Diario
di Giulia (indice capitoli) |
Julia’s Journal Siti originali
(in inglese) |
Le sopracciglia scure di Massimo si sollevarono con aria
interrogativa.
- Obbedisci e basta, - sbottai andando verso di lui.
Massimo appariva perplesso ma
non allarmato. Per nulla allarmato. Con
atteggiamento obbediente, tese le braccia, le mani vicine, le palme in giù. Quando fui abbastanza vicina, estrassi i ceppi da dietro la
schiena, dove li avevo tenuti nascosti, e cercai di catturargli entrambi i
polsi, armeggiando frettolosamente. Massimo vide che
cosa stavo cercando di fare e di riflesso ritirò le
mani. Ma controllò le sue emozioni, qualunque esse fossero,
e si sforzò di rilassarsi, finché io riuscii a chiudere i ceppi.
Rimase lì, tenendo le mani distese così che potessi vedere quello
che ero riuscita a fare, come se volesse rassicurarmi.
Forse pensava che avevo improvvisamente paura di lui,
dello straniero che aveva dichiarato di essere diventato negli anni trascorsi
da quando eravamo stati insieme in Mesia. Poi alzò di nuovo le sopracciglia con
aria interrogativa, un movimento così sottile e regale che mi fece balzare il
cuore in petto. Non mancava mai di stupirmi il fatto che nonostante le sue
umili origini, tutto il suo essere ed ogni suo gesto
riuscivano ad essere nobili e maestosi. Perfino reso schiavo ed ammanettato,
aveva l’aria regale ed infinitamente potente e dignitosa. Certe cose non
cambiano mai. E Massimo era ancora Massimo, non
importa che cosa egli preferisse credere.
Combattei i miei stessi sentimenti e
fissai lo sguardo sui suoi polsi ammanettati... polsi che io stessa avevo
ammanettato... d’un tratto incapace di spiegare perché o come l’avevo fatto, o
cosa stessi cercando di ottenere incatenando l’uomo orgoglioso e forte in piedi
di fronte a me. L’uomo che amavo con un’intensità prossima all’ossessione.
L’uomo che ero stata pronta ad allontanare da me per
sempre, e che tuttavia rifiutava la fuga e la libertà in nome della vendetta.
L’uomo che ero stata pronta a perdere pur di
restituirlo alla moglie... e che tuttavia rifiutavo di perdere a causa della
vendetta e della morte.
Massimo mi studiò con curiosità. Non sembrava arrabbiato. Solo
intrigato dal comportamento misterioso della donna che sei anni prima egli
aveva affrancato dalla schiavitù e dalla prostituzione, e che gli aveva appena
ammanettato i polsi. La donna che egli aveva salvato dalla schiavitù, ma per
gettarla in una specie peggiore di schiavitù, perché l’amore non corrisposto ci incatena più saldamente di qualunque legame d’acciaio...
Guardai brevemente il viso di Massimo prima
di tornare al tavolo da dove avevo preso i ceppi, e ritornai con le catene. Quando le vide, la sua espressione mutò da curiosità ad
irritazione. Lasciò cadere le mani e sembrò pronto ad allontanarsi da me.
- Dammi le mani, - ordinai il più fermamente possibile, tuttavia la
mia voce suonò incerta perfino a me.
Massimo studiò il mio viso, ma io evitai il suo sguardo.
- Giulia… basta, - cominciò, col tono di un padre che ha deciso che la sua
bambina è diventata improvvisamente capricciosa e che è giunto il momento di
por termine ai giochi.
Deglutii a fatica. Non ero una bambina. Io ero quella che
comandava.
- Dammi le mani.
Cercò di prendermi in giro. Non avrebbe dovuto.
- E’ un ordine? La padrona sta ordinando allo schiavo
di lasciarsi incatenare?
Mi morsi il
labbro inferiore, ma rifiutai di rispondere, cercando soltanto di non perdere
il mio precario terreno.
Massimo
sospirò con finta rassegnazione e sollevò di nuovo le mani, guardandomi
armeggiare con le catene. Ancora non sembrava arrabbiato. Soltanto divertito.
Il che era peggio. Con la coda dell’occhio, vidi i gatti agitarsi e lanciare occhiate
sdegnose agli umani puerili che li avevano svegliati con il loro comportamento ridicolo
e poco dignitoso.
Riuscendo
finalmente ad infilare con successo le catene negli anelli dei suoi ceppi di
ferro, rimasi in piedi in preda alla confusione, fissando le estremità che
ciondolavano dalle mie mani... catene fredde e pesanti e apparentemente
inutili. Io ero libera. Lui era uno schiavo. Gli avevo incatenato i polsi. Gli
avevo attaccato le catene ai ceppi. Comandavo io, non lui... allora perché ero
io quella che si sentiva indifesa e non lui?
- Forse dovresti incatenarmi a quella colonna laggiù, ma le catene
potrebbero rovinare un po’ il marmo, - suggerì lui in tono leggero. Era
evidente che, nonostante la sua iniziale irritazione, non stava prendendo sul
serio né me né quello che stavo facendo. Fu un errore. Grave. Un errore che i miei capitani e i miei
agenti avevano imparato ad evitare. Un errore che ad Avidio
Cassio era costato la vita. Non lo sapeva Massimo? Non avrebbe dovuto
conoscermi meglio?
Fomentata dal ricordo di quello che era accaduto sei anni prima in una tenda militare in Mesia... il ricordo
del momento in cui avevo brevemente preso
il sopravvento su Cassio ed
avevo per la prima volta preso in mano la mia vita...
la mia confusione cambiò in convinzione. Afferrando Massimo per le braccia, lo feci voltare bruscamente e lo spinsi all’indietro non
proprio gentilmente, finché la sua schiena non incontrò il freddo marmo della
colonna sul lato opposto della sala rispetto a quella che lui aveva suggerito.
Per niente al mondo avrei seguito il suo divertito
suggerimento. Invece, gli avrei mostrato chi comandava.
Egli non oppose resistenza e, giunti alla colonna, avvolsi le lunghe catene
attorno ad essa e le tirai di nuovo davanti a lui,
costringendolo a piegare i gomiti e a poggiare le mani sulla vita. Non
armeggiai e per un attimo fu facile credere che
comandavo io... tuttavia la mia confusione tornò
quando mi resi conto che stavo tenendo le estremità delle catene ma non avevo niente
con cui bloccarle.
- Non sei molto brava in queste cose, vero? E’ ovvio che non sei
abituata a domare gli schiavi difficili, - disse Massimo, con evidente umorismo
nella voce. Ovviamente pensava che fosse una sorta di scherzo puerile che
doveva sopportare di buon grado, assecondando la donna che egli aveva salvato
dalla schiavitù e dalla prostituzione. Aveva fatto così anche quando mi aveva
promesso di insegnarmi a nuotare, in modo da potersene andare
mentre, rassicurata dalla sua promessa, dimenticavo
nel sonno la mia infelicità e sognavo di sua figlia? Non lo aveva sfiorato il
pensiero che io ero pronta a fare qualsiasi cosa pur di raggiungere il mio
scopo? Che negli ultimi anni, fare a modo mio era
stata la principale occupazione della mia vita quotidiana?
