Diario di Giulia - Parte seconda

Diario di Giulia (indice capitoli)
Diario di Giulia - Parte seconda (indice capitoli)


Storie de Il Gladiatore

Julia’s Journal
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Capitolo X - Massimo sotto il mio tetto, 180 d.C.

C’è una sorta di conforto nel ritmo monotono delle abitudini quotidiane. Qualsiasi abitudine. La puoi afferrare come un uomo che stia annegando afferra un pezzo di legno. La puoi conservare e, mentre la espleti, ti godi perfino il lusso di sperare che, dopo tutto, le cose possano non essere tanto male.

Per quanto io possa ricordare, la bellezza ha sempre giocato un ruolo fondamentale nelle mie abitudini quotidiane. Sia che fossi Giulia, “la migliore che abbia mai allevato”, che si preparava per gli uomini che doveva servire, sia che fossi Giulia Antonina, la liberta che si preparava per andare a teatro con Apollinario, o Giulia Servilia, la matrona romana che si preparava per uno dei banchetti del ricco marito, le abitudini quotidiane mi avevano sempre obbligata a trascorrere del tempo di fronte ai miei lucidi specchi.

Quando ero una bambina schiava che cresceva nella villa di Cassio non potevo avere bambole, e mi veniva invece insegnato come esaltare la bellezza con la quale gli dei mi avevano benedetta. Divenuta donna, ero arrivata a detestare quella bellezza, perché mi aveva condannata alla prostituzione. Ma era stata anche la mia bellezza a darmi l’opportunità di diventare libera, perché essere bella era la ragione per cui sei anni prima ero stata scelta da Cassio come esca per Massimo. Cassio mi aveva scelta perché io ero Giulia, “la migliore che abbia mai allevato”. Giulia, la giumenta pregiata nella sua stalla umana, come Massimo era ora lo stallone pregiato in quella di Proximo. Ciò che Cassio, con tutti i suoi complotti ed intrighi, non aveva previsto era che, scegliendo me, aveva anche firmato la propria condanna a morte. Non v’era dubbio che gli dei avessero un perverso senso dell’umorismo.

Fino ad un certo punto, la bellezza ha condizionato ogni singolo istante della mia vita. Fu la mia bellezza a fare di me una prostituta, ma fu anche la mia bellezza a risparmiarmi, mentre lo facevo, dall’essere data a certi uomini particolarmente abietti. Fu la mia bellezza a far sì che gli uomini mi concupissero, ma fu anche la mia bellezza ad attirare l’attenzione di uomini speciali che mi offrirono doni inestimabili quali libertà e istruzione, potere e rispetto. Era la mia bellezza a rendere le donne gelose di me, ma era ancora la mia bellezza a tenerle a distanza, impedendo tentativi di amicizia femminile che io non avrei mai potuto tollerare né avuto la forza di rifiutare. Allo stesso modo in cui le medicine possono curare o uccidere, le benedizioni possono essere maledizioni e viceversa.

Come dicevo, ero così abituata all’effetto che la mia bellezza produceva sugli uomini che a malapena me ne rendevo ancora conto. Ma quella notte, era diverso. Quella notte volevo essere bella. Davvero bella. Volevo che Massimo, allontanandosi per sempre dalla mia vita, portasse con sé l’immagine della bellezza serena e matura che ero diventata da quando ci eravamo detti addio sei anni prima. Perché io non sarei mai stata in grado di dimenticare l’effetto che la mia bellezza aveva avuto su Massimo, sia al festino di Cassio sia più tardi, nella sala da bagno degli alloggi delle schiave, quando malgrado il suo ferreo controllo, egli era stato incapace di impedire ai suoi occhi di errare sul mio corpo nudo. Non avrei mai potuto dimenticare il modo in cui il suo sguardo rovente aveva scaldato il mio cuore raggelato e fatto bruciare la mia carne insensibile. Volevo sentire di nuovo quello sguardo infiammato perché, così facendo, morire sentendomi una donna - se non un essere umano - forse non sarebbe stato così brutto.

Sola nella stanza da letto che non avevo mai diviso con un uomo, mi concentrai sulla consuetudine di rendermi ancora più bella di quanto fossi mai stata. Con movimenti deliberatamente lenti, mi frizionai olio fragrante sulla pelle. Mirra con una sottile punta di loto, la mia fragranza personale, la mia sola concessione al passato. Le mie dita si mossero sopra la candida pelle fredda distribuendo l’olio, ma non riuscendo a scaldare la carne, perché non era il loro tocco setoso che io bramavo, ma quello delle dita callose dell’uomo incatenato al piano di sotto. Poco prima, prima di congedare le mie ancelle per la notte, avevo ordinato loro di raccogliere in modo elegante e adornare con pettini e forcine d’oro e d’avorio i miei capelli lunghi fino alla vita. Stesa sul letto c’era una tunica della più fine seta color avorio, ricamata d’oro, con abbinati i sandali di morbida pelle che avevo scelto per il mio incontro con Massimo.

Senza distogliere lo sguardo dallo specchio lucido, indossai la tunica e mi annodai la fusciacca dorata intorno alla vita, poi presi i gioielli dal vassoio in cui Nicia li aveva posati ore prima: la collana d’oro e rubini sangue di piccione con gli orecchini abbinati e le spille per le spalle che avevo indossato il giorno delle mie nozze, un’amara ironia della quale ero perfettamente consapevole.

Quando finii, mi studiai con sguardo critico esperto e spassionato. Uno sguardo che mi disse che ero bella e desiderabile al di là dei sogni di qualsiasi donna, che qualunque uomo mi avesse visto quella notte mi avrebbe bramata e avrebbe abbandonato qualsiasi cosa la sua vita fosse o significasse, solo per stare con me… eppure stavo per allontanare per sempre da me l’unico uomo che avessi mai amato.

