenti
relativi a quello che la gente vorrebbe fare con te, - dissi cercando di
indurre una risposta, - e pupazzi di latta con la tua immagine vengono venduti fuori dell’edificio… pupazzi piuttosto virili.
Mi bloccai, imbarazzata alla sola menzione dei grotteschi feticci
sessuali fatti con la sua immagine, ma era troppo tardi.
La mia sicurezza di me, dolorosamente conquistata, era stata
seriamente danneggiata la notte precedente ed ora sembrò avermi
completamente abbandonata. Mi sentivo ottusa e goffa, infantile e vulnerabile.
E il silenzio di
Massimo non aiutava molto.
- Durante i giochi i mercanti vendono perfino vassoi con la tua
immagine dipinta su di essi, e il giorno che fui là
andarono esauriti molto presto.
- Vado bene per gli affari, - borbottò Massimo, il suo umore
rabbuiandosi visibilmente. Mi morsi il labbro inferiore, sapevo che non sarebbe
stato facile, ma avevo solo appena cominciato a scoprire quanto stava per
essere difficile.
Dopo una breve esitazione, tirai il braccio di Massimo e lo guidai
verso i giardini, sperando di volgere la conversazione in un’altra direzione,
che potesse aiutare ad alleggerire l’atmosfera, malgrado
le tristi circostanze che avvolgevano la sua inaspettata presenza alla mia
villa.
- Ti piacciono i giardini, Massimo?
Egli si rilassò visibilmente. Il giardinaggio e il tempo sono
argomenti infallibili in caso di brevi conversazioni, perfino per un generale
romano divenuto schiavo e gladiatore.
- Tutto questo posto è stupefacente. Non ho mai visto nulla di simile.
Mi sentii assurdamente felice del suo complimento, come una ragazza
che si consuma d’amore per il suo primo corteggiatore.
- Mio marito ha lasciato che li progettassi io… con
l’aiuto degli architetti, naturalmente. Mi sarebbe piaciuto qualcosa di meno
ostentato, ma lui insisté su dimensioni e sontuosità. Qui riceveva i clienti e
voleva impressionarli.
- Il suo commercio navale deve essere stato prospero.
- Sì, e adesso è mio.
- Lo dirigi tu?
- Sì. - C’era una punta di sfida nella mia voce e guardai Massimo
con la coda dell’occhio. - Sei sorpreso?
- No, - disse in tono che suggeriva che, dopo la notte precedente,
niente che mi riguardasse lo avrebbe sorpreso ancora. - Come passi il tempo… a
parte cercando di soccorrere schiavi ingrati… ora che sei
sola in questo luogo immenso?
Non potei fare a meno di sorridere al suo riferimento non proprio
sottile alla discussione della notte precedente, ma mi ripresi in fretta. Come potevo spiegargli che cos’era la mia vita, la mia vita
reale, senza raccontargli della mia disperata solitudine, della tristezza che
guastava ogni trionfo, del desiderio che pervadeva ogni singola ora? Come potevo spiegargli com’era la mia vita senza parlare del
calore, della sicurezza e del bambino che tanto desideravo? Il calore e la
sicurezza che nessuna somma di denaro poteva comprare ed il bambino che ero destinata a non avere. Stava aspettando una risposta,
così continuai a parlare, con tono volutamente
leggero, anche a rischio di suonare vuota e infantile.
- Leggo moltissimo. Non ho mai avuto un’istruzione, Massimo, ma Apollinario mi
ha fatto da precettore e mi sono ritrovata a voler imparare sempre di più. E gioco con i miei gatti e passeggio nei giardini, anche se
è molto più piacevole passeggiarvi con te. Ho anche un bellissimo appartamento
a Roma.
- Dovresti risposarti. Avere dei bambini, - disse. Era così tipico
di Massimo! Sempre altruista. Sempre affettuoso. Anche quando rifiutava di amare e di essere amato. Anche
se le sue buone intenzioni ferivano più di quanto giovassero.
- Oh, Massimo, cerchi sempre di prenderti cura delle persone. - Non
rispose. Non c’era molto che potesse dire. Avvantaggiandomi della sua leggera esitazione,
guidai Massimo ad una panchina di marmo all’ombra, dove io sedetti, poi lo feci sedere accanto a me. Continuai a parlare. -
Preferisco stare da sola piuttosto che fare un altro matrimonio senza amore.
- Potresti trovare qualcuno che ti ami, se
non ti nascondessi in questo posto, - disse. - Vai a Roma…
- Massimo, intendevo dire proprio quello che ho
detto la scorsa notte, a proposito del non darmi ad un uomo che non amo, - la
mia voce si abbassò, ma rimase ferma mentre dicevo ciò che avevo nel cuore. Ciò che avevo bisogno che lui sapesse. Ciò che avevo
bisogno che capisse. - Ne ho abbastanza di quello. Qualunque relazione inizierò sarà basata sull’amore… altrimenti rimarrò da sola.
Il silenzio cadde ancora su di noi. Massimo posò i saldi avambracci
sulle ginocchia e fissò la rosa che gli sfiorava dolcemente la pelle alla
brezza gentile. Il suo silenzio era sconcertante. Molto più sconcertante
dell’ira furente della notte precedente. Quando ero
una prostituta, ero tenuta in gran conto per la facilità con cui trattavo gli
uomini. Mi bastava dar loro un’occhiata, ascoltarli dire qualche frase o vedere
come si muovevano per sapere come rivolgermi loro, come affascinarli, sedurli,
soddisfarli. Anche come manipolarli … nel caso avessi voluto farlo. Se avessi fatto la prostituta per mia libera volontà,
probabilmente avrei finito con l’apprezzare quel potere. Ma io odiavo ogni
singolo momento di quella vita, anche se riuscivo a nasconderlo sia al mio
padrone sia agli uomini che servivo, apparentemente
senza resistenza o ripensamenti. Insieme alla mia bellezza, la mia abilità nel
sedurre gli uomini era stata la ragione per cui Cassio aveva scelto me come esca per Massimo. Ma dal primo istante in cui avevo
scambiato le mie prime parole con lui, le mie capacità mi avevano abbandonata. O, farei meglio a dire, semplicemente non volevo usarle.
- Generale? Non ti piace la festa?
Si era voltato e io avevo avuto la prima fugace visione di quegli
stupefacenti occhi azzurri, poi egli aveva parlato e il tono caldo della sua
voce profonda mi aveva mandato brividi giù per la schiena. Quando il suo
sguardo bruciante aveva vagato sul mio viso e sul mio corpo, non c’era stata lussuria
in esso ma meraviglia, un uomo a corto di parole. In
un’altra situazione, con un altro uomo, sarebbe stata
una seduzione facile e rapida. Invece, era stato il momento in cui era stato
suggellato il mio fato.