Lanciai un’occhiata al tavolo dove avevo lasciato chiave e catenaccio
e lo udii ridacchiare. Erano troppo lontani perché riuscissi
a raggiungerli. Furiosa, maledicendo dentro di me la mia mancanza di buon
senso, gettai a terra le catene, ghermii chiave e catenaccio e mi voltai di scatto per affrontare Massimo, certa che si fosse
liberato, pronta a gettarmi su di lui se l’aveva fatto... Non si era mosso.
Tuttavia, la sua mancanza di resistenza era tutt’altro che rassicurante. Aveva piuttosto
l’aria di una presa in giro.
Raccolsi di nuovo le catene e, usando tutte le mie forze, le
strinsi il più possibile. Massimo grugnì sorpreso
e io provai una cupa soddisfazione mentre allentavo un po’ la catena, spingevo
il catenaccio attraverso le maglie della catena e lo richiudevo
di nuovo. Poi, feci un passo indietro e lo guardai, con gli occhi spalancati e
le dita premute contro la bocca.
Avevo incatenato un uomo.
Avevo incatenato uno schiavo.
Avevo incatenato Massimo.
Egli rispose a quello che doveva essere il mio sguardo turbato con
un’espressione serena, rifiutando di perdere il controllo anche se era di nuovo
in catene. Anche se la donna che pensava di conoscere non si era comportata per nulla come lui si era aspettato.
- E’ questo che vuoi? - chiese, e il leggero sarcasmo nella sua
voce mi riportò bruscamente alla realtà e all’urgenza
della situazione.
- Quello che voglio è che tu vada a bordo di quella nave, - dissi.
- Giulia…
- Ordinerò ai marinai di trascinartici e di incatenarti nella
stiva, - dissi, rifiutando di ammettere la punta di disperazione nella mia
stessa voce.
- E se il capitano non è d’accordo? -
chiese con il suo tono più ragionevole.
- Lo sarà. Possiedo quella nave e lui è un
mio impiegato, Massimo. A dire il vero, possiedo un’intera flotta di navi, - risposi gettandomi indietro i capelli con un movimento
impaziente del capo. Negli anni che erano passati dal mio matrimonio mi ero
disabituata alla sensazione dei capelli sciolti sulle spalle o ricadenti sul
viso. Mentre ero schiava e prostituta, ero solita
nascondermi dietro i miei capelli lunghi fino alla vita, lasciandomeli ricadere
sul viso come una cortina d’oro rosso, per velare gli sguardi d’odio o
tristezza, rifiutando di concedere, a coloro che usavano il mio corpo a loro piacimento
e per il loro egoistico piacere, la vittoria finale di vedere quello che c’era
nel mio cuore e nella mia anima. Ma io non ero più quella Giulia... “la migliore che abbia mai allevato”.
Io non mi nascondevo. Non avevo bisogno di nascondermi. Era meglio prendermi
sul serio... e non darmi per scontata.
Massimo annuì e mi guardò come se mi vedesse per la prima volta. Il
suo viso era studiatamente ammirato. Non mi aveva presa
sul serio. Mi aveva data per scontata. Adesso, stava
cominciando a capire entrambi i suoi errori.
- Sono impressionato, - disse. - Di certo non sei la stessa donna
che conobbi… quanti anni fa?
Quel tono casuale nel menzionare il passato mi ferì. Mi ferì
profondamente.
Rifiutai di permettere al dolore di scoraggiarmi dal mio proposito.
- Non sono cambiata poi tanto, Massimo, e nemmeno tu. Le nostre
condizioni sono diverse ma siamo le stesse persone di allora.
- Giulia, se quando Proximo ritornerà io non sarò qui, ucciderà un uomo che mi salvò la vita. Non posso permettere
che questo accada. Juba non deve morire a causa della mia libertà.
Nononostante mi sforzassi di evitarlo, i miei occhi luccicarono di
calde lacrime brucianti alla menzione della crudeltà di quel mondo che era
divenuto il suo. Un mondo nel quale la vita umana aveva ancor meno valore di
quanto ne ha di solito.
- Forse non lo farà… forse Proximo non diceva sul
serio, - dissi sforzandomi di mantenere un tono fermo, e non riuscendovi.
- Proximo non può lasciare impunita la fuga di uno schiavo. Gli
altri lanisti pretenderebbero una punizione severa per dimostrare ai loro
schiavi che una cosa del genere non è tollerata. Non sarei sorpreso se
pretendessero che Proximo condanni a morte tutti i
suoi gladiatori come punizione per la sua negligenza con me. Non potrei vivere
sapendo che ho causato la morte di uomini che considero
miei amici. Inoltre, non c’è un angolo di questo impero
che Commodo non frugherebbe pur di scovarmi. Che cosa importa se muoio tra poche settimane o tra pochi mesi?
Che cosa importava? Come poteva
chiedere a me che cosa importava? Sei anni prima avevo rischiato la mia vita per proteggerlo
ed aiutarlo a salvare il trono del suo imperatore. Sei anni
prima ero stata pronta a morire per lui... lo ero ancora. Non molto tempo
prima, seduta nella seconda gradinata del Colosseo, avevo
implorato gli dei, che intenzionalmente avevo sempre
ignorato per mancanza di fede e personale risentimento, di prendere la mia
vita, ma di lasciare che lui vivesse... Come osava chiedermi
che cosa importava se moriva o no?
- Sì! Sì, voglio morire! Voglio morire da
sempre, da più tempo di quanto io possa ricordare, ma non lo sapevo! Non fino a
questa notte! Voglio morire, generale Massimo! Che te
ne importa, a te?
Sei anni prima, gli avevo posto la stessa domanda.
Egli era entrato nella mia vita e l’aveva mandata in frantumi in un batter
d’occhio. Era entrato nella mia vita e all’improvviso io avevo scoperto che
cosa significasse essere viva. Viva veramente, viva
dolorosamente. Avevo imparato che cosa significasse
sentirsi al caldo, al sicuro, amata e che cosa significassero il bisogno, il
desiderio e l’essere saziata. E avevo scoperto anche
che, avendo conosciuto tutto questo, non potevo più continuare a vivere come
avevo vissuto fino a quel momento. Non potevo continuare in quel modo nemmeno
per un altro giorno, e avevo cercato di porre fine alla schiavitù e alla
prostituzione, al desiderio e al bisogno. Ma il fato
lo aveva impedito e, quando Massimo aveva scoperto che avevo cercato di
tagliarmi i polsi, si era infuriato.
- Che me ne
importa, a me? Osi chiedermi che me ne importa se tu
vivi o muori?
Ma anch’io ero furiosa e avevo superato ogni paura, come poco
prima, sdraiata su un divano e implorandolo di prendermi, avevo superato ogni
vergogna. Lo avevo sfidato, avevo deriso la sua preoccupazione e Massimo mi
aveva scossa rudemente, provocandomi lividi sugli
avambracci, e la sua voce profonda si era trasformata in un ruggito basso e
minaccioso.
- Lo sai quante persone ho visto morire? Lo
sai quanti uomini e ragazzini ho visto implorare gli
dei e i medici di non farli morire? Lo sai quante persone ho ucciso o mandato a
morire? Lo sai che cosa fanno all’anima di un uomo tutto quel sangue e quelle morti?
