Storie de Il Gladiatore

Storie ispirate dal film Il Gladiatore

Lettura sconsigliata ai minori di anni 18

 Massimo l’Immortale

UMBRAS

(Ombre, mostri, in sardo)

 

Dopo quella che è stata per un lungo periodo di tempo la mia città di adozione, Genova, mi sembrava doveroso ambientare un racconto nella mia terra di origine e residenza, la Sardegna. La realtà che voglio descrivere, mescolandola alla fantasia, è quella di un paesino piccolo, sonnolento e pettegolo e, siccome non vorrei che qualcuno potesse riconoscerlo e crearmi problemi, mi limiterò a identificare con le sole iniziali i nomi delle località. Cosa che, del resto, faceva anche Manzoni. Comunque, a scanso di equivoci e malintesi, nomi e situazioni sono frutto della mia fantasia e qualsiasi riferimento alla realtà è puramente casuale.

 

OLIVIA

 

Sono io, quella. Il nome che mi porto appresso da trentasette anni era, come si usa dalle mie parti, quello della nonna paterna. Un nome tutt’altro che comune, a cui ho fatto fatica ad abituarmi e che, quando ero bambina, costituiva per i miei compagni di gioco il pretesto per canzonarmi. Olivia, come la fidanzata tutta piedi di Braccio di Ferro.

 

Adesso quei tempi sono acqua passata. Non ho ricordi molto felici della mia infanzia, e non certo per le prese in giro degli altri ragazzini, che da un orecchio mi entravano e dall’altro mi uscivano. Mia mamma, che non aveva mai avuto molta salute, morì quando avevo nove anni soltanto. Ne avevo dodici quando mio padre si risposò, e il mio destino sarebbe stato quello di essere sottratta alla scuola dopo il conseguimento della licenza media per far da bambinaia ai fratellini che sarebbero arrivati. La prospettiva non mi sorrideva: mi piaceva studiare, e, secondo la migliore tradizione, non andavo d’accordo con la mia matrigna. E’ anche per questo motivo che continuo a considerare la zia Maria il mio angelo.

 

Zia Maria, la sorella maggiore di mia madre, non si è mai sposata e molti in paese trovano alquanto strana la faccenda: da giovane, lei non era certamente quella che si definirebbe una bellezza, ma non era neanche brutta, e aveva un discreto conto in banca incrementato dalla vendita di alcuni terreni lottizzabili ereditati da uno zio prete. Ma ritenendo incompatibili la professione, che esercitava con zelo missionario e l’essere una buona moglie e una buona madre, aveva rinunciato a crearsi una famiglia tutta sua. In paese, per tutti zia Maria è sempre stata la Signorina Maestra, colei che, prima del pensionamento dopo quarant’anni di onorato servizio, aveva instradato sulla via del sapere generazioni di ragazzini. Una di quelle maestre di una volta con il grembiule nero, la permanente coi ricci, dolce, ma al tempo stesso ferma e anche severa, all’occorrenza, che non te la dimenticheresti campassi mille anni e nel cuore dei bambini occupa il secondo posto, subito dopo la mamma.

 

E per me che l’avevo perduta, zia Maria è stata davvero come e più di una mamma. Conosceva bellissime storie, e aveva in mente di raccoglierle in un libro. Tutte le sere, finito di cenare, si metteva davanti alla macchina da scrivere e scriveva, scriveva, picchiando i tasti con due dita solamente. Scriveva di orchi e di fate, di creature benevole e di mostri. Scriveva le storie che, bambina, aveva ascoltato dai vecchi seduti davanti al portone di casa nelle sere d’estate e davanti al caminetto quando scendeva l’inverno e il vento di maestrale soffiava gelido dalle montagne spazzando le strade e ululando come “s’Erkidu”, l’uomo toro che nel silenzio della notte scalpita e muggisce davanti alla porta di chi, l’indomani, morirà.

