Diario di Giulia – Parte seconda

Capitolo I - La lunga strada verso Roma, 174 d.C.

Come dissi a Massimo nella mia lettera, il viaggio fino a Roma fu lungo e privo di eventi. O forse fu ricco di eventi, ma io non me ne accorsi. Il distacco che avevo provato per la prima volta quando avevo cercato di tagliarmi i polsi mi era rimasto dentro da quando avevo lasciato la tenda di Marco Aurelio sconfitta nel mio ultimo sforzo di rimanere con Massimo, per non lasciarmi mai del tutto, isolandomi dal mondo e dalla vita circostanti. Indifferenza e distacco sarebbero diventati l’essenza del mio primo anno da donna affrancata e, curiosamente, sarebbero riusciti a rendermi preda addirittura più attraente e ambita che non l’indiscriminata accessibilità del mio precedente stato di prostituta.

 

Ma sto correndo troppo…

 

L’imperatore voleva che la legione arrivasse a Roma prima possibile, il che significava essere in viaggio giorno dopo giorno dopo giorno… Sicuramente, non era cosa facile. Ma quelli erano soldati romani, esperti e disciplinati, orgogliosi e sicuri di sé, consapevoli che nulla al mondo era più importante della loro missione, e quella la missione era far rispettare il ruolo e il potere del loro imperatore, l’uomo più potente del mondo.

 

Durante la prima settimana ci fu bel tempo e di conseguenza coprimmo una buona distanza. Ogni tanto superavamo un piccolo villaggio e la gente correva alle porte delle capanne o abbandonava le attività quotidiane e alzava la testa per guardare con timore reverenziale l’imponente parata. E io non potevo fare a meno di comprendere quanto dovevano sentirsi sopraffatti quei semplici esseri mentre guardavano ad occhi spalancati l’abbacinante esibizione di orgoglio e potere romani.

 

La cavalleria marciava in testa, con al centro gli ufficiali in groppa ai loro magnifici stalloni. L’aquilifer e i signiferi portavano con orgoglio le aquile dorate e gli stendardi che proclamavano la potenza di Roma e di Cesare mentre l’imaginifer[1] faceva la stessa cosa con il ritratto dell’imperatore. Poi veniva la fanteria, migliaia di soldati armati di tutto punto che marciavano a piedi dietro il genius[2] della legione, quest’ultimo l’estremo simbolo di cameratismo, perché si diceva che vi dimorava lo spirito di generazioni e generazioni di soldati romani caduti sul campo di battaglia, che ora vivevano eternamente nella gloria per la loro perenne missione ad incoraggiare quanti dopo di loro giunti per combattere fino alla morte per la gloria di Roma e del suo imperatore. Dietro la fanteria, il convoglio di bagagli e rifornimenti, macchine da guerra, artigiani e bestiame sembrava allungarsi all’infinito.

 

Viaggiavamo speditamente lungo una delle molte viae romanae dell’impero, una strada che conduceva a Roma e alla mia nuova vita, la vita di una giovane donna libera, bella e ricca che non era più una prostituta. Una donna salvata, desiderata e respinta dall’unico uomo che ella avrebbe mai amato. Una donna stimata dall’imperatore romano nonostante le sue umili origini e che godeva della sua protezione. Eppure, una donna allontanata da entrambi perché provvedesse a se stessa.

 

Cavalcavo con le altre ex schiave, immediatamente dietro la cavalleria, dove Cornelio Crasso ci aveva sistemate. Cavalcavamo circondate da due dozzine di pretoriani scelti inviati a Roma dall’imperatore. Avrei presto imparato che quegli uomini armati di corazza, avvolti da neri mantelli, erano incaricati di far rispettare ciò che l’onnipresente legge romana prescriveva per la famiglia di coloro accusati di tradimento verso l’imperatore: confisca di tutte le ricchezze e proprietà, esilio, morte.

 

Eugenia, Onora ed Eliana chiacchieravano e ridacchiavano, troppo eccitate dall’avventura e dalla loro recentemente acquisita libertà per preoccuparsi della polvere della strada o pensare due volte alla vita solitaria e dura che attendeva tutte noi a Roma nonostante il denaro. Cercavano di coinvolgermi nelle loro incessanti chiacchiere, ma io rispondevo solo a monosillabi e presto mi lasciarono in pace, anche se ogni tanto Eugenia lanciava fugaci occhiate preoccupate verso di me. Io cavalcavo in silenzio, lo sguardo fisso sull’orizzonte, la schiena eretta, molto spesso rivisitando mentalmente gli eventi della settimana che aveva cambiato la mia vita per sempre e i miei ricordi dell’uomo dagli occhi azzurri che aveva reso possibile tutto ciò.