Si era fermato bruscamente, ma era già troppo tardi e lo sguardo
sconcertato nei suoi occhi mi aveva rivelato che aveva detto troppo, aveva dato
voce ad un qualcosa sepolto nelle profondità della sua anima, qualcosa che lo
tormentava. Qualcosa che non aveva mai confessato a nessuno... nemmeno a se
stesso. C’era stato un lungo silenzio tra noi, poi Massimo aveva abbassato la
testa e la sua bocca aveva schiacciato la mia in un bacio duro e punitivo. Mi
aveva baciata con un’intensità così selvaggia da
ferirmi le labbra, ed il sapore metallico del sangue mi aveva riempito la
bocca...
E adesso, lui voleva
morire.
- Tutto per vendetta? Vivi per vendetta? Rimani per vendetta? -
domandai, una strana domanda per una donna che aveva agognato ella stessa la
vendetta. Che ancora l’agognava. Che
ancora aveva molto di cui vendicarsi nonostante la ricchezza, il potere e la
libertà.
Massimo abbassò lo sguardo per la prima volta da quando ci eravamo incontrati.
- E’ molto di più di questo… molto di più, - disse
calmo.
- Allora spiegamelo, perché io non capisco.
Egli evitò di guardarmi. Anzi, guardò il tavolo dove era stata
apparecchiata la nostra cena d’addio.
- Mi avevi promesso cibo, vino e comodità. Invece, mi ritrovo di nuovo
incatenato.
Parlò in tono leggero, anche se suonava forzato. Stava cercando di
distrarmi, di distogliermi dai miei piani di liberarlo e di aiutarlo a fuggire
da Roma, come un padre che cerchi di parlare ad una bambina sconvolta per dei
progetti andati in fumo a causa del brutto tempo.
Appoggiato contro la colonna, sembrava rilassato e calmo, ma io non
mi lasciai ingannare. Non importa quanto strenuamente si rifiutasse di
ammetterlo, nemmeno il suo controllo d’acciaio bastava a nascondermi il suo
turbamento interiore.
Professava di voler morire, ma non c’era stato alcun desiderio di morte nei
suoi occhi, quando mi aveva guardata per la prima
volta sotto la luce delle lampade ad olio. Non c’era stato alcun desiderio di
morte nel suo abbraccio, quando mi aveva stretta
contro il suo corpo caldo...
Osservai il suo viso rudemente bello, i suoi meravigliosi occhi verdazzurri, il naso elegante, la dolce bocca
finemente scolpita, il mento fermo, l’ampio petto fasciato da strisce di cuoio
nero e fibbie, le braccia e le gambe forti, muscolose e abbronzate...
e scoppiai in lacrime.
- Ben ti sta. Ti meriti di essere incatenato, - singhiozzai sapendo di essere irragionevole, perfino assurda... e senza che
m’importasse. Senza che m’importasse per niente.
Massimo fece un movimento verso di me, ma fu subito bloccato dalle
catene.
- Giulia?
C’era sollecitudine nella sua voce e nei suoi occhi, ma era troppo tardi. Io ero al di là della
sollecitudine. Ero al di là della ragione. Ero
furibonda. Tremendamente furibonda. Furibonda con la vita e con il fato, e con
l’iniquità di entrambi. Furibonda con Massimo che voleva morire quando gli
stavo ridando la vita e la libertà... e l’occasione di amare
ed essere di nuovo amato. E furibonda con me stessa per non
aver imparato a non volere e a non desiderare quello che non potevo
avere, e che invece continuavo a volere e a desiderare, e a soffrire.
- Quanti anni sono passati, Massimo? E’ questo che hai appena
chiesto? Ebbene, so dirti esattamente quanti anni sono passati, fino al giorno
e all’ora esatti in cui nella tua uniforme da generale
ti vidi dirmi addio… e liquidarmi dalla tua vita!
I gatti sobbalzarono al veleno nella mia voce. Ormai completamente
svegli, mi fissavano con occhi sbarrati. Nigra, sempre la più timida, schizzò
dietro un divano mentre Rubia mi si avvicinò cauta, gli occhi verdi curiosi ma guardinghi.
Phoenion guardò me, poi Massimo, poi di nuovo me e decise che non ne valevamo
la pena. Si raggomitolò di nuovo e chiuse gli occhi
dorati.
Massimo rimase zitto.
Io proseguii. Non avrei potuto fermarmi nemmeno se la mia vita
fosse dipesa da quello. Non volevo fermarmi. Ero troppo delusa, sdegnata e
frustrata. Troppo esacerbata.
Perché non riuscivo a togliermelo dal cuore? Perché non riuscivo ad odiarlo per tutto il dolore che mi
aveva inflitto con il suo rifiuto, dandomi poi uno scorcio di quanto avrei
potuto avere se le nostre condizioni fossero
state diverse, e infine mettendomi da parte? Perché non riuscivo ad odiarlo
nemmeno adesso, quando mi stava respingendo ancora una
volta?
- Tu mi hai ossessionato… ogni ora di ogni
giorno degli ultimi sei anni ho pensato a te e mi sono chiesta dove tu fossi e
cosa stessi facendo e se stavi bene. Ti immaginavo tra
le braccia di tua moglie e piangevo sapendo che non avrei mai potuto averti.
Le lacrime mi rotolarono giù dalle guance. Non mi curai di asciugarle.
Massimo guardava fissamente il tappeto.
- Mi dispiace, - sussurrò.
Gli dispiaceva? Gli dispiaceva? Il rifiuto e l’ironia non erano
abbastanza, che doveva aggiungere la pietà ad essi?
Sei anni prima, quando un giovane tribuno di nome
Marzio mi aveva chiamato “la puttana” in
sua presenza, la bruciante intensità del suo sguardo mi
aveva dato i brividi.
Era stato lo sguardo tormentato di un uomo che deve destreggiarsi sia con
circostanze pericolose che con i propri demoni, perché
i suoi abbaglianti occhi azzurri bruciavano di rabbia amara e sollecitudine, di
colpa e tristezza, di furia rovente e tenerezza... e di pietà. Sei anni prima,
avevo silenziosamente implorato che non mi giudicasse per ciò che ero. Che non mi disprezzasse per
essere una prostituta. Ma soprattutto avevo implorato che non provasse pietà
per me... Ma io non ero più quella donna, non ero più né “la migliore
che abbia mai allevato” né “la puttana”. Non imploravo. Non avevo bisogno di implorare.
Io davo ordini. Io decidevo. E
facevo a modo mio.
Raddrizzando la schiena, sollevai il mento, la mia voce più ferma e
più gelida nonostante le lacrime cocenti che mi rotolavano sulle guance.
- Non essere dispiaciuto, Massimo. Non capisci? Troppe volte il mio
amore per te è stato la sola ragione per cui volevo vivere. Mi struggevo
d’amore per te, Massimo… fin dal primo giorno in cui ti vidi… ed ogni giorno da allora.
Massimo guardò il soffitto e batté le palpebre, contraendo i
muscoli della gola abbronzata mentre deglutiva a fatica. Chiuse gli occhi e piegò
la testa contro il marmo della colonna dalle venature dorate, sopportando il
suo Ade personale, e quell’Ade non aveva nulla a che fare con la morte e la
schiavitù e nemmeno con l’uccisione della sua famiglia. Riguardava lui e me, e
quello che era accaduto tra le cortine di un’alcova durante il festino di
Cassio. Riguardava lui e me, e quello che era accaduto in una vasca da bagno
colma d’acqua calda profumata e di petali di rosa mentre la morte incombeva su
di noi. Riguardava lui e me, e quello che era accaduto in una tenda militare
tra una schiava drogata e seminuda ed un bel generale romano. Stava rivisitando
angoli oscuri nel suo cuore e nella sua anima che non
aveva mai guardato per anni. Angoli oscuri che aveva probabilmente evitato
nello stesso modo in cui aveva evitato me dopo la
morte di Cassio...