Non avevo voluto sedurlo, ma che mi desiderasse di sua libera
volontà.
Non avevo voluto fingere mentre gemevo e fremevo sotto di lui, ma
che egli mi facesse impazzire con i suoi baci e le sue
carezze ed il ritmo del suo corpo possente.
Ed egli mi aveva desiderata di sua libera
volontà ma, ciononostante, mi aveva respinta, lasciandomi confusa e frustrata,
una donna cambiata per sempre.
Sei anni erano trascorsi e io mi sentivo ancora timida accanto a
lui, una ragazza inesperta e vulnerabile consumata dall’amore, invece della
donna importante e sicura di sé che nel frattempo ero
diventata.
Sei anni erano trascorsi
e io volevo ancora la stessa cosa.
E non avevo che
pochi giorni per ottenerla.
Mi spostai leggermente sulla panca, poi parlai con voce esitante.
- La notte scorsa… non intendevo rivelare in quel modo i miei sentimenti per
te. Sono molto imbarazzata per averlo fatto.
Egli non mi guardò né disse alcunché. Mi sforzai di continuare a
parlare, sentendomi come una donna cieca che cerchi di farsi
strada su un terreno scosceso.
- Ma… forse è meglio che tu sappia quello che provo. Non ho mai pensato che
avrei passeggiato in questi viottoli con te, anche se ho sognato di farlo. E’
meraviglioso per me, averti qui… anche se per poco
tempo.
Massimo sembrava molto interessato a quella rosa rosso sangue in
particolare. Allungò la mano e io osservai le sue grandi dita callose
accarezzarne gentilmente i petali vellutati. Desiderai che egli toccasse me
come stava toccando quel fiore… e arrossii al solo
pensiero delle sue dita sulla mia pelle.
- L’amore è la cosa più importante che ci sia, - aggiunsi in un
sussurro appena udibile.
Egli ancora non mi guardò.
- Non v’è futuro per noi, Giulia.
Il suo tono era così freddo e distaccato che non potei
fare a meno di rabbrividire leggermente. Mi mancò un battito, poi mi sforzai di continuare a parlare, con tono deliberatamente
piatto.
- Lo so. Sei stato chiaro su quale sarà il tuo futuro.
Massimo continuava a non guardarmi, lo sguardo fisso sulla rosa, il
contrasto tra le sue dita forti, callose e abbronzate ed i delicati petali
vellutati eccitante malgrado l’asprezza delle sue
parole.
- Anche se io fossi libero, non potremmo sposarci. Un
uomo del mio stato sociale non può sposare legalmente una donna affrancata.
Sposarmi? Davvero pensava che potesse importare che egli non mi
potesse sposare legalmente perché io ero una ex
schiava mentre lui era stato adottato da un senatore? Non potei che ridere.
Riguardo certe cose riusciva ad essere così deliziosamente innocente! Tutto il
potere della sua precedente carica non era stato sufficiente a cambiarlo, e
nemmeno la sua caduta in disgrazia e le sue traversie.
Mi domandai brevemente se fosse candido in modo così
commovente anche quando
si trattava di ciò che uomini e donne fanno dietro la porta chiusa.
- Massimo, non sei di nessuna classe adesso, - dissi dolcemente. - Se venissi liberato saresti un liberto, proprio come me.
- Forse.
- Perché “forse”?
Massimo appoggiò il palmo della mano sullo schienale della
panchina, dietro di me, poi vi spostò sopra il peso, chinando il corpo verso il
mio. Il suo braccio sfiorò la mia schiena e io rabbrividii. Mi toccava appena,
ma io mi sentivo come in un abbraccio. La dolce brezza sollevava i miei capelli
sciolti facendo loro sfiorare il suo braccio nudo, capelli
d’oro rosso che danzavano come una farfalla sopra salda pelle abbronzata. Il
suo viso era vicinissimo al mio, talmente vicino che sarebbe bastato un minimo
movimento per raggiungere con le mie labbra la sua bocca finemente scolpita. La
sua voce stentorea si ridusse al tono più basso e profondo.
- Lo so che pensi che io viva solo per vendicare le morti
della mia famiglia, ma v’è molto più di questo.
Era il mio turno di rimanere in silenzio. Massimo continuò.
- Tu sai che Commodo ha una sorella.
In verità, il giovane imperatore aveva quattro sorelle in vita, ma solo una contava. La maggiore
ed ex imperatrice. Colei che si era innamorata di Massimo a diciotto anni,
prima d’essere data in sposa a Lucio Vero. Colei che gli era stata offerta in
matrimonio molti anni dopo, solo per essere respinta. Colei che, si diceva,
aveva attratto un affetto innaturale da parte del fratello minore. Colei che
aveva tante cose in comune con me, malgrado le nostre
origini e vite apparentemente opposte. Colei che io avevo sentito vicina a me
la notte precedente, dopo la lite, la collera, la frustrazione e la sconfitta…
Quando finalmente
parlai, le mie labbra sembravano insensibili.
- Lucilla… sì.
- Ebbene, ella ha un figlio di nome Lucio. Lui e mio figlio hanno… avevano… la stessa età. Lucio è l’erede al trono, dopo Commodo.
Massimo sorrise appena. Che cosa lo faceva
sorridere? Il menzionare il ragazzo imperiale al quale la mia ex cameriera di
dieci anni era stata inviata al nostro ritorno a Roma? Qualche gioioso ricordo
del suo figlio assassinato? O i suoi ricordi personali
della donna che sedeva pallida e tesa nel pulvinare, insieme al fratello,
mentre egli combatteva nell’arena?
La voce di Massimo mi distolse dalle mie divagazioni.
- E’ molto giovane… così innocente… e vive sotto il naso di suo zio. Io so già
quanto sia spietato Commodo e che non risparmierebbe
nemmeno un bambino. Se Commodo si sentirà minacciato, in qualunque modo, temo che farà del male a Lucio.
- Perché supponi questo?
- Me l’ha detto sua madre.
Mi sentii come se mi avesse
schiaffeggiatata. Glielo aveva detto Lucilla? Come? Quando?
- Hai parlato con l’Augusta Lucilla? - chiesi articolando attentamente ogni
parola. - Da quando sei venuto a Roma?
- Sì. Una notte mi fece visita alla scuola
dei gladiatori.