 

Avrei presto imparato che cosa significasse essere sotto la personale protezione dell’imperatore, perché avevo una tenda tutta per me, mentre le altre donne dovevano dividerne due tra tutte loro. Avevo anche Rufa a prendersi cura di me, mentre le altre dovevano badare a se stesse. La mia piccola domestica numida durante il giorno viaggiava in un carro e veniva da me non appena ci fermavamo, per preparare in fretta per la notte i miei quartieri, e io non potevo non notare che stava cambiando. Non era soltanto la promessa di una giovane donna che presto sarebbe sbocciata nel suo corpo fanciullesco, ma anche il suo contegno. Perché, da quando le avevo spiegato per quale motivo era così importante che andasse presso l’Augusta Lucilla e suo figlio, la ragazza perennemente spaventata era svanita dentro di lei, sostituita da una creatura più rilassata, loquace. E prima della fine della settimana mi aveva perfino sorpresa con un piccolo ma genuino sorriso che le aveva fatto brillare i denti bianchi come perle incastonate nel suo viso d’ebano.

 

Essere sotto la personale protezione del Cesare significava inoltre essere lasciata da sola, perché i pretoriani e gli ufficiali che ogni tanto lanciavano occhiate alle altre donne e scambiavano anche qualche parola o sorriso con loro quando Cornelio Crasso non era in vista, trattavano me con il freddo, assoluto, distante rispetto che un membro della famiglia imperiale merita. Vagamente divertita, mi chiedevo che cosa avesse detto loro lo zelante questore per tenere a bada quegli uomini.

 

Quando eravamo in marcia, Cornelio Crasso veniva da me due volte al giorno per chiedermi se stavo bene o se avevo bisogno di qualcosa. Invariabilmente, gli rivolgevo un educato meccanico sorriso e gli rispondevo che no, non avevo bisogno di nulla. E invariabilmente egli appariva un poco deluso, perché era evidente che desiderava profondamente che gli chiedessi qualcosa o gli dessi l’opportunità di rimanere accanto a me e chiacchierare. Ma era troppo educato e troppo padrone di sé per mostrare il suo disappunto o insistere. Perciò  rispettosamente mi salutava e spronava il suo cavallo per tornare al suo posto tra gli ufficiali, con i pretoriani che sorridevano e le donne che scambiavano occhiate saccenti e divertite.

 

Essere in viaggio giorno dopo giorno voleva dire accamparsi con minimo conforto ma non minore sicurezza. Non importa quanto fosse durata la marcia quotidiana, gli uomini eseguivano i loro ben assimilati compiti con velocità ed efficienza e all’imbrunire non ci trovavamo mai senza un tetto di canapa sopra la testa, un pasto caldo alla nostra tavola e il nostro sonno ben difeso. Ed essere in viaggio giorno dopo giorno equivaleva anche a essere esausta la notte ed io ero grata di questo perché significava altresì cadere presto addormentata sulla mia branda e dormire profondamente fino all’alba. Le mie ore notturne erano libere da sogni e ricordi e tristezza, diversamente da quelle da desta.

 

Dopo la fine della prima settimana, fu ovvio che il bel tempo non sarebbe durato. Grosse nuvole apparvero all’orizzonte e c’era più caldo e umidità. Fiutando l’imminenza di una tempesta, i cavalli divennero irrequieti come fanno gli animali quando lampi e tuoni stanno per scatenarsi. Gli ufficiali ordinarono alla legione di fermarsi e di accamparsi non per la notte ma per la durata della tempesta, che prometteva di scoppiare presto e con grande intensità.

 

All’improvviso, mi sentii irrequieta quanto il mio stesso cavallo, che mordeva la briglia e sbuffava e batteva la zampa con impazienza. Era un animale giovane, vivace e forte e malgrado fosse perfettamente addestrato come chiunque e qualunque cosa appartenente alla legione, non vedeva l’ora di correre. E io scoprii che non vedevo l’ora di metterlo al galoppo e sentire il vento sul viso, un semplice gesto che non mancava mai di farmi sentire libera, anche quando ero una schiava. Così, quando subito dopo esserci fermati per cominciare i preparativi Cornelio Crasso venne a chiedermi se avevo bisogno o desideravo qualcosa, dissi di sì. Il viso del questore s’illuminò.

