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Venne l’alba, come sempre viene, sia che ci porti gioia o una condanna a morte. Come mi aveva detto l’imperatore, Cornelio Crasso giunse alla tenda di Marcello quando faceva ancora buio.
-
Domina, - disse, chinando leggermente la testa. Io trasalii nel sentirmi
rivolgere quel titolo rispettoso, poi ricordai a me stessa che quel titolo
rispettoso era appropriato per la donna che ero divenuta a causa del documento
nascosto nel mio seno. Annuii in risposta mentre cercavo di valutare l’uomo in
piedi di fronte a me. Cornelio Crasso era un uomo sottile, asciutto, di una
mezza testa più basso di me, con folti capelli castano scuro dorato e occhi
verde muschio. Sospirai, sapendo per esperienza che gli uomini bassi avevano
una tendenza al cattivo carattere e la maggior parte di loro si risentiva enormemente
per le donne più alte di loro, specialmente se snelle come me. Se ne stava in
piedi orgogliosamente impettito, come si conviene ad un soldato romano, l’elmo
luccicante sotto il braccio, la corazza e il gonnellino militare di cuoio
accuratamente oliati e tirati a lucido.
-
Partiremo tra un’ora, domina, - disse con voce stranamente tranquilla. - E’
corretto se suppongo che hai già imballato tutto?
-
E’ fatto, - risposi con voce egualmente tranquilla, troppo sfinita per
ribellarmi contro il mio fato e la volontà di un uomo che mi voleva ma che si
rifiutava di avermi. Un uomo che aveva rifiutato anche la figlia
dell’imperatore e che presto sarebbe tornato a casa dalla moglie che amava.
Ero
tornata alla tenda di Marcello dal mio incontro con l’imperatore trovandovi un
giovane intento a svolgere il suo incarico. Fu rapidamente seguito da altri due
che portavano dentro i miei bauli provenienti dai quartieri degli schiavi.
L’uomo, che si era presentato come Romolo, mi disse che gli era stato ordinato
di supervisionare i preparativi delle donne che avrebbero viaggiato con la
legione fino a Roma. Informò sia me che Rufa di prendere gli effetti personali
che tenevamo nella tenda, imballarli e stare pronte a metterci in viaggio
all’alba. Non ci dovevamo preoccupare dei rifornimenti di cibo, disse, perché
il questore della legione si sarebbe curato di ogni cosa. E il questore che
stava di fronte a me sembrava perfettamente in grado di dirigere sia affari
insignificanti che importanti.
-
Domina, - disse, - mi è stato detto che tu sei la direttrice delle schiave, -
disse con quella voce stranamente tranquilla.
Io
mi strinsi nelle spalle. L’attitudine al comando e la capacità di piantare un
pezzo d’acciaio nella carne di un altro essere umano sono entrambe le abilità
più apprezzate nella cultura romana. Che ironia che Massimo si fosse elevato
dalle sue umili origini provinciali grazie ad esse e che anch’io avessi
ottenuto libertà e ricchezza attraverso di esse!
Al
semplice pensiero, mi venne da ridere, ma Cornelio Crasso si accigliò. Quello,
e la consapevolezza che se avessi cominciato a ridere sarei parsa ammattita, mi
impedì di farlo. Mi strinsi di nuovo nelle spalle.
- Sì, in mancanza di un termine migliore, puoi dire che sono la loro… direttrice,
- dissi.
-
Domina, il viaggio fino a Roma sarà lungo e tedioso, perfino per la legione. Le
donne non sono abituate ai rigori delle strade e potrebbero diventare un
problema. Un problema serio.
Fu
il mio turno di accigliarmi. Di che cosa stava parlando quell’uomo? Continuò.
- Quel che voglio dire, domina, è che le donne possono essere una distrazione
per i soldati e anche per gli ufficiali. Le ho viste, domina. Sono giovani e
belle. - Il suo latino aveva una sorta di insultante purezza ed era più
adeguato alla platea del senato che all’esercito. Poi ricordai a me stessa che
era un questore, un incarico frequentemente riservato ai figli di famiglie
d’alto ceto con menti acute ma nessun amore per la guerra. Essi servivano per gli anni richiesti occupandosi
della contabilità e della logistica della legione fino al raggiungimento
dell’età per la toga senatoriale. Potevo facilmente immaginare quell’ometto che
mi stava di fronte indossare le pieghe pristine della toga con la striscia
porpora con lo stesso agio con cui Massimo indossava la sua corazza d’ottone da
battaglia.