Non era possibile che avesse ignorato che lo amavo. Non era
possibile che si fosse convinto che il mio amore per lui non
fosse altro che un’infatuazione fanciullesca di una giovane schiava per
il suo bel salvatore. L’aveva capito benissimo... anche se aveva cercato di
ignorarlo. Tuttavia, il sentirmelo dire ad alta voce aveva inciso pesantemente
sul suo avvilimento. Avrebbe dovuto essere il mio turno di aver pietà di lui,
ma io ero così infuriata, così amaramente infuriata che la mia esplosione alla
spiaggia quel tempestoso pomeriggio sembrava al confronto una bizza infantile.
Nemmeno la vista del suo stesso dolore bastava a placare la mia collera
tormentosa.
- Eppure, tu nemmeno una volta pensasti di
nuovo a me, vero, Massimo? Eri troppo occupato con la tua famiglia ed a salvare
l’impero per ripensare anche solo una volta a quella giovane prostituta
schiava.
- Questo non è vero, - mormorò Massimo, gli occhi ancora chiusi.
Mi avvicinai e gli afferrai gli avambracci, affondando le unghie
nella sua carne, il tono esigente e basso per il senso di urgenza.
- Allora perché non hai mai risposto alla mia lettera?
Con la coda dell’occhio, notai vagamente un movimento vicino alla
porta ma non vi prestai attenzione, concentrata com’ero su Massimo, su ogni suo
gesto, movimento e parola.
- Lettera? - Massimo mi guardò, il suo bel viso barbuto vicinissimo
al mio, il tono perplesso.
Mi tornò in mente lo sguardo ipocrita nella faccia di Emilio
Trebuzio Flacco ogni volta che sollevava l’argomento della lettera che aveva
inviato a mio nome a Vindobona, e la sottile ironia nella sua voce cortese quando spiegava che ancora non c’era
stata risposta. L’umiliazione che ogni volta avevo
rifiutato di ammettere, all’improvviso mi si rovesciò tutta addosso e io ruotai
su me stessa e mi allontanai per nascondere a Massimo il mio viso bruciante,
rifiutando di offrirgli la vista della mia infelicità più profonda...
nascondendomi dietro i miei capelli d’oro rosso per la prima volta da quando
ero diventata una donna libera. Per un momento, nella stanza non vi fu altro
suono che il mio respiro singhiozzante. Poi, lottando per riprendere il
controllo, lo affrontai di nuovo, le mani sui fianchi e la testa sollevata in
gesto d’accusa, molto simile alla figura della moglie maligna nella rozza farsa
romana, tuttavia incapace di fermarmi.
- Mi fu riferito che tu ricevesti la lettera. Non cercare di negarlo.
- Sì, la ricevetti. Io…
- Ma non inviasti risposta!
- Giulia, - supplicò. - Mi giunse quando ero a Castra Regina.
Arrivò appena qualche ora prima che l’accampamento subisse l’attacco delle
forze barbare. La lessi, Giulia, e avevo anche cominciato a rispondere, ma… non
ne ebbi il tempo. Giulia… ero in guerra. La mia stessa
fortezza fu attaccata giorni dopo e persi centinaia di uomini.
Fui ferito gravemente…
Mi stavo infuriando sempre di più. Il mio volto arrossato bruciava,
non a causa dell’umiliazione ma per la rabbia che mi consumava. Con fare
insolente, incrociai le braccia.
- Avresti potuto rispondere più tardi.
- La lettera andò perduta. Deve essere stata arrotolata insieme
alla mia tenda perché non riuscii più a trovarla, dopo.
- Come mai il non ritrovare la lettera ti impedì
di rispondere? - lo incalzai impietosamente. Massimo si leccò le labbra aride,
un uomo imbarazzato, che cercava di ragionare con qualcuno che sragionava, che
cercava di mantenere il controllo anche se tutto intorno a lui stava diventando
incontrollabile. Perché non riusciva ad essere
soltanto un semplice, banale essere
umano? Perché doveva essere sempre al di sopra dei
semplici mortali, nonostante le circostanze più difficili?
- Non riuscii a ricordare il tuo nuovo nome o dove tu abitassi. La feci cercare dal mio servitore ma nemmeno lui riuscì a
trovarla. Sai chi la trovò, Giulia? Sai chi la trovò alla fine?
Strinsi le labbra con espressione testarda. Il suo tono non
lasciava alcun dubbio su chi l’avesse
trovata. Eppure volevo che lo dicesse lui. Volevo l’amara soddisfazione di udirlo dire che la sua moglie contadina aveva saputo che io
esistevo... e che suo marito non era stato completamente insensibile ad
un’altra donna. Volevo l’amara soddisfazione di sapere che la donna che aveva
il cuore di Massimo e il suo corpo e la sua fedeltà,
la donna che gli aveva impedito di
diventare mio anche solo per una notte, la donna senza volto che ancora lo
reclamava dall’Altra Vita aveva sofferto almeno una
volta quanto avevo sofferto io, e per la stessa ragione per cui avevo sofferto
io ogni giorno e ogni notte degli ultimi sei anni.
- Mia moglie, ecco chi. Era con me a Vindobona. Dovetti spiegarle
chi eri e perché avessi ricevuto una lettera... che Olivia era convinta fosse
una lettera d’amore... da una donna che non le avevo
mai nominato.
Ecco. L’aveva detto. Eppure non era sufficiente.
Non mi bastava.
- Avresti potuto fare indagini per scoprire dov’ero,
se davvero avessi voluto.
- ERO IN GUERRA! ERO UN GENERALE RESPONSABILE DI UN
ESERCITO!
Massimo esplose con furia ruggente e lottò contro i ceppi,
scuotendo gli anelli di ferro che sbatacchiarono rumorosamente. Accadde così
all’improvviso che sobbalzai a tal punto da cadere
quasi per terra, la sua ira bruciante così intensa che mi fece l’effetto di un
pugno. Sconvolta, indietreggiai di un passo e mi premetti la mano sul cuore
martellante. Rubia schizzò dietro un divano e Phoenion corse verso la terrazza.
Non lo avevo mai udito alzare la sua voce tonante a causa dell’ira. Nemmeno
quando aveva preso il comando della legione di Cassio
e ordinato l’arresto dei suoi ufficiali. La sua rabbia mi attraversò
completamente come un lampo accecante e io vidi nei
suoi occhi la verdazzura luce assassina che i suoi nemici vedevano prima di
morire. Tesi le mani tremanti per cercare di placarlo, senza osare toccarlo,
mentre la sua furia tuonava ed echeggiava come una violenta tempesta di mare.
- Stavo combattendo per salvare città romane, cittadini romani, soldati romani! Stavo combattendo per proteggere
l’impero! Ma persi, Giulia, persi tutto! La mia
famiglia, il mio imperatore, il mio esercito… la mia libertà!
