Storie
de Il Gladiatore
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Storie ispirate dal film Il Gladiatore |
Lettura sconsigliata ai minori di anni 18 |
Massimo l’Immortale
IL VECCHIO DELLA MONTAGNA
Prima parte
DEUS LO VOLT[1]
Presto il sole sarebbe calato dietro le colline ad ovest del Lago e le
ombre avrebbero nascosto l’uomo all’uomo, il nemico al
nemico. Salah el Din si sollevò lentamente dai cuscini e alzò gli occhi sul
prigioniero, fermo all’ingresso della tenda. Gli avevano
incatenato i polsi e quattro villose guardie selgiuk[2]
armate fino ai denti gli tenevano le punte delle lance premute contro il petto
e la schiena. Era indubbio che l’atabeg[3] di Jezireh, i cui uomini l’avevano catturato nel
corso d’una scaramuccia a sentir loro di poco conto,
avesse peccato per eccesso di zelo. Il prigioniero non sembrava meritasse tutte
quelle attenzioni. Sulla cotta di maglia di ferro, indossava una tunica sudicia
e sbrindellata, segnata da una vistosa croce nera il cui braccio verticale
andava dall’orlo alla scollatura: ne aveva visti
tanti, come quello, il Rais[4], abbastanza da non meravigliarsene: nobili senza
terra, avventurieri, fanatici, morti di fame per i quali Dio costituiva un
semplice alibi alla loro avidità d’oro, di terre e di sangue. Si stupì che l’atabeg di Jezireh lo avesse lasciato
vivere. Di solito non faceva prigionieri e non era da
lui sperare che la vita di quell’individuo sudicio, scarmigliato e lacero
potesse essere barattata con un congruo riscatto: era giovane e forte, questo
sì. Poteva durare un paio d’anni a picconare sale in qualche cava o a girare
una macina, ma Ibrahim al Zawahiri era un guerriero,
non un mercante di schiavi.
Salah el Din scacciò con una mano il fumo acre che si levava da un
braciere, mentre ascoltava annoiato il resoconto degli uomini di al Zawahiri. C’era stata un’imboscata, sulla strada che da
San Giovanni d’Acri assediata dagli Infedeli portava ad
Haifa. Non era la prima e non sarebbe stata l’ultima,
finché quella guerra che sembrava senza fine non avesse avuto termine. Chissà
quando, si domandò il Rais, maledicendo tra sé e sé il fumo che gli faceva
lacrimare gli occhi e i quattro soldatacci puzzolenti di scorta al gentile
omaggio che l’atabeg di Jezireh gli aveva fatto recapitare.
Il prigioniero. Era un giovane alto e forte, con la pelle chiara dei
Franchi[5] e occhi acuti, tra l’azzurro e il verde. Un guerriero
valoroso, aldilà di quanto potessero ingannare la
modestia dei suoi abiti laceri e chiazzati di sangue secco, la barba incolta, i
lunghi capelli castani impastati di polvere e sudore. Doveva essere stato
malmenato da quegli animali che non conoscevano pietà e quando parlavano sembrava
abbaiassero: turchi dai camusi tratti asiatici, imbevuti di odio
xenofobo e zelo fanatico. Puzzavano di sangue rappreso, corpi non lavati e
pelli sudice di cammello, pensò Salah el Din arricciando il lungo naso
aquilino. Puzzavano quanto il loro prigioniero, l’unico sopravissuto d’un
piccolo drappello di uomini che dall’accampamento dell’esercito cristiano che
stringeva Acri d’assedio, si recavano ad Haifa forse
per imbarcarsi su qualche galea cristiana diretta a Occidente.
