Diario di Giulia - Parte seconda

Diario di Giulia (indice capitoli)
Diario di Giulia - Parte seconda (indice capitoli)


Storie de Il Gladiatore

Julia’s Journal
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Capitolo XI - In catene, 180 d.C.

Le sopracciglia scure di Massimo si sollevarono con aria interrogativa.
- Obbedisci e basta, - sbottai andando verso di lui.

Massimo appariva perplesso ma non allarmato. Per nulla allarmato. Con atteggiamento obbediente, tese le braccia, le mani vicine, le palme in giù. Quando fui abbastanza vicina, estrassi i ceppi da dietro la schiena, dove li avevo tenuti nascosti, e cercai di catturargli entrambi i polsi, armeggiando frettolosamente. Massimo vide che cosa stavo cercando di fare e di riflesso ritirò le mani. Ma controllò le sue emozioni, qualunque esse fossero, e si sforzò di rilassarsi, finché io riuscii a chiudere i ceppi.

Rimase lì, tenendo le mani distese così che potessi vedere quello che ero riuscita a fare, come se volesse rassicurarmi. Forse pensava che avevo improvvisamente paura di lui, dello straniero che aveva dichiarato di essere diventato negli anni trascorsi da quando eravamo stati insieme in Mesia. Poi alzò di nuovo le sopracciglia con aria interrogativa, un movimento così sottile e regale che mi fece balzare il cuore in petto. Non mancava mai di stupirmi il fatto che nonostante le sue umili origini, tutto il suo essere ed ogni suo gesto riuscivano ad essere nobili e maestosi. Perfino reso schiavo ed ammanettato, aveva l’aria regale ed infinitamente potente e dignitosa. Certe cose non cambiano mai. E Massimo era ancora Massimo, non importa che cosa egli preferisse credere.

Combattei i miei stessi sentimenti e fissai lo sguardo sui suoi polsi ammanettati... polsi che io stessa avevo ammanettato... d’un tratto incapace di spiegare perché o come l’avevo fatto, o cosa stessi cercando di ottenere incatenando l’uomo orgoglioso e forte in piedi di fronte a me. L’uomo che amavo con un’intensità prossima all’ossessione. L’uomo che ero stata pronta ad allontanare da me per sempre, e che tuttavia rifiutava la fuga e la libertà in nome della vendetta. L’uomo che ero stata pronta a perdere pur di restituirlo alla moglie... e che tuttavia rifiutavo di perdere a causa della vendetta e della morte.

Massimo mi studiò con curiosità. Non sembrava arrabbiato. Solo intrigato dal comportamento misterioso della donna che sei anni prima egli aveva affrancato dalla schiavitù e dalla prostituzione, e che gli aveva appena ammanettato i polsi. La donna che egli aveva salvato dalla schiavitù, ma per gettarla in una specie peggiore di schiavitù, perché l’amore non corrisposto ci incatena più saldamente di qualunque legame d’acciaio...

Guardai brevemente il viso di Massimo prima di tornare al tavolo da dove avevo preso i ceppi, e ritornai con le catene. Quando le vide, la sua espressione mutò da curiosità ad irritazione. Lasciò cadere le mani e sembrò pronto ad allontanarsi da me.

- Dammi le mani, - ordinai il più fermamente possibile, tuttavia la mia voce suonò incerta perfino a me.

Massimo studiò il mio viso, ma io evitai il suo sguardo.
- Giulia… basta, - cominciò, col tono di un padre che ha deciso che la sua bambina è diventata improvvisamente capricciosa e che è giunto il momento di por termine ai giochi.

Deglutii a fatica. Non ero una bambina. Io ero quella che comandava.
- Dammi le mani.

Cercò di prendermi in giro. Non avrebbe dovuto.
- E’ un ordine? La padrona sta ordinando allo schiavo di lasciarsi incatenare?

Mi morsi il labbro inferiore, ma rifiutai di rispondere, cercando soltanto di non perdere il mio precario terreno.

Massimo sospirò con finta rassegnazione e sollevò di nuovo le mani, guardandomi armeggiare con le catene. Ancora non sembrava arrabbiato. Soltanto divertito. Il che era peggio. Con la coda dell’occhio, vidi i gatti agitarsi e lanciare occhiate sdegnose agli umani puerili che li avevano svegliati con il loro comportamento ridicolo e poco dignitoso.

Riuscendo finalmente ad infilare con successo le catene negli anelli dei suoi ceppi di ferro, rimasi in piedi in preda alla confusione, fissando le estremità che ciondolavano dalle mie mani... catene fredde e pesanti e apparentemente inutili. Io ero libera. Lui era uno schiavo. Gli avevo incatenato i polsi. Gli avevo attaccato le catene ai ceppi. Comandavo io, non lui... allora perché ero io quella che si sentiva indifesa e non lui?

- Forse dovresti incatenarmi a quella colonna laggiù, ma le catene potrebbero rovinare un po’ il marmo, - suggerì lui in tono leggero. Era evidente che, nonostante la sua iniziale irritazione, non stava prendendo sul serio né me né quello che stavo facendo. Fu un errore. Grave. Un errore che i miei capitani e i miei agenti avevano imparato ad evitare. Un errore che ad Avidio Cassio era costato la vita. Non lo sapeva Massimo? Non avrebbe dovuto conoscermi meglio?

Fomentata dal ricordo di quello che era accaduto sei anni prima in una tenda militare in Mesia... il ricordo del momento in cui avevo brevemente preso il sopravvento su Cassio ed avevo per la prima volta preso in mano la mia vita... la mia confusione cambiò in convinzione. Afferrando Massimo per le braccia, lo feci voltare bruscamente e lo spinsi all’indietro non proprio gentilmente, finché la sua schiena non incontrò il freddo marmo della colonna sul lato opposto della sala rispetto a quella che lui aveva suggerito. Per niente al mondo avrei seguito il suo divertito suggerimento. Invece, gli avrei mostrato chi comandava. Egli non oppose resistenza e, giunti alla colonna, avvolsi le lunghe catene attorno ad essa e le tirai di nuovo davanti a lui, costringendolo a piegare i gomiti e a poggiare le mani sulla vita. Non armeggiai e per un attimo fu facile credere che comandavo io... tuttavia la mia confusione tornò quando mi resi conto che stavo tenendo le estremità delle catene ma non avevo niente con cui bloccarle.

- Non sei molto brava in queste cose, vero? E’ ovvio che non sei abituata a domare gli schiavi difficili, - disse Massimo, con evidente umorismo nella voce. Ovviamente pensava che fosse una sorta di scherzo puerile che doveva sopportare di buon grado, assecondando la donna che egli aveva salvato dalla schiavitù e dalla prostituzione. Aveva fatto così anche quando mi aveva promesso di insegnarmi a nuotare, in modo da potersene andare mentre, rassicurata dalla sua promessa, dimenticavo nel sonno la mia infelicità e sognavo di sua figlia? Non lo aveva sfiorato il pensiero che io ero pronta a fare qualsiasi cosa pur di raggiungere il mio scopo? Che negli ultimi anni, fare a modo mio era stata la principale occupazione della mia vita quotidiana?