 

Ai bambini, e anche ai grandi, piacciono le storie che fanno paura. Zia Maria aveva un modo tutto particolare di raccontarle, forse perché era una persona istruita, non era mai stata superstiziosa e guardava a storie e personaggi con l’interesse un po’ asettico della studiosa. E’ per questo che, più ancora dei suoi, mi affascinavano i racconti di tzia[1] Peppa, la donna di servizio che stava a casa nostra da tempo immemorabile. Era bravissima in cucina, molto devota a sant’Ignazio e alla Vergine di Bonaria e brontolava spesso e volentieri. Non le avrebbe mai messe per iscritto, le sue storie, poiché credo che sapesse a malapena scrivere la sua firma. Ma se ne serviva quando voleva mettermi paura, perché non riusciva a rendersi conto che non ero più una bambina, per lei tale ero e tale sarei rimasta chissà per quanti anni. Io non ho paura di niente, le avevo gridato una volta esasperata. Lei si era segnata e mi aveva sussurrato, senza scollarmi gli occhi di dosso, “Ki no timmisi s’aremmigu estij sinnabi malu, picciocchedda.”[2] dopodiché  era tornata alle sue faccende.

 

E’ passato tanto tempo da allora. Tzia Peppa non sembra aver capito ancora che non sono più una bambina. A settant’anni suonati, è attiva come vent’anni fa e c’è soltanto qualche ruga in più sulla sua faccia rotonda e rossa.  Neanche zia Maria è cambiata più di tanto. Ora che è in pensione, ha più tempo per scrivere e il suo argomento preferito sono le tradizioni locali, naturalmente. Ha cambiato la vecchia macchina da scrivere con un computer portatile che, dice, le semplifica di molto il lavoro; è una vera esperta del nostro folklore, ha perfino pubblicato un paio di libri in merito, con la benedizione del Sindaco e della Pro Loco e, a livello locale, viene considerata una vera autorità, la chiamano a tenere conferenze in tutto il circondario.

 

In verità, l’unica ad essere cambiata sono io. Non sono più una bambina, tzia Peppa pensi quello che vuole, tra poco non mi si potrà più definire nemmeno ragazza, anche se non sono sposata, proprio come la donna che mi ha cresciuta e della quale, in un certo senso, ho ereditato la professione. Già, perché insegno anch’io. Non alle elementari, sono docente di latino e storia all’Istituto Magistrale, adesso lo chiamano Liceo Pedagogico, di un grosso centro che dista qualche chilometro dal paese dove vivo. Il mio lavoro mi piace, anche se mi sorprendo spesso a brontolare contro gli alunni sempre più svogliati e il governo sempre più disattento ai nostri problemi. Come tutti coloro che hanno scelto il mio mestiere.

 

Chi mi conosce, mi considera carina e in gamba. Ritengo che le anziane, qui in paese, pensando a me si domandino spesso se non farò la fine di mia zia, visto che a trentasette anni ancora, beh… Ho avuto le mie storie, più o meno importanti, ufficiali e clandestine. Un fidanzato, che ho lasciato dopo cinque anni, quando ormai tutti davano per scontato il nostro matrimonio. E un uomo più grande di me, sposato, dal quale ho sperato invano, per il poco tempo in cui siamo rimasti insieme, che lasciasse la moglie per costruire una vita con me, anche se sapevo per certo che non l’avrebbe fatto mai.

 

Come sono? Piccola, bellina e sentimentale. Ho i capelli bruni e ricci, che ho sempre portato lunghi, gli occhi scuri, la bocca delicata e i denti bianchi: un tipo di donna che è molto comune incontrare da queste parti e magari immaginare vestita con qualcuno dei nostri fastosi costumi con il corsetto a ricami floreali e l’orlo della gonna a pieghe rifinito di pizzo dorato. In fondo a qualche cassetto ci sono ancora un paio di vecchie foto che mi ritraggono vestita così. Anche se non mi ci ritrovo: io sono diversa, una donna di questi tempi che lavora, viaggia, frequenta amici.Quello che sognavo di essere già da bambina, quando Peppa credeva di mettermi paura con le sue storie e io, screanzata, le ridevo in faccia.