E per tutto quel tempo tu eri preoccupata per una
dannata lettera! - Il petto di Massimo si abbassava e sollevava e il suo viso
era rosso. Chinò la testa e la scosse tristemente. - E
tu eri preoccupata per una dannata lettera, - ripeté, completamente svuotato.
Il suo corpo
crollò contro la colonna. Rimase così per un istante, poi all’improvviso
sollevò la testa e rise con amarezza.
- Che cosa volevi fare questa notte, Giulia… Punirmi
per quella lettera? E’ per questo che sono stato
tormentato da quel tuo amico, Apollinario, e lasciato appeso per ore a quelle
catene a pensare che stavo per essere stuprato… per essere lo schiavo sessuale
del tuo amico per una settimana? Proprio come lo sei stata tu? - Massimo fece
ricadere di nuovo la testa contro la colonna. - E’ per questo
che mi hai personalmente incatenato di nuovo, per chiarire che le nostre
posizioni adesso si sono invertite?
- No, - boccheggiai, ma dalla mia gola serrata non uscì alcun
suono.
- E allora, hai avuto vendetta a sufficienza,
Giulia, per quella lettera senza risposta, per la tua vita di schiavitù? Mi hai
punito abbastanza, dunque? - Rise con asprezza, un suono sgradevole che mi
mandò brividi lungo la spina dorsale. - E tu accusi me di vivere solo per vendicarmi.
Con membra tremanti, camminai all’indietro e mi lasciai cadere in
una sedia. Non c’era bisogno che mi guardassi allo
specchio per sapere che tutto il sangue era defluito dal mio viso. Il pesante
silenzio era interrotto soltanto dal respiro irregolare di Massimo. Un gatto
fulvo fece capolino dalla porta della camera da letto, sembrò considerare che
non c’era pericolo e silenziosamente entrò nel salotto. Lenea, figlia di
Phoenion e l’unica dei cuccioli di Rubia che assomigliasse all’orgoglioso gatto
abissino. Saltò nel mio grembo in cerca di attenzione,
ma io ero troppo profondamente immersa nella mia infelicità anche solo per
alzare una mano ed accarezzarla meccanicamente. Lenea aveva ereditato non
soltanto i colori fulvi del padre, ma anche la sua altezzosità e subito saltò
via e, impettita, si allontanò indignata dalla patetica donna
che non stimava la sua regale compagnia.
Dalla sua posizione contro la colonna, Massimo osservò la gatta
oltraggiata che teneva la coda alta muovendola a scatti, sembrando grato per la
distrazione dopo il reciproco scoppio di collera. Io lo osservai guardare
Lenea, mentre avvilita riflettevo sulle sue parole rabbiose e amare. Aveva
ragione lui? Era questo che gli avevo fatto,
lasciandolo incatenato, impaurito e solo per ore ed ore, lasciandogli credere
che stava per essere usato come una prostituta, proprio come io era stata usata
spietatamente? Aveva importanza che io non avessi mai inteso che quella
finzione durasse tanto? Aveva importanza che io non avessi mai inteso fargli
credere che era stato affittato da un uomo per un servizio da stallone? Ero
stata segretamente d’accordo con Proximo sull’insegnare all’”altezzoso Ispanico” la lezione che tanto si meritava? Avevo
cercato di punirlo per non aver risposto alla mia lettera? Di umiliarlo per
essere nato libero, orgoglioso e uomo mentre io ero nata inerme, donna e schiava?
Avevo cercato di punirlo perché non mi amava? Avevo
cercato per tutto quel tempo quella vendetta finale
che nessun somma di denaro poteva comprare?
Lenea balzò con grazia sul tavolo dove era apparecchiata la cena
d’addio e con cautela cominciò ad avvicinarsi ai gamberetti. Massimo di
riflesso si leccò le labbra, ricordando improvvisamente quanto fosse affamato e
assetato.
Nessuno di noi disse nulla. Invece,
restammo così a lungo, ciascuno ad un lato della sala, tuttavia lontanissimi. Silenziosi e remoti, entrambi feriti oltre ogni dire.
Ciascuno avendo ferito l’altro oltre ogni dire. Entrambi esausti. Sconfitti.
Schiavi. Ed entrambi disperatamente soli.
Infine, mi costrinsi a muovere le membra tremanti. Mi alzai, presi
la chiave e mi avvicinai a Massimo, dandogli tempo, come avevo fatto
nell’atrio. Tempo per urlarmi contro o respingermi o entrambe le cose. Non lo
fece. Senza una parola tolsi il catenaccio alle catene, evitando attentamente
di toccarlo, tuttavia incapace di non guardare la morbida peluria che ricopriva
i suoi avambracci, di non sentire il calore del suo
corpo avvolto in cuoio nero e dai muscoli saldi, la sua maschile fragranza
muschiata che mi riempì le narici, invitandomi a venire più vicina, afferrare
le sue spalle poderose, premere il mio corpo contro il suo e schiacciargli la
bocca in un bacio devastante...
Obbligando le mie mani a non tremare, mi morsi il labbro inferiore
mentre agivo sul catenaccio e facevo cadere le catene al suolo. Potevo sentire
il suo sguardo fisso sulle mie mani, mentre attentamente evitava
di guardarmi in viso.
- Sono stanca, Massimo,
ed è quasi l’alba. - Dissi con voce inespressiva e rivolgendomi al suo torace.
All’improvviso mi sentivo esausta, sfinita come non ero mai stata. - Ho bisogno
di dormire un po’ e sono certa che anche tu ne hai bisogno. Io… non ti avevo
fatto preparare una stanza perché pensavo che saresti stato a bordo della nave,
a quest’ora. Però c’è una seconda stanza da letto laggiù…
- accennai con la testa alla porta della cameretta da neonato, - ed è piuttosto
buia perché non ha finestre. Potrai dormire fino a tardi.
Massimo si scostò dalla colonna e, mentre si liberava dalle catene,
si fermò vicino a me. Così vicino che potevo sentire il calore del suo corpo e
il suo odore maschile. Così vicino che mi sarebbe
bastato solo un passo per essere di nuovo tra le sue braccia...
- E’ un po’ femminile, temo, - balbettai,
completamente scombussolata dal calore e dall’odore del suo corpo, sapendo che
se non uscivo dalla stanza avrei commesso un errore ancor più madornale di
tutti gli errori che avevo già commesso. - Nessun uomo ha mai diviso questo appartamento con me. - Mi bloccai, ma era troppo tardi.
- Tuo marito? - chiese Massimo dolcemente rimuovendo le catene dai
ceppi. Potevo percepire il suo sguardo che cercava il mio viso, i miei occhi,
che cercava di leggere qualsiasi verità ci fosse da
leggere. Gli avevo mostrato il mio cuore nudo, sanguinante, ferito. Rifiutai di
mostrargli la mia anima nuda, sanguinante, ferita. Chinando la testa lasciai
che i capelli mi ricadessero sul viso, nascondendolo dietro la cortina d’oro
rosso. Nascondendomi come non avevo più fatto da quando ero diventata libera...
nascondendomi per la seconda volta quella notte. Che cosa importava se dopo una
vita di prostituzione ora vivevo come una Vergine
Vestale? Lui voleva solo vendetta. E
morte.