Lanciai un’occhiata al tavolo dove avevo lasciato chiave e catenaccio e lo udii ridacchiare. Erano troppo lontani perché riuscissi a raggiungerli. Furiosa, maledicendo dentro di me la mia mancanza di buon senso, gettai a terra le catene, ghermii chiave e catenaccio e mi voltai di scatto per affrontare Massimo, certa che si fosse liberato, pronta a gettarmi su di lui se l’aveva fatto... Non si era mosso. Tuttavia, la sua mancanza di resistenza era tutt’altro che rassicurante. Aveva piuttosto l’aria di una presa in giro.

Raccolsi di nuovo le catene e, usando tutte le mie forze, le strinsi il più possibile. Massimo grugnì sorpreso e io provai una cupa soddisfazione mentre allentavo un po’ la catena, spingevo il catenaccio attraverso le maglie della catena e lo richiudevo di nuovo. Poi, feci un passo indietro e lo guardai, con gli occhi spalancati e le dita premute contro la bocca.

Avevo incatenato un uomo.

Avevo incatenato uno schiavo.

Avevo incatenato Massimo.

Egli rispose a quello che doveva essere il mio sguardo turbato con un’espressione serena, rifiutando di perdere il controllo anche se era di nuovo in catene. Anche se la donna che pensava di conoscere non si era comportata per nulla come lui si era aspettato.

- E’ questo che vuoi? - chiese, e il leggero sarcasmo nella sua voce mi riportò bruscamente alla realtà e all’urgenza della situazione.

- Quello che voglio è che tu vada a bordo di quella nave, - dissi.

- Giulia…

- Ordinerò ai marinai di trascinartici e di incatenarti nella stiva, - dissi, rifiutando di ammettere la punta di disperazione nella mia stessa voce.

- E se il capitano non è d’accordo? - chiese con il suo tono più ragionevole.

- Lo sarà. Possiedo quella nave e lui è un mio impiegato, Massimo. A dire il vero, possiedo un’intera flotta di navi, - risposi gettandomi indietro i capelli con un movimento impaziente del capo. Negli anni che erano passati dal mio matrimonio mi ero disabituata alla sensazione dei capelli sciolti sulle spalle o ricadenti sul viso. Mentre ero schiava e prostituta, ero solita nascondermi dietro i miei capelli lunghi fino alla vita, lasciandomeli ricadere sul viso come una cortina d’oro rosso, per velare gli sguardi d’odio o tristezza, rifiutando di concedere, a coloro che usavano il mio corpo a loro piacimento e per il loro egoistico piacere, la vittoria finale di vedere quello che c’era nel mio cuore e nella mia anima. Ma io non ero più quella Giulia... “la migliore che abbia mai allevato”. Io non mi nascondevo. Non avevo bisogno di nascondermi. Era meglio prendermi sul serio... e non darmi per scontata.

Massimo annuì e mi guardò come se mi vedesse per la prima volta. Il suo viso era studiatamente ammirato. Non mi aveva presa sul serio. Mi aveva data per scontata. Adesso, stava cominciando a capire entrambi i suoi errori.

- Sono impressionato, - disse. - Di certo non sei la stessa donna che conobbi… quanti anni fa?

Quel tono casuale nel menzionare il passato mi ferì. Mi ferì profondamente.

Rifiutai di permettere al dolore di scoraggiarmi dal mio proposito.

- Non sono cambiata poi tanto, Massimo, e nemmeno tu. Le nostre condizioni sono diverse ma siamo le stesse persone di allora.

- Giulia, se quando Proximo ritornerà io non sarò qui, ucciderà un uomo che mi salvò la vita. Non posso permettere che questo accada. Juba non deve morire a causa della mia libertà.

Nononostante mi sforzassi di evitarlo, i miei occhi luccicarono di calde lacrime brucianti alla menzione della crudeltà di quel mondo che era divenuto il suo. Un mondo nel quale la vita umana aveva ancor meno valore di quanto ne ha di solito.
- Forse non lo farà… forse Proximo non diceva sul serio, - dissi sforzandomi di mantenere un tono fermo, e non riuscendovi.

- Proximo non può lasciare impunita la fuga di uno schiavo. Gli altri lanisti pretenderebbero una punizione severa per dimostrare ai loro schiavi che una cosa del genere non è tollerata. Non sarei sorpreso se pretendessero che Proximo condanni a morte tutti i suoi gladiatori come punizione per la sua negligenza con me. Non potrei vivere sapendo che ho causato la morte di uomini che considero miei amici. Inoltre, non c’è un angolo di questo impero che Commodo non frugherebbe pur di scovarmi. Che cosa importa se muoio tra poche settimane o tra pochi mesi?

Che cosa importava? Come poteva chiedere a me che cosa importava? Sei anni prima avevo rischiato la mia vita per proteggerlo ed aiutarlo a salvare il trono del suo imperatore. Sei anni prima ero stata pronta a morire per lui... lo ero ancora. Non molto tempo prima, seduta nella seconda gradinata del Colosseo, avevo implorato gli dei, che intenzionalmente avevo sempre ignorato per mancanza di fede e personale risentimento, di prendere la mia vita, ma di lasciare che lui vivesse... Come osava chiedermi che cosa importava se moriva o no?

- Sì! Sì, voglio morire! Voglio morire da sempre, da più tempo di quanto io possa ricordare, ma non lo sapevo! Non fino a questa notte! Voglio morire, generale Massimo! Che te ne importa, a te?

Sei anni prima, gli avevo posto la stessa domanda. Egli era entrato nella mia vita e l’aveva mandata in frantumi in un batter d’occhio. Era entrato nella mia vita e all’improvviso io avevo scoperto che cosa significasse essere viva. Viva veramente, viva dolorosamente. Avevo imparato che cosa significasse sentirsi al caldo, al sicuro, amata e che cosa significassero il bisogno, il desiderio e l’essere saziata. E avevo scoperto anche che, avendo conosciuto tutto questo, non potevo più continuare a vivere come avevo vissuto fino a quel momento. Non potevo continuare in quel modo nemmeno per un altro giorno, e avevo cercato di porre fine alla schiavitù e alla prostituzione, al desiderio e al bisogno. Ma il fato lo aveva impedito e, quando Massimo aveva scoperto che avevo cercato di tagliarmi i polsi, si era infuriato.

- Che me ne importa, a me? Osi chiedermi che me ne importa se tu vivi o muori?

Ma anch’io ero furiosa e avevo superato ogni paura, come poco prima, sdraiata su un divano e implorandolo di prendermi, avevo superato ogni vergogna. Lo avevo sfidato, avevo deriso la sua preoccupazione e Massimo mi aveva scossa rudemente, provocandomi lividi sugli avambracci, e la sua voce profonda si era trasformata in un ruggito basso e minaccioso.

- Lo sai quante persone ho visto morire? Lo sai quanti uomini e ragazzini ho visto implorare gli dei e i medici di non farli morire? Lo sai quante persone ho ucciso o mandato a morire? Lo sai che cosa fanno all’anima di un uomo tutto quel sangue e quelle morti?