Massimo.
Il suo nome era come una stilettata nel mio cuore, gli echi della mia
conversazione con l’imperatore ancora nella mia mente. Ma Cornelio Crasso stava
parlando, con la mente focalizzata sul suo dovere, ed io fui costretta a
prestare di nuovo attenzione al seccante ometto, anche se volevo soltanto esser
lasciata sola con il mio sanguinante cuore spezzato.
-
C’è anche il problema delle schiave giovani. Sono molto giovani, ancora bambine
e l’imperatore ha ordinato alla legione di andare a Roma il più rapidamente
possibile, perciò non sarà possibile portarle con noi. Resteranno con
l’imperatore e torneranno in un secondo tempo. - Mentre parlava, Cornelio
Crasso guardava Rufa, che ci stava osservando torva con i suoi grandi occhi
rotondi sempre spaventati. Il questore tornò a guardare me. - Quella ragazza è
la tua governante personale? - Io annuii di nuovo, non volendo parlare se
potevo evitarlo. - Allora, lei verrà con noi. Mi è stato ordinato di
consegnarla al palazzo imperiale. Potrà servire te durante il viaggio, ma le
altre donne dovranno badare a se stesse.
Udii
Rufa trattenere il fiato e mi girai per rassicurarla che tutto andava bene.
Poi, con rabbia mi rivolsi al pomposo questore.
- Consegnarla? Hai detto consegnarla? - Gli chiesi con voce fredda e dura.
L’uomo indietreggiò.
-
Dovrà essere data all’Augusta Lucilla… - cominciò, ma io lo interruppi.
-
L’imperatore si è offerto di prendersi cura della mia governante perché
io non lo posso fare personalmente ed è d’accordo nell’affidarla a sua
figlia, perché è degna di servire lei e suo figlio… d’accordo? - dissi
chiaro e tondo. Il questore sostenne il mio sguardo, poi annuì
impercettibilmente e continuò a parlare, il viso indecifrabile. Avrebbe potuto
essere attraente se non si fosse preso tanto sul serio o se almeno si fosse
rilassato un pochino.
-
Ho ordinato che tre carri coperti trasportino te e le altre donne con la
massima velocità e conforto possibili, - disse. - Siccome tu sei un mio
personale incarico, tu e la tua governante potete avere il più piccolo per voi
sole. Le altre donne dovranno dividersi gli altri due.
-
Io non voglio viaggiare in un carro, - scattai.
Cornelio
Crasso si accigliò di nuovo e aggiunse una punta d’impazienza nella sua voce
dotta.
- Domina, come intendi andare fino a Roma? A piedi?
Fu
il suo atteggiamento condiscendente. Raddrizzai le spalle, pronta a combattere.
Quello lì non era né Massimo né Marco Aurelio.
- No, questore, - dissi. - A cavallo.
Egli
ansimò.
- Domina, non puoi dire sul serio! - Nonostante i suoi sforzi, Cornelio Crasso
stava perdendo la sua compostezza e io amaramente mi godetti la sua evidente
confusione.
-
Come credi che sia venuta qui? Volando? - domandai. - Non voglio viaggiare in
un carro perché non sono un pezzo di mercanzia. Non più. Voglio un cavallo. E
che sia un bel cavallo vivace, perché so cavalcare bene quanto te… o forse
anche meglio. I questori non fanno molto i soldati, vero?
Non
mi stavo vantando. Ero una brava cavallerizza e lo sono ancora. Cassio stesso
mi aveva insegnato a cavalcare quando ero ancora bambina, molto prima di
mandarmi nel letto del senatore. Gli piaceva cavalcare nella campagna che
circondava la sua villa ed era solito portare qualcuna delle sue ragazze con
sé. Cavalcare era probabilmente l’unica piacevole, innocente pratica che avevo
imparato sotto il suo dominio e ancora oggi mi piace cavalcare. Qualche volta
vado a cavallo con Apollinario ma per lo più cavalco da sola, non essendo mio
marito in grado di venire con me.