“Shaitan”. Satana. Un epiteto
sputato fuori dalle labbra livide e baffute come un
insulto. Non sei chi sembri, straniero. Lo pensò, il Rais, lo pensò guardandolo dritto dentro gli occhi chiari,
trasparenti eppure imperscrutabili. Perché non sei morto anche tu, con gli
altri, quando gli uomini dell’atabeg
di Jezireh vi hanno attaccati, sulla strada che da
Acri assediata porta al mare? Cinque Templari dai mantelli neri svolazzanti, e
quell’avventuriero da niente. Chissà chi era. Non quello che sembrava, ci
voleva poco a capirlo. Anche i bestiali scherani di Ibrahim al Zawahiri dovevano
essersene resi conto, se avevano ucciso, secondo consegna,
gli uni e risparmiato la vita dell’altro. E’ impossibile negare l’intrinseca
crudeltà della guerra, si disse da sé solo il Rais, ma perfino la misericordia
può essere pericolosa, in determinate circostanze. Era stato lui stesso a diramare
ai suoi luogotenenti l’ordine di non prendere vivi i
monaci guerrieri rossocrociati, le truppe scelte dell’esercito cristiano.
Non era ciò che sembrava, un nobile decaduto, un penitente che
affrontava la morte per impetrare un miracolo o per scontare peccati meritevoli
di eterna dannazione. Fosse stato quello, non avrebbe
viaggiato sotto scorta. Doveva trattarsi di un personaggio importante in
incognito… Forse un Templare egli stesso. E non uno
qualsiasi.
Sarebbe bastata la minaccia di finire incatenato alla
macina di un mulino fino al termine dei suoi giorni per scardinare il segreto
che si portava dentro? O sarebbe stato necessario ricorrere allo scudiscio per
costringerlo a parlare? Salah el Din rabbrividì, e non era per il vento freddo
della sera che soffiava dal deserto verso il mare.
Il prigioniero, immobile al centro della tenda, i polsi serrati da pesanti
catene arrugginite, sembrava una statua d’oro, al riverbero del tramonto e
delle grandi lanterne: la statua di un nume guerriero, coperta di ruggine e di
stracci. Lo scollo della tunica era incrostato di sangue secco, sangue non suo, non gli si vedevano ferite. Un nume piegato
in qualche modo dal destino, e soprattutto stanco. Stanco di battaglie, di assedi, di urla e di morte. “Allah Akbar! ” “La ilaha il’ Allah!” “Deus,
adiuva!” “Pro Sancto Sepulcro!”
Stanco del nome di Dio tramutato in un grido di battaglia, impugnato come una
clava. Stanco tanto quanto lui, pensò Salah el Din.
- Portatelo via. E fategli fare un bel bagno: questo infedele
puzza come un branco di cammelli.
***
Conosco abbastanza il mondo da
non nutrire fiducia in una confessione estorta con la
tortura, perché, tra i tormenti, anche l’uomo più temerario non esiterebbe a
gabellare per verità la menzogna e la calunnia, a vendere al demonio il sangue
del suo sangue, si disse da sé solo il Rais studiando attentamente il
prigioniero. Aveva mani forti e sguardo franco, in fondo al quale non lesse rimorso. E dallo scollo della
casacca, non emergeva la croce impressa col fuoco ai cavalieri Tafur[6].
Non era un monaco guerriero votato alla castità, né un criminale che nella
Guerra Santa cercava scampo al patibolo. Non era stato necessario lo scudiscio
per scoprirlo, erano bastate le mani impudiche e sapienti della puttana che l’aveva aiutato a lavarsi.
- Va meglio…adesso?
Salah el Din parlava un pessimo
francese, e si ritrovò a ringraziare Allah con il pensiero quando l’altro gli
rispose in un arabo fluente, per ringraziarlo delle sue ospitali attenzioni. Che lui aveva immensamente apprezzato. Tutte quante.
- Qual è il vostro nome, Sidi[7]?
- Maximus.
Un nome che nessun padre dotato
d’un minimo di buonsenso dovrebbe imporre a un neonato del quale
è impossibile prevedere la futura riuscita. Un nome che significava il più
grande. Akbar. Era stato uno sciocco ambizioso a generare quell’uomo.
- Al
Zawahiri ha risparmiato la vostra vita…
- La mano del carnefice tremava. E la lama del suo coltello non era abbastanza affilata.
E allora di chi era il sangue che
vi imbrattava i vestiti quando gli uomini dell’atabeg
di Jezireh vi hanno trascinato da me? E’questo il motivo per
cui i vostri guardiani vi chiamano Shaitan? Salah el Din lo
guardò perplesso, prima di formulargli la domanda che gli bruciava dentro e che
non avrebbe avuto risposta diversa da un impercettibile sorriso a labbra
chiuse.