Mentre voltavo la testa da una parte all’altra per verificare la mia pettinatura, scoprii una ciocca fuori posto e alzando la mano per sistemarla, vidi il mio anello matrimoniale, l’anello d’oro massiccio cesellato che Mario Servilio Tibullo mi aveva messo al dito in un giorno di primavera che sembrava lontanissimo. Dopo la sua morte, lo avevo tenuto indosso. Quando ero preoccupata o angosciata ero solita giocherellarci, usando il pollice per farlo ruotare distrattamente attorno al dito, il suo peso e contorno un conforto di sorta durante i momenti difficili, tuttavia inutile in quella fatidica notte. Guardando intenta il mio anello di nozze, pensai agli ultimi istanti di Mario Servilio, quando mi aveva detto che il suo solo rammarico prima di morire era non aver punito l’uomo che mi aveva resa infelice. L’uomo che io amavo, ma che non mi amava. L’uomo che lui aveva definito “un pazzo”... Nei precedenti due anni, quando quelle parole mi erano tornate in mente, mi ero chiesta chi fosse il vero pazzo, Massimo con il suo senso dell’onore e del dovere oppure io, con la mia segreta imperitura speranza che un giorno, un giorno forse, la marea sarebbe cambiata e lui sarebbe riuscito ad amarmi…

Il mio anello di nozze luccicò nella luce tenue delle lampade ad olio, oro su oro per il simbolo di un’alleanza celebrata tra un uomo e una donna che non erano mai riusciti a conoscersi intimamente, ma che avevano condiviso una strana intimità, pur rimanendo immersi nella loro rispettiva solitudine. Indossare l’anello che egli mi aveva messo al dito quando avevamo pronunciato i nostri voti di nozze, era stato il mio omaggio personale a Mario Servilio Tibullo. Un omaggio personale ad un uomo che più di una volta era riuscito a capirmi meglio di quanto ci riuscissi io stessa. Un uomo che aveva visto al di là della mia bellezza e aveva accettato quello che aveva visto. Un uomo che mi aveva offerto l’opportunità di diventare rispettabile, potente e ricca. Un uomo che mi aveva assicurato la libertà e l’indipendenza in un mondo in cui, molto spesso, le donne sono considerate una proprietà, esattamente come gli schiavi e, ancor più spesso, si ritrovano ad essere usate e messe da parte nello stesso modo in cui lo sono le prostitute. Mario Servilio mi aveva perfino assicurato la libertà di cercare in un altro uomo quello che egli non voleva o non poteva darmi… Ma io gli ero rimasta fedele, perché ero rimasta fedele a Massimo e lui aveva scelto di rimanere fedele a sua moglie.

Mario Servilio Tibullo meritava un omaggio migliore che l’indossare un semplice anello, tuttavia io non avevo nulla di meglio da offrirgli. La sua maschera funeraria rimaneva nella speciale teca insieme a quelle dei suoi genitori e dei suoi nonni, il suo nome e la sua discendenza estinti, ora che se n’era andato non lasciandosi dietro alcun figlio o figlia ad onorarli, ma una straniera. Una straniera senza fede che non aveva ella stessa alcun avo conosciuto. Una straniera senza fede il cui cuore era colmo di ricordi di un altro uomo…

Avevo commissionato un busto del mio defunto marito e lo avevo posto nel suo studio personale, vicino a quello di Pollia Sabina Marcia. Il suo studio rimaneva chiuso, così come il suo appartamento, entrambi responsabilità di Fedro, il suo valletto, che aveva scelto di rimanere alla villa dopo una vita votata a servire il suo padrone ormai morto. Era lui che distribuiva freschi petali di rosa attorno ai busti ed anche alla statua della donna con il neonato. Non era un dovere che io gli avessi imposto, ma che aveva scelto di spontanea volontà e, non ho alcun dubbio, vero affetto. Ringraziai Fedro per questo, tenendo il vecchio servitore alla villa, anche se non aveva più un padrone da servire.

Ed ora… ora la marea era cambiata come avevo sognato e Massimo era sotto il mio tetto. Inerme. Spaventato. Incatenato. Uno schiavo, mentre io ero libera, comprato per fare da stallone, per mio capriccio e grazie al mio denaro. Se avessi voluto vendetta per l’avermi respinta, non avrei potuto chiedere di più. Nel loro modo perverso e crudele, gli dei avevano esaudito l’unico desiderio di una donna senza fede. Se ciò era prova della loro esistenza, era anche prova che la divinità è ben al di là dell’umanità, che adorare dei è cosa senza speranza ed inutile, come cercare di fermare le legioni romane a mani nude.

Con un sospiro profondo, mi tolsi l’anello nuziale e lo riposi in uno scrigno, chiudendo il coperchio senza guardarlo e ripromettendomi di riindossarlo una volta che avessi visto partire la nave di Massimo… non sapendo che non l’avrei mai più rimesso.

Qualcuno era stato nel mio appartamento mentro io mi vestivo e aveva preparato del vino e del cibo su un basso tavolino vicino ai divani, del buon Cecubo e un grande vassoio di pietanze, dal pollame arrostito ai gamberi, pane, formaggio, olive, verdure cotte e crude, frutta e pasticcini al miele. C’erano anche piatti, coltelli, cucchiai e calici per due, tazze con acqua profumata e asciugamani, tovaglioli, bicchieri e una brocca d’argento con acqua fresca. Una cenetta intima per due. Una cenetta intima per un amante che tale non era. Una cenetta intima che doveva essere una cena d’addio. Non v’era niente da fare qui e molto da fare nell’atrio. Mi voltai per andare ma, ripensandoci, riempii un bicchiere d’acqua e lo portai con me, obbligandomi ad allontanarmi nonostante mi sentissi le gambe molli.

Cinque anni prima, andando alla cerimonia che mi aveva reso la moglie di un estraneo, avevo disceso una rampa di gradini con passo fermo ed il senso di distacco che ci colma quando, oltre ogni sfinimento, siamo riusciti ad accettare l’inevitabile. Ora, discesi un’altra rampa di scale pienamente consapevole che ogni gradino mi avvicinava al momento che avevo desiderato esattamente tanto quanto ora lo temevo. Che ogni gradino mi avvicinava, ed allo stesso tempo mi allontanava, dalla sola fonte di vero calore, sicurezza e tenerezza che avessi mai conosciuto.

Apollinario era in fondo alle scale, e mi guardò incredulo.
- Giulia, dove sei stata? - disse in tono calmo. - Quando sono andato nel tuo appartamento per controllare i preparativi per la cena e non ti ho trovata, ho pensato che fossi con il generale!

Ignorai la domanda.
- Hai la chiave?

Apollinario sospirò.
- No, non ancora. Ho dato loro la droga, ma ci è voluto più del previsto per far addormentare quei bruti. Spero che adesso stiano dormendo della grossa. Farai meglio ad andare da Massimo, io ti raggiungerò là con la chiave, una volta recuperatala.