Quando
cavalco da sola, mi piace lanciare il cavallo al galoppo sulla spiaggia, il
vento che canta nelle mie orecchie, le onde che gentilmente spruzzano sia il
cavallo che me. E quando cavalco, riesco senza sforzo a lasciarmi andare e
divenire una cosa sola con il vento e il mare e qualche volta perfino a
dimenticare. Dimenticare che sono nata schiava. Dimenticare che ho vissuto la
maggior parte della mia vita facendo la prostituta. Dimenticare la bambina
spaventata che ancora vive dentro di me nonostante i capricci del fato.
Dimenticare che malgrado la libertà e il benessere e il matrimonio io mi sento
ancora sola come mi sono sempre sentita. Quello che nemmeno il cavalcare e il
mare e il vento possono farmi dimenticare è che amo Massimo, che lo amo da
morire, lo desidero… e così sarà sempre.
Misericordiosamente
silenzioso, Cornelio Crasso mi guardò per un lungo momento poi annuì ancora, la
rigidità del suo gesto un chiaro segno del suo crescente disappunto per il suo
“personale incarico”, come mi aveva chiamata.
- Darò ordini che ti sia preparato un cavallo…
Lo
interruppi di nuovo.
- Ordina quattro cavalli, questore. Ci sono altre donne nei quartieri degli schiavi
che sanno cavalcare e saranno felici di averne l’opportunità. - Anche se la
presenza di Eliana, Arianna e Eugenia mi avrebbe obbligata a sopportare il loro
incessante, infantile cicaleccio durante la lunga marcia, non avevo cuore di
confinarle nei carri, sapendo come sapevo che avrebbero goduto della libertà
della strada polverosa.
Cornelio
Crasso non fu felice della mia richiesta. Per niente felice.
-
Domina, dover portare quattordici donne con la legione è un problema
sufficiente. Averne quattro che cavalcano in mezzo ai soldati potrebbe essere
una minaccia alla disciplina della legione. Se insisti nel farle cavalcare
invece che viaggiare nel carro, richiederò il tuo aiuto nel tenerle lontane dai
soldati e dagli ufficiali, domina, anche se tu sei il mio incarico personale. -
Io arcuai le sopracciglia mentre Cornelio Crasso continuava. - Non tollererò
violazioni nella disciplina dell’esercito e tu devi impedire che le donne
diventino fonte di preoccupazioni. Non tollererò che frequentino i soldati e
gli ufficiali.
-
Perché? Perché sono nate schiave e sono state usate come puttane per tutta la
loro vita? - Solo quando udii le mie parole mi resi conto di averle dette a
voce alta. E che il mio tono era duro e amaro. Cornelio Crasso sobbalzò,
chiaramente non avvezzo ad essere contestato. Specialmente da una donna. Si
riprese in fretta ma io fui più rapida. - Sei mai stato in un bordello,
questore? - chiesi con voce fredda e dura. Fu colto di sorpresa. Di certo le
donne d’alto ceto con le quali era solito parlare non sapevano nulla di
bordelli e prostituzione. - Ti piacciono le donne, vero? O è che non ti piace
spartirle e preferisci tenerti un’amante segreta? - Cornelio Crasso arrossì
violentemente e rimase palesemente senza parole. Io lo incalzai. - Non hai
risposto, questore. Sei mai stato in un bordello?
Egli
si ricompose e rispose.
- Sì, domina. Sono stato in un bordello.