 

- Mi piacerebbe fare una cavalcata, una vera cavalcata. Il mio cavallo è irrequieto e sta per arrivare una tempesta che potrebbe durare qualche giorno. Un po’ d’esercizio farà bene ad entrambi, - dissi, e fui sorpresa di udire me stessa pronunciare tante parole dopo una sfilza di giorni passati a parlare a monosillabi o rimanendo semplicemente in silenzio.

 

Cornelio Crasso parve sorpreso dalla mia richiesta perché probabilmente si era aspettato che chiedessi un tappetino in più per la mia tenda o un bagno caldo e profumato, qualcosa di morbido e femminile. Invece, gli stavo chiedendo qualcosa di sfrenato. Ma, come sempre faceva, egli subito padroneggiò le sue emozioni.
- Va bene, domina, - disse e mi sorprese aggiungendo. - Verrò con te.

 

Io ero stupefatta. Non avevo mai pensato che mi lasciasse andare da sola, ma non avevo nemmeno pensato che sarebbe stato lui a venire con me. Cominciai a protestare perché non me lo volevo dattorno quando ero sul punto di fare l’unica cosa che mi faceva sentire libera. Ma il questore mi fermò con un gesto e con le parole che sembravano rallegrarlo ogni volta che le ripeteva.
- Tu sei mio personale incarico.

 

Così, dopo aver scambiato qualche parola con l’ufficiale pretoriano, mettemmo i nostri cavalli al piccolo galoppo e cavalcammo in testa all’accampamento per dare alle nostre cavalcature libera redine una volta lasciata la legione alle spalle. Egli mi permise di condurre e si limitò a seguire, mentre il mio cavallo gustava la sua ritrovata libertà. Presto lasciai la strada e galoppai sui pendii, con Cornelio Crasso sempre dietro di me che teneva il suo cavallo ad un buon passo, ma non cercando mai di avvicinarsi al mio, come se intuisse il mio bisogno di sentirmi libera… veramente libera… almeno per breve tempo, e il modo in cui potevo raggiungere quella parvenza di libertà. E mentre il mio cavallo galoppava, entrambe le nostre criniere svolazzanti nel vento, sentii il mio spirito alleggerirsi e anche se le mie ferite erano profonde e non sarebbero mai guarite completamente, sapevo che almeno erano state deterse… Sono ancora solita cavalcare quando mi sento irrequieta. Lo faccio sulla spiaggia, da sola, nella risacca, i capelli sciolti dall’obbligatoria crocchia imposta dal  decoro, il vento che mi canta nelle orecchie, l’acqua che gentilmente spruzza me e la mia cavalcatura. E ancora trovo nel cavalcare quella sensazione di libertà che non ha nulla a che fare con editti imperiali e documenti sigillati… anche se le mie ferite sono ancora lì. Anche se il mio cuore ancora duole.

 

Mi fermai in cima ad una collina e rimasi là, in silenzio, finché Cornelio Crasso con calma arrivò accanto a me. A dispetto della mia prima, mediocre impressione del serioso omino, non potei fare a meno di sentirmi grata per la sua comprensione e scoprii che dirlo era più facile di quanto mi aspettassi.

 

- Grazie, questore. Ne avevo bisogno anch’io quanto il mio cavallo.

 

- Va tutto bene, domina. Devi avere quello che ti rende felice e a tuo agio, purché tu sia al sicuro. E il mio nome è Cornelio.

 

Io rimasi in silenzio.

 

- Domina, non devi aver paura di me.

 

- Non ho paura di te, questore.

 

Egli sorrise brevemente.
- No, infatti. Non ti spaventi facilmente, vero?

 

Gli rivolsi un sorrisino perverso.
- No, questore. Non mi spavento facilmente. - Non aggiunsi che nessuna donna nata schiava e che avesse fatto la prostituta dall’età di dodici anni, nessuna donna che avesse ucciso un uomo e osato amarne un altro che non la ricambiava poteva essere mai più spaventata facilmente da chiunque o da qualcosa.

 

- Quindi non ti fidi di me, domina? - chiese, e il suo sguardo verde muschio si addolcì.