Si era fermato bruscamente, ma era già troppo tardi e lo sguardo sconcertato nei suoi occhi mi aveva rivelato che aveva detto troppo, aveva dato voce ad un qualcosa sepolto nelle profondità della sua anima, qualcosa che lo tormentava. Qualcosa che non aveva mai confessato a nessuno... nemmeno a se stesso. C’era stato un lungo silenzio tra noi, poi Massimo aveva abbassato la testa e la sua bocca aveva schiacciato la mia in un bacio duro e punitivo. Mi aveva baciata con un’intensità così selvaggia da ferirmi le labbra, ed il sapore metallico del sangue mi aveva riempito la bocca...

E adesso, lui voleva morire.

- Tutto per vendetta? Vivi per vendetta? Rimani per vendetta? - domandai, una strana domanda per una donna che aveva agognato ella stessa la vendetta. Che ancora l’agognava. Che ancora aveva molto di cui vendicarsi nonostante la ricchezza, il potere e la libertà.

Massimo abbassò lo sguardo per la prima volta da quando ci eravamo incontrati.
- E’ molto di più di questo… molto di più, - disse calmo.

- Allora spiegamelo, perché io non capisco.

Egli evitò di guardarmi. Anzi, guardò il tavolo dove era stata apparecchiata la nostra cena d’addio.
- Mi avevi promesso cibo, vino e comodità. Invece, mi ritrovo di nuovo incatenato.

Parlò in tono leggero, anche se suonava forzato. Stava cercando di distrarmi, di distogliermi dai miei piani di liberarlo e di aiutarlo a fuggire da Roma, come un padre che cerchi di parlare ad una bambina sconvolta per dei progetti andati in fumo a causa del brutto tempo.

Appoggiato contro la colonna, sembrava rilassato e calmo, ma io non mi lasciai ingannare. Non importa quanto strenuamente si rifiutasse di ammetterlo, nemmeno il suo controllo d’acciaio bastava a nascondermi il suo turbamento interiore. Professava di voler morire, ma non c’era stato alcun desiderio di morte nei suoi occhi, quando mi aveva guardata per la prima volta sotto la luce delle lampade ad olio. Non c’era stato alcun desiderio di morte nel suo abbraccio, quando mi aveva stretta contro il suo corpo caldo...

Osservai il suo viso rudemente bello, i suoi meravigliosi occhi verdazzurri, il naso elegante, la dolce bocca finemente scolpita, il mento fermo, l’ampio petto fasciato da strisce di cuoio nero e fibbie, le braccia e le gambe forti, muscolose e abbronzate... e scoppiai in lacrime.
- Ben ti sta. Ti meriti di essere incatenato, - singhiozzai sapendo di essere irragionevole, perfino assurda... e senza che m’importasse. Senza che m’importasse per niente.

Massimo fece un movimento verso di me, ma fu subito bloccato dalle catene.

- Giulia?

C’era sollecitudine nella sua voce e nei suoi occhi, ma era troppo tardi. Io ero al di là della sollecitudine. Ero al di là della ragione. Ero furibonda. Tremendamente furibonda. Furibonda con la vita e con il fato, e con l’iniquità di entrambi. Furibonda con Massimo che voleva morire quando gli stavo ridando la vita e la libertà... e l’occasione di amare ed essere di nuovo amato. E furibonda con me stessa per non aver imparato a non volere e a non desiderare quello che non potevo avere, e che invece continuavo a volere e a desiderare, e a soffrire.

- Quanti anni sono passati, Massimo? E’ questo che hai appena chiesto? Ebbene, so dirti esattamente quanti anni sono passati, fino al giorno e all’ora esatti in cui nella tua uniforme da generale ti vidi dirmi addio… e liquidarmi dalla tua vita!

I gatti sobbalzarono al veleno nella mia voce. Ormai completamente svegli, mi fissavano con occhi sbarrati. Nigra, sempre la più timida, schizzò dietro un divano mentre Rubia mi si avvicinò cauta, gli occhi verdi curiosi ma guardinghi. Phoenion guardò me, poi Massimo, poi di nuovo me e decise che non ne valevamo la pena. Si raggomitolò di nuovo e chiuse gli occhi dorati.

Massimo rimase zitto.

Io proseguii. Non avrei potuto fermarmi nemmeno se la mia vita fosse dipesa da quello. Non volevo fermarmi. Ero troppo delusa, sdegnata e frustrata. Troppo esacerbata.

Perché non riuscivo a togliermelo dal cuore? Perché non riuscivo ad odiarlo per tutto il dolore che mi aveva inflitto con il suo rifiuto, dandomi poi uno scorcio di quanto avrei potuto avere se le nostre condizioni fossero state diverse, e infine mettendomi da parte? Perché non riuscivo ad odiarlo nemmeno adesso, quando mi stava respingendo ancora una volta?

- Tu mi hai ossessionato… ogni ora di ogni giorno degli ultimi sei anni ho pensato a te e mi sono chiesta dove tu fossi e cosa stessi facendo e se stavi bene. Ti immaginavo tra le braccia di tua moglie e piangevo sapendo che non avrei mai potuto averti.

Le lacrime mi rotolarono giù dalle guance. Non mi curai di asciugarle.

Massimo guardava fissamente il tappeto.
- Mi dispiace, - sussurrò.

Gli dispiaceva? Gli dispiaceva? Il rifiuto e l’ironia non erano abbastanza, che doveva aggiungere la pietà ad essi? Sei anni prima, quando un giovane tribuno di nome Marzio mi aveva chiamato “la puttana” in sua presenza, la bruciante intensità del suo sguardo mi aveva dato i brividi. Era stato lo sguardo tormentato di un uomo che deve destreggiarsi sia con circostanze pericolose che con i propri demoni, perché i suoi abbaglianti occhi azzurri bruciavano di rabbia amara e sollecitudine, di colpa e tristezza, di furia rovente e tenerezza... e di pietà. Sei anni prima, avevo silenziosamente implorato che non mi giudicasse per ciò che ero. Che non mi disprezzasse per essere una prostituta. Ma soprattutto avevo implorato che non provasse pietà per me... Ma io non ero più quella donna, non ero più né “la migliore che abbia mai allevato” né “la puttana”. Non imploravo. Non avevo bisogno di implorare. Io davo ordini. Io decidevo. E facevo a modo mio.

Raddrizzando la schiena, sollevai il mento, la mia voce più ferma e più gelida nonostante le lacrime cocenti che mi rotolavano sulle guance.

- Non essere dispiaciuto, Massimo. Non capisci? Troppe volte il mio amore per te è stato la sola ragione per cui volevo vivere. Mi struggevo d’amore per te, Massimo… fin dal primo giorno in cui ti vidi… ed ogni giorno da allora.