-
Bene, - dissi, chiedendomi brevemente perché lo stessi facendo, perché stessi
sfogando ira e amarezza su quest’uomo che non potevo rimproverare di nulla se
non di essere di vedute ristrette, non importa quanto Marco Aurelio si fidasse
di lui. Ma io non potevo, non volevo smettere. - E suppongo che tu sia andato
in uno lussuoso e ti sia divertito molto, e che poi sia ritornato a casa e
andato a dormire senza un secondo pensiero per quelle donne che hanno
soddisfatto le richieste tue e di molti altri. Non ti sei mai dato pensiero per
quelle donne che sopportano umiliazione, atti degradanti, persino l’essere
seriamente ferite per lo svago di altri come te. E hanno sopportato tutto
questo un giorno dopo l’altro e una notte dopo l’altra. Quelle donne nei
quartieri degli schiavi sono nate in un bordello, questore! Un bordello
privato. Non hanno conosciuto altra vita se non umiliazione, degradazione e
sofferenza. Dubito seriamente che per il resto della loro vita avranno ancora
voglia di andare a letto con un solo altro uomo, men che meno dei soldati
romani!
Non
aggiunsi che io ero nata nello stesso bordello, avevo sopportato lo stesso genere
di vita e non sarei mai, mai più andata a letto con un altro uomo. Solo con
Massimo. Se mi avesse voluta. Non erano affari di Cornelio Crasso né di
chiunque altro.
Cornelio
Crasso rimase in silenzio a lungo, sostenendo il mio sguardo furioso, guardandomi
come se stesse guardando una strana bestia esotica, affascinante come quelle
che sfilavano in parata nei trionfi romani o venivano macellate nella grande
arena. Poi, i suoi occhi verde muschio si scaldarono a poco a poco, i suoi
lineamenti si ammorbidirono e rispettosamente egli chinò la testa.
-
Accetta le mie scuse, domina, - disse e la sua voce era non solo calma ed
educata ma dal tono sincero. - Sono stato estremamente scortese. Anche se non
ho scuse, per favore, comprendi, ho passato gli ultimi tre anni nelle
frontiere, trattando solo con soldati, - fece un piccolo, timido sorriso. -
Sembra che io abbia completamente dimenticato le buone maniere.
Sospirai,
desiderando solo metter fine a quello sgradevole incontro con l’uomo incaricato
di portarmi a Roma.
- Le tue scuse sono accettate, questore.
-
Grazie, domina. Ordinerò i cavalli. C’è qualcosa che posso fare per te?
-
No, questore, grazie. Soltanto, lasciami sola finché sarà il momento di
partire.
Egli
rimase a guardarmi, come se fosse perso nei suoi privati pensieri. Poi
s’inchinò e si voltò per uscire. Ma si fermò all’entrata della tenda e si voltò
dalla mia parte.
Sostenni
il suo sguardo per un lungo momento.
Infine
egli sorrise e disse:
- Avrei dovuto sapere che l’imperatore aveva ragione… Ha sempre ragione.
Lo
guardai con espressione interrogativa.
-
Ha detto che non eri soltanto bella, ma anche intelligente e coraggiosa… tanto
coraggiosa da aiutare a salvare l’impero.
-
La cosa ti preoccupa, questore? - domandai.
Il
suo sorriso si allargò.
- No, domina. Non mi preoccupa neanche un po’. E il mio nome è Cornelio.
Cornelio Crasso. - S’inchinò rispettosamente, girò sui talloni e lasciò la
tenda.
-
Padrona Giulia?
La
voce di Rufa mi costrinse a rivolgere su di lei la mia attenzione.
-
Sì, piccola? - chiesi stancamente.
-
Padrona Giulia, noi andare? - chiese nel suo latino gutturale a scatti, il tono
angosciato come la sua faccia scura preoccupata.
-
Sì, Rufa. Andremo a Roma.
-
Non volere! - gridò la ragazzina. Io indietreggiai. Non avevo mai, mai udito
Rufa protestare o gridare.
-
Piccola… - cominciai, ma ella rifiutò di ascoltarmi, chiaramente fuori di sé
per la paura.
-
Padrona Giulia, io non volere andare! Non volere andare!
Afferrai
le spalle della ragazzina e la scossi leggermente.
- Rufa, ascoltami! - Grosse lacrime tonde rotolarono giù per le guance d’ebano.
La sua imbronciata bocca sfregiata tremò per l’angoscia. Le presi la mano e mi
sedetti sul divano, obbligandola a sedersi accanto a me. - Ascoltami, Rufa.