L’ondata di gelosia che mi si rovesciò addosso fu così poderosa,
così intensa, che quasi mi fece barcollare. Il sangue mi rombò nelle orecchie e
una nebbia rossa mi offuscò la vista. Chinai la
testa perché i capelli mi ricadessero sul viso, nascondendo l’angoscia e il
dolore che nessun autocontrollo poteva impedirmi di mostrare.
Lucilla aveva fatto visita a Massimo al quartier generale di
Proximo. Gli stessi quartieri che per me erano rimasti
chiusi. Mentre tutto i miei intrighi nel fare piani,
corrompere e adulare per arrivare a Massimo erano falliti, ella aveva trovato
un modo per arrivare a lui. Era lei il motivo per cui
Massimo rifiutava ogni visita e Proximo gli permetteva di fare a modo suo?
Lucilla aveva usato il suo considerevole potere per renderlo irraggiungibile a
tutti tranne che a se stessa? Senza sollevare la testa inghiottii e chiesi a
fatica:
- Perché l’ha fatto?
- Lucilla ed io ci conosciamo da molto tempo. Era in Germania con
suo fratello quando l’imperatore… morì. Ella sapeva che suo fratello aveva
ordinato che fossi giustiziato ed è rimasta sconvolta
quando sono ricomparso come gladiatore nel Colosseo, a Roma. Venne per
incontrarmi e parlarmi delle sue angosce.
Lentamente, digerii la notizia. Lucilla era stata in Germania. Era
stata in Germania insieme al fratello. Questo già lo sapevo.
Era stata accanto a lui nel carro dorato quando egli era entrato a Roma come
imperatore. Era stato un grande scandalo. Gli imperatori non portano alle
parate ufficiali nei carri cerimoniali le loro parenti femmine. Nemmeno le
mogli. E i fratelli non portano in parata le sorelle
come se fossero le loro consorti.
Sapevo che Lucilla era stata in Germania con il padre e con il
fratello. Quello che non avevo capito era che era stata laggiù anche con
Massimo.
- Perché? Che
cosa mai potresti fare per aiutarla? - dissi, mantenendo accuratamente un tono
neutrale.
- Lei sa che io voglio uccidere Commodo. Non l’ho certo tenuto
segreto. Lei mi ha solo dato un altro motivo per farlo… per proteggere suo
figlio… il nipote del mio imperatore, Marco Aurelio.
Ecco qualcosa di nuovo. Completamente nuovo. E
serio. Voci circa l’inettitudine politica di Commodo erano cominciate a circolare anni prima che salisse al trono. In verità, egli
lo aveva ottenuto perché era l’unico figlio sopravvissuto di Marco Aurelio ma,
soprattutto, perché il defunto imperatore era morto senza annunciare
ufficialmente la sua successione, perché essere semplicemente suo figlio non era sufficiente ad ottenere il serto di lauro
d’oro. Era stato in Germania in visita al padre quando l’imperatore era morto,
ed immediatamente era tornato a Roma per rivendicare il trono. Alcuni dicevano che aveva lasciato la Germania come un ladro, nel
mezzo della notte, scortato dai suoi pretoriani, e prima che le legioni gli
avessero giurato fedeltà. Le voci dicevano anche che, a differenza del fratello
minore, Lucilla era un politico nato, tuttavia il fatto che fosse una donna le
impediva di governare. Ma essere nata femmina non
aveva mai impedito alle donne imperiali di complottare e cospirare, perfino di
uccidere quando era necessario, o così esse pensavano. Feci
qualche rapido calcolo. Lucilla era la seconda figlia di Marco Aurelio,
mentre Commodo era il più giovane della dozzina circa che l’imperatore aveva
generato. Il che significava che ella aveva una trentina d’anni, mentre il
fratello ne aveva appena diciannove… così giovane,
eppure era l’uomo più potente del mondo.
- Ella trama contro il suo stesso fratello?
- Sshhh. Giulia, - allarmato, Massimo si guardò rapidamente intorno
nel giardino per assicurarsi che fossimo soli. - So che posso fidarmi di te
perché misi la mia vita nelle tue mani in Mesia e tu non mi deludesti.
Quest’informazione non deve trapelare.
- Certo che no, - risposi con ardore. Malgrado
la notizia sconvolgente riguardante la figlia dell’imperatore, mi emozionava
che lui si fidasse di me così facilmente. Facilmente come aveva fatto in Mesia,
quando non sapeva niente di me tranne che ero una schiava e una prostituta.
Facilmente cone io mi ero fidata di lui anche quando non mi fidavo di nessun
uomo.
- Voglio soltanto che tu capisca che ho rifiutato la tua offerta di
libertà per ragioni più importanti del mio bisogno di vendicare mia moglie e mio figlio. E’ complicato, come ho detto.
Così non era soltanto perché Olivia e Marco lo reclamavano.
Anche Lucilla e suo figlio. Una donna morta che egli
aveva amato e il figlio morto. Una donna vivente che egli aveva anche amato e
il figlio di lei. Dove mi conduceva questo, una donna che non era né moglie né
ex amante e non aveva alcun bambino per il quale vivere o morire?
Dopo un lungo momento, raccolsi il mio coraggio e posi la domanda
più difficile che gli avessi mai fatto.
- Vuoi bene a Lucilla?
- Sì… le voglio bene.
Faceva male. Terribilmente. Ma inghiottii a
fatica e di nuovo mi obbligai a parlare.
- La ami?
- No, non l’amo. Almeno… non in quel modo.
- Hai detto che la conosci da molto tempo.
La amasti un tempo?
Massimo sorrise, cercando di alleviare un’angoscia così intensa che
nemmeno cercai di negarla. Allontanò un ricciolo di capelli che si era
aggrovigliato attorno alla mia gola.
- Molto, moltissimo tempo fa, - disse dolcemente. - Da allora abbiamo condotto
vite piuttosto diverse… e ci siamo entrambi sposati e abbiamo avuto un figlio.
Le sue parole non mi calmarono affatto, gelosia e angoscia ancora mi rodevano il ventre, Lucilla che mi era sembrata
così vicina la notte precedente ora era una rivale viva e temuta, con una forte
influenza sulla lealtà di Massimo. Chinai la testa e mi guardai le mani, prive di anelli e posate sul grembo, e le mie nocche bianche
tradivano la mia tensione.
- Talvolta un vecchio amore può riaccendersi, - sussurrai.