- Siete qui… perché Dio lo vuole?
- Dio… O non piuttosto gli
uomini? Non c’è niente di santo, in questa maledetta guerra. E
anche voi lo sapete.
Gli fu più semplice condividere le affermazioni del
prigioniero che continuare reggere il suo sguardo malinconico. I monaci
guerrieri e i Tafur rei di fellonia, stupro e assassinio che, grazie
alla Guerra Santa, avevano eluso la giustizia umana e divina erano facce della
stessa medaglia. Come, dall’altra parte, Ibrahim al
Zawahiri, che non faceva prigionieri. Come… Come Hasan al Sabah.
- Le vostre sono affermazioni pericolose… Akbar.
Salah el Din non ignorava il destino che i Cristiani
riservavano ad eretici, empi e bestemmiatori: il fuoco. Una gran brutta morte.
- Ho visto cose che non avrei voluto vedere.
Eh già, la misericordia era morta ammazzata proprio lì, su
quella polvere che i sandali di Jeshua, l’Unto del Signore avevano
calpestato, un mare di secoli prima. Nelle chiese di tutta Europa, nei borghi
come nelle campagne, i monaci predicavano che non era peccato strappar via
l’anima agli infedeli e che doveva addirittura considerarsi atto meritorio
uccidere un ebreo, fosse pure una donna, un vecchio, un bambino. Tanto nessun
membro di quella stirpe maledetta era abbastanza innocente da ritenersi
meritevole di misericordia.
I Tafur felloni portano
impresso per sempre nelle carni il marchio della loro infamia, e un Templare
vincolato alla castità da voti solenni non si sarebbe lasciato mettere le mani
addosso da una puttana, pensò Salah el Din. L’uomo che se ne stava fermo di
fronte a lui, rivestito con abiti puliti di foggia moresca non era né l’uno né
l’altro. Era grande e forte perfino senza la maglia di ferro e l’aketon[8]
imbottito addosso. Doveva essere un demonio, con la spada in pugno.
- Copritevi con questo. Stasera
il freddo punge, Sidi. E ditemi di voi.
Il prigioniero si drappeggiò addosso il pesante mantello foderato di pelliccia.
- Non ho niente contro nessuno e,
se il Paradiso bisogna guadagnarselo sterminando coloro che chiamano Dio con un
altro nome, allora temo che finirò all’inferno.
Era un uomo sagace, l’infedele: avesse avuto carnagione
olivastra e occhi scuri come una notte senza stelle, avrebbe potuto essergli
figlio. Non gli sarebbe affatto dispiaciuto, un figlio
così. Chi siete? Gli domandò ancora. A forza di
insistere, avrebbe avuto da lui una risposta alle sue domande. Per certo,
sembrava comunque che avesse vissuto più di quanto la
sua giovane età e le sue poche parole lasciassero intuire. E
che meritasse fiducia, anche se chiamava Dio diversamente da come lo chiamava
lui, perché i suoi occhi di straniero erano sinceri.
- Chi sono? Un suddito devoto di Re Riccardo d’Inghilterra.
- E non è stato il desiderio di
mondarvi l’anima dai peccati a condurvi da queste parti.
Le labbra gli si erano piegate in una piccola smorfia. Il
mio sovrano, gli disse, è qui per risparmiarsi
l’inferno nell’altra vita. Lui ci crede. Io no. Ma
quando un re s’imbarca stupidamente in un’impresa tanto azzardata quanto
inutile, dalla quale rischia di non venir fuori vivo, corvi e cani randagi
escono dai loro nascondigli, pronti ad approfittare a loro vantaggio della
situazione.
- Giovanni, il principe reggente, ha fatto in modo che si
diffondessero voci secondo cui il Re sarebbe gravemente malato, forse
addirittura morto. Riccardo non ha generato figli… Né principi né bastardi
reali: il suo seme è sterile, e quando morirà sarà suo
fratello a salire sul trono. Giovanni è un uomo ambizioso e privo qualsiasi
scrupolo. Non è molto amato dai suoi sudditi.
- Quindi s’impone che gli Inglesi
sappiano per certo che il re è vivo. E voi siete stato
incaricato d’appurarlo.