Come ti ho spiegato, noi… le altre donne ed io siamo state liberate
dall’imperatore. Tu e le altre ragazze siete troppo giovani per essere liberate
e lasciate a voi stesse. Perciò andrete nelle tenute dei parenti dell’imperatore.
Rufa
singhiozzò e io sentii male al cuore. Era stata al mio servizio per gli ultimi
due anni e non ero mai stata in grado di ottenere altro da lei se non
obbedienza, rare risposte gutturali e i servizi ordinati. Vederla così
angosciata e piangente era una cosa inaspettata. E dolorosa.
-
Rufa, - continuai. - Sarai messa al servizio della figlia dell’imperatore. La…
l’Augusta Lucilla è una bellissima donna e anche del rango più alto di tutto
l’impero. Servire lei e il suo figlioletto è un grande onore. Sarà una buona
padrona… tu la devi servire bene.
Sentii
le mie stesse lacrime strozzarmi la gola nel menzionare la potente, bellissima
donna che amava Massimo. Tuttavia, non avevo alcun diritto di prendermela con
lei, perché prima gli era stata negata, e quando poi gli era stata proposta era
stata respinta. Lei era nata nel palazzo imperiale e io nei quartieri degli
schiavi, eppure avevamo in comune molto più di quanto Marco Aurelio aveva
ammesso. Perché non erano la forza e il coraggio a renderci eguali ma il nostro
amore per lo stesso uomo… ed il suo rifiuto.
Rufa
stava singhiozzando rumorosamente, piangendo come la bambina che era.
-
Volere andare con te, padrona Giulia! - gridò la poverina. - Andare con te!
Prendendo
Rufa tra le mie braccia, la abbracciai forte e la ragazzina seppellì il viso
nel mio seno. Tremava e io la cullai, cercando di calmarla, sussurrando parole
d’incoraggiamento finché si calmò. Le accarezzai i rigogliosi riccioli neri.
Come potevo spiegare ad una bambina di dieci anni che era stata la serva
inferiore di un’esperta prostituta che da quel momento in avanti avrebbe
servito una ex imperatrice e un possibile futuro imperatore?
-
Ascoltami, piccola. Non posso tenerti con me, ma l’imperatore è un uomo buono
ed ha acconsentito a metterti con la figlia e il nipote adorati, - dissi
continuando a carezzarle i capelli. - Sei stata una brava, bravissima domestica
e io sono orgogliosa di te. Devi servire bene l’Augusta Lucilla.
Rufa
sollevò il viso e mi guardò non con occhi spaventati, ma innocenti, speranzosi.
- Puoi andare con generale e portare me. Perché non andare con generale? -
chiese e io mi sentii come se del sale fosse stato strofinato sul mio cuore
sanguinante.
- Non è possibile, piccola, - dissi costringendomi a ricordare che la bambina
era troppo giovane per capire quello che c’era nel cuore di uomini e donne,
anche se alla sua tenera età aveva udito e visto molto più di quanto molte
donne odono e vedono nella loro intera vita. Disperatamente, cercai qualcosa
che le desse conforto e alleviasse la mia angoscia. Poi, mi ricordai
dell’anello dell’imperatore, ben nascosto nella mia veste.
-
Rufa, - dissi sottovoce. - Ascoltami. Ti dirò un segreto. Un segreto molto
importante che non devi ripetere, qualunque cosa accada.
Non
era che una bambina e quello attirò la sua attenzione.
-
C’è un motivo per cui tu devi andare dall’Augusta Lucilla e da suo figlio.
L’imperatore ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro, perché lui
trascorre molto tempo lontano ed è preoccupato per sua figlia e suo nipote.
Gli
occhi della ragazzina si spalancarono per la sorpresa.
-
Ha bisogno che tu stia vicina a padron Lucio e ti prenda cura di lui mentre
cresce. L’imperatore non si fida degli altri schiavi e servitori perché vuole
qualcuno che davvero si curi del bambino, qualcuno di cui padron Lucio
possa fidarsi. Farai questo per l’imperatore? Ti prenderai cura di suo nipote?
Rufa
sembrava disorientata. Poi il suo viso s’illuminò. Annuì con vigore.