Lo sguardo nei suoi occhi era di preoccupazione, ma io ero troppo vicina al mio fato per concedergli tempo o conforto. Annuendo con aria assente, andai verso la porta intarsiata di quercia massiccia e, traendo un profondo, profondissimo respiro, la aprii.

 

 

 

L’atrio era quasi completamente buio. E vuoto.

Il mio primo pensiero fu che, in qualche modo, Massimo era sfuggito alle catene. E il pensiero mi rese irrazionalmente felice perché significava che aveva superato la paura e la depressione di cui Apollinario aveva parlato… la paura e la depressione che gli avevo inflitto io.

Ma la mia felicità fu breve perché, appena i miei occhi si adattarono alla debole luce della luna che risplendeva nel cortile attraverso l’apertura nella cupola, gettando ombre bluastre nei recessi dell’atrio, finalmente lo vidi. Non era in piedi come mi aspettavo, con le braccia tese tra due colonne scannellate. Invece, Massimo era seduto sul pavimento, dove lo sfinimento lo aveva fatto cadere, le braccia tese sopra la testa che era crollata sulla spalla.

Massimo.

Solo.

Incatenato.

Vulnerabile.

Sconfitto.

Mi morsi il labbro inferiore per evitare di piangere per l’angoscia. Per evitare di correre da lui, gettarmi in ginocchio di fronte a lui e implorare il suo perdono… Mi feci forza perché non era il momento della debolezza, non il momento delle lacrime, ma il momento d’essere forte e di fare quanto andava fatto.

Dovevo aver fatto una sorta di rumore perché, mentre penosamente lottavo per riguadagnare la mia compostezza, Massimo si girò verso di me e sembrò vedermi nell’oscurità. Muovendomi lentamente, con attenzione, andai verso di lui, lasciando che mi vedesse avvicinarmi per non coglierlo di sorpresa. Massimo mi guardava, sì, ma non mostrò alcuna reazione, chiaramente poco cosciente, la mente annebbiata dallo sconvolgimento o dallo sfinimento o da entrambi.

- Massimo, - sussurrai dandogli il tempo di comprendere che la mia voce era amichevole. - Massimo, - ripetei accovacciandomi davanti a lui e allungando una mano verso il suo viso. Egli si voltò verso la mia voce e la mia mano, e malgrado l’oscurità lo vidi sforzarsi di mettere a fuoco lo sguardo, ma esso era annebbiato e vuoto. Lo sguardo di coloro che non riescono a credere che il loro fato li abbia portati tanto in basso.

Lo sguardo del vinto.

Lo sguardo di uno schiavo.

Mormorando il suo nome più e più volte, gentilmente gli accarezzai il bel viso, facendo scivolare affettuosamente i miei polpastrelli sulla guancia barbuta, tracciando con il pollice il contorno della fossetta sul suo mento, poi facendo lo stesso con la sua bocca elegantemente scolpita, dolce e sensuale. Al mio tocco, le sue labbra si separarono in istintiva risposta e io potei percepire il suo caldo respiro, ed il mio corpo si coprì di pelle d’oca. Tenendogli ancora il viso tra le mani, ancora cercando di suscitare in lui qualche reazione, chiesi dolcemente a bassa voce:
- Massimo, ti ricordi di me?

Egli socchiuse gli occhi e batté le palpebre, la scarsa luce riflettendosi brevemente su occhi verdazzurri che mi guardarono, ma in qualche modo sembrarono non vedermi. Poi scosse la testa in segno di diniego. Il movimento fu quasi impercettibile e io mi sentii come se una bestia selvaggia mi avesse squarciato il cuore e l’anima con i suoi artigli, la possibilità che Massimo non si ricordasse di me non avendomi mai nemmeno sfiorata la mente in tutti quegli anni di struggimento, desiderio e speranza. In tutti quegli anni di disperata solitudine… Il colpo fu così intenso che per un istante non riuscii a respirare, non riuscii a muovermi, non riuscii nemmeno a dire a me stessa che era sconvolto, che la luce era così scarsa che in realtà lui non riusciva a vedermi. Che c’era ancora speranza per me…

Poi si leccò le labbra aride.

Non manca mai di stupirmi come un semplice gesto possa riportarci alla realtà, non importa quanto sia penoso il tormento che proviamo. Le sue labbra erano secche, la sua sete evidente quanto il suo stato confusionale. Ricacciando il dolore e le lacrime e la disperazione parlai nel tono più dolce e rassicurante che riuscii a produrre.
- Ho dell’acqua, Massimo. Sto per portarti un bicchiere alle labbra.

Malgrado le mie parole, il liquido lo fece trasalire ed egli tossì leggermente prima di sorseggiare, per poi trangugiare, l’acqua fresca, la sua sete verosimilmente opprimente, i potenti muscoli della gola che salivano e scendevano ritmicamente mentre egli inghiottiva avidamente, e le fresche gocce che gli scivolavano dal mento. Svuotò il bicchiere in un attimo e tossì di nuovo quando non ci fu più niente da bere. Allontanai il bicchiere.

- Ancora, - gemette.

Io tremai. Nulla mi aveva preparata all’ondata di desiderio che mi sommerse al suono della sua bella voce profonda. Mi travolse come un’ondata improvvisa travolge tutto quello che incontra al suo passaggio… Generale o schiavo, dio o semplice mortale, che si ricordasse di me o no, Massimo era Massimo. L’uomo che amavo. L’uomo che avevo salvato. L’uomo che stavo per salvare di nuovo e liberare… anche quando questo significava rinunciare a lui per sempre.

Accarezzando di nuovo il suo bel volto amato, parlai in tono tranquillizzante, come se fosse un bambino molto spaventato bisognoso di protezione e tenerezza.

- Presto. Presto avrai vino e cibo, e comodità, - malgrado i miei sforzi, la mia voce si ruppe. - Oh, Massimo, come sei potuto finire in questa situazione?

- Le guardie mi hanno incatenato qui.

Anche se un po’ rauca, la sua voce aveva un tono perfettamente ragionevole, ma io sapevo che egli aveva ancora la mente annebbiata.

- Lo so, Massimo, - dissi cauta, cercando di riportarlo indietro da dove il suo spirito stava vagando. - Volevo dire, com’è accaduto che sei stato ridotto in schiavitù? Com’è accaduto che il più importante generale di Marco Aurelio sia diventato un gladiatore?

Al suono del nome dell’imperatore, egli fremette. O forse fu il nominare il suo ex grado militare a perforare la nebbia nella sua mente. Aggrottò la fronte.
- Chi sei? - chiese, e il rombo veemente
della sua voce vibrò nell’ampio petto.