- Solo di nome. Non abbiamo mai condiviso intimità. Quando fui
liberata dalla schiavitù giurai che non avrei mai più concesso il mio corpo ad
un uomo, a meno che non lo amassi, - dissi con voce
appena udibile. - Volevo bene a mio marito, ma non lo amavo. Perciò… ho vissuto
qui da sola.
Per un brevissimo istante Massimo sembrò sul punto di toccarmi, di prendermi tra le braccia... e per la prima volta da quando
lo avevo incontrato, temetti che mi toccasse o abbracciasse. Perché se mi
avesse presa tra le sue braccia, se mi avesse offerto
conforto, calore e sicurezza solo per abbandonarmi ancora, nemmeno la morte
sarebbe stata suffficiente a por fine al mio dolore.
Misericordiosamente, Massimo non si mosse.
Trassi un profondo respiro e continuai a parlare, sempre evitando i
suoi occhi.
- Chiederò ad Apollinario di trovare un modo per eliminare quei ceppi di ferro
più tardi, e lui ti troverà qualche abito appropriato e dei sandali. Se devi rimanere qui una settimana, puoi farlo in modo
confortevole. Potrai farti il bagno quando ti sveglierai.
Egli annuì. Senza una parola, andai verso la mia camera da letto e chiusi piano la porta senza voltarmi a guardarlo. Poi,
appoggiai la schiena contro di essa e mi guardai
attorno.
Ore prima, quando avevo lasciato la sicurezza del
mio rifugio sapevo che qualsiasi cosa fosse accaduta tra quel momento e il mio
ritorno, niente sarebbe più stato lo stesso. E non lo
era.
Sapevo che, dopo aver visto Massimo per un’ultima volta, sarei
morta come donna se non come essere umano, e questo per tutto il tempo che
avrei avuto ancora da vivere... Ed eccomi lì, di nuovo nel mio rifugio,
sentendomi morta come avevo previsto... tuttavia
niente era andato come avevo pianificato. Non ero riuscita a salvarlo ed ero riuscita
soltanto a ferire entrambi. Massimo era qui eppure io non potevo averlo. Ero
stata pronta a perderlo per restituirlo alla moglie e all’onore, ma ero
condannata a perderlo per la morte. Perché il fato si
prendeva sempre gioco di me? Perché, nonostante fossi pronta a cedere tutto,
altrettanto mi veniva richiesto?
Lasciandomi scivolare lungo la porta, mi sedetti sul freddo
pavimento di marmo, mi abbracciai le ginocchia e scoppiai in lacrime. Piansi
senza ritegno, come una bambina, con enormi singhiozzi che minacciavano di soffocarmi. Era stato così
per Lucilla? Era stato così per lei quando, a diciotto anni, era stata respinta
da Massimo? Aveva pianto così, senza ritegno come piangevo ora io, quando era
stata obbligata ad allontanarsi da lui ed a sposare il fratello adottivo del
padre e co-imperatore Lucio Vero? Aveva giaciuto sul suo
letto di nozze come una bambola rotta mentre il marito la prendeva e aveva
sognato di Massimo come io avevo sognato di lui nel mio, anche se mi era stata
risparmiata un’intimità che non volevo? Era stato così per la vedova figlia
dell’imperatore quando era stata offerta in matrimonio a Massimo e da lui
respinta? Si era infuriata come avevo fatto io? Aveva maledetto sua moglie e
lui e il fato e se stessa come avevo fatto io? Aveva bramato la vendetta? Aveva
provato un’amara soddisfazione quando lo aveva visto ridotto a combattere per
il divertimento della folla? All’improvviso sperai che Lucilla fosse lì, così
da poterglielo chiedere...
Dopo quello che sembrò molto tempo, mi
costrinsi a rimettermi in piedi, strofinandomi il naso e gli occhi con il dorso
della mano, un gesto talmente simile a quello della bambina spaventata
cresciuta alla villa di Cassio che se non fossi stata così esausta, così
svuotata, mi sarei maledetta di nuovo.
Inciampando, andai al mio tavolo da toletta, mi tolsi i gioielli e
con diligenza li posi sul corrispondente astuccio ricoperto di velluto. Poi mi
tolsi la costosa tunica di seta color avorio e con lo stesso ordine maniacale, la misi sul divano da lettura e sistemai i
sandali sotto quest’ultimo. Da uno dei miei bauli tolsi una veste di seta color
panna e la indossai prima di tornare al tavolo, prendere una spazzola ed usarla
sui miei lunghissimi capelli. Mentre le lacrime mi scorrevano ancora sulle guance,
mi spazzolavo con grande concentrazione, guardando nel frattempo il mio riflesso nello specchio lustro.
Esso mi mostrò una pallida estranea con enormi occhi azzurri sbarrati e labbra
strettamente premute per impedir loro di tremare o, forse, di lasciarsi
sfuggire un ululato da animale ferito...
Un forte miagolio alle mie spalle mi fece sobbalzare così
violentemente che quasi lasciai cadere la spazzola. Un miagolio esigente che
poteva essere soltanto di Phoenion. Il gatto abissino era seduto sul tappeto;
era entrato nella mia stanza dalla terrazza privata e mi guardava con un misto
di curiosità ed impazienza, come se pretendesse una spiegazione per il
comportamento poco dignitoso e rumoroso nel salotto.
Sorridendo nonostante le lacrime, mi sfregai di nuovo il naso e gli
occhi e raccolsi il gatto color sabbia. Immediatamente cominciò a far le fusa.
- Mi dispiace, bello, - dissi dolcemente, parlando con le labbra vicine al suo
orecchio come piace ai gatti. - C’è stata un po’ di
baraonda, ultimamente, vero?
Con Phoenion tra le braccia, andai verso il letto, ma mi bloccai
quando udii delle voci in terrazza... Accigliandomi, mi mossi verso l’arcata
che dava l’accesso ad essa, ma mi fermai di nuovo
quando riconobbi che una voce apparteneva ad Apollinario.
- ...pensava di
salvarti nel modo in cui tu avevi salvato lei.
Phoenion mi urtò il mento con la testolina, esigendo carezze ed
attenzione, e io lo zittii avvicinandomi a piedi nudi alle colonne. Per una
volta, il gatto decise di assecondarmi e
restò calmo tra le mie braccia, il corpo caldo e morbido contro i miei seni, facendo le fusa con verso alto e regolare.
Nascondendomi nelle ombre, con circospezione mi misi a lato dei
velari trasparenti usati per impedire agli insetti notturni di infilarsi nella
mia camera, e guardai all’esterno. La notte era nera,
con solo una punta di luminosità nel cielo ad oriente e qualche luce
scintillante in lontananza, il faro di Ostia non
visibile da quel lato della villa.
Massimo era sulla terrazza, in piedi vicino alla balconata di marmo
e guardava giù, nel giardino, dove sembrava che ci fosse Apollinario.
- … e liberarti nel
modo in cui tu liberasti lei. Ma tu non l’hai
permesso. Così facendo, hai scelto quasi certamente di morire … di allontanarti
da lei ancora una volta.
Malgrado la fioca luce, vidi Massimo sospirare.
- La mia vita è molto complicata. Può sembrare semplice dal di fuori, ma è
ancora molto complicata. Io ho un dovere da compiere e lo devo portare a
termine a qualunque costo. E quel costo sarà
probabilmente la mia vita.