Massimo scosse la testa. Sapevo che potevo fidarmi delle sue parole
ma, stranamente, non mi sentivo sollevata. Significavano quello che
significavano. Non cambiavano il tono distaccato con cui egli aveva parlato di
noi e di quello che non potevamo avere. E io avevo
soltanto una settimana.
Dopo un istante, lo guardai in viso, dritto negli occhi.
- Massimo, non hai paura di morire?
Egli sospirò.
- Ho vissuto con la morte per la maggior parte della
mia vita. Ho visto in faccia la mia stessa morte, e le morti
dei miei soldati, ogni volta che andavo in battaglia. Vedo la morte in faccia
ogni giorno, adesso, nell’arena. No, non ho paura di morire. Inoltre, mia
moglie e mio figlio stanno già aspettando che io li
raggiunga.
Che domanda stupida
da fare! Naturale che non avesse paura di morire! Voleva
morire. Era pronto a morire. Una volta vendicati la moglie ed il figlio morti,
una volta assicuratosi che Lucilla ed il figlio fossero salvi, sarebbe stato pronto ad andarsene… pronto a lasciarmi ancora
una volta, per sempre.
Con un movimento rapido, mi premetti contro di lui, cercando di
raggiungerlo fisicamente ed anche emozionalmente… ma ogni intimità era impedita
dalla sua armatura, i miei seni appiattiti contro il cuoio nero, le borchie
ancora una volta dolorosamente infisse nella mia carne
- Non posso
credere che tua moglie vorrebbe che tu morissi, Massimo. Ti amava, - dissi con impeto, trovando in Olivia un’inattesa alleata
nella mia battaglia per salvarlo da se stesso. - Vorrebbe che tu vivessi una
vita lunga e felice, non che ti affrettassi a raggiungerla alla prima
occasione.
- Giulia…
Prima che potesse continuare, io gli afferrai il mento barbuto per
zittirlo, obbligandolo a guardarmi negli occhi.
- No… ascoltami. Una donna che ama un uomo
rinuncerebbe a qualunque cosa per lui… sacrificherebbe tutto per la felicità di
lui. Olivia non ti sta sorvegliando e certo non prova risentimento per ogni
briciola di felicità che puoi afferrare nel tempo che ti resta da vivere. Ella avrebbe voluto che tu accettassi la mia
offerta di libertà… per vivere una vita lunga e felice senza di lei. Per
ritrovare l’amore. Lei ci sarà sempre per te… tra dieci, venti anni. - Lacrime
cocenti mi offuscarono la vista e tirai su col naso,
poi sbattei le palpebre per respingerle.
- Non si tratta di ciò che avrebbe voluto mia moglie. Si tratta di
ciò che voglio io, - disse Massimo calmo e determinato, così assurdamente
determinato e pieno di dignità che malgrado i miei
sforzi, le lacrime mi rotolarono giù per le guance. Le asciugai con rabbia.
- Ebbene, sei un egoista. Non stai
pensando alle persone che ti amano qui, e che vogliono che tu viva. Stai
pensando solo a te stesso.
La mia esplosione non lo dissuase. Massimo mi deterse gentilmente
le lacrime con il pollice.
- Giulia, se riuscissi a pensare ad un modo per portare a termine quello che
devo portare a termine ed anche sopravvivere… lo
sceglierei. Lo so che Olivia e Marco mi aspetteranno, non importa
quanto a lungo vivrò.
- Ma io ti ho offerto un modo e tu non hai
voluto accettare.
- Ci sono buone ragioni.
- Lo so, lo so… Juba. Non credi che Juba sacrificherebbe volentieri la sua vita per la tua libertà?
- Forse. Non è una scelta che devo fare io. Ma
io non sacrificherò la tua vita per la
mia libertà.
Sorpresa, mi alzai a sedere.
- Che cosa? Di che cosa stai parlando?
Massimo guardò le cime degli alberi.
- Quella città vicina è Ostia, vero? C’è una base
militare ad Ostia.
I miei occhi si spalancarono. Mi raddrizzai, con la speranza che cresceva dentro di me. Perché non ci avevo pensato? C’era una base militare ad
Ostia! Vi avevo passato un po’ di tempo al mio ritorno dalla Mesia!
- Sì. Sì. Potresti…
Ma prima che
potessi proseguire, Massimo mi zittì posandomi un dito sulle labbra.
- Potrei prendere contatti con quella legione e trovarla sotto il controllo di
un generale che risponde a Commodo, il che è il caso più probabile, - disse
parlando dolcemente e con calma, un padre che spiega alla figlia confusa che
vuole la luna perché sia impossibile averla. - Se mi
riconoscesse, mi ucciderebbe all’istante. Se non mi riconoscesse, allora mi
tratterrebbe finché non potessi essere identificato.
In un modo o nell’altro, io sarei morto e Commodo sarebbe ancora vivo.
- Ma, e se fossero uomini che tu conosci e
che simpatizzano per la tua causa?
- E’ improbabile, perché le mie armate sono nel Nord. Però, anche
se fosse una delle legioni Felix, non potrei comunque
andarmene, Giulia.
- Ma potresti andare a vederle e poi
tornare qui. Verrò con te. Puoi fare dei piani…
- No.
Chiusi gli occhi e scossi la testa, la frustrazione così intensa
che mi sentivo esplodere.
- Massimo, perché no? Non ha senso. Tu sei un comandante d’esercito e nelle
vicinanze ci potrebbe essere un esercito!
- No, non lo sono più. Ma Giulia, il punto è che tu non hai alcuna idea di che uomo vendicativo sia Commodo. Tu non sai
che cosa è capace di fare.
Incerta su che cosa stesse insinuando, rimasi in silenzio per un
lungo momento, poi chiesi:
- A chi?
- A chiunque gli si opponga… a chiunque mi
aiuti.
- Vuoi dire me.
- Sì.
Afferrai la spalla di Massimo e lo scossi leggermente, un gesto che
sembrava venirmi naturale quando mi faceva impazzire con la sua cocciutaggine. Come sempre, fu come cercare di scuotere le colonne del
tempio di Giove.
- Massimo, non capisci? Io voglio correre il rischio.
- Io no.
- Massimo…
- Giulia, quante volte sei stata all’anfiteatro per vedere i
giochi?
- Massimo, non cambiare argomento.
- Rispondimi e basta.
- Solo una volta. Per vedere te.
- Sei rimasta tutto il giorno?
- No, sono stata all’esterno e sono entrata appena ho udito la
folla scandire il tuo nome.
- Allora non hai alcuna idea delle
atrocità che vi accadono.
Anche se ero fuggita per
qualche minuto nel primo spettacolo, quello che avevo visto era stato
sufficiente.