Massimo guardò il soffitto e batté le palpebre, contraendo i muscoli della gola abbronzata mentre deglutiva a fatica. Chiuse gli occhi e piegò la testa contro il marmo della colonna dalle venature dorate, sopportando il suo Ade personale, e quell’Ade non aveva nulla a che fare con la morte e la schiavitù e nemmeno con l’uccisione della sua famiglia. Riguardava lui e me, e quello che era accaduto tra le cortine di un’alcova durante il festino di Cassio. Riguardava lui e me, e quello che era accaduto in una vasca da bagno colma d’acqua calda profumata e di petali di rosa mentre la morte incombeva su di noi. Riguardava lui e me, e quello che era accaduto in una tenda militare tra una schiava drogata e seminuda ed un bel generale romano. Stava rivisitando angoli oscuri nel suo cuore e nella sua anima che non aveva mai guardato per anni. Angoli oscuri che aveva probabilmente evitato nello stesso modo in cui aveva evitato me dopo la morte di Cassio...

Non era possibile che avesse ignorato che lo amavo. Non era possibile che si fosse convinto che il mio amore per lui non fosse altro che un’infatuazione fanciullesca di una giovane schiava per il suo bel salvatore. L’aveva capito benissimo... anche se aveva cercato di ignorarlo. Tuttavia, il sentirmelo dire ad alta voce aveva inciso pesantemente sul suo avvilimento. Avrebbe dovuto essere il mio turno di aver pietà di lui, ma io ero così infuriata, così amaramente infuriata che la mia esplosione alla spiaggia quel tempestoso pomeriggio sembrava al confronto una bizza infantile. Nemmeno la vista del suo stesso dolore bastava a placare la mia collera tormentosa.

- Eppure, tu nemmeno una volta pensasti di nuovo a me, vero, Massimo? Eri troppo occupato con la tua famiglia ed a salvare l’impero per ripensare anche solo una volta a quella giovane prostituta schiava.

- Questo non è vero, - mormorò Massimo, gli occhi ancora chiusi.

Mi avvicinai e gli afferrai gli avambracci, affondando le unghie nella sua carne, il tono esigente e basso per il senso di urgenza. 
- Allora perché non hai mai risposto alla mia lettera?

Con la coda dell’occhio, notai vagamente un movimento vicino alla porta ma non vi prestai attenzione, concentrata com’ero su Massimo, su ogni suo gesto, movimento e parola.

- Lettera? - Massimo mi guardò, il suo bel viso barbuto vicinissimo al mio, il tono perplesso.

Mi tornò in mente lo sguardo ipocrita nella faccia di Emilio Trebuzio Flacco ogni volta che sollevava l’argomento della lettera che aveva inviato a mio nome a Vindobona, e la sottile ironia nella sua voce cortese quando spiegava che ancora non c’era stata risposta. L’umiliazione che ogni volta avevo rifiutato di ammettere, all’improvviso mi si rovesciò tutta addosso e io ruotai su me stessa e mi allontanai per nascondere a Massimo il mio viso bruciante, rifiutando di offrirgli la vista della mia infelicità più profonda... nascondendomi dietro i miei capelli d’oro rosso per la prima volta da quando ero diventata una donna libera. Per un momento, nella stanza non vi fu altro suono che il mio respiro singhiozzante. Poi, lottando per riprendere il controllo, lo affrontai di nuovo, le mani sui fianchi e la testa sollevata in gesto d’accusa, molto simile alla figura della moglie maligna nella rozza farsa romana, tuttavia incapace di fermarmi.
- Mi fu riferito che tu ricevesti la lettera. Non cercare di negarlo.

- Sì, la ricevetti. Io…

- Ma non inviasti risposta!

- Giulia, - supplicò. - Mi giunse quando ero a Castra Regina. Arrivò appena qualche ora prima che l’accampamento subisse l’attacco delle forze barbare. La lessi, Giulia, e avevo anche cominciato a rispondere, ma… non ne ebbi il tempo. Giulia… ero in guerra. La mia stessa fortezza fu attaccata giorni dopo e persi centinaia di uomini. Fui ferito gravemente…

Mi stavo infuriando sempre di più. Il mio volto arrossato bruciava, non a causa dell’umiliazione ma per la rabbia che mi consumava. Con fare insolente, incrociai le braccia.

- Avresti potuto rispondere più tardi.

- La lettera andò perduta. Deve essere stata arrotolata insieme alla mia tenda perché non riuscii più a trovarla, dopo.

- Come mai il non ritrovare la lettera ti impedì di rispondere? - lo incalzai impietosamente. Massimo si leccò le labbra aride, un uomo imbarazzato, che cercava di ragionare con qualcuno che sragionava, che cercava di mantenere il controllo anche se tutto intorno a lui stava diventando incontrollabile. Perché non riusciva ad essere soltanto un semplice, banale essere umano? Perché doveva essere sempre al di sopra dei semplici mortali, nonostante le circostanze più difficili?

- Non riuscii a ricordare il tuo nuovo nome o dove tu abitassi. La feci cercare dal mio servitore ma nemmeno lui riuscì a trovarla. Sai chi la trovò, Giulia? Sai chi la trovò alla fine?

Strinsi le labbra con espressione testarda. Il suo tono non lasciava alcun dubbio su chi l’avesse trovata. Eppure volevo che lo dicesse lui. Volevo l’amara soddisfazione di udirlo dire che la sua moglie contadina aveva saputo che io esistevo... e che suo marito non era stato completamente insensibile ad un’altra donna. Volevo l’amara soddisfazione di sapere che la donna che aveva il cuore di Massimo e il suo corpo e la sua fedeltà, la donna che gli aveva impedito di diventare mio anche solo per una notte, la donna senza volto che ancora lo reclamava dall’Altra Vita aveva sofferto almeno una volta quanto avevo sofferto io, e per la stessa ragione per cui avevo sofferto io ogni giorno e ogni notte degli ultimi sei anni.

- Mia moglie, ecco chi. Era con me a Vindobona. Dovetti spiegarle chi eri e perché avessi ricevuto una lettera... che Olivia era convinta fosse una lettera d’amore... da una donna che non le avevo mai nominato.

Ecco. L’aveva detto. Eppure non era sufficiente. Non mi bastava.
- Avresti potuto fare indagini per scoprire dov’ero, se davvero avessi voluto.

- ERO IN GUERRA! ERO UN GENERALE RESPONSABILE DI UN ESERCITO!

Massimo esplose con furia ruggente e lottò contro i ceppi, scuotendo gli anelli di ferro che sbatacchiarono rumorosamente. Accadde così all’improvviso che sobbalzai a tal punto da cadere quasi per terra, la sua ira bruciante così intensa che mi fece l’effetto di un pugno. Sconvolta, indietreggiai di un passo e mi premetti la mano sul cuore martellante. Rubia schizzò dietro un divano e Phoenion corse verso la terrazza. Non lo avevo mai udito alzare la sua voce tonante a causa dell’ira. Nemmeno quando aveva preso il comando della legione di Cassio e ordinato l’arresto dei suoi ufficiali. La sua rabbia mi attraversò completamente come un lampo accecante e io vidi nei suoi occhi la verdazzura luce assassina che i suoi nemici vedevano prima di morire. Tesi le mani tremanti per cercare di placarlo, senza osare toccarlo, mentre la sua furia tuonava ed echeggiava come una violenta tempesta di mare.