- E’ così. Il destino gli ha risparmiato la fine di
quell’altro idiota, il Sacro Romano Imperatore, morto annegato, trascinato a
fondo dal peso della sua armatura mentre guadava un torrente. Per adesso. Ma se l’assedio di San Giovanni d’Acri durerà ancora a
lungo, non gli risparmierà la peste, una febbre maligna o la punta di una
freccia piantata nel cuore. E il principe Giovanni non avrà più nessuno a cui render conto delle sue azioni.
***
Salah El Din lo guardò in silenzio tormentare con le dita
l’orlo del lungo mantello foderato di pelliccia. Era la verità, quella che gli
aveva raccontato, o una menzogna dietro la quale voleva nascondere qualcosa? Ma la menzogna è l’arma dei vigliacchi, si disse da sé solo,
e lui era abbastanza sagace da riuscire a distinguere un’aquila da una
cornacchia.
- Dunque, siete qui per constatare con di persona che il
vostro re è vivo… e per trascinarlo fuori dalla follia
nella quale si è invischiato?
- Follia. Avete detto bene. Scimitarre, spade e pugnali balenano
solo nelle canzoni di gesta: nella realtà, si limitano a ferire, sventrare,
squartare, mutilare, uccidere… E sono le nostre mani a guidarli. Mi rifiuto di
credere in un Dio che pretende questo da noi, in cambio del suo Paradiso. E neanche voi ci credete, Effendi.
Quell’uomo dall’espressione franca era riuscito a leggergli
nel pensiero. Chissà, forse era quello il motivo per cui
i suoi carcerieri lo chiamavano Shaitan. Demonio.
Non mancava molto al calar della notte, e il Rais
avrebbe chiesto ai suoi servitori di preparare un letto per l’infedele. Lì,
nella sua tenda. Perché, Effendi, pretendi
d’ospitare quello scorpione nel luogo medesimo dove dormi? Avrebbero discusso i
suoi ordini, e non sarebbe stato facile convincerli ad ubbidirgli. Ma, alla
fine, avrebbero fatto quel che lui voleva, perché sapevano che Salah el Din era
un uomo saggio e non lasciava niente al caso. Fosse
stato avventato e impulsivo, non sarebbe diventato colui che era, il Califfo
d’Egitto e Siria, la mano armata di Dio. Non fosse stato prudente come una
serpe, la lama di un coltello avrebbe già da tempo posto fine ai suoi giorni: e
non necessariamente sarebbe stata una mano cristiana a stringerne
l’impugnatura.
Salah el Din socchiuse i lunghi occhi malinconici. Forse era
scritto nelle stelle che il pugnale di un sicario avrebbe stroncato la sua
vita. Meno di un anno prima, la calotta d’acciaio che nascondeva sotto il
turbante lo aveva salvato. Ma il destino si può
imbrogliare una volta soltanto, pensò. E Hasan al
Sabah era un uomo perseverante.
***
- Voi siete in grado di scardinare i segreti di chi vi sta
di fronte. E’ per questo che vi chiamano Shaitan?
- Non sono uno stregone, Effendi. Semplicemente, ho
imparato a guardarmi intorno. E sono al mondo quel
tanto che basta da aver imparato come vanno le cose.
Quel tanto che bastava. Trenta, trentacinque anni al massimo. Era un
uomo attraente, senza tutti quegli stracci e quella
sporcizia addosso. I capelli, ancora umidi, sembravano più lisci e più scuri.
Era grande e poderoso, eppure riusciva a muoversi con leggerezza, quasi con
grazia. Come un leone. Salah El Din si soffermò a osservargli le mani. Palmi larghi e callosi, unghie
smozzicate. Una vecchia vera d’argento annerito dall’ossido all’anulare della
sinistra. Erano le mani di un uomo che faceva un
mestiere più onesto della guerra per guadagnarsi da vivere, le sue.
- Che cosa avete lasciato, per venire qui? E chi vi aspetta, quando… tornerete lassù?