- Io prendere cura, - disse con convinzione.
-
Bene, - dissi e, ancora oggi non so il perché, aggiunsi: - Rufa, un giorno
potrei avere bisogno anch’io del tuo aiuto. Un giorno potrei doverti dare un
importante messaggio segreto per l’Augusta Lucilla o per suo figlio. L’Augusta
Lucilla sa del messaggio. Ma se qualcosa le accadesse, tu devi dire a padron
Lucio che un giorno qualcuno che tu e suo nonno conoscevate potrebbe mandargli
un messaggio molto importante per tuo tramite e che l’imperatore si aspetta che
il nipote onori un debito che Marco Aurelio giurò di pagare. Lo farai? Glielo
dirai? E, se arriverà il momento, mi aiuterai e lo consegnerai?
-
Sì, padrona Giulia. Lo farò.
-
Non devi dirlo a nessun altro tranne che a pardon Lucio. Sarà il nostro
segreto. Solo tu, l’imperatore, l’Augusta Lucilla e io lo conosciamo, Rufa.
La
ragazzina annuì in segno di intesa.
-
Allora, questo è sistemato. Andremo a Roma insieme e una volta là tu andrai al
palazzo imperiale e ti sistemerai con i tuoi nuovi padroni.
Rufa
annuì ancora. Poi sorrise, la prima volta che la vidi mai sorridere. Non potei
far altro che sorriderle in risposta, anche se il mio cuore era spezzato e il
tempo stava correndo via, i primi raggi di sole indicando che la partenza era
imminente.
-
Padrona Giulia?
-
Sì, piccola?
Mi
guardò con occhi innocenti.
- Chi prendere cura di te quando io andata? Generale?
La
mia vista si offuscò, la gola mi si strinse, il mio cuore mi fece male come se
stesse per scoppiare. Mi costrinsi a sorridere di nuovo e a rispondere alla
domanda di una bambina di dieci anni. - Sì, Rufa. Si prenderà cura di me.
Prima
che potesse parlare di nuovo, la presi tra le braccia e seppellii il viso nei
suoi riccioli d’ebano.
-
Domina, è ora.
La
voce di Cornelio Crasso mi riportò indietro dai miei privati pensieri. Mi alzai
e lentamente andai all’entrata della tenda. Il questore si spostò di lato per
permettermi di uscire, poi mi seguì attraverso il cortile del pretorio. I
cavalli erano pronti ed Eliana, Onora e Arianna erano già lì sedute in groppa
alle loro cavalcature, chiacchierando e ridacchiando eccitate. Si voltarono per
guardarmi e offrirmi i loro grandi sorrisi felici, ma il mio viso scuro e
tirato le ridusse al silenzio.
Cornelio
Crasso mi aiutò a salire sul cavallo che mi era stato dato… un cavallo bello e
forte, dal manto lucido e ramato, e criniera e coda dorate che scintillavano
sotto i primi raggi dell’alba. Sbuffò gentilmente mentre mi sedevo sul suo
ampio dorso e io con aria assente gli diedi dei colpetti sul collo forte e
caldo.
Dalla
mia posizione appollaiata sul cavallo vidi che tutto era pronto per la
partenza, gli stendardi che si muovevano gentilmente nella brezza, le aquile
dorate che scintillavano, i soldati in formazione, la lunga processione di
bagagli e provviste che si allungava dietro di noi.
Al
suono di passi mi girai e abbassai lo sguardo su Massimo. Nonostante fosse una
giornata calda, egli indossava la sua alta uniforme da generale, il nastro nero
annodato artisticamente sulla corazza di cuoio proclamando il suo alto grado,
il mantello che gli fluttuava attorno al corpo forte e muscoloso, le pellicce
di lupo argentato che ondeggiavano dalle sue larghe spalle.
Era
la prima volta che lo vedevo da vicino in alta uniforme.
Era
magnifico.
Le
mie mani afferrarono strettamente le redini mentre noi rimanevamo in silenzio
guardandoci l’un l’altra per un lungo, doloroso momento. I suoi occhi azzurri
erano teneri e caldi e tuttavia
insondabili, le sue emozioni ben protette.