- Stavo combattendo per salvare città romane, cittadini romani, soldati romani! Stavo combattendo per proteggere l’impero! Ma persi, Giulia, persi tutto! La mia famiglia, il mio imperatore, il mio esercito… la mia libertà! E per tutto quel tempo tu eri preoccupata per una dannata lettera! - Il petto di Massimo si abbassava e sollevava e il suo viso era rosso. Chinò la testa e la scosse tristemente. - E tu eri preoccupata per una dannata lettera, - ripeté, completamente svuotato.

Il suo corpo crollò contro la colonna. Rimase così per un istante, poi all’improvviso sollevò la testa e rise con amarezza.
- Che cosa volevi fare questa notte, Giulia… Punirmi per quella lettera? E’ per questo che sono stato tormentato da quel tuo amico, Apollinario, e lasciato appeso per ore a quelle catene a pensare che stavo per essere stuprato… per essere lo schiavo sessuale del tuo amico per una settimana? Proprio come lo sei stata tu? - Massimo fece ricadere di nuovo la testa contro la colonna. - E’ per questo che mi hai personalmente incatenato di nuovo, per chiarire che le nostre posizioni adesso si sono invertite?

- No, - boccheggiai, ma dalla mia gola serrata non uscì alcun suono.

- E allora, hai avuto vendetta a sufficienza, Giulia, per quella lettera senza risposta, per la tua vita di schiavitù? Mi hai punito abbastanza, dunque? - Rise con asprezza, un suono sgradevole che mi mandò brividi lungo la spina dorsale. - E tu accusi me di vivere solo per vendicarmi.

Con membra tremanti, camminai all’indietro e mi lasciai cadere in una sedia. Non c’era bisogno che mi guardassi allo specchio per sapere che tutto il sangue era defluito dal mio viso. Il pesante silenzio era interrotto soltanto dal respiro irregolare di Massimo. Un gatto fulvo fece capolino dalla porta della camera da letto, sembrò considerare che non c’era pericolo e silenziosamente entrò nel salotto. Lenea, figlia di Phoenion e l’unica dei cuccioli di Rubia che assomigliasse all’orgoglioso gatto abissino. Saltò nel mio grembo in cerca di attenzione, ma io ero troppo profondamente immersa nella mia infelicità anche solo per alzare una mano ed accarezzarla meccanicamente. Lenea aveva ereditato non soltanto i colori fulvi del padre, ma anche la sua altezzosità e subito saltò via e, impettita, si allontanò indignata dalla patetica donna che non stimava la sua regale compagnia.

Dalla sua posizione contro la colonna, Massimo osservò la gatta oltraggiata che teneva la coda alta muovendola a scatti, sembrando grato per la distrazione dopo il reciproco scoppio di collera. Io lo osservai guardare Lenea, mentre avvilita riflettevo sulle sue parole rabbiose e amare. Aveva ragione lui? Era questo che gli avevo fatto, lasciandolo incatenato, impaurito e solo per ore ed ore, lasciandogli credere che stava per essere usato come una prostituta, proprio come io era stata usata spietatamente? Aveva importanza che io non avessi mai inteso che quella finzione durasse tanto? Aveva importanza che io non avessi mai inteso fargli credere che era stato affittato da un uomo per un servizio da stallone? Ero stata segretamente d’accordo con Proximo sull’insegnare all’”altezzoso Ispanico” la lezione che tanto si meritava? Avevo cercato di punirlo per non aver risposto alla mia lettera? Di umiliarlo per essere nato libero, orgoglioso e uomo mentre io ero nata inerme, donna e schiava? Avevo cercato di punirlo perché non mi amava? Avevo cercato per tutto quel tempo quella vendetta finale che nessun somma di denaro poteva comprare?

Lenea balzò con grazia sul tavolo dove era apparecchiata la cena d’addio e con cautela cominciò ad avvicinarsi ai gamberetti. Massimo di riflesso si leccò le labbra, ricordando improvvisamente quanto fosse affamato e assetato.

Nessuno di noi disse nulla. Invece, restammo così a lungo, ciascuno ad un lato della sala, tuttavia lontanissimi. Silenziosi e remoti, entrambi feriti oltre ogni dire. Ciascuno avendo ferito l’altro oltre ogni dire. Entrambi esausti. Sconfitti. Schiavi. Ed entrambi disperatamente soli.

Infine, mi costrinsi a muovere le membra tremanti. Mi alzai, presi la chiave e mi avvicinai a Massimo, dandogli tempo, come avevo fatto nell’atrio. Tempo per urlarmi contro o respingermi o entrambe le cose. Non lo fece. Senza una parola tolsi il catenaccio alle catene, evitando attentamente di toccarlo, tuttavia incapace di non guardare la morbida peluria che ricopriva i suoi avambracci, di non sentire il calore del suo corpo avvolto in cuoio nero e dai muscoli saldi, la sua maschile fragranza muschiata che mi riempì le narici, invitandomi a venire più vicina, afferrare le sue spalle poderose, premere il mio corpo contro il suo e schiacciargli la bocca in un bacio devastante...

Obbligando le mie mani a non tremare, mi morsi il labbro inferiore mentre agivo sul catenaccio e facevo cadere le catene al suolo. Potevo sentire il suo sguardo fisso sulle mie mani, mentre attentamente evitava di guardarmi in viso.
- Sono stanca, Massimo, ed è quasi l’alba. - Dissi con voce inespressiva e rivolgendomi al suo torace. All’improvviso mi sentivo esausta, sfinita come non ero mai stata. - Ho bisogno di dormire un po’ e sono certa che anche tu ne hai bisogno. Io… non ti avevo fatto preparare una stanza perché pensavo che saresti stato a bordo della nave, a quest’ora. Però c’è una seconda stanza da letto laggiù… - accennai con la testa alla porta della cameretta da neonato, - ed è piuttosto buia perché non ha finestre. Potrai dormire fino a tardi.

Massimo si scostò dalla colonna e, mentre si liberava dalle catene, si fermò vicino a me. Così vicino che potevo sentire il calore del suo corpo e il suo odore maschile. Così vicino che mi sarebbe bastato solo un passo per essere di nuovo tra le sue braccia...
- E’ un po’ femminile, temo, - balbettai, completamente scombussolata dal calore e dall’odore del suo corpo, sapendo che se non uscivo dalla stanza avrei commesso un errore ancor più madornale di tutti gli errori che avevo già commesso. - Nessun uomo ha mai diviso questo appartamento con me. - Mi bloccai, ma era troppo tardi.

- Tuo marito? - chiese Massimo dolcemente rimuovendo le catene dai ceppi. Potevo percepire il suo sguardo che cercava il mio viso, i miei occhi, che cercava di leggere qualsiasi verità ci fosse da leggere. Gli avevo mostrato il mio cuore nudo, sanguinante, ferito. Rifiutai di mostrargli la mia anima nuda, sanguinante, ferita. Chinando la testa lasciai che i capelli mi ricadessero sul viso, nascondendolo dietro la cortina d’oro rosso. Nascondendomi come non avevo più fatto da quando ero diventata libera... nascondendomi per la seconda volta quella notte. Che cosa importava se dopo una vita di prostituzione ora vivevo come una Vergine Vestale? Lui voleva solo vendetta. E morte.