La mia gola si strinse e le parole mi mancarono, così alzai le mani e lentamente mi tolsi le forcine dai capelli, lasciandoli ricadere sulle spalle. Massimo si accigliò di nuovo e allungò la mano, ma non riuscì a toccarmi a causa delle catene che lo trattenevano. Mi chinai verso di lui, così che le sue dita potessero prendermi le trecce. Sentii le sue mani tremare mentre con fare incerto mi toccava i capelli, poi infilò le dita fra le ciocche in un gesto che, come ben ricordavo, esprimeva allo stesso tempo un misto di tenerezza e fiera possessività.

- Giulia, - sospirò, poi chiuse gli occhi. Le sue narici vibrarono come quelle di uno stallone quando percepisce l’odore di una giumenta in calore. - Giulia. Riconosco il tuo buon odore adesso… il tuo profumo.

- Sì.

Mi sentii il cuore gonfio, e lacrime brucianti mi offuscarono la vista, il suono del mio nome simile a caldo miele selvatico quando rotolò sulla sua lingua. No, non mi aveva dimenticata. Forse non era riuscito ad amarmi, ma aveva pensato a me. Più di una volta.

Forse non mi aveva tenuta nel suo cuore, ma mi aveva tenuta nella sua mente.

Inginocchiandomi accanto a lui, gli presi il viso tra le mani e gli baciai la fronte e le guance e il naso.
- Sei in salvo, Massimo, - ripetei, continuando ad accarezzarlo, incapace di tenere le mie mani lontane dai suoi morbidi capelli scuri, tagliati cortissimi.- Nessuno qui ti farà del male.

- Quell’uomo…

- Un mio amico. Ti ho fatto portare qui io, non lui. Io possiedo questa villa.

Sempre confuso, Massimo aggrottò di nuovo la fronte.
- E’ tuo marito?

Riuscii a sorridere nonostante che l’essere a conoscenza del mio stato maritale cancellasse ogni possibile dubbio sul fatto che avesse ricevuto la lettera che gli avevo inviato anni prima. La lettera alla quale lui non aveva mai risposto.
- No, Massimo, è solo un amico. Mio marito è morto.

Le braccia di Massimo ricaddero fino a penzolare dalle catene, ancora agganciate. Scosse il capo lentamente, cercando di schiarirsi la mente, di capire.

- Credevo...

Mi sedetti vicinissima a lui, continuando ad accarezzargli il viso.
- Non c’era altro modo, Massimo. Il lanista si sarebbe rifiutato di negoziare con una donna.

Massimo trasse un profondo sospiro fremente. Un sospiro così colmo di dolore che io pensai che mi si sarebbe spezzato il cuore. Continuai a parlare, per calmare sia lui che me stessa.
- Apollinario si è spinto un po’ troppo in là con la sua interpretazione, temo. E’ del tutto stregato da te, ma ha esagerato. Non volevamo spaventarti.

Massimo mosse di nuovo la mano verso i miei capelli, trascinando le catene sul marmo, ma non riuscì a raggiungermi, perché io mi era seduta di fronte a lui.
- Giulia… sembri così pallida.

Chiusi gli occhi per un momento, lasciando che il rombo profondo della sua voce mi scaldasse come il sole scalda la sabbia della spiaggia al di là degli alberi. Lasciai che mi scaldasse come nulla era stato più capace di scaldarmi da quell’ultima volta tra le sue braccia. Come nulla mi avrebbe mai più scaldata...
- E’ solo la luce, Massimo, - dissi, cercando di allontanare le lacrime dalla mia voce e non riuscendovi.

- Hai ancora i capelli come… come il sorgere del sole? - Mi spostai affinché potesse accarezzare di nuovo una treccia, mentre una febbre dolcissima mi invadeva al muoversi della sua mano. - Soffici, proprio come mi ricordo. Non ho mai pensato che ti avrei rivisto, - sussurrò.

Voltai la testa così da potergli baciare il palmo della mano tesa come avevo fatto più di una volta nei miei sogni. Come avevo sempre desiderato fare. Il palmo della sua mano grande, forte, calda e resa callosa dalla spada, una mano che aveva sparso sangue e arato il fertile suolo ispanico, portato gloria a Roma e liberato una prostituta schiava di diciotto anni. Una mano che aveva percorso il mio corpo, insegnandomi che cosa significasse essere viva ed essere donna, che cosa fosse il desiderio e la brama e come ci si sente ad essere appagati.

Con grande sforzo, mi dominai e continuai a parlare.
- Apollinario ha drogato le guardie, ma quei bruti hanno impiegato molto a cadere addormentati. Temevo che potessero tornare qui da un momento all’altro, così non ho potuto venire prima, - dissi lanciando una breve occhiata verso il cortile. - Appena possibile Apollinario porterà la chiave di queste catene e ti libereremo. - Scivolai in avanti e posai le gambe sulle sue ginocchia piegate, poi gli presi di nuovo il viso tra le mani. - Oh, Massimo, come ti è accaduto tutto questo?

Egli drizzò la testa per guardarmi meglio, la mano vagando distrattamente sui miei capelli, le dita giocando con le ciocche sciolte.
- E’ una lunga storia, - cominciò, poi all’improvviso rise. Ma non c’era alcuna allegria in quel suono secco, adolorato. - Adesso tu sei libera e io no.

Prima che potesse riprendere a parlare, una porta si aprì e richiuse in lontananza. Soldato fino al midollo, Massimo scattò all’erta, guardò al di sopra della mia spalla e si tese visibilmente. Allarmata, mi voltai e vidi Apollinario, che si stava avvicinando a noi con una lanterna.

- Mi dispiace averci messo tanto, - disse dal fondo dell’atrio. - Credevo che quei bastardi si stessero per bere l’intera cantina. Di sicuro stanno dormendo adesso.