 

Ci crede sempre, penso, anche se non ne parla più. E io invece gliene parlerei, adesso, anche se temo che questa volta sarebbe lei a ridere di me, se sapesse… Una volta, tanti anni fa, mi aveva raccontato la storia di un uomo che perse la sua anima dopo essersi innamorato di una jana[3].  E non immaginerebbe mai, povera donna, che anch’io ho varcato quel confine, eluso quel divieto, amato, senza saperlo, qualcuno che non era ciò che sono gli altri uomini. Ma l’anima non l’ho perduta, nel momento in cui abbiamo cercato conforto l’una nell’altro e ci siamo amati. Non l’ho perduta. Di questo ne sono sicura.

 

S’ISTRANGIU

(Il forestiero)

 

E’ capitato in circostanze banali, due anni fa, verso la metà di novembre. Era martedì, avevo, come al solito la mattinata libera da impegni scolastici, ma il preside aveva fissato per le tre pomeridiane la riunione di consiglio di classe. Decisi di scendere a S.G., il grosso centro dove insegno, per fare un po’ di spesa e portare Stella dal veterinario, per il richiamo annuale delle vaccinazioni. Avevo fretta, ma speravo che l’incombenza non avrebbe portato via molto del mio tempo invece… Invece trovai la fila davanti alle casse al supermercato e la fila all’ambulatorio. C’erano una decina di persone, prima di me, e un paio di quei rompiscatole di rappresentanti che entrano quando meno te l’aspetti e passano davanti a tutti.

 

Ammazzavo il tempo grattando la testa ispida di Stella e buttando l’occhio ora sui clienti in sala d’aspetto, ora sulla porta chiusa dell’ambulatorio, domandandomi quando si sarebbe aperta e guardando nervosamente ora il mio orologio ora quello appeso alla parete. Mi si rimprovera spesso di non avere pazienza o, forse, quella poca che ho la esaurisco a scuola, con i ragazzi. E detesto, più d’ogni altra cosa, aspettare il mio turno in fondo a una coda che non finisce mai, specialmente quando ho fretta. Era mezzogiorno e mezzo e mi avrebbe fatto piacere rientrare a casa, depositare il cane e buttar giù un boccone, prima di rimettermi in macchina per andare a scuola.

 

Stella se la dormiva tranquilla, con la testa appoggiata alle mie ginocchia. L’avevo trovata quattro anni prima, di ritorno dal lavoro, abbandonata lungo il ciglio della strada. Allora era un cucciolo di tre o quattro mesi, ma aveva fatto in fretta a crescere, trasformandosi nella classica bastardona col pelo ispido dal colore indefinibile, un orecchio su e uno giù, la coda sempre in movimento, un carattere d’oro e una bruttezza senza remissione. Tutti le eravamo affezionati, perfino Peppa, che non aveva mai amato gli animali e, a sentir lei, accoppava a sangue freddo conigli e galline da quando era una ragazzina alta così.

 

-Signorina Marras…[4]

Il nostro turno, finalmente. Per poco non feci in tempo neppure a pensarlo, altro che ad alzarmi dalla scomoda sedia di plastica sulla quale me ne stavo seduta da poco meno di due ore. Prima di poterlo fare, vidi un uomo fiondarsi in sala d’aspetto, quindi nell’ambulatorio senza rispettare il suo turno. Mi sarei messa ad imprecare come un facchino, non me l’avesse impedito la creanza. Quella, e il grosso fagotto inerte che l’uomo teneva tra le braccia, avvolto in una coperta chiara macchiata di sangue.