- Solo di nome. Non abbiamo mai condiviso intimità. Quando fui liberata dalla schiavitù giurai che non avrei mai più concesso il mio corpo ad un uomo, a meno che non lo amassi, - dissi con voce appena udibile. - Volevo bene a mio marito, ma non lo amavo. Perciò… ho vissuto qui da sola.

Per un brevissimo istante Massimo sembrò sul punto di toccarmi, di prendermi tra le braccia... e per la prima volta da quando lo avevo incontrato, temetti che mi toccasse o abbracciasse. Perché se mi avesse presa tra le sue braccia, se mi avesse offerto conforto, calore e sicurezza solo per abbandonarmi ancora, nemmeno la morte sarebbe stata suffficiente a por fine al mio dolore.

Misericordiosamente, Massimo non si mosse.

Trassi un profondo respiro e continuai a parlare, sempre evitando i suoi occhi.
- Chiederò ad Apollinario di trovare un modo per eliminare quei ceppi di ferro più tardi, e lui ti troverà qualche abito appropriato e dei sandali. Se devi rimanere qui una settimana, puoi farlo in modo confortevole. Potrai farti il bagno quando ti sveglierai.

Egli annuì. Senza una parola, andai verso la mia camera da letto e chiusi piano la porta senza voltarmi a guardarlo. Poi, appoggiai la schiena contro di essa e mi guardai attorno.

Ore prima, quando avevo lasciato la sicurezza del mio rifugio sapevo che qualsiasi cosa fosse accaduta tra quel momento e il mio ritorno, niente sarebbe più stato lo stesso. E non lo era.

Sapevo che, dopo aver visto Massimo per un’ultima volta, sarei morta come donna se non come essere umano, e questo per tutto il tempo che avrei avuto ancora da vivere... Ed eccomi lì, di nuovo nel mio rifugio, sentendomi morta come avevo previsto... tuttavia niente era andato come avevo pianificato. Non ero riuscita a salvarlo ed ero riuscita soltanto a ferire entrambi. Massimo era qui eppure io non potevo averlo. Ero stata pronta a perderlo per restituirlo alla moglie e all’onore, ma ero condannata a perderlo per la morte. Perché il fato si prendeva sempre gioco di me? Perché, nonostante fossi pronta a cedere tutto, altrettanto mi veniva richiesto?

Lasciandomi scivolare lungo la porta, mi sedetti sul freddo pavimento di marmo, mi abbracciai le ginocchia e scoppiai in lacrime. Piansi senza ritegno, come una bambina, con enormi singhiozzi che minacciavano di soffocarmi. Era stato così per Lucilla? Era stato così per lei quando, a diciotto anni, era stata respinta da Massimo? Aveva pianto così, senza ritegno come piangevo ora io, quando era stata obbligata ad allontanarsi da lui ed a sposare il fratello adottivo del padre e co-imperatore Lucio Vero? Aveva giaciuto sul suo letto di nozze come una bambola rotta mentre il marito la prendeva e aveva sognato di Massimo come io avevo sognato di lui nel mio, anche se mi era stata risparmiata un’intimità che non volevo? Era stato così per la vedova figlia dell’imperatore quando era stata offerta in matrimonio a Massimo e da lui respinta? Si era infuriata come avevo fatto io? Aveva maledetto sua moglie e lui e il fato e se stessa come avevo fatto io? Aveva bramato la vendetta? Aveva provato un’amara soddisfazione quando lo aveva visto ridotto a combattere per il divertimento della folla? All’improvviso sperai che Lucilla fosse lì, così da poterglielo chiedere...

Dopo quello che sembrò molto tempo, mi costrinsi a rimettermi in piedi, strofinandomi il naso e gli occhi con il dorso della mano, un gesto talmente simile a quello della bambina spaventata cresciuta alla villa di Cassio che se non fossi stata così esausta, così svuotata, mi sarei maledetta di nuovo.

Inciampando, andai al mio tavolo da toletta, mi tolsi i gioielli e con diligenza li posi sul corrispondente astuccio ricoperto di velluto. Poi mi tolsi la costosa tunica di seta color avorio e con lo stesso ordine maniacale, la misi sul divano da lettura e sistemai i sandali sotto quest’ultimo. Da uno dei miei bauli tolsi una veste di seta color panna e la indossai prima di tornare al tavolo, prendere una spazzola ed usarla sui miei lunghissimi capelli. Mentre le lacrime mi scorrevano ancora sulle guance, mi spazzolavo con grande concentrazione, guardando nel frattempo il mio riflesso nello specchio lustro. Esso mi mostrò una pallida estranea con enormi occhi azzurri sbarrati e labbra strettamente premute per impedir loro di tremare o, forse, di lasciarsi sfuggire un ululato da animale ferito...

Un forte miagolio alle mie spalle mi fece sobbalzare così violentemente che quasi lasciai cadere la spazzola. Un miagolio esigente che poteva essere soltanto di Phoenion. Il gatto abissino era seduto sul tappeto; era entrato nella mia stanza dalla terrazza privata e mi guardava con un misto di curiosità ed impazienza, come se pretendesse una spiegazione per il comportamento poco dignitoso e rumoroso nel salotto.

Sorridendo nonostante le lacrime, mi sfregai di nuovo il naso e gli occhi e raccolsi il gatto color sabbia. Immediatamente cominciò a far le fusa.
- Mi dispiace, bello, - dissi dolcemente, parlando con le labbra vicine al suo orecchio come piace ai gatti. - C’è stata un po’ di baraonda, ultimamente, vero?

Con Phoenion tra le braccia, andai verso il letto, ma mi bloccai quando udii delle voci in terrazza... Accigliandomi, mi mossi verso l’arcata che dava l’accesso ad essa, ma mi fermai di nuovo quando riconobbi che una voce apparteneva ad Apollinario.
-
...pensava di salvarti nel modo in cui tu avevi salvato lei.

Phoenion mi urtò il mento con la testolina, esigendo carezze ed attenzione, e io lo zittii avvicinandomi a piedi nudi alle colonne. Per una volta, il gatto decise di assecondarmi e restò calmo tra le mie braccia, il corpo caldo e morbido contro i miei seni, facendo le fusa con verso alto e regolare.

Nascondendomi nelle ombre, con circospezione mi misi a lato dei velari trasparenti usati per impedire agli insetti notturni di infilarsi nella mia camera, e guardai all’esterno. La notte era nera, con solo una punta di luminosità nel cielo ad oriente e qualche luce scintillante in lontananza, il faro di Ostia non visibile da quel lato della villa.

Massimo era sulla terrazza, in piedi vicino alla balconata di marmo e guardava giù, nel giardino, dove sembrava che ci fosse Apollinario.
- … e liberarti nel modo in cui tu liberasti lei. Ma tu non l’hai permesso. Così facendo, hai scelto quasi certamente di morire … di allontanarti da lei ancora una volta.

Malgrado la fioca luce, vidi Massimo sospirare.
- La mia vita è molto complicata. Può sembrare semplice dal di fuori, ma è ancora molto complicata. Io ho un dovere da compiere e lo devo portare a termine a qualunque costo. E quel costo sarà probabilmente la mia vita.