- Io… ne ho un’idea.
Massimo scosse la testa.
- L’unico momento in cui i gladiatori come me combattono è il tardo pomeriggio.
I gladiatori particolarmente esperti combattono uno
contro uno. Ma all’inizio della giornata, l’arena è piena di coppie di
gladiatori… dozzine di uomini nello stesso tempo… che vengono
contrapposti gli uni agli altri e contro animali selvaggi che vengono
addestrati proprio ad uccidere gli uomini. Gli animali, per la maggior parte, non
ucciderebbero gli umani, sai, non importa quanto siano
affamati. Devono essere addestrati per uccidere le persone. La carneficina è
terribile.
- E’ qualcosa che non vorrò vedere mai. - Che cosa aveva a che fare
questo col fatto che volevo aiutarlo a fuggire?
- Questo non è il peggio… nemmeno lontanamente. - Massimo non
guardò me, ma il cielo che si stava oscurando. - Di mattina gli spettacoli sono
particolarmente raccapriccianti. E’ quando i condannati vengono
legati e dati in pasto agli animali senza essere in grado di difendersi. Anche donne e bambini, di culti religiosi o prigionieri di
guerra. Vengono squartati mentre sono ancora vivi. -
Si schiarì la gola e io mi trattenni dall’accennare che era stato quello a
farmi fuggire dal mio posto all’Anfiteatro. - Ma ho
visto anche di peggio. La scorsa settimana, per qualche motivo fummo portati
presto nell’arena, e lasciati nelle celle per la maggior parte della giornata.
Ai gladiatori più valenti vengono date le celle più
belle… appena sotto il terreno… così che possano vedere dentro l’arena e udire
tutto ciò che accade. - Massimo trasse un respiro profondo e fremente e io
seppi che c’era qualcosa di più dietro le sue parole. Era un soldato veterano,
non estraneo a sangue e morte. - I giochi sono pagati da funzionari statali che
sperano di essere rieletti e sanno che chiunque metta in scena lo spettacolo
migliore ha la migliore opportunità. Per ‘spettacolo migliore’ intendo il più sanguinoso e il più depravato.
Molti di questi spettacoli superano ogni limite, e dalla brutalità passano alla
pervertita esibizione sessuale. - Smise di parlare e fissò le stelle che
stavano cominciando a spuntare. Io gli diedi il tempo di radunare i pensieri
prima di incalzarlo, sapendo che aveva bisogno di parlarne, non importa quanto riluttante sembrasse. Non importa quanto
riluttante fossi io ad udire quello che aveva da dire.
- Continua, - dissi più dolcemente che potei. - E’ piuttosto
difficile sconvolgermi, lo sai.
Massimo si passò le mani sul viso prima di continuare, un gesto che
ben ricordavo, che sempre mi faceva venir voglia di prenderlo
tra le braccia e confortarlo come si conforta un bambino spaventato.
- Sai che le persone negli spalti mangiano e bevono mentre guardano quelle
cose? Mangiano tranquillamente mentre degli esseri umani come loro vengono uccisi davanti ai loro occhi. Sono completamente
insensibili agli atti più barbari.
Nella mia mente, vidi la gente attorno al chiosco nell’arcata del
Colosseo. Persone sudate, rumorose che portavano cappelli e cuscini, cestini di
cibo ed otri di vino, pronte a riscattarsi per qualche
ora dalla miseria insensata delle loro vite, guardando distruggere le vite
d’altri in modo altrettanto insensato.
Massimo affondò la testa tra
le spalle, la voce ora quasi inudibile.
- Portarono nell’arena una donna su di un carro. Una donna bella. Era nuda e
legata a faccia in giù sopra un elaborato carro dorato fatto in modo da
sembrare un altare. Era come se fosse un’offerta umana agli dei. Dopo aver
fatto correre il carro in giro per tutta l’arena così che tutti potessero darle
una buona occhiata, la coprirono con pelli di animali.
Poi un uomo entrò nell’arena con un animale che aveva chiaramente addestrato
per quello… e l’animale stuprò la donna.
Ansimai, le unghie conficcate nel braccio di lui. Ce l’aveva fatta. Sangue e morte poteva capirli, ma in un
combattimento leale, non quando si trattava di esseri
inermi e innocenti. Dolore e violenza poteva sopportarli, ma non abuso e
perversione. Improvvisamente, mi chiesi che cosa avesse visto quando aveva visto
i cadaveri di Olivia e di Marco. Che
cosa avesse visto, oltre alla loro morte, e che cosa l’avesse causata.
- Non ti dirò che genere di animale fosse, ma non
l’avrei creduto possibile. Le urla di lei erano terribili. Inutile dire che la
donna fu lacerata gravemente e perse molto sangue.
Degli animali selvaggi furono quindi liberati per finirla. Alla folla piacque
molto.
Malgrado i miei sforzi,
un singhiozzo mi sfuggì dalle labbra tremanti e Massimo mi attirò a sé,
avvolgendomi nelle sue forti braccia. Le mie lacrime di nuovo rotolarono sul
cuoio nero, mentre piangevo per l’insensata crudeltà
di un mondo in cui una giovane poteva essere allevata e cresciuta per farla
prostituire e un’altra poteva essere massacrata per il divertimento della folla.
Piansi per una moglie morta e per un figlio morto, la cui sola colpa era stata
di essere la moglie ed il figlio di un uomo tradito dal figlio
del suo imperatore. Ma, soprattutto, piansi per
Massimo. Piansi per la crudeltà della sua caduta in disgrazia ed in schiavitù,
per l’immensità della sua perdita e del suo dolore, versando le lacrime che il
suo bisogno di essere forte gli impediva di versare.
Le lacrime che aveva un gran bisogno di versare.
- C’è di più, - mormorò lui.
- Non lo voglio udire, - gridai, le mie parole soffocate dalla sua
spalla, il dolore nel mio petto così intenso che
pensai che mi si stesse spezzando il cuore.
- Devi udirlo.
Attese finché i miei singhiozzi diminuirono.
- Un gruppo di bighe entrò con gran rumore, ognuna trascinava dietro una donna nuda. Quando esse furono squartate e sventrate, ma ancora vive,
gli animali furono liberati per finirle. E non è il
peggio che ho visto. Il peggio coinvolgeva una dozzina circa di ragazzine
bionde… tutte sembravano avere meno di dieci anni… probabilmente erano
germaniche. Per quello che ne so, anch’io potrei esser stato responsabile della
loro presenza lì. Prede di guerra. - Massimo rabbrividì e mormorò. - Non riesco
nemmeno a dirti che cosa accadde loro.