 

Sorrisi sia all’ironia della situazione che all’innocenza della sua osservazione. Ma come poteva sapere che schiave e prostitute non si fidano di nessuno, specialmente degli uomini? Tuttavia io ero stata entrambe e mi ero fidata di Massimo… Massimo, che si era preoccupato per me. Massimo che mi aveva desiderata intensamente… Massimo che mi aveva allontanata perché me la cavassi da sola a Roma mentre lui tornava da sua moglie.

 

Cornelio Crasso stava aspettando la mia risposta. Mi obbligai a sorridere e parlare.
- Come potrei non fidarmi di te, questore? Cesare si fida di te e mi ha messa nelle tue mani.

 

- Allora perché rifiuti di chiamarmi per nome?

 

Per un istante, rimasi completamente senza parole. Seduti sui cavalli, i nostri occhi erano allo stesso livello e lui mi guardava con calore. Malgrado fosse pomposo, era evidente che Cornelio Crasso fosse un uomo rispettabile… cosa evidente quanto il fatto che fosse più interessato al suo “personale incarico” di quanto fosse bene per lui.

 

- Non intendevo essere irriverente, domina. Non ti sto nemmeno chiedendo il permesso di chiamarti per nome, solo che tu chiami me con il mio. - Egli sembrava giovane e ansioso e vulnerabile, un cambiamento sconvolgente in un uomo di solito molto contegnoso. Contro la mia stessa volontà mi sentii intenerita da quell’uomo dai capelli castano chiaro che sapeva così poco delle donne e della vita.

 

- Massimo.

- Non chiamarmi così.

- Perché no?

- E’ troppo… troppo… familiare.

 

Le parole di Massimo echeggiarono nella mia mente e l’accenno di intenerimento svanì. Serrai la presa sulle redini. Sì, Cornelio Crasso era un uomo rispettabile e non era colpa sua se non era Massimo. Non era colpa sua se io non volevo che ci fosse lui con me su quella collina in quell’angolo dell’impero, ma un rude soldato ispanico di bell’aspetto che stava tornando dalla moglie che amava. Non era colpa sua tanto quanto non era colpa mia. Eppure entrambi avremmo sofferto.

 

Raddrizzai la schiena.
- E’ troppo… troppo familiare, - dissi, consapevole di stare usando le stesse parole usate da  Massimo nel tentativo di tenermi a distanza. Le parole che stabilivano la sua posizione e la mia… il generale e la schiava, il marito fedele e la prostituta dalla dubbia reputazione… anche se probabilmente lui non se n’era accorto.

 

Anche se io avevo preferito ignorarlo.

 

Cornelio Crasso era visibilmente deluso. Come sempre, egli si riprese subito, ma non così in fretta da non accorgermi del tormento nelle profondità color muschio dei suoi occhi. Poi, egli sollevò il mento e disse:
- Accetta le mie scuse, domina. Hai ragione.

 

Io restai in silenzio.
- Torniamo indietro, - disse dopo quello che sembrò un tempo lunghissimo. - Non è stato prudente venire fin qua. Non avrei dovuto compromettere la tua reputazione.

 

Senza attendere la mia risposta, egli voltò il cavallo e galoppò verso l’accampamento. Io ero stata colta alla sprovvista dalle sue parole. La mia reputazione? Si stava prendendo gioco di me? Mi stava gettando in faccia il mio passato come ritorsione per essere stato respinto? Non sembrava quel genere d’uomo, ma ciò nondimeno era un uomo e gli uomini non prendono alla leggera un rifiuto, non importa quanto siano istruiti o a quale alto ceto appartengano. Le prime gocce di pioggia mi sviarono dalle mie riflessioni. Toccai coi talloni il mio cavallo e lo seguii al galoppo.

 

 

 

La tempesta infuriò per tre giorni, il che significò trattenersi nella relativa sicurezza delle nostre tende. Rimanere dentro la mia era difficile dopo la libertà della strada, anche se mi furono dati i miei bauli affinché non mi mancasse nulla di quanto avessi potuto aver bisogno. Dentro la tenda era buio, dato che non potevamo tenere la falda aperta perché stava piovendo. Non che facesse alcuna differenza, in quanto il cielo era di piombo e riuscivamo appena a distinguere il mezzogiorno dal crepuscolo. Rufa teneva accese tutto il giorno un paio di lampade ad olio, ma la loro luce tenue poteva fare poco per illuminare l’ambiente. Lampi e tuoni imperversarono per ore e ore di seguito e al secondo giorno non consumammo che pasti freddi.