- Generale, hai scelto la morte invece dell’offerta di libertà da
parte di Giulia.
- Scelto? Io non ho alcuna scelta. Perché sia tu che Giulia supponete che ho una scelta?
Ora Apollinario sembrava confuso. Come
confusa ero anch’io.
- Io immaginavo…
- Immagini troppo.
Io ho dei doveri da compiere. Io non ho alcuna scelta.
Sfortunatamente, Giulia non è inclusa in questi doveri.
- Sfortunatamente…?
Col cuore che mi batteva selvaggiamente, mi strinsi Phoenion contro
il petto. Il gatto chiuse gli occhi dorati in segno di reazione, ma non
protestò né fece uno sforzo per liberarsi.
Massimo cominciò ad allontanarsi dalla balconata, poi si voltò di
nuovo, camminando su e giù in piccoli cerchi, così chiaramente frustrato che
dovetti trattenermi dall’andare da lui, prenderlo tra le mie braccia e calmarlo
come si calma un bambino turbato. Cominciò a parlare, si bloccò, poi
ricominciò.
- Non pensi che io sia lusingato che una
donna della sua bellezza ed intelligenza mi trovi
attraente? Non pensi che, se ci fosse concesso più tempo insieme, forse potrei
ricambiare il suo amore? Io non ho tempo, Apollinario. Io non ho scelta. La mia presenza qui non fa che rendere tutto più
difficile a tutti. Sarebbe stato meglio se mi aveste lasciato in quella cella a
Roma.
- Non avevo capito. Ancora una volta, mi dispiace, generale.
C’era tristezza nella voce di Apollinario.
Tristezza e comprensione. Massimo si limitò ad annuire e lanciò un’occhiata
verso il cielo ad oriente, dove il sole rosso aveva appena squarciato
l’orizzonte. Poi, senza altre parole, tornò verso il salotto, lasciandomi
tremante, sconvolta... e disperatamente innamorata.
Fu solo quando i primi raggi del sole illuminarono il pavimento di
marmo della mia camera che lasciai la mia posizione
vicino all’arcata della terrazza. Phoenion si era addormentato da tempo ed
improvvisamente il suo peso sembrò eccessivo per le mie braccia stanche. Lo
lasciai su una sedia, poi mi arrotolai nel mio enorme letto a baldacchino.
Ansietà ed angoscia finalmente ebbero la meglio su di
me e le mie palpebre sembrarono di piombo.
- Non pensi che, se ci fosse concesso più
tempo insieme, forse potrei ricambiare il suo amore?
Prima di cadere addormentata, mi ripromisi che una settimana
sarebbe stata più che sufficiente.
Esausta per le emozioni della settimana precedente e per la lite
finale nel salotto, dormii ininterrottamente per ore, dimentica
del mondo e anche di Massimo, che dormiva così vicino a me. Né sogni né incubi
vennero a disturbare il mio sonno e quando mi svegliai non ebbi
bisogno che di uno sguardo alla luce proveniente dalla terrazza per rendermi
conto che mezzogiorno era passato da un pezzo. Mi sollevai a sedere ed il mio
sguardo immediatamente sfrecciò verso la porta.
Massimo.
Il mio appartamento era stranamente silenzioso e non si vedeva
nessuno dei miei gatti. Balzai dal letto e mi lavai in fretta, notando
vagamente che i miei occhi erano leggermente gonfi. Troppo di fretta per
spazzolarmi i capelli o cercare un paio di pianelle, aprii la porta e a piedi
nudi andai in salotto, con i lunghi capelli aggrovigliati dal sonno. Sembrava
tutto calmo. Probabilmente Massimo stava ancora dormendo. Obbligandomi a stare
calma, mi avvolsi nella vestaglia di seta bianca e silenziosamente aprii la
porta che dava sulla seconda camera da letto, aspettandomi quasi di trovarlo
sveglio e chiedendomi chi sarebbe stato il primo a parlare dopo lo strepito
della notte precedente. Una lama di luce dal salotto illuminò il letto... Che
era intatto.
Con il cuore che mi batteva selvaggiamente, richiusi la porta. Se n’era forse andato, dopo la sua conversazione con
Apollinario? Vicina al panico, mi voltai, chiedendomi che cosa avrei dovuto
fare... poi mi fermai di colpo. Massimo era sdraiato
scompostamente sul divano vicino al tavolo apparecchiato, e russava sommessamente,
con una mano posata delicatamente su Nigra, la timida gatta nera che faceva le fusa soddisfatta dormendo sul suo petto, il quale si
sollevava ed abbassava ad ogni respiro.
Mi avvicinai lentamente. Non si era preoccupato di togliersi la
corazza di cuoio. Il divano era troppo corto per lui ed una gamba penzolava
sopra il bracciolo mentre l’altra era piegata al ginocchio, ed il piede calzato
da stivale poggiava sul pavimento. Nel sonno, la tunica gli era scivolata in
su, esponendo quasi l’intera lunghezza delle sue
virili gambe abbronzate e muscolose. Una
cicatrice gli deturpava la coscia destra. Era profonda e sembrava essere stata
causata da una lancia o da una freccia. Era forse la conseguenza della ferita
grave che aveva menzionato la notte prima? Ci volle tutta la mia volontà per
trattenermi dal seguirla con il dito, come avevo tracciato il suo nome sul
marmo del Colosseo. Stringendo le mani a pugno, mi chiesi quante altre
cicatrici erano nascoste dal cuoio nero, quante ferite
erano state inferte al suo corpo divino quando era soldato e dopo, come
gladiatore...
L’altra sua mano era appoggiata contro lo schienale del divano, le
dita leggermente flesse. Anche la testa di Massimo era rivolta contro lo
schienale, ad un’angolazione dall’aria piuttosto
scomoda, ed i capelli erano arruffati. Mi avvicinai per ammirarlo meglio e il
mio piede toccò qualcosa di duro che rotolò sul tappeto. Una brocca d’argento
di vino. Vuota. Nessuna meraviglia che egli non sentisse alcun fastidio.
L’ultima volta che l’avevo vista, era stata piena. Tutto quel vino a stomaco
vuoto...
Nel sonno, Massimo sembrava giovane, dolce e innocente. Rilassato
ed inconsapevole di essere osservato, il feroce guerriero cedeva
il passo all’uomo vulnerabile che viveva dentro di lui, proprio come la
bambinetta spaventata viveva ancora dentro di me. Desideravo sdraiarmi accanto
a lui, prenderlo tra le mie braccia e proteggerlo nel suo sonno, poi vederlo
sveglio, guardare nei suoi meravigliosi occhi ed essere riscaldata dal suo
sorriso fanciullesco... Ma il divano era troppo stretto per due persone, in
verità a malapena accoglieva il suo corpo vigoroso.
Gentilmente, attenta a non svegliarlo, sollevai
Nigra dal suo petto, prendendogli la mano affinché non ricadesse, e misi la
gatta sul pavimento, dove essa si allungò voluttuosamente prima di saltare su
una sedia vuota per continuare il suo pisolino. Rimasi così per un momento,
tenendo dolcemente la sua mano calda e forte nella mia, le dita callose e
abbronzate in contrasto con le mie, bianche come latte e snelle,
accarezzandogli teneramente le nocche con il pollice.
E poi, lo vidi. O, farei meglio a dire, notai
la sua assenza.