All’udire quell’infelicità nella sua voce, serrai la mia stretta su
di lui. Non v’era fine al suo dolore? Non bastava che avesse perso il suo grado
e la sua libertà, che avesse perso la sua casa e la
sua famiglia? Doveva anche perdere l’illusione che avesse fatto la cosa giusta
come soldato di Roma?
Massimo mi strofinò gentilmente la schiena mentre io ero prostrata
contro di lui, svuotata e avvilita, il mondo un luogo
buio e tetro, le sue braccia l’unica salvezza e rifugio.
- Capisci adesso, - chiese con voce malferma, - perché non voglio
rischiare di implicarti in un complotto per liberarmi? Potresti finire in
quell’arena come intrattenimento per la folla. Non potrei mai vivere,
sapendolo.
Incapace di parlare, annuii contro la sua spalla e tirai su dal
naso. Rimanemmo così per parecchio tempo. Ciascuno confortando l’altro.
Ciascuno traendo conforto dall’altro.
Alla fine mi raddrizzai e gli presi il viso tra le mani.
- Mi dispiace averti chiamato egoista.
Egli sorrise e mi baciò le dita, il suo bacio dolce e soffice come
il tocco di una farfalla.
- Va tutto bene.
- La scorsa notte hai detto che eri responsabile per le morti dei tuoi cari e che meritavi di morire. Massimo…
che cosa è accaduto loro?
Istantaneamente lo sentii ritrarsi.
- Preferirei non parlarne questa sera.
Gli posai le mani sulle spalle e studiai il suo viso tirato.
L’istinto non mi aveva tradita. Olivia non era stata
semplicemente assassinata. Qualcosa di molto più terribile le era accaduto. E anche a Marco.
- Capisco, - dissi mentre dentro di me mi maledivo per avergli posto quella
domanda e mi scervellavo per trovare un modo per alleggerire l’atmosfera
angosciosa che era calata su di noi. Lo stomaco di Massimo brontolò come per
darmi un’imbeccata, una distrazione benvenuta in mezzo a quella tristezza. -
Oh, povera me, dimenticavo che non mangi da un bel po’ di tempo. Devi morire di
fame.
Sembrando grato per la scusa, Massimo si strofinò la pancia.
- E’ proprio così.
Mi alzai e lo tirai su per la mano.
- Vieni, il pasto ci starà aspettando nel mio appartamento. Probabilmente si
sarà freddato, adesso.
Massimo lasciò che lo spingessi giù dal
sentiero.
- Probabilmente non è rimasto niente. Probabilmente i tuoi gatti se lo saranno divorato di nuovo. I gatti meglio nutriti che io
conosca, - suggerì, prendendomi in giro dolcemente.
Risi.
- No, l’ho fatto coprire dai servi, questa volta. - Il mio braccio gli scivolò
intorno alla vita e Massimo posò la mano sulla mia spalla in istintiva
risposta. Sembrava così giusto. Così naturale. Così bello.
Sembrava come avrebbe dovuto essere.
Quando arrivammo alla
casa, i servitori stavano accendendo lampade e lanterne ed anche torce nei
supporti di ferro lungo la strada principale. Massimo si rimise in tensione,
vedendoli, ma il mio braccio stretto attorno alla sua vita gli impedì di
togliere la mano dalla mia spalla. I miei domestici erano ben addestrati sia in
efficienza che in discrezione, ma anche se uomini e
donne chinarono rispettosamente le teste, sapevo che stavano lanciando avide occhiate
verso l’uomo in tunica azzurra ed armatura di cuoio nero. Dalla morte di Mario
Servilio, nessun ospite aveva alloggiato alla villa e i visitatori maschi non erano mai andati oltre lo studio al primo piano.
Non molte proprietà romane sono gestite da una donna e talvolta la modestia può
essere utile. Inoltre, il lutto è la scusa perfetta per evitare ricevimenti.
Ignorando altezzosamente la loro curiosità celata a malapena,
guidai Massimo verso le scale e la salvezza del mio appartamento privato.
Con mia costernazione, c’era Apollinario a dirigere un gruppo di servitori
che si affacendavano intorno, portando piatti coperti ed anfore, biancheria e
tovaglie, piccole brocche e lampade. Le donne si affrettavano nel salotto
mentre gli uomini andavano e venivano nella seconda camera da letto. Quando ci videro, si fermarono di botto e si chinarono
rispettosamente. Apollinario s’illuminò.
- Appena in tempo! - disse. - Generale, i tuoi abiti sono appena arrivati e il tuo bagno è pronto.
- Grazie, - bofonchiò Massimo liberandosi in fretta del mio
braccio. Io lo lasciai andare e mi diressi verso la tavola per ispezionare la
cena, e i servitori, trasalendo, si mostrarono indaffarati con le loro faccende,
guardando contemporaneamente con la coda dell’occhio verso Massimo. Sapevano
chi era. Dovevano saperlo. Alcuni di loro erano stati ai giochi. Un uomo
sconosciuto che dormiva nell’appartamento privato della loro solitaria padrona
era una vera novità,
in una tenuta così tranquilla. Il gladiatore più famoso di Roma era un’altra novità,
e molto più emozionante.
Dal suo posto su un divano, Rubia guardava indignata la gente
agitata che osava disturbare la sua regale intimità e io non potei che essere
d’accordo con lei. Volevo che tutti uscissero e lo volevo
immediatamente, prima che la loro presenza distruggesse lo scarso successo dei
miei sforzi per alleviare l’umore di Massimo.
- Spero che la taglia sia giusta. Quando
li comprai, ti avevo visto soltanto da lontano… - continuò il mio ex
precettore, ignaro del trambusto.
Massimo annuì, chiaramente a disagio per l’attenzione che stava
ricevendo, sia dai servitori che da Apollinario.
Un dolore sordo mi cominciò dietro la testa. Rubia aveva ragione:
qualcuno doveva fare ordine, prima che le cose andassero fuori controllo… un
compito che di solito ricadeva sulle mie spalle.
- Uscite.