 

Dal momento che non avevo mai acquisito doti femminili come tessere o cucire… e non le avrei acquisite mai… non c’era molto che potessi fare durante la mia forzata permanenza nella tenda. Così non avevo altro modo per alleviare la mia noia che rovistare nei miei bauli in cerca dei pochi papiri che possedevo e ricominciare i miei sforzi senza speranza contro la mia mancanza di cultura.

 

Al tempo in cui ero una prostituta, malgrado il fatto che fossi una schiava e disponibile gratis, talvolta gli uomini mi facevano regali, per la maggior parte piccoli gioielli o una fiala di profumo. Ma alcuni mi chiedevano anche che cosa volessi in regalo, e quando questo accadeva, io dovevo frenarmi per non chiedere loro un libro. Se l’avessi fatto, probabilmente avrebbero riso di me o schernita o si sarebbero anche adirati con me. Non era né il loro divertimento né la loro ira a trattenermi dal chieder loro quello che veramente desideravo, ma il mio rifiuto di permettere a coloro che disonoravano il mio corpo di sporcare anche la mia vita segreta. Così dovevo accontentarmi dei rotoli strappati e scartati che potevo portar via qua e là.

 

Quella sera sedetti al mio tavolino dove Rufa aveva messo le lampade ad olio e aprii uno di quei rotoli strappati. Non appena lo feci, fui all’improvviso consapevole che era la prima volta, da più di due settimane, che facevo un tentativo di leggere perché, da quella fatale notte dell’ultima festa di Cassio, non c’era stato altro nella mia mente eccetto Massimo… Massimo che non era amante di  parole, ma uomo d’azione.

Chinata sul papiro, sforzandomi contro la tenue luce e la mia scarsa istruzione mentre la tempesta ruggiva all’esterno, non mi accorsi che c’era qualcuno all’entrata della mia tenda finché il lembo fu tirato da parte e vento e pioggia si scagliarono all’interno. Trasalendo, alzai la testa e vidi Cornelio Crasso mentre cercava faticosamente di richiudere la falda. Quando ci riuscì, il vento fece volar via il papiro e lo mandò a turbinare ai piedi del questore.

 

Dopo il terzo tentativo, Cornelio Crasso riuscì a legare la falda, si tolse l’elmo e si voltò verso di me. Era bagnato fradicio.
- Domina, dobbiamo parlare.

 

Annuii in silenzio, guardandolo con diffidenza mentre si slacciava il mantello bagnato e lo gettava in un angolo. La mia mente galoppava per le possibili implicazioni di quella visita a tarda notte e furtivamente lanciai un’occhiata verso l’angolo lontano dove Rufa stava dormendo. Il questore stava forse cercando di prendere con la forza quello che ero riluttante a dare? Stava per tradire la fiducia del suo imperatore come aveva fatto Cassio? Mi preparai all’assalto.

 

Ma Cornelio Crasso si chinò a raccogliere il papiro che era caduto ai suoi piedi e lo guardò. Sorrise.
- Ovidio, - disse. - Ti piace la poesia, domina?

 

Lo guardai in silenzio, la mia diffidenza in crescendo. Ero sempre stata attenta a non essere sorpresa a leggere. Per la seconda volta mi ritrovai senza parole perché nessun uomo eccetto Andrea mi aveva mai parlato della lettura. Poiché non rispondevo, il questore volse lo sguardo sul papiro e lesse ad alta voce:

 

“Che giova a me che le vostre mani

Abbiano disperso le macerie di Ilio

E che invece di un muro vi sia

Nient’altro che nuda polvere

Se ancora rimango vedova come fui

Quando Troia incombeva su di voi

Se il mio sposo ancora è assente

Se egli è ancora da me lontano?[3]

 

Egli leggeva con l’agio di un uomo istruito e io mi ritrovai incantata dal suono della sua voce, la purezza del suo latino e la bellezza e tristezza della poesia che avevo scelto a caso ed ero incapace di leggere o capire. Una poesia che rifletteva il dolore d’una donna che si struggeva per il suo uomo… come io mi struggevo per un uomo che apparteneva ad un’altra donna.