Il suo anello nuziale non c’era.
Gli era stato portato via come tutto il resto? O
lo aveva tolto dopo aver visto il corpo della moglie morta? Lo aveva quando
Proximo lo aveva comprato al mercato degli schiavi di Zucchabar? O lo aveva perso da qualche parte nel viaggio verso la
provincia africana?
Silenziosamente, mi sedetti sul tappeto accanto al divano, sollevai la mano afflosciata di Massimo, e appoggiai la
testa sul punto caldo dove un attimo prima c’era Nigra, poi feci ricadere la
sua mano sui miei capelli.
Massimo non si mosse.
Sospirando, inalai il suo odore maschile, ascoltando il battito
forte e regolare del suo cuore attraverso il cuoio, e nella mia mente
risuonarono ancora una volta le parole che avevo
ascoltato di nascosto la notte prima.
- Non pensi che, se ci fosse concesso più
tempo insieme, forse potrei ricambiare il suo amore?
Oh, sì. Una settimana sarebbe stata sufficiente. Più che
sufficiente.
Non so per quanto rimasi lì, cullata dal suo calore e dal battito
del suo cuore. I raggi obliqui del tardo pomeriggio si
spostavano sul pavimento di marmo e di tanto in tanto mi appisolavo.
Riscaldata dalla sua vicinanza, con la sua mano sul
mio capo, era facile fingere che non fossimo mai stati separati. Era facile
immaginare che i sei anni trascorsi dalla Mesia non fossero mai esisititi. Era
facile immaginare come sarebbe stato quando finalmente egli mi avesse accettata...
Un bussare alla porta mi fece trasalire così violentemente che feci
un salto indietro, spaventata di essere scoperta ad
approfittare del sonno ubriaco di Massimo. Disturbato dal mio movimento
improvviso, egli bofonchiò ma non si svegliò e io mi sforzai di alzarmi, poi
corsi in fretta alla porta. Aprii uno spiraglio e vidi Apollinario sulla
soglia. Egli osservò i miei capelli aggrovigliati e la mia
veste di seta e sorrise un pochino, sollevando un angolo della bocca. Prima che
potesse parlare, mi premetti il dito sulle labbra e feci un cenno verso il mio
appartamento. Perplesso, egli entrò, poi vide Massimo che dormiva sul divano e
in silenzio mi seguì nel mio studio privato, dove ci sedemmo lasciando la porta
aperta per poter udire se Massimo si svegliava.
- Così non è fuggito...
- No, - dissi. - Ma ho speranze che possa
cambiare idea...
I nostri sguardi si incrociarono e non vi
fu bisogno di parole. Aveva capito che avevo udito la sua conversazione con
Massimo.
- Il capitano Paolo dovrebbe rimanere all’erta, quindi?
- Sì, lui e il suo equipaggio devono rimanere alla nave, pronti a
salpare con breve preavviso. Digli anche che l’Ispania potrebbe non essere la
nostra destinazione.
Apollinario alzò lo sguardo con aria interrogativa e io brevemente
spiegai dell’uccisione della famiglia di Massimo. Egli
scosse la testa incredulo.
- Marco Aurelio era un uomo giusto, - disse il mio ex precettore. - Come può aver generato un tale mostro?
- Le guardie sono sveglie?
- Sveglie, e io sono orgoglioso di
riferirti che stanno vomitando l’anima!
- Voglio che alloggino lontano dalla casa principale... falle
alloggiare con gli stallieri e chiedi al maestro di scuderia di controllarli.
Non voglio che quei criminali mi girino per casa o tiranneggino la mia
servitù...
- Parlerò con Sempronio... si prenderà buona cura di loro...
Non potei fare a meno di sorridere. Il maestro di scuderia era un
nubiano alto più di sei piedi[1] e perfettamente in grado di abbattere un
cavallo a mani nude. Era stato uno degli schiavi liberati alle mie nozze e mi
era ferocemente fedele. Se gli avessi ordinato di
uccidere gli uomini di Proximo, l’avrebbe fatto senza esitazione.
- Ma, prima di tutto, ho bisogno che trovi dei vestiti e dei sandali per
Massimo... e voglio che gli vengano tolti i ceppi di
acciaio...
- Manderò al porto un fattorino con un messaggio per il capitano
Paolo, a prendere qualcuno degli abiti che gli avevamo
comprato per il viaggio... nel frattempo prenderò accordi con il fabbro...
Ci fu un debole suono frusciante alla porta dello studio e
Apollinario ed io ci voltammo contemporaneamente.
Massimo era sulla soglia, sbatteva le palpebre come farebbe un gufo,
i capelli arruffati. Il mio cuore si gonfiò. Sembrava così giovane e dolce malgrado il cuoio nero e i ceppi d’acciaio....
- Io... ho sentito delle voci... - disse esitante.
Apollinario s’inchinò.
- Generale...
Massimo restituì il saluto annuendo appena, ma i suoi occhi erano
fissi su di me. Mi offrì un piccolo sorriso incerto e io arrossii come una
ragazzina.
Apollinario guardò me, poi Massimo e saggiamente decise di prendere
la parola.
- Ora che sei riposato, generale, suppongo che sarai
ansioso di fare un bagno e cambiarti i vestiti...
Era il turno di Massimo di arrossire. Che
cosa lo imbarazzava? L’aver bevuto troppo e dormito fino a tardi? O l’implicazione che aveva bisogno di un bagno?
Apollinario scelse di ignorare il suo imbarazzo e continuò
imperterrito.
- Sono stati comprati per te dei vestiti, ma si trovano sulla nave che
doveva... portarti via... Li farò arrivare
immediatamente. Nel frattempo, prenderò accordi con il fabbro per toglierti i
ceppi...
Massimo annuì in silenzio. Apolllinario si voltò verso di me.
- Vuoi darmi qualche minuto, e poi condurre il generale alla bottega del
fabbro, Giulia?
Era il mio turno di annuire in silenzio, gli occhi fissi su
Massimo.
Apollinario sospirò impercettibilmente.
- Se volete scusarmi...
Una volta soli, mi alzai dal mio posto dietro lo scrittoio,
sforzandomi di impedire alla mia vestaglia di aprirsi
e sentendomi impacciata come non mi sentivo da anni.
- La bottega del fabbro non è lontana... - balbettai. - Mi vesto in un attimo e
ti ci accompagno...
Egli annuì e si spostò per lasciarmi passare. Avevo raggiunto la
porta della mia camera quando Massimo parlò dietro di me.
- Erano i tuoi capelli, Giulia...
Mi fermai, ma non mi voltai. Di che cosa stava parlando? Egli
proseguì.
- Erano raccolti... Non ti avevo mai vista con i
capelli raccolti... Ecco perché non ti avevo riconosciuta nell’atrio...
Io rimasi in silenzio per un momento. Poi, raddrizzai la schiena e
parlai senza voltarmi. Non c’era ira nella mia voce. Soltanto tristezza.
- Ti sbagli, generale. Mi hai già vista un’altra volta
con i capelli raccolti... Eravamo insieme in una vasca da bagno... e io ero
nuda.
[1]
I Romani adottarono come unità di misura
lineare il "piede", identico a quello attico
che veniva prevalentemente utilizzato nel mondo greco, e misurava 29,65
centimetri (N.d.T.).