 

Venne fuori dopo mezz’ora, e senza fagotto tra le braccia, pensai tristemente. Ero a testa bassa quando ci incrociammo mentre io entravo e lui usciva e quasi non lo vidi. Notai solo i capelli lunghi, raccolti a coda sulla nuca, gli occhiali scuri e il giubbotto nero da motociclista. Stella, che è molto socievole anche con gli sconosciuti, gli elargì due scodinzolate e ne ebbe in cambio una frettolosa carezza. Il suo cane doveva essere uscito malconcio da qualche incidente stradale, pensai. E il veterinario, per evitargli inutili sofferenze, lo aveva addormentato per sempre.

 

Il dottor Pais, un uomo anziano grasso e cordiale, ostentava un’espressione preoccupata che non era quella consueta. Pur non riuscendo a capire perché, feci due più due uguale quattro e collegai la sua tristezza al fatto che avesse dovuto abbattere il suo paziente. Non dev’essere una decisione facile da prendere, questo l’ho sempre pensato. Dopo che ebbe praticato l’iniezione a Stella, applicato i timbri sul libretto sanitario e intascato l’onorario, mi salutò senza scambiare, come di consueto, le solite quattro chiacchiere su com’è cambiato il tempo e sugli studenti che, al giorno d’oggi, non sono più quelli di una volta. Gliene fui grata, avevo fretta anch’io.

 

Lo vidi appoggiato ad una Land Rover nuova di zecca fumarsi la sigaretta fino al filtro e lo salutai, anche se non l’avevo mai visto prima, quindi non potevo dire di conoscerlo. Neppure ricordo quale scusa inventai con me stessa per aspettare che montasse sul suo fuoristrada prima di salire sulla mia Seicento. Portava un paio di occhiali a fascia dalle lenti scure che con tutta probabilità gli nascondevano gli occhi arrossati dal pianto. Molti uomini grandi e grossi piangono quando gli muore il cane, e lui doveva essere di quelli. Per il resto, boh… Aveva i capelli lunghi non troppo scuri, un filo di barba, l’abbigliamento e l’atteggiamento dei ragazzi che amano le grosse moto, frequentano i concerti rock e non disdegnano uno spinello fumato in compagnia. Non aveva la tipologia fisica che comunemente si attribuisce al sardo, ma perché non poteva esserlo? I tempi sono cambiati, le distanze si sono accorciate, le stirpi mescolate e anche al mio paese e nella mia scuola molti giovani ormai sono alti e chiari, invece che piccoli e scuri come i loro genitori e i loro nonni. Giovani, già. Quello però doveva avere almeno trent’anni, non diciassette, diciotto come i miei studenti.

 

Eppure, c’era qualcosa in quell’uomo dall’aria triste e dai tratti stranieri che m’incuriosiva e m’inquietava. Me ne andai solo dopo che lo sentii mettere in moto la sua auto. E dopo che ebbi raccattato da terra un portafogli che, con ogni probabilità, era scivolato fuori proprio dalla tasca posteriore dei suoi blue jeans.

 

IL PORTAFOGLI

 

Non avevo potuto restituirglielo nel momento in cui l’avevo trovato, visto che l’uomo era ripartito per tornarsene a casa e cercare di farsi, in qualche modo, una ragione del dolore che la perdita del suo amico gli aveva provocato. Meglio, pensai, chissà perché. Più o meno inconsciamente, il forestiero mi incuriosiva, e quella della restituzione del portafogli poteva essere un’ottima scusa per rivederlo e magari conoscerlo davvero. Perché, poi, non lo so. Non l’avevo visto che per pochi secondi e di sfuggita; doveva essere indubbiamente quel che si suole definire un bel ragazzo, ma non era il mio tipo. L’abbigliamento estroso e trasandato, i capelli lunghi li tollero solamente nei cantanti rock, e poi preferisco gli uomini maturi, quelli abbondantemente sopra i quaranta.

 

Che ora abbiamo fatto? L’una esatta. La riunione è alle tre, casa mia a una decina