 

Cornelio Crasso alzò la testa e sorrise.
- Il monologo di Penelope, - disse. - La maggior parte della gente preferisce i suoi scritti più leggeri, ma a me piacciono molto di più questi. Sapevi, domina, che fu esiliato vicino al luogo in cui era accampato il generale Cassio? - Non attese la mia risposta e continuò, chiaramente felice di parlare di qualcosa di diverso dalla vita dell’esercito. - Era il più grande poeta di Roma e un protetto dell’imperatore Augusto, tuttavia il suo corpo non fu nemmeno portato in Italia. Egli fu tradito… - La voce di Cornelio Crasso si allontanò mentre si sedeva di fronte a me e mi guardò chiaramente in attesa che dicessi qualcosa.

 

- Leggi… leggi molto bene, questore, - mormorai.

 

Il suo sorriso si allargò all’inaspettato complimento e poi egli rise di cuore. Io ero sconcertata perché era la prima volta che lo sentivo ridere.
- Mi piacerebbe che il mio vecchio tutore te lo sentisse dire, domina, - disse. - A differenza di mio fratello maggiore, io ero uno studente mediocre. Il mio tutore si lamentava sempre con mio padre ed egli mi faceva accuratamente punire perché era un uomo pragmatico che dava molto valore all’istruzione. Ma il punirmi non mi rese uno studente migliore. Al contrario, ero più determinato che mai a fare a modo mio. Sai che cosa sognavo quando ero ragazzo, domina?

 

Scossi la testa in silenzio, più interessata al suo racconto di quanto desiderassi ammettere, perché era sorprendente udire quell’uomo compunto e contegnoso confessare di aver avuto sogni segreti e sottintendere che erano stati impulsivi.

 

- Volevo fare il marinaio, domina, ed  esplorare le acque sconosciute alla ricerca di tesori e avventure, - ridacchiò. - Abbastanza brutto per un figlio di un plebeo, ma semplicemente oltraggioso per quello di un senatore… - Cornelio Crasso restò in silenzio per un momento, perso nei suoi ricordi del ragazzo che era stato. Poi continuò a parlare. - Quando avevo tredici anni, il vecchio mostro morì all’improvviso e poco dopo Apollinario ne prese il posto. Era un giovane greco affrancato, l’uomo più intelligente che avessi mai conosciuto. A differenza del mio precedente tutore, egli non mi allontanò né punì, e concentrò i suoi sforzi nell’insegnare a mio fratello. No, Apollinario non si spazientì mai con me, anche se io ero pigro e ribelle. Mi parlava per ore ed ore e non sembrava mai turbato dal fatto che io rifiutassi di rispondere. Continuava semplicemente a parlare ed un giorno mi scoprii ad ascoltare avidamente le sue storie, sia che stesse parlando della sua nativa Grecia o del canto delle sirene che attiravano gli uomini di Odisseo verso la  morte.

 

Mi chinai in avanti perché, anche se non me ne resi conto al momento, stavo ascoltando Cornelio Crasso tanto avidamente quanto egli aveva ascoltato quel suo misterioso tutore.

 

- Furono le sirene, - continuò a raccontare. - Egli mi parlò di loro e della loro bellezza e delle loro voci come se fossero care amiche. Erano reali per lui… reali e familiari come lo ero io. E un giorno mi scoprii a parlargli, confessandogli i miei sogni di navi e viaggi… Mio fratello maggiore rise e mi prese in giro e Apollinario fece una cosa straordinaria che nessuno aveva fatto prima. Punì Giunio. Mio padre si offese quando gli giunse voce del suo impeccabile figlio maggiore punito al posto del suo inutile figlio minore. Ma Apollinario non batté ciglio e io capii che non potevo deluderlo.

 

Il questore rimase in silenzio per un momento e quando parlò di nuovo io fui stupita di scoprire che stavo trattenendo il respiro.

 

- All’improvviso, studiare divenne molto importante per me, un’avventura meravigliosa ed eccitante quanto quelle che anelavo. Greco, retorica, latino, scrittura, matematica, storia, filosofia, poesia, tragedia… visti attraverso gli occhi di Apollinario tutto era un’affascinante avventura. Mi insegnò ad amare Lucrezio e Sofocle, Tito Livio e Teocrito, Seneca ed Euripide…. Ma io avevo sempre un debole per Ovidio… ce l’ho ancora. Con sorpresa di tutti tranne che di Apollinario, eccelsi negli studi e perfino mio padre con riluttanza ammise che si poteva tirar fuori qualcosa di buono da me.