- Generale, hai scelto la morte invece dell’offerta di libertà da parte di Giulia.

- Scelto? Io non ho alcuna scelta. Perché sia tu che Giulia supponete che ho una scelta?

Ora Apollinario sembrava confuso. Come confusa ero anch’io.
- Io immaginavo…

- Immagini troppo. Io ho dei doveri da compiere. Io non ho alcuna scelta. Sfortunatamente, Giulia non è inclusa in questi doveri.

- Sfortunatamente…?

Col cuore che mi batteva selvaggiamente, mi strinsi Phoenion contro il petto. Il gatto chiuse gli occhi dorati in segno di reazione, ma non protestò né fece uno sforzo per liberarsi.

Massimo cominciò ad allontanarsi dalla balconata, poi si voltò di nuovo, camminando su e giù in piccoli cerchi, così chiaramente frustrato che dovetti trattenermi dall’andare da lui, prenderlo tra le mie braccia e calmarlo come si calma un bambino turbato. Cominciò a parlare, si bloccò, poi ricominciò.
 - Non pensi che io sia lusingato che una donna della sua bellezza ed intelligenza mi trovi attraente? Non pensi che, se ci fosse concesso più tempo insieme, forse potrei ricambiare il suo amore? Io non ho tempo, Apollinario. Io non ho scelta. La mia presenza qui non fa che rendere tutto più difficile a tutti. Sarebbe stato meglio se mi aveste lasciato in quella cella a Roma.

- Non avevo capito. Ancora una volta, mi dispiace, generale.

C’era tristezza nella voce di Apollinario. Tristezza e comprensione. Massimo si limitò ad annuire e lanciò un’occhiata verso il cielo ad oriente, dove il sole rosso aveva appena squarciato l’orizzonte. Poi, senza altre parole, tornò verso il salotto, lasciandomi tremante, sconvolta... e disperatamente innamorata.

Fu solo quando i primi raggi del sole illuminarono il pavimento di marmo della mia camera che lasciai la mia posizione vicino all’arcata della terrazza. Phoenion si era addormentato da tempo ed improvvisamente il suo peso sembrò eccessivo per le mie braccia stanche. Lo lasciai su una sedia, poi mi arrotolai nel mio enorme letto a baldacchino. Ansietà ed angoscia finalmente ebbero la meglio su di me e le mie palpebre sembrarono di piombo.

- Non pensi che, se ci fosse concesso più tempo insieme, forse potrei ricambiare il suo amore?

Prima di cadere addormentata, mi ripromisi che una settimana sarebbe stata più che sufficiente.

 

Esausta per le emozioni della settimana precedente e per la lite finale nel salotto, dormii ininterrottamente per ore, dimentica del mondo e anche di Massimo, che dormiva così vicino a me. Né sogni né incubi vennero a disturbare il mio sonno e quando mi svegliai non ebbi bisogno che di uno sguardo alla luce proveniente dalla terrazza per rendermi conto che mezzogiorno era passato da un pezzo. Mi sollevai a sedere ed il mio sguardo immediatamente sfrecciò verso la porta.

Massimo.

Il mio appartamento era stranamente silenzioso e non si vedeva nessuno dei miei gatti. Balzai dal letto e mi lavai in fretta, notando vagamente che i miei occhi erano leggermente gonfi. Troppo di fretta per spazzolarmi i capelli o cercare un paio di pianelle, aprii la porta e a piedi nudi andai in salotto, con i lunghi capelli aggrovigliati dal sonno. Sembrava tutto calmo. Probabilmente Massimo stava ancora dormendo. Obbligandomi a stare calma, mi avvolsi nella vestaglia di seta bianca e silenziosamente aprii la porta che dava sulla seconda camera da letto, aspettandomi quasi di trovarlo sveglio e chiedendomi chi sarebbe stato il primo a parlare dopo lo strepito della notte precedente. Una lama di luce dal salotto illuminò il letto... Che era intatto.

Con il cuore che mi batteva selvaggiamente, richiusi la porta. Se n’era forse andato, dopo la sua conversazione con Apollinario? Vicina al panico, mi voltai, chiedendomi che cosa avrei dovuto fare... poi mi fermai di colpo. Massimo era sdraiato scompostamente sul divano vicino al tavolo apparecchiato, e russava sommessamente, con una mano posata delicatamente su Nigra, la timida gatta nera che faceva le fusa soddisfatta dormendo sul suo petto, il quale si sollevava ed abbassava ad ogni respiro.

Mi avvicinai lentamente. Non si era preoccupato di togliersi la corazza di cuoio. Il divano era troppo corto per lui ed una gamba penzolava sopra il bracciolo mentre l’altra era piegata al ginocchio, ed il piede calzato da stivale poggiava sul pavimento. Nel sonno, la tunica gli era scivolata in su, esponendo quasi l’intera lunghezza delle sue virili gambe abbronzate e muscolose.  Una cicatrice gli deturpava la coscia destra. Era profonda e sembrava essere stata causata da una lancia o da una freccia. Era forse la conseguenza della ferita grave che aveva menzionato la notte prima? Ci volle tutta la mia volontà per trattenermi dal seguirla con il dito, come avevo tracciato il suo nome sul marmo del Colosseo. Stringendo le mani a pugno, mi chiesi quante altre cicatrici erano nascoste dal cuoio nero, quante ferite erano state inferte al suo corpo divino quando era soldato e dopo, come gladiatore...

L’altra sua mano era appoggiata contro lo schienale del divano, le dita leggermente flesse. Anche la testa di Massimo era rivolta contro lo schienale, ad un’angolazione dall’aria piuttosto scomoda, ed i capelli erano arruffati. Mi avvicinai per ammirarlo meglio e il mio piede toccò qualcosa di duro che rotolò sul tappeto. Una brocca d’argento di vino. Vuota. Nessuna meraviglia che egli non sentisse alcun fastidio. L’ultima volta che l’avevo vista, era stata piena. Tutto quel vino a stomaco vuoto...

Nel sonno, Massimo sembrava giovane, dolce e innocente. Rilassato ed inconsapevole di essere osservato, il feroce guerriero cedeva il passo all’uomo vulnerabile che viveva dentro di lui, proprio come la bambinetta spaventata viveva ancora dentro di me. Desideravo sdraiarmi accanto a lui, prenderlo tra le mie braccia e proteggerlo nel suo sonno, poi vederlo sveglio, guardare nei suoi meravigliosi occhi ed essere riscaldata dal suo sorriso fanciullesco... Ma il divano era troppo stretto per due persone, in verità a malapena accoglieva il suo corpo vigoroso.

Gentilmente, attenta a non svegliarlo, sollevai Nigra dal suo petto, prendendogli la mano affinché non ricadesse, e misi la gatta sul pavimento, dove essa si allungò voluttuosamente prima di saltare su una sedia vuota per continuare il suo pisolino. Rimasi così per un momento, tenendo dolcemente la sua mano calda e forte nella mia, le dita callose e abbronzate in contrasto con le mie, bianche come latte e snelle, accarezzandogli teneramente le nocche con il pollice.

E poi, lo vidi. O, farei meglio a dire, notai la sua assenza.