Aveva un bel sorriso, denti squadrati e sani. Un sorriso che dalla
bocca non si irradiava agli occhi, come se qualcosa in
fondo al cuore gli pesasse o gli dolesse. Gli parlò di un vecchio castello
mezzo diroccato in Cornovaglia. Di un piccolo appezzamento di terreno dove
allevava cavalli. Non menzionò moglie e figli. Li aveva avuti, forse, e non li
aveva più. O, a dispetto di tutte le apparenze,
quell’uomo era un sodomita. Nonostante tanto la morale cristiana che quella islamica lo condannassero, il vizio della sodomia
prosperava ovunque, come la gramigna.
Il fumo acre del braciere
gli bruciava gli occhi e la gola. Portalo via, ordinò a
un giovane servitore. I caldi mantelli di pelliccia
sarebbero bastati a proteggere lui e l’infedele dal freddo della notte.
- E
così in Cornovaglia vi aspettano soltanto i vostri cavalli.
- Avevo una moglie e un
figlio, tanto tempo fa. Sono morti.
- Mi dispiace.
***
Salah el Din. Lo aveva immaginato diverso da quel vecchio dinoccolato,
col naso grosso e lo sguardo triste, quando per lui era soltanto un’entità
astratta che i suoi chiamavano il Nemico. Il Saladino. Colui che, nella gola di
Hattin, aveva sterminato senza pietà l’avanguardia dell’esercito cristiano. Il
Saladino. L’Anticristo dell’Apocalisse.
Probabilmente, sembrava più vecchio della sua età. Ma i suoi anni dovevano
essere ormai comunque quelli in cui la vita ripiega su se stessa e non si
desidera più la gloria, bensì gioie semplici: la compagnia degli amici, un libro,
una passeggiata tra le siepi fiorite di un giardino, con il cane fedele che ti
trotterella alle calcagna e un nipotino a cui raccontare favole per mano, le
piccole gioie allo portata di chiunque, ma non per
tutti. Non per chi è stato destinato dalla gloria a
un’immortalità, volente o nolente che egli sia. Poco doveva
importare a quell’uomo di combattere perché il nome di Dio pronunciato in una
lingua trionfasse su quello dello stesso Dio che i suoi fedeli chiamavano con
un nome diverso. E all’immagine di Salah El Din, Maximus vide
sovrapporsi quella di chi era stato il signore a cui
aveva giurato lealtà, un mare di secoli prima, un uomo che amava la pace ed era
stato costretto dalle circostanze a trascorrere sui campi di battaglia metà
della sua vita: Marco Aurelio Antonino, Cesare di Roma.
Un uomo fragile e malato, più vecchio dei suoi anni. Come quell’altro. Forse non avrebbe conosciuto la fine di quel
conflitto senza senso, voluto da chi non riusciva a credere che potesse esserci
pace, tra popoli che pregavano Dio con parole diverse. Da una parte e
dall’altra. Perché non vi era differenza alcuna tra i cavalieri Tafur e
i fanatici Fidawi di Hasan el Sabah, chiamassero
il loro dio come gli pareva.
- Effendi…
Erano tante le cose che
avrebbe voluto dirgli. San Giovanni D’Acri cadrà, Effendi. Ma questa guerra non saremo noi a vincerla.
- Volevate dirmi qualcosa, Sidi?
- Semplicemente chiedervi se fosse possibile liberare un prigioniero
cristiano e mandarlo in Inghilterra al posto mio. Io credo che potrei fare per
voi qualcosa di molto importante… A un patto.
Gli occhi di Salah el Din erano liquidi, dolci e scuri, occhi da
mistico e non da combattente. Per un istante, Maximus si sentì trapassare da
quello sguardo capace di leggergli dentro e percepì l’imbarazzo del rossore che
gli saliva dal collo alle guance. Lo stava giudicando
un fellone, capace di tradire la memoria di quei compagni che si erano fatti
massacrare per difenderlo? Lo stava giudicando capace di vendersi al nemico per
denaro?
- L’esercito crociato potrà anche vincere qualche battaglia, ma questa
guerra la perderemo, ed è giusto che così sia. In cambio di quello che sto per proporvi, vorrei strapparvi una promessa, Effendi:
la libertà, per i Cristiani, di recarsi a pregare a Gerusalemme. Mi sembra un
prezzo onesto da pagare.
- E voi quale contropartita offrite?
- La testa di Hasan al Sabah.