Mentre parlava, il mio ex precettore accese alcune torce nell’atrio e l’enorme spazio presto risplendette d’una tenue luce dorata. Sembrava freddo e controllato, ma io lo conoscevo abbastanza da sapere che era esausto. Non v’era alcun bisogno di illuminare l’atrio, perché stavamo per trasferire Massimo prima nel mio appartamento, poi al porto. Tuttavia, malgrado l’urgenza ed il proprio sfinimento, Apollinario stava dando a Massimo il tempo necessario per vederlo come amico e non come il tormentatore che aveva interpretato nella finzione. Quando finì con le torce, il mio ex precettore venne verso di noi e tese una mano per aiutarmi ad alzarmi. Poi si rivolse a Massimo, ancora teso, che rimaneva seduto sul pavimento.
- Generale Massimo, perdona il nostro sotterfugio e qualsiasi angustia possa averti arrecato, - disse Apollinario nel suo tono più deferente. - Era necessario, te l’assicuro. Ora, togliamo queste catene e andiamo in un luogo più confortevole. Ci sono cibo e vino ad attenderti, poi ti porteremo fuori di qui. - Mentre parlava, Apollinario aprì il lucchetto delle catene e le lasciò cadere sul pavimento con un forte rumore metallico.

Massimo cercò di alzarsi in piedi, ma le sue gambe erano rimaste ripiegate sotto di lui tanto a lungo da diventare quasi insensibili. Ci vollero gli sforzi combinati miei e di Apollinario per aiutarlo a rimettersi in piedi. Lo vidi trasalire quando il mio ex precettore gli prese il braccio, ma riuscì a non respingerlo, anche se era evidente che non era ancora pronto a perdonare Apollinario per ciò che era accaduto nell’atrio.

Massimo incespicò e ci vollero alcuni passi incerti prima che si riprendesse. Accanto a lui e pronti ad aiutarlo se avesse vacillato ancora, lo accompagnammo verso la porta di quercia intarsiata, su per le scale ed al mio appartamento privato.

Entrammo nel salotto, dove Fenione e Nigra stavano sonnecchiando su un divano, totalmente disinteressati a quanto avveniva. Rubia era acciambellata su una sedia, ma si sollevò e guardò lo sconosciuto. Aveva un modo di tirarsi su che mi ricordava un grosso serpente che si srotola, tanto erano fluidi i suoi movimenti. I suoi occhi verdi erano spalancati mentre prudentemente prendeva le misure del nuovo venuto. Tuttavia, sembrò che le piacesse quel che vide, perché si rilassò visibilmente e si acciambellò di nuovo.

Nella luce dorata del mio salotto ero finalmente in grado di vedere Massimo, di vederlo davvero, dopo sei anni durante i quali lo avevo amato e sognato. Ora del tutto all’erta, vestito di una rozza tunica azzurra, il torace coperto da quattro larghe strisce nere di cuoio ed una quinta, più stretta, di borchie che gli attraversavano l’ampio petto, aveva un aspetto magnifico, come l’aveva avuto con la corazza militare e le pellicce di lupo argentato che proclamavano il suo alto grado.

Altre borchie assicuravano una seconda serie di intricate strisce di cuoio attorno al busto e la divisa protettiva terminava in una sorta di gonnellino di cuoio che gli cadeva sulle cosce, i polpacci rivestititi da stivali robusti. Massimo sembrava ancora più abbronzato e muscoloso di quanto ricordassi, la sua pelle color rame dorato sottile e tesa sui bicipiti rigonfi, la peluria che ombreggiava i suoi potenti avambracci schiarita dal sole, i polsi avvolti in strisce di cuoio nero sopra cui c’erano i ceppi di ferro usati per incatenarlo.

Massimo sbatté le palpebre parecchie volte, e la luce delle lampade ad olio fece brillare i suoi indescrivibili occhi verdazzurri come rare gemme sul bronzo del viso abbronzato. C’era qualche ruga in più attorno ai suoi occhi ed una anche più ferma in mezzo al mento barbuto. Ma nonostante la sua ardua prova, qualunque fosse stata, gli anni lo avevano trattato più gentilmente di quanto ci si aspetterebbe da un contadino divenuto soldato e da un soldato divenuto gladiatore.  Nella settimana precedente, c’erano stati momenti durante i quali avevo avuto paura che la memoria mi avesse potuto giocare qualche scherzo, abbellendo i miei ricordi del suo viso affascinante e del suo corpo divino. Ma ora non potevo più dubitare di quei ricordi, perché egli era ancor più bello di quanto ricordassi, ancora più forte e, se possibile, ancor più virile. Nessuna meraviglia che le bancarelle delle arcate del Colosseo vendessero feticci sessuali con la sua immagine. Nessuna meraviglia che gli uomini lo ammirassero come simbolo di virilità. Nessuna meraviglia che le donne si chiedessero come sarebbe stato stare sotto di lui nude e ansimanti. Nessuna meraviglia che qualche dio geloso e vendicativo avesse tramato la sua crudele rovina.

Egli sbatté di nuovo le palpebre e si guardò intorno e lo sguardo nel suo viso mi disse che era chiaramente stupefatto. Fu solo allora che mi venne in mente che probabilmente non aveva mai visto nulla di paragonabile a quella villa. Sei anni prima, Marcello mi aveva detto che il generale Massimo Decimo Meridio non era un cittadino nato d’alto ceto come Cassio, ma il figlio di un umile contadino ispanico adottato da una famiglia della classe senatoriale, l’adozione una mera formalità per permettergli di salire nei più alti ranghi dell’esercito. Marco Aurelio mi aveva detto che Massimo faceva il soldato da quando aveva quattrodici anni e, per quel che ne sapevo io, aveva trascorso tutta la sua vita adulta lungo le frontiere, non tornando a casa per anni, la sua austera tenda militare essendo casa, rifugio e quartier generale allo stesso tempo.

Non ero l’unica a studiare, confrontare, ricordare. Gli occhi di Massimo vagarono sul mio viso, i miei capelli, il mio corpo, prendendo nota rapidamente della finezza della mia pelle, del luccichio dei miei gioielli, delle delicate sfumature di rosa e verde che la luce dipingeva sulle pieghe della mia tunica di seta color avorio. Vidi nei suoi occhi le stesse emozioni che avevo visto in Mesia: stupore, meraviglia, attrazione, desiderio. Sotto l’intensità bruciante del suo sguardo acceso, sentii il familiare formicolio che non provavo da sei anni. Sentii i miei capezzoli indurirsi dolorosamente e le mie pulsazioni aumentare selvaggiamente. Sentii quella ben nota sensazione febbrile sommergermi e tendere la mia pelle, talmente sensibile da farmi quasi male. Vagamente mi chiesi cosa provava, dopo esser stato tormentato, ridotto in schiavitù e obbligato alla vita gladiatoriale, nel ritrovarsi all’improvviso circondato dalle comodità e dalla bellezza… e davanti alla donna che ero io adesso.