I servitori sobbalzarono al suono di quella che io in privato
chiamavo “la voce”. Sei anni erano passati da quando
il cuoco di Silvia Cornelia aveva cercato di mettermi le mani addosso. Nel
frattempo, avevo imparato a gestire non solo servitori insolenti, ma anche soprintendenti
boriosi, capitani recalcitranti, infidi agenti di commercio, arroganti concorrenti e indesiderati
corteggiatori. Avevo imparato quel trucco da mio marito, che alzava appena la
voce e la cui assoluta mancanza di emozione quando
dava gli ordini non lasciava alcun dubbio sul fatto che si aspettasse di essere
obbedito senza domande o ritardo, e di quali sarebbero state le conseguenze in
caso di fallimento nel farlo. I servi conoscevano quella premessa, e non ci
vollero che pochi secondi perché finissero i loro compiti e liberassero la
stanza, “la voce” avendoli anche avvisati di non tornare senza essere chiamati
e che i pettegolezzi non sarebbero stati tollerati. Mi voltai verso il mio ex
precettore, visto che Apollinario si spostava a disagio da un piede all’altro,
un chiaro indizio che era mortificato per non essere riuscito ad impedire una
situazione fastidiosa. Addolcii il mio tono.
- Per favore, amico mio, sii così gentile da cancellare tutti i miei appuntamenti per la prossima settimana. Non riceverò
nemmeno visitatori. Informa Atenodoro e Nicia che voglio che siano solo loro ad
occuparsi personalmente di me e del generale.
Apollinario annuì.
- Se ci saranno lettere da firmare e
spedire, approntale per l’ora di colazione. Gestisci personalmente ogni altra situazione.
Puoi aggiornarmi su ciò che devo sapere dopo che avrò messo le firme. A
proposito, dì ad Atenodoro che voglio che la colazione sia servita in terrazza.
- Come desideri, Giulia.
- Grazie, Apollinario. Ci vediamo domani mattina.
Il mio ex precettore s’inchinò leggermente, poi lasciò la stanza e
chiuse la porta.
Finalmente soli, rimanemmo in silenzio per un lungo momento,
semplicemente guardandoci l’un l’altra. Massimo parlò
per primo.
- Andrò a fare quel bagno.
- Ti serve aiuto? - Mi resi conto dell’errore solo quando era troppo tardi e arrossii violentemente. Dov’era il mio
intuito quando ne avevo un così grande bisogno? Dov’era la donna che riusciva a gestire facilmente non solo
servitori insolenti, ma anche soprintendenti boriosi, capitani recalcitranti, infidi agenti di commercio, arroganti
concorrenti e indesiderati corteggiatori? - Volevo di…
dire… tutte quelle fibbie…
Massimo sorrise dolcemente mentre lottavo per controllare il mio
confuso balbettio.
- Posso chiamare Fedro per aiutarti… Era il servitore di mio
marito… si annoia ora che non ha niente da fare… Apollinario ha portato il suo
valletto con sé… Fedro è anziano, ma…
Massimo sollevò la mano destra e gentilmente sfiorò la mia guancia
con il dito calloso, toccando la mia pelle con la
leggerezza con cui aveva toccato la vellutata rosa rosso sangue. Io rabbrividii
e distolsi lo sguardo.
- Giulia… Giulia… va tutto bene.. posso arrangiarmi da
solo… Inoltre, io sono uno schiavo…
- No.
- Giulia, - continuò lui, carezzando distrattamente la mia guancia,
- devi accettarlo…
- No.
- Giulia, io non dovrei essere qui… non
dovrei dividere il tuo appartamento… Devi pensare alla tua reputazione…
- No!
- Giulia, anche se si potesse accettare che mi hai affittato per…
io non dovrei abitare nel tuo appartamento privato… dovrei alloggiare da
qualche altra parte, con i tuoi servitori…
- NO!
Massimo sbatté le palpebre alla mia veemenza, ma non allontanò la mano, solo lasciò il dito posato sulla mia guancia.
- No, Massimo. Questa è casa mia e la mia parola è la sola legge che la regola, - dissi, ripetendo inconsciamente le parole di mio marito. - Ed in casa mia non ci sono schiavi. Solo servitori pagati e ospiti. Nel caso tu non l’abbia notato, tu ricadi nella seconda categoria. Inaspettato, ma benvenuto. Ed ora, generale, vai a farti il bagno. Ho fame e non posso cominciare a cenare prima del mio ospite…
Massimo mi offrì un mesto sorriso.
- Riuscivo sempre a capire quando eri arrabbiata con me, Giulia, perché
smettevi di chiamarmi ‘Massimo’ e, invece, mi chiamavi
‘generale’…
Non potei che restituirgli il sorriso, anche se non era gioioso.
- Non sono arrabbiata con te, Massimo…
- Nemmeno perché mi sono rifiutato di fuggire?
Inalai un
profondo respiro tremante.
- Riesco a capire le tue ragioni per aver rifiutato di fuggire, Massimo. Riesco
perfino ad accettare e rispettare la tua decisione. Ma
non puoi chiedermi di esserne contenta. Nemmeno tu puoi pretendere tanto da me…
Qualcosa lampeggiò nelle profondità dei suoi occhi d’un azzurro stupefacente. Egli inghiottì a fatica e sbattè rapidamente le palpebre, come cercando di nascondere un’emozione indesiderata, poi lasciò cadere la mano, abbassò lo sguardo e rimase in silenzio.
- Vai, Massimo. Io ho davvero fame.
Senza una parola, girò sui talloni ed entrò nella camera, chiudendo la porta dietro di sé.
Rimasi in silenzio in salotto per un momento, poi mi affrettai verso la terrazza, sentendo un gran bisogno d’aria fresca, anche se ero appena ritornata dai giardini. Solitamente, la gloriosa vista del mare era sufficiente a lenire il mio spirito e il sedermi là, tra gli alberi in vaso ed i fiori, non mancava mai di aiutarmi a riprendere il controllo. Ma non quel giorno. Non quando si trattava di Massimo. Guardai senza vederla l’acqua oltre la spiaggia sabbiosa, rivedendo solo il turbamento che avevo scorto brevemente negli occhi color del mare di Massimo.
Bruscamente mi voltai, andai verso la porta della seconda stanza da letto e bussai piano. Non avevo la minima idea di quale scusa avrei offerto per insinuarmi nella sua intimità e non m’importava. Avrei sempre potuto dire che volevo verificare che i servitori avessero fatto il loro lavoro in modo appropriato, non importa quanto debole potesse suonare quella scusa dopo la vivace dimostrazione di efficienza di Apollinario.
Non vi fu risposta.
Bussai di nuovo.
Ancora ci fu soltanto silenzio.
Lentamente, abbassai la maniglia e la porta si aprì.
- Massimo?
La stanza era vuota.