***
Il vento freddo della notte, che penetrava in refoli gelidi dentro la
tenda lo fece rabbrividire. Quell’uomo stava per chiedergli di barattare la
libertà per i correligionari di recarsi a pregare nei Luoghi Santi con la sua
morte. E lui non poteva accettare quel dono avvelenato che avrebbe riempito di incubi le notti che gli restavano.
Seminascosto dalle ombre, il prigioniero cristiano si gingillava con un
lungo pugnale, la cui lama d’acciaio azzurrastro balenava alla luce incerta
delle candele. L’arma, disse, dei sicari fidawi che avevano offerto al
Signore Hashishin la loro volontà, in cambio di un paradiso fittizio, convinti
com’erano che i giardini di Hasan al Sabah fossero l’Eden
promesso da Dio ai suoi devoti. L’arma con cui quegli assassini vi sgozzeranno come una capra nella Festa del Sacrificio, aveva
ribattuto Salah el Din.
Il Rais guardò il riflesso delle piccole fiamme frantumarsi in
un pulviscolo verde e dorato, dentro gli occhi trasparenti del suo
interlocutore, lo ascoltò ridere piano. Diverse volte, gli disse, mi avete
chiesto come mai gli scherani che mi tenevano le lance puntate contro mi chiamavano
Shaitan…
- La lama del coltello era affilata come un rasoio, Effendi. E la mano del carnefice non ha tremato. E’ questa la sola
ragione.
Lo avrebbe fermato, avesse immaginato quello che stava per fare. Ma il Crociato fu più rapido dei suoi pensieri. Folle, pensò
Salah el Din guardandolo inchiodarsi la mano al tavolo con il lungo pugnale
acuminato. Le dita gli si contrassero violentemente, mentre una smorfia di atroce, assoluta sofferenza gli sfigurava i tratti del
viso.
- Ancora la mia offerta non vi convince, Effendi?
Gli occhi verdeazzurri si piantarono nei suoi come chiodi, in attesa della risposta. No. La mia vita, su cui incombe
ormai l’ombra lunga dell’ala di Iblis[9] non vale neppure quella di un pazzo, Sidi. Non
sarò io l’alibi al vostro suicidio.
Avrebbe voluto parlargli, e si limitò a guardarlo estrarsi il pugnale
dalla mano e sollevarla verso la sua faccia, il sangue che gli ruscellava rosso
e copioso lungo il polso, andando a impregnare la
manica della djiellabah[10].
- La lama del coltello era affilata come un rasoio. E
la mano del carnefice non tremava. E’ per questo che
mi chiamano Shaitan. Io non posso morire, Effendi.
Lo sguardo di Salah el Din scivolò dagli occhi tristi alla grande mano dai palmi callosi. Quale trucco avete usato per estorcermi la vostra condanna capitale? pensò il Rais, non vedendo ferite. L’altro gli
sorrise. Voglio raccontarvi una storia, Effendi. E
si accinse a dirgli di un uomo che era stato contadino, soldato, generale,
schiavo, gladiatore e regicida, un male di secoli prima. Di un uomo che aveva
sacrificato la vita alla giustizia ed era stato richiamato indietro dall’aldilà
per opera d’amore e di magia.
(Continua)
Massimo l’Immortale |
[1] Non si tratta, come potrebbe sembrare, di latino
storpiato. Si tratta invece di francese antico.”Dio lo vuole” era il motto con
cui Pietro l’Eremita reclutava combattenti per la Guerra Santa, quando la
Chiesa bandì la Prima Crociata.
[2] Guerrieri turchi.
[3] Feudatario arabo.
[4] Nel mondo arabo, capo, guida, comandante.
[5] Con questo
nome, gli Orientali designavano genericamente gli Europei.
[6] Cavalieri che, colpevoli di gravi reati, sfuggivano
alla condanna arruolandosi nell’esercito crociato.Non avevano niente da perdere
ed erano famigerati per la loro crudeltà.Il loro contrassegno di riconoscimento
era una croce impressa a fuoco sul collo.
[7] Signore.
[8] Tunica leggermente imbottita che si
indossava sotto la cotta di maglia d’acciaio.
[9] L’angelo della morte.
[10] Sopraveste.