 

La sua voce si spense e il suo sguardo fisso mi disse che era perso nei suoi pensieri.

- Uno dei giorni più tristi della mia vita fu quello in cui vidi Apollinario andar via… - continuò a raccontare. - Mio fratello ed io eravamo diventati adulti,  pronti a compiere i nostri doveri per le nostre famiglie, la nostra classe e Roma, così egli andò a cercare  un’altra tenuta e altri bambini.

- Vorrei averlo conosciuto, - dissi. - Poi, accorgendomi di aver espresso ad alta voce il mio interesse per l’uomo affascinante che gli aveva insegnato ad amare parole e libri, arrossii a disagio. Cornelio Crasso non sembrò infastidito dalla mia frase. Semplicemente mi guardò e sorrise. Poi, disse sommessamente.
- Ti piacerebbe molto Apollinario, domina… e sono certo che sarebbe affascinato da te… non riesco nemmeno ad immaginare che cosa direbbe se ti vedesse…

La voce gli si affievolì e io lo guardai perplessa.

- Direbbe che sei esattamente come fantasticavamo che fossero le sirene.

Ero sorpresa dalle sue parole e i miei occhi si fermarono in quelli sconcertati di lui.

- Perdonami, domina… non intendevo mancarti di rispetto, - disse. Ritornò compassato e aggiunse. - Come ti ho detto, dobbiamo parlare. L’imperatore mi ha ordinato di assicurarmi che tu comprendessi il tuo attuale stato sociale. Domina, sai che cosa significa essere una donna affrancata?

- Sì, questore. Significa che non sono più un pezzo di merce di scambio.

La mia schiettezza lo stupì, ma come sempre si riprese in fretta.

- Fondamentalmente, sì. Ma significa anche che sei libera di andare ovunque tu voglia, stabilirti dove ti piace e avere proprietà. Sei anche libera di sposarti… l’imperatore ha insistito su questo argomento perché è preoccupato del tuo benessere.

Mi venne da ridere. Oh, sì. Cesare era preoccupato del mio benessere. Ma anche nella sua saggezza non era riuscito a capire che il tempo non avrebbe dissolto il mio amore per Massimo, ma solo aumentato, perché io avrei paragonato a lui chiunque avessi conosciuto e ognuno sarebbe impallidito al suo confronto… come Cornelio Crasso.

- Ti è stata conferita la libertà e la cittadinanza dall’imperatore stesso affinché tu possa sposare qualunque uomo affrancato o cittadino romano nato libero della classe senatoriale. E’ importante che tu capisca questo, perché sei troppo giovane e talmente bella… una volta che ti sarai stabilita a Roma da donna libera, gli uomini ti si affolleranno intorno. - Si fermò, si schiarì la gola, ricominciò a parlare ma non ci riuscì. Provai pena per lui.

- Non sono interessata al matrimonio più che tornare alla vita che facevo.

- Domina, tu sei una donna… una donna da sola non è… non è… rispettabile.

- Questore, so abbastanza della rispettabilità romana e dei rispettabili cittadini romani per non curarmi di quello che di me pensa la gente. E non conto di diventare una prostituta pagata invece che resa schiava… nemmeno una di quelle chiamate “mogli”.

- Domina, so abbastanza della tua… sfortunata situazione da capire il tuo desiderio di rimanere da sola. Ma dovresti pensare alla tua reputazione, - disse e sollevò una mano per fermarmi. - Non c’è bisogno che qualcuno sappia del tuo… passato. Sei giovane e davvero molto bella… e intelligente… saresti una moglie meravigliosa per chiunque… molti uomini vorranno sposarti… anche quelli al di là della tua portata. - All’improvviso Cornelio Crasso sembrava molto vulnerabile e giovane. Ma soprattutto, sembrava molto solo. Solo come Marco Aurelio. Solo come Massimo. - Ci sono molti modi per cancellare il passato, - continuò. - Tutto è ancora troppo recente per te… ci vorrà del tempo per abituarsi alla libertà ma… io… sono pronto ad aiutarti, domina… al di là degli ordini di Cesare… e… in qualunque modo tu possa aver bisogno. - Stava apertamente balbettando adesso e dovette interrompersi per respirare. - Dovrai… considerare qualche… adattamento, - aggiunse chiaramente imbarazzato.