Il suo anello nuziale non c’era.

Gli era stato portato via come tutto il resto? O lo aveva tolto dopo aver visto il corpo della moglie morta? Lo aveva quando Proximo lo aveva comprato al mercato degli schiavi di Zucchabar? O lo aveva perso da qualche parte nel viaggio verso la provincia africana?

Silenziosamente, mi sedetti sul tappeto accanto al divano, sollevai la mano afflosciata di Massimo, e appoggiai la testa sul punto caldo dove un attimo prima c’era Nigra, poi feci ricadere la sua mano sui miei capelli.

Massimo non si mosse.

Sospirando, inalai il suo odore maschile, ascoltando il battito forte e regolare del suo cuore attraverso il cuoio, e nella mia mente risuonarono ancora una volta le parole che avevo ascoltato di nascosto la notte prima.

- Non pensi che, se ci fosse concesso più tempo insieme, forse potrei ricambiare il suo amore?

Oh, sì. Una settimana sarebbe stata sufficiente. Più che sufficiente.

 

Non so per quanto rimasi lì, cullata dal suo calore e dal battito del suo cuore. I raggi obliqui del tardo pomeriggio si spostavano sul pavimento di marmo e di tanto in tanto mi appisolavo. Riscaldata dalla sua vicinanza, con la sua mano sul mio capo, era facile fingere che non fossimo mai stati separati. Era facile immaginare che i sei anni trascorsi dalla Mesia non fossero mai esisititi. Era facile immaginare come sarebbe stato quando finalmente egli mi avesse accettata...

Un bussare alla porta mi fece trasalire così violentemente che feci un salto indietro, spaventata di essere scoperta ad approfittare del sonno ubriaco di Massimo. Disturbato dal mio movimento improvviso, egli bofonchiò ma non si svegliò e io mi sforzai di alzarmi, poi corsi in fretta alla porta. Aprii uno spiraglio e vidi Apollinario sulla soglia. Egli osservò i miei capelli aggrovigliati e la mia veste di seta e sorrise un pochino, sollevando un angolo della bocca. Prima che potesse parlare, mi premetti il dito sulle labbra e feci un cenno verso il mio appartamento. Perplesso, egli entrò, poi vide Massimo che dormiva sul divano e in silenzio mi seguì nel mio studio privato, dove ci sedemmo lasciando la porta aperta per poter udire se Massimo si svegliava.
- Così non è fuggito...

- No, - dissi. - Ma ho speranze che possa cambiare idea...

I nostri sguardi si incrociarono e non vi fu bisogno di parole. Aveva capito che avevo udito la sua conversazione con Massimo.
- Il capitano Paolo dovrebbe rimanere all’erta, quindi?

- Sì, lui e il suo equipaggio devono rimanere alla nave, pronti a salpare con breve preavviso. Digli anche che l’Ispania potrebbe non essere la nostra destinazione.

Apollinario alzò lo sguardo con aria interrogativa e io brevemente spiegai dell’uccisione della famiglia di Massimo. Egli scosse la testa incredulo.
- Marco Aurelio era un uomo giusto, - disse il mio ex precettore. - Come può aver generato un tale mostro?

- Le guardie sono sveglie?

- Sveglie, e io sono orgoglioso di riferirti che stanno vomitando l’anima!

- Voglio che alloggino lontano dalla casa principale... falle alloggiare con gli stallieri e chiedi al maestro di scuderia di controllarli. Non voglio che quei criminali mi girino per casa o tiranneggino la mia servitù...

- Parlerò con Sempronio... si prenderà buona cura di loro...

Non potei fare a meno di sorridere. Il maestro di scuderia era un nubiano alto più di sei piedi[1] e perfettamente in grado di abbattere un cavallo a mani nude. Era stato uno degli schiavi liberati alle mie nozze e mi era ferocemente fedele. Se gli avessi ordinato di uccidere gli uomini di Proximo, l’avrebbe fatto senza esitazione.
- Ma, prima di tutto, ho bisogno che trovi dei vestiti e dei sandali per Massimo... e voglio che gli vengano tolti i ceppi di acciaio...

- Manderò al porto un fattorino con un messaggio per il capitano Paolo, a prendere qualcuno degli abiti che gli avevamo comprato per il viaggio... nel frattempo prenderò accordi con il fabbro...

Ci fu un debole suono frusciante alla porta dello studio e Apollinario ed io ci voltammo contemporaneamente.

Massimo era sulla soglia, sbatteva le palpebre come farebbe un gufo, i capelli arruffati. Il mio cuore si gonfiò. Sembrava così giovane e dolce malgrado il cuoio nero e i ceppi d’acciaio....

- Io... ho sentito delle voci... - disse esitante.

Apollinario s’inchinò.
- Generale...

Massimo restituì il saluto annuendo appena, ma i suoi occhi erano fissi su di me. Mi offrì un piccolo sorriso incerto e io arrossii come una ragazzina.

Apollinario guardò me, poi Massimo e saggiamente decise di prendere la parola.
- Ora che sei riposato, generale, suppongo che sarai ansioso di fare un bagno e cambiarti i vestiti...

Era il turno di Massimo di arrossire. Che cosa lo imbarazzava? L’aver bevuto troppo e dormito fino a tardi? O l’implicazione che aveva bisogno di un bagno?

Apollinario scelse di ignorare il suo imbarazzo e continuò imperterrito.
- Sono stati comprati per te dei vestiti, ma si trovano sulla nave che doveva... portarti via... Li farò arrivare immediatamente. Nel frattempo, prenderò accordi con il fabbro per toglierti i ceppi...

Massimo annuì in silenzio. Apolllinario si voltò verso di me.
- Vuoi darmi qualche minuto, e poi condurre il generale alla bottega del fabbro, Giulia?

Era il mio turno di annuire in silenzio, gli occhi fissi su Massimo.

Apollinario sospirò impercettibilmente.
- Se volete scusarmi...

Una volta soli, mi alzai dal mio posto dietro lo scrittoio, sforzandomi di impedire alla mia vestaglia di aprirsi e sentendomi impacciata come non mi sentivo da anni.
- La bottega del fabbro non è lontana... - balbettai. - Mi vesto in un attimo e ti ci accompagno...

Egli annuì e si spostò per lasciarmi passare. Avevo raggiunto la porta della mia camera quando Massimo parlò dietro di me.
- Erano i tuoi capelli, Giulia...

Mi fermai, ma non mi voltai. Di che cosa stava parlando? Egli proseguì.
- Erano raccolti... Non ti avevo mai vista con i capelli raccolti... Ecco perché non ti avevo riconosciuta nell’atrio...

Io rimasi in silenzio per un momento. Poi, raddrizzai la schiena e parlai senza voltarmi. Non c’era ira nella mia voce. Soltanto tristezza.
- Ti sbagli, generale. Mi hai già vista un’altra volta con i capelli raccolti... Eravamo insieme in una vasca da bagno... e io ero nuda.



[1]  I Romani adottarono come unità di misura lineare il "piede", identico a quello attico che veniva prevalentemente utilizzato nel mondo greco, e misurava 29,65 centimetri (N.d.T.).