Il
silenzio si prolungò divenendo insopportabile, il mio cuore martellava
selvaggiamente, la mia gola era stretta dall’angoscia e dalle lacrime
trattenute.
- Ti rivedrò mai? - chiesi, anche se conoscevo la risposta. Perché insistevo
nel farmi del male?
-
No, - venne la semplice, prevista risposta. Anche se me l’aspettavo, mi ferì
profondamente. O forse dovrei dire che mi avrebbe ferito profondamente se il
mio cuore non fosse stato così annichilito dal dolore.
Ma
la voce di Massimo era stata dolce e gentile e anche se non sapevo come ci
fossi riuscita, io gli sorrisi.
- Io non la penso così, - dissi tranquillamente.
Lui
mi restituì il sorriso, e fu un sorriso dolce e fanciullesco.
- Sarai indaffarata ad organizzare la tua nuova vita.
Una
nuova vita?
Oh,
sì. Ero giovane. Ero libera. Non ero più una prostituta. Ero tanto ricca da
potermi comprare documenti falsi per cancellare il mio passato. E nascosto
nella mia veste tenevo l’anello dell’imperatore, il sigillo della famiglia
dell’uomo più potente del mondo, il simbolo di un debito dovuto alla donna che
aveva aiutato a salvare l’impero e aveva salvato la vita del più importante
generale di Roma. Tuttavia non avevo nulla e la nuova vita che mi si parava non
era altro che solitudine e dolore perché non c’erano ricchezze o potere al
mondo che mi potessero dare l’unica cosa che volevo: l’amore dell’uomo
magnifico che se ne stava tranquillamente in piedi accanto a me.
Guardando
di nuovo i suoi sorprendenti occhi azzurri pensai brevemente che se Massimo mi
avesse presa almeno una volta, avrei avuto la speranza che il suo seme avesse
messo radici nel mio grembo e alla scadenza sarebbe nata la neonata dai capelli
scuri che avevo cullato nel mio sogno, un legame di carne e sangue tra me e suo
padre, non importa che si rifiutasse di avermi ancora. E se anche non fosse,
almeno avrei avuto quella speranza a farmi continuare ad andare avanti per
qualche settimana… e quando fosse finita, ci sarebbe stato ancora il ricordo
del suo corpo a scaldare il mio letto come nessun altro uomo lo avrebbe mai
scaldato.
Massimo
mi toccò il piede, ancora una volta come se la sua mano avesse una volontà
propria, accarezzando leggermente con le sue dita callose la pelle tra le
stringhe di cuoio del mio sandalo.
- Sicura di non voler viaggiare nel carro?
Scossi
la testa, il sole del primo mattino sfiorava file e file di tende di canapa
bianca facendo scintillare l’ottone degli scudi e delle armature. Sospirai.
- No, mi sembra una prigione e ne ho avuto abbastanza di essere prigioniera.
Massimo
annuì ad indicare la sua comprensione. Ma, che cosa poteva capire un uomo, che
non aveva conosciuto altro che la libertà, di una donna e schiava? Che cosa
poteva capire quest’uomo orgoglioso, autorevole, del degradante assoggettamento
che avevo sopportato per tutta la vita?
Eppure,
mi stava guardando con uno sguardo gentile e caldo e io dovetti frenarmi dal
chinarmi ad accarezzare i suoi capelli cortissimi e la soffice barba sulla sua
guancia. Esitai, poi dissi:
-
Non c’è bisogno che ti preoccupi, Massimo. Non dirò a nessuno che conosco
personalmente il grande generale romano.
Un’espressione
corrucciata gli corrugò la fronte.
-
Perché la cosa dovrebbe preoccuparmi?
Era
un fiero guerriero, un comandante d’eserciti adorato sia dai suoi uomini che
dal suo imperatore. Tuttavia era così candido quando si trattava di certe cose!
Distolsi il viso e guardai un punto fuori del cancello dell’accampamento,
qualsiasi cosa pur di evitare di doverlo guardare mentre riconoscevo la mia stessa
vergogna e la mia determinazione a non disonorarlo con essa.
-
Non voglio metterti in imbarazzo.