Rimasi in silenzio.

- Il tuo… tu… vesti bene ma… tu… il tuo…

Io mi vestivo bene? Avrei voluto ridere. Per tutta la vita non mi ero vestita che per mettere in risalto la mia bellezza e ciò molte volte aveva significato essere più nuda che vestita. Ma Cornelio Crasso mi aveva vista soltanto in vesti da viaggio. Mi chiesi che cosa avrebbe detto se mi avesse visto nella mia vaporosa tunica verde mare. La tunica trasparente che aveva tanto scandalizzato Massimo. La tunica che aveva soltanto velato il mio corpo nudo mentre disperatamente cercavo di farmi prendere da lui… e mentre scacciavo la mia solitudine e infelicità dormendo tra le sue forti braccia muscolose.

Ma l’imbarazzato questore stava ancora sforzandosi di eseguire gli ordini di Cesare, anche se significava affrontare penosamente faccende femminili. Cornelio Crasso alzò i suoi occhi verde muschio, inspirò a fondo e disse:
- Sono… sono i tuoi capelli, domina.

Di colpo fui all’erta.

- Oh… sono… belli… stupendi… ma… Domina, dovresti abituarti a… raccoglierli… raccoglierli come… si addice a una… signora rispettabile.

M’irrigidii.

- Domina, non intendevo insultarti, - supplicò. - Non ti ferirei mai di proposito.

- Lo so, questore, - risposi freddamente.

Mi alzai ed egli fece lo stesso, inciampando nella fretta.

- E’ tardi, voglio ritirarmi. Adesso. - La mia voce era di ghiaccio.

Mi guardò con occhi liquidi e aggiunse con voce sommessa.

- Domina, è per il tuo stesso bene.

Quella frase.

Quel tono condiscendente.

Sollevai il mento e scandii ogni parola come se Cornelio Crasso fosse un essere dalla mente ottusa.
- Questore, sono divenuta una donna libera per volontà di un imperatore che viene considerato anche una divinità. Non intendo sprecare la mia libertà inchinandomi ai desideri di semplici uomini. - Senza attendere la sua risposta, mi voltai. Facendolo, vidi che Rufa, sveglia sulla branda, aveva gli occhi spalancati. Era stata evidentemente ad ascoltare, anche se non disse nulla, e i suoi denti perlati balenarono
mentre mi offriva un sorriso ammirato.

Torna all’inizio



[1] I signiferi tenevano le insegne della legione e ne avevano cura. Tra i signiferi si distinguevano l’aquilifer, il portatore dell’Aquila, una posizione di enorme prestigio il cui grado successivo era quello di centurione; il vexillifer portatore del vessillo della legione; il signifer portatore dell’insegna della coorte o del manipolo. La legione solitamente aveva anche un imaginifer che portava un’insegna con il volto dell’imperatore, a costante promemoria della lealtà delle truppe verso di lui, e che aveva l’incarico di presentare il busto imperiale nelle cerimonie (N.d.T.).

[2] I romani chiamavano Genius lo spirito buono, la divinità tutelare di una persona, di un luogo o di una nazione. Ciascun uomo aveva il suo; ogni casa venerava il Genius del pater familias; il popolo onorava il Genius di Roma, il Genius Populi Romani, e più tardi quello dell’imperatore (N.d.T.).

[3] Publio Ovidio Nasone, “Eroidi”, Libro I, Lettera di Penelope a Ulisse.

N.d.T.: Questa è la mia traduzione  del brano citato da Hebe in inglese. Il brano originale, dal latino è questo:

Sed mihi quod prodest vestris disiecta lacertis

Ilios et, murus quod fuit, esse solum,

si maneo, qualis Troia durante manebam

virque mihi dempto fine carendus abest?

Una traduzione dal latino si può trovare in questi siti (identica in tutti e tre):

http://www.eleuteron.it/versioni/ovidio-eroidi.htm

http://www.biblio-net.com/lett_cla/traduzioni/ovidio_eroidi.htm

http://www.miti3000.it/mito/biblio/eroidi.htm

e suona così:

“Ma che giova a me che Ilio sia stata distrutta dalle vostre braccia e che sia nuda terra quello che prima era muro, se resto nella stessa condizione di quando Troia era ancora in piedi e se devo sentire la mancanza dello sposo, che è sempre assente? “