Poi, mi tese le mani e io dimenticai tutto e volai tra le sue braccia. Seppellendo il viso nel suo collo, scoppiai in lacrime d’amore e sollievo e il suo calore e la sua forza e il suo profumo mi avvolsero come il più soffice dei mantelli. Malgrado gli anni fossero passati, non mi ci volle molto per riprendere familiarità con il suo corpo, il mio adattandosi così bene contro il suo nonostante il cuoio e le borchie che mi affondavano nella carne. Non importava. Tutto ciò che importava era che lui era Massimo e che era con me, anche se soltanto per poche ore. Gli cinsi il collo con le braccia e respirai il suo mascolino odore muschiato, mentre le lacrime fluivano e l’angoscia della settimana trascorsa finalmente trovava sollievo. La donna ricca, libera, sicura di sé che ero stata durante gli ultimi cinque anni svanì nelle sue braccia lasciando il posto alla bambina spaventata che ero stata… la bambina spaventata che tuttora viveva dentro di me nonostante la ricchezza, la libertà e il potere.

Mi avvolse il braccio sinistro strettamente attorno alla vita e usò la mano destra per accarezzarmi gentilmente i capelli, la nuca, la schiena, la spalla. Io sospirai mentre la sensazione di calore e sicurezza che ben ricordavo e di cui avevo tristemente sentito la mancanza mi circondava; calore e sicurezza che nessun denaro poteva comprare e nessun potere poteva comandare. Calore e sicurezza che non avrei più riprovato.

Ancora piangendo, udii vagamente la voce di Apollinario.
- Vi lascio soli, - disse abbandonando ceppi e catene su un tavolo. Massimo annuì in silenzio, poi udii il mio ex precettore chiudere a chiave la porta del mio appartamento privato come avevamo convenuto, poiché ero restia a rischiare la sicurezza di Massimo.

Rimanemmo così a lungo, abbracciati in silenzio. I miei singhiozzi si quietarono, ma le lacrime continuarono a scorrere sulle mie guance e sul suo caldo collo e sul cuoio nero che gli copriva la spalla, il mio respiro tremante, il mio corpo stremato.

Massimo mi strinse di più e in tono tranquillizzante sussurrò, con le labbra vicine alla mia tempia:
- Va tutto bene, Giulia. Va tutto bene.

Mi scostai da lui e mi asciugai gli occhi, il gesto di una bambina spaventata, non quello di una donna matura sicura di sé.
- Sei tu lo schiavo adesso e stai confortando me? - chiesi, intimorita dalla sua forza e bontà, come sempre quando questi sentimenti si manifestavano.

Egli mi lasciò andare la vita, ma mi tenne vicina a sé, accarezzandomi con le grandi mani il braccio nudo. Poi Massimo fece spallucce e sorrise e io sentii il mio cuore dolorosamente gonfio alla vista del suo dolce sorriso sbarazzino. Un sorriso che aveva ancora il potere di cancellare le rughe che la preoccupazione e le responsabilità avevano scavato sul suo bel viso. Un sorriso che aveva ancora il potere di lenire, in un modo o nell’altro, il mio cuore infranto e che non mancava mai di far bruciare la mia carne.

- E’ l’abitudine, - disse. Poi il suo sguardo divenne curioso. - Che cosa voleva dire il tuo amico quando ha detto che mi avreste portato fuori di qui?

L’euforia prese il sopravvento sul dolore. Era il momento in cui prendevo io il controllo, il momento in cui diventavo la potente Giulia Servilia e tutto - gli anni passati, la solitudine, il potere, la ricchezza - confluiva e acquistava senso. Il momento in cui gli avrei restituito quello che egli in modo tanto altruistico mi aveva dato. Il momento in cui gli avrei fatto il dono più prezioso che avrei potuto fargli a parte un bambino: la sua libertà.

- Abbiamo preparato tutto, Massimo, - dissi, asciugandomi le guance e il naso e inciampando nelle mie stesse parole nella fretta di esporre il mio piano attentamente studiato. - Alle prime luci, molto prima che le guardie si sveglino, ti porteremo di nascosto a bordo di una nave diretta in Ispania, poco prima che salpi. Sarai ben al largo prima che si sappia che te ne sei andato. Diremo soltanto che sei fuggito e… - la voce mi si affievolì quando vidi Massimo sorridere con tenerezza e scuotere la testa.

- Non ho alcuna ragione di ritornare in Ispania. Ho invece tutte le ragioni di rimanere a Roma, - disse articolando con attenzione ogni parola con tono dolce e gentile, allo stesso modo in cui avrebbe parlato ad una bambina sovraeccitata che avesse voluto calmare.

Sbattei le palpebre come un’allocca, certa di aver sentito male. Nessuna ragione di ritornare in Ispania? Nessuna ragione di tornare a casa?
- Ma tua moglie… tuo figlio, - balbettai.

Un lampo di dolore gli attraversò il viso. Un dolore così intenso che mi sentii serrare la gola ancor prima che egli continuasse a parlare. E, quando lo fece, la sua voce era piatta e priva di vita, e tuttavia talmente marcata da gelido odio che tagliò come un rasoio.
- Morti entrambi. Uccisi dai pretoriani di Commodo. Proprio come avrei dovuto esserlo anch’io per mano loro.

Morti.

Sua moglie era morta. E anche suo figlio. Olivia e il piccolo Marco, che egli aveva chiamato così in onore dell’imperatore, invece di chiamarlo “Massimo” come avrebbe dovuto.

 

In un lampo, ricordai un giorno, anni prima, subito dopo una seria ricaduta della malattia di Mario Servilio. Aveva piovuto per una settimana e quel pomeriggio, anche se era evidente che il brutto tempo non era ancora finito, almeno aveva smesso per un momento. All’improvviso, disperatamente bisognosa di un po’ d’aria fresca dopo lunghe ore trascorse accanto a mio marito, avevo fatto sellare dal ragazzo di stalla la giumenta grigia che ero solita cavalcare prima di avere Sidereum e la portai alla spiaggia. Una volta laggiù, diedi alla mia calvalcatura libere redini e la feci correre lungo la battigia, finché entrambe fummo esauste e bagnate di sudore e acqua di mare. Poi smontai, lasciando riposare la giumenta mentre vagavo a piedi nudi lungo la spiaggia. La malattia di Mario Servilio aveva ancora una volta mandato a rotoli il mio mondo, e le barriere che avevano tenuto a distanza il mio dolore privato crollarono. Era passato più di un anno da quando avevo spedito la mia lettera a Massimo e non potevo continuare ad ingannare me stessa: lui non aveva risposto.