-
Giulia. - Massimo mi scosse il piede. Rifiutavo di guardarlo ed egli lo scosse
ancora, affondando le dita nella mia carne. - Giulia, guardami.
Lo
feci con riluttanza, combattendo le lacrime cocenti che sentivo luccicarmi
negli occhi.
-
Sono orgoglioso di conoscere una donna di tali carattere, forza e intelligenza.
Ciò che Cassio ti ha fatto era al di là del tuo controllo. Se gli avessi
resistito egli ti avrebbe uccisa. Lo sai questo.
Il
mio cuore si gonfiò dolorosamente. Massimo! Oh, Massimo! Così forte e virile
eppure così gentile e dolce! Anche se non riusciva ad amarmi, anche se non
voleva prendermi, si preoccupava ancora per me e cercava di proteggermi… il suo
conforto e protezione l’unico calore che avessi conosciuto nella vita! Volevo
gettarmi in ginocchio come avevo fatto davanti a Marco Aurelio. Volevo
avvolgergli le braccia intorno alle gambe e implorarlo di non mandarmi via, di
lasciarmi restare con lui e consumarmi nella sua bontà e compassione. Ma sapevo
che non c’era speranza perché egli aveva subito condotto il suo lucente
stallone nero giù per la stessa strada, sulla via del suo ritorno a casa e da
sua moglie in Ispania, ed invece di implorare, mi feci forza, annuii e trassi
un respiro incerto, poi guardai ancora in lontananza.
-
Ti auguro una vita molto lunga e felice, Massimo.
-
E io a te, - rispose, e la sua profonda voce rombante mi mandò brividi giù per
la schiena. Annuì al pretoriano che stava sull’attenti lì accanto e questi
gridò l’ordine di procedere. Massimo indietreggiò quando il mio cavallo iniziò
a muoversi. Lo udii salutare Eliana, Onora ed Eugenia mentre attraversavo le
porte dell’accampamento. Morivo dalla voglia di guardare indietro, di guardarlo
un’ultima volta, ma mi costrinsi ad andare avanti, lo sguardo fisso
sull’orizzonte, la schiena eretta. Perché sapevo che, se mi fossi voltata, mi
sarei gettata giù dalla mia cavalcatura e sarei corsa da lui, implorandolo di
tenermi, tanto disperatamente quanto avevo implorato l’imperatore di darmi a
lui la notte precedente. Ma sapevo anche che, se l’avessi fatto, sarei stata
respinta come ero stata respinta la notte precedente, e non sarei riuscita a
sopravvivere ad un altro rifiuto.
Sospirando,
sollevai la testa e guardai il cielo, il sole scaldava gentilmente la mia pelle
anche se non poteva scaldare il mio cuore. Udii gli uccelli cantare tra i rami.
Una farfalla azzurra danzò nell’aria di fronte a me. Uno scoiattolo schizzò di
cespuglio in cespuglio chiacchierando eccitato. La strada si allungava davanti
a me, una strada costruita decadi prima da una generazione dopo l’altra di
soldati romani, soldati simili a quelli che marciavano di fronte a me e dietro
di me. La vita continuava con la magnifica indifferenza con cui sempre
continuava, fosse per cancellare
misericordiosamente le cicatrici lasciate dalla guerra o per spazzar via
l’effimera umana gioia.
E
all’improvviso, seppi. Seppi che sarei sopravvissuta, che sarei andata avanti,
che avrei continuato a vivere perché ero forte come l’imperatore aveva detto
che ero, la donna che aveva aiutato a salvare l’impero e che aveva anche
salvato la vita del più potente generale di Roma. E anche se Massimo mi aveva
respinta, non poteva impedirmi di amarlo e io l’avrei amato per sempre.
-
Ti rivedrò mai?
-
No.
Le
mie parole e la risposta di Massimo echeggiarono nella mia mente. Ma questa
volta non mi ferirono. Almeno non così profondamente. Sorrisi e il mio sorriso non
era né falso né amaro anche se era triste.
- No, generale, - sussurrai. - Ti sbagli. Ti rivedrò ancora. Oh, sì… Ti
rivedrò.