Non ricordavo di esservi mai più entrata dal mio arrivo alla villa come sposa. Essa era rimasta chiusa, rimanendo aperta soltanto quando le cameriere la pulivano e lucidavano il pavimento e la mobilia. Il fatto che fosse la stanza destinata al bambino che non era nato me la faceva evitare accuratamente, così come evitavo tutti i pensieri riguardanti quel bambino.
Nella luce dorata della lampada scoprii che era più grande di quanto ricordassi e ben arredata come ogni stanza della villa. Era senza finestre, ma non opprimente, con affreschi pastorali a decorare le pareti, che proseguivano sul soffitto dipinto che rappresentava un cielo. C’era un letto grande e confortevole, con le coperte di una delicata sfumatura di verde che s’intonava perfettamente ai murali, ed ai piedi una cassapanca intarsiata. Gli abiti nuovi di Massimo erano sul letto, ordinatamente impilati; tre tuniche: una bianca, una color sabbia e una color rosso vino… indumenti intimi maschili, due cinture ed un paio di buoni sandali.
Un tappeto di lana grande e di fattura palesemente orientale ricopriva una buona porzione del pavimento a mosaico, e due grandi armadi di legno dominavano una parete, mentre una sedia era vicina ad un tavolino dove un supporto per lampade ospitava quattro lanterne di bronzo accese. Un’altra bruciava su un secondo tavolo vicino al letto e c’erano anche una ciotola di frutta fresca, una brocca d’argento ed una coppa. La porta chiusa dall’altro lato della stanza mi disse tutto quanto avevo bisogno di sapere sull’attuale collocazione del suo occupante. Essa si apriva su una grande stanza da bagno piastrellata, completa di gabinetto, vasca e bacile, illuminata durante il giorno dalla luce che entrava attraverso una cupola di vetro.
Vedendo che era già troppo tardi per parlare a Massimo e che dovevo aspettarlo venire a tavola, mi voltai per lasciare la stanza, ma qualcosa dall’altra parte del letto catturò la mia attenzione. La corazza di cuoio nero giaceva sul pavimento, dove Massimo l’aveva abbandonata insieme ai suoi robusti stivali. La sua tunica azzurra da schiavo era atterrata qualche passo più in là, dal momento che se ne era liberato sul suo cammino verso la stanza da bagno, spargendo armatura e vestiti come una crisalide butta via il suo brutto bozzolo per liberare una bella farfalla.
Tirai su la tunica, che conservava ancora debolmente il calore del suo corpo. Era fatta di ruvido lino, sfilacciata, molto spiegazzata, niente più che un cencio, eppure era apparsa così regale su di lui… Me la avvicinai al naso e avidamente la annusai. Sapeva di cuoio e sudore e dell’odore di lui, unico, muschiato, virile. Chiusi gli occhi, stringendo la sua tunica contro i miei seni come desideravo stringere lui, le mie narici colme del suo profumo, la mente inondata di immagini di Massimo che gettava via i vestiti e camminava nudo verso la vasca da bagno… Non avevo mai visto Massimo svestito, eccetto che nei miei sogni. Non l’avevo mai visto nemmeno a torso nudo, il suo corpo completamente negato a me da abiti e insegne militari, e dal suo stesso autocontrollo. Ma quello che avevo già visto di esso era più che sufficiente.
Mentre rimanevo lì, con gli occhi chiusi, il naso sepolto nella sua tunica, la dolce, familiare febbre cantò nelle mie vene e io sentii la mia pelle riscaldarsi e diventare sensibile… Non avevo mai visto Massimo svestito… e ora, soltanto una porta chiusa si ergeva tra noi, tra la sua virile beltà nuda e me…
Sarebbe stato così facile fare pochi passi e aprire quella porta… Sarebbe stato così facile entrare nella stanza da bagno, slacciarmi i fermagli da spalla che trattenevano la mia tunica e lasciarla cadere vicino alla vasca da bagno di marmo… Sarebbe stato così facile entrare nell’acqua calda profumata che la colmava e scivolare contro il suo corpo nudo, bagnato, simile a quello di un dio…
Mi avrebbe respinta? O avrei visto i suoi occhi bruciare del fuoco azzurro che aveva bruciato nelle loro profondità sei anni prima in una piccola alcova cortinata? Si sarebbe sentito oltraggiato? O sollevato che avessi preso io l’iniziativa al suo posto? Mi avrebbe accettata, la vera Giulia, quando mi avesse presa tra le sue braccia? O avrebbe chiuso gli occhi e finto che la donna che stava prendendo fosse la moglie morta?
Un soffio di profumo fluttuò verso di me… qualcosa come legno… resina e pino e erbe… Sapone… Fu seguito da un suono di spruzzo… qualcuno che si strofinava con energia… I miei occhi si spalancarono… C’era qualcosa di sbagliato… Terribilmente sbagliato… Quando erano chiuse, le pesanti porte di quercia intarsiata del mio appartamento soffocavano ogni suono.
Ma la porta non era chiusa come avevo pensato quando ero entrata nella camera di Massimo. Invece, era leggermente socchiusa e mentre mi voltavo, colsi una fugace visione del pavimento piastrellato della stanza da bagno e del bacile. Affascinata, rimasi lì, ascoltando i rumori provenienti da oltre la soglia, mentre Massimo si lavava con l’efficienza di un soldato e l’entusiasmo di un romano.
Strinsi la mia presa sulla tunica, con il cuore che si affrettava e la mente che gridava che avrei dovuto uscire dalla camera, che non avrei dovuto farmi trovare lì, apparentemente a spiarlo anche se non era stata mia intenzione, tuttavia il mio corpo si ribellava contro il bisogno di lasciarlo e mi incalzava ad andare da lui, ad attraversare la soglia ed unirmi a lui… ad attraversare la soglia e farlo mio…
Improvvisamente, vi fu un sonoro spruzzo seguito dal silenzio. Attraverso la fessura aperta vidi del vapore. Poi qualcosa di bianco. Un asciugamano. Egli era uscito dalla vasca da bagno e si stava asciugando. Dovevo andarmene. Da un momento all’altro avrebbe aperto la porta e sarebbe entrato nella camera, e mi avrebbe trovata proprio lì, abbracciata alla sua tunica, ad invadere la sua intimità…
Non mi mossi.
I miei occhi colsero un movimento. Un’ombra. Poi, una fugace visione di nuda pelle luccicante, abbronzata, tesa su muscoli ben sviluppati.
La schiena nuda di Massimo.
La curva di un sedere rotondo, mirabilmente scolpito, duro come pietra.
Sempre stringendo la sua tunica da schiavo, corsi fuori della camera.