Non lo avrebbe mai fatto.

E non c’era motivo di continuare ad ingannare me stessa con l’ipotesi che non l’avesse ricevuta, perché Emilio Trebuzio Flacco mi aveva doverosamente informata che “quel signore aveva avuto la lettera”. Quando non era arrivata risposta, egli si era offerto di mostrarmi prova della consegna, al che io avevo rifiutato. Non avevo ragione di dubitare di lui, perché io gliela avevo affidata sapendo che lui era l’unico che avrebbe portato la lettera nelle mani di Massimo rapidamente e in modo sicuro, come se trattasse con l’imperatore, e il grado dell’ufficiale identificato come il destinatario gli permetteva l’accesso al cursus publicus[1].

Mai nei mesi successivi chiesi al banchiere se c’erano notizie. E lui non mancò mai di dirmi che era spiacente, ma non c’era stata risposta a “quella” lettera che gli avevo affidato. Non ancora. A tempo debito, divenne una sorta di gioco, lui che sollevava l’argomento, cercando di provocare una sorta di risposta e io che rifiutavo di ammettere alcunché e atteggiavo il viso ad una maschera illeggibile. Talvolta mi chiedevo se il banchiere stava vendicandosi per i momenti difficili che gli avevo fatto passare quando ero comparsa alla sua porta scortata da un questore militare e sei pretoriani, latrice di una lettera dell’imperatore. Ma probabilmente stava soltanto dietro a qualche pettegolezzo che riguardava una ricca e sposata liberta imperiale e la sua relazione con un ufficiale d’alto grado finita male.

Anche se avevo rifiutato di abboccare all’esca di Emilio Trebuzio Flacco, ogni volta che ero tornata a casa a mani vuote e col cuore dolente, passavo notti insonni pensando e ripensando alle possibili ragioni del ritardo di Massimo nel rispondermi. Perché non avevo mai dubitato che avrebbe scritto in risposta e avevo perfino osato sperare che potesse venire a farmi visita durante una missione ufficiale nell’Urbe.

Ma le mie notti insonni finivano sempre allo stesso modo: con un’insidiosa, indistinta figura femminile che mi rodeva il cuore e la mente. Olivia. La moglie di Massimo. La donna che aveva il diritto di essere chiamata con il patronimico di lui, come io non sarei mai stata perché io ero una liberta e lui apparteneva alla classe senatoriale.

Non sapevo nulla di lei. il colore dei suoi capelli, né l’altezza, né l’età. Non sapevo nulla tranne il suo nome… e che Massimo l’amava tanto da rifiutare tutte le altre donne, compresa una schiava prostituta che aveva suscitato la sua passione e la figlia prediletta di Marco Aurelio.

Mi sforzavo di tenerla a distanza, di non permetterle di penetrare nei miei pensieri e farmi cercare di far apparire il suo viso come gli indovini fanno apparire le loro visioni nelle loro bocce di vetro. Ma ogni tanto, mi scoprivo a cercare di immaginare i suoi lineamenti nel guardare qualche donna o ragazza che mi era stato detto era di sangue ispanico. Non c’erano molti ispanici a Roma, oltre a qualche famosa danzatrice originaria di Gades che con molto successo veniva chiamata ad intrattenere nelle cene private. Ne ho vista io stessa qualcuna, donne sensuali succintamente vestite, con lunghi capelli neri ondulati, pelle bronzea e grandi occhi scuri. Alcune erano giovani e belle. Altre né così giovani né così belle. Ma c’era qualcosa di pericolosamente affascinante in loro, persistente come un profumo parziano, ed esse parlavano latino con una cantilena che sembrava promettere oscuri e ineffabili piaceri.

Non potevo fare a meno di chiedermi se Olivia somigliasse a loro. Non importa quanto faticosamente cercassi di immaginarla come una non sofisticata moglie di contadino, una rustica contadinella che probabilmente non aveva letto un libro in tutta la sua vita o era stata a teatro più di una volta o due, non importa quante volte dicessi a me stessa che probabilmente aveva mani imbruttite da una vita di lavori domestici e piedi callosi per l’uso di sandali di corda e avrebbe annoiato Massimo a morte se egli avesse vissuto con lei in modo permanente, sapevo che Olivia doveva essere speciale per attrarre un uomo come lui.

Quel pomeriggio alla spiaggia, vagando alla cieca sulla sabbia bagnata, tutta l’ansietà e il dolore e il disappunto sulla mia lettera senza risposta all’improvviso proruppero in un irrazionale accesso di collera. Presi a calci la sabbia e le pietre e le conchiglie su di essa, facendomi male al piede nudo anche se non me ne accorsi al momento. Gridai e gemetti e mostrai il pugno al cielo tempestoso sopra di me, l’indifferente luce lampeggiante in lontananza sembrandomi prova dello scherno degli dei.

Non riuscivo a ricordare di essere stata così violentemente furiosa in tutta la mia vita. Urlai e imprecai, spaventando i gabbiani che cercavano piccoli molluschi vicino alla risacca.

La maledii con tutto il mio cuore e il mio vocabolario e quando finii mi sentii così stupida e patetica che mi arrabbiai ancor di più e la maledii di nuovo, ma maledii anche Massimo e, soprattutto, maledii me stessa. Poi, completamente esausta, crollai sulla sabbia e rimasi lì in preda ai brividi, scossa dai secchi singhiozzi che mi venivano alla gola quando ero angosciata ma, come era accaduto quando mi ero svegliata quell’alba in Mesia scoprendo che il mio bel sogno era svanito e Massimo mi aveva lasciata mentre dormivo, le lacrime vere non vennero. 

Le prime gocce di pioggia mi obbligarono ad alzarmi, salire in sella e tornare alla villa. La volta successiva che incontrai Emilio Trebuzio Flacco, prima che potesse sollevare l’argomento, io accennai che stavo pensando di trasferire la mia personale fortuna ad una banca giudea di cui avevo sentito molti elogi. L’uomo poteva essere un pettegolo, ma non era uno sciocco. Mi offrì un punto extra di interesse e non sollevò più l’argomento della lettera senza risposta. Lo tenni come mio banchiere personale. E non sparsi più una sola lacrima finché non fui tra le braccia di Massimo.

 

Le mie ginocchia si piegarono. Massimo mi afferrò per le braccia e camminando all’indietro, con attenzione mi guidò ad una sedia. Lo fissai con occhi che sapevo dovevano essere sbarrati e selvaggi mentre si accosciava vicino a me, tenendomi le mani, offrendomi conforto quando avrei dovuto essere io ad offrirlo a lui.
- Sono morti? - ripetei come se pronunciando le parole avrei potuto crederci.

Ma sapevo che era vero. Lo sapevo nel mio cuore e nella mia anima e nelle mie ossa.

Olivia era morta, e io sentii la vergogna e la colpa rovesciarmisi addosso con la stessa rapidità ed intensità con cui l’aveva fatto poco prima il desiderio. Avevo voluto vendicarmi del fatto di non essere amata, e Massimo adesso era uno schiavo mentre io ero libera. Avevo voluto vendicarmi della donna responsabile del fatto che lui non amasse me, e adesso era morta.

- Questo… questo cambia le cose, - proruppi. Oh, sì, cambiava tutto. Malgrado il senso di colpa per aver maledetto una donna che non era più colpevole per l’essere amata di quanto lo fossi io di amare, la sua morte cambiava tutto. 

O così credevo.

Percorsi la stanza con lo sguardo, come per fare un inventario dei miei effetti personali, ciò nondimeno facendo piani freneticamente. C’era molto denaro in contanti nella cassaforte nello studio di Mario Servilio e avevo anche agenti e banchieri in molti porti dell’impero. Non avevo bisogno di portarmi molto… solo qualche vestito per il viaggio, i miei gioielli e i documenti. E mappe. Il capitano Paolo era stato istruito per portare rapidamente la sua nave in Ispania, ma poteva tracciare una nuova rotta nel giro di pochi istanti. I mari erano aperti e potevamo raggiungere Alessandria in tre settimane. O forse avremmo potuto andare a Cipro e da lì in Siria o Cappadocia. E se non era abbastanza sicuro, avremmo perfino potuto andare oltre i confini dell’impero, in Parzia… O forse sarebbe stato meglio navigare il Mare Interno[2] nella direzione opposta, superare le Colonne d’Ercole[3] e poi girare a Nord, verso la Britannia, brumosa e lontana … era romanizzata ma avevo letto che c’erano dozzine di isole dove potevamo nasconderci finché fosse stato sicuro ritornare. Apollinario si sarebbe preso cura degli affari. E della villa. E dei gatti. E di Sidereum.

- Ho bisogno solo di un momento per fare i bagagli poi posso venire con te. Noi…

- No, Giulia. Io non posso partire.

La sua voce era bassa e dolcemente ragionevole, un padre che cerca di far ragionare la figlioletta confusa.

- Tu devi partire, Massimo. Morirai nell’arena.

- Sì.

- Partirai? - chiesi, sperando al di là della speranza che ‘sì’ significasse che aveva cambiato idea, ma sapendo che invece era il contrario.

- Sì… morirò nell’arena. - La sua voce era dolce, come per cercare di attenuare il colpo. Afferrai le sue braccia muscolose, dure come roccia, e gli frugai gli occhi verdazzurri... che improvvisamente sembravano più vecchi della sua età... in cerca di risposte…

Non ne trovai. E le trovai tutte.

- Non capisco. Ti sto offrendo la vita… la libertà.

Egli sorrise di nuovo, un breve sorriso triste, e gentilmente mi accarezzò le braccia.

- La mia vita è già finita. Mi fu portata via il giorno in cui trovai i corpi di mia moglie e di mio figlio. Volevo morire allora. Fu solo per uno scherzo del destino che non accadde… quel destino che mi mise in una posizione tale da poter fargliela pagare, con la vita, all’uomo che uccise la mia famiglia. Io ho intenzione di vederlo accadere. Poi morirò.

Parlò con la mancanza di enfasi della certezza assoluta. Della verità assoluta.

Della determinazione irreversibile.

- Massimo, devo salvarti da te stesso?

- Giulia. Per favore, devi capire che io non sono l’uomo che conoscevi.

- Sì che lo sei. - Di nuovo, sentii le lacrime nella mia voce e mi odiai per esse.

- No. Quell’uomo non c’è più. Io sono uno schiavo. Un gladiatore. Intrattengo la gente uccidendo. La mia morte divertirà le masse. Io non sono niente. La mia vita non vale la pena d’essere salvata.

Mi scossi di dosso le sue mani, poi mi alzai e cominciai ad andare su e giù per la stanza. Massimo si alzò ma rimase fermo, in silenzio, seguendo ogni mio movimento, sembrando pronto a reagire se io fossi impazzita. Io camminavo tutt’intorno, ancora una volta la leonessa in gabbia, mordicchiandomi il pollice in preda alla frustrazione, un comportamento che mi aveva procurato più di una sberla quando ero una bambina che cresceva alla villa di Cassio. Un comportamento che non ricordavo di aver più avuto da quando ero bambina.

Massimo era rientrato nella mia vita. Sotto il mio stesso tetto. Lo avevo fatto portare lì come parte del complotto per liberarlo. Ero stata pronta a rinunciare a lui per sempre, pur di farlo fuggire dal pericolo e dalla schiavitù. Ero stata pronta a rinunciare a tutto quello che avevo, pur di andare con lui, ora che sua moglie era morta… eppure lui rifiutava di partire e sceglieva la morte invece della libertà e della vita… e di me.

Mi venne voglia di strillare e imprecare e graffiare e rompere qualcosa…

Ma non ero più una ragazzina spaventata. Non ero più una prostituta schiava. Non ero più Giulia, “la migliore che abbia mai allevato” né l’analfabeta liberta Giulia Antonina. Forse non sarei mai stata la signora Giulia Meridia, ma di certo ero la ricca e potente signora Giulia Servilia. Io ero al comando. Io davo gli ordini e i miei ordini venivano obbediti. Io comandavo una flotta che era seconda solo a quella imperiale. Io facevo accadere le cose. Anche se significava calpestare la volontà altrui. Anche se significava calpestare quella di Massimo.

Mi voltai di scatto, cambiando completamente atteggiamento.

- Massimo, tendi le mani.

 



[1] Cursus publicus: il servizio postale imperiale il cui uso era riservato al governo e agli ufficiali militari (N.d.A.).

[2] Mare Interno: il Mar Mediterraneo (N.d.A.).

[3] Colonne d’Ercole: lo Stretto di Gibilterra (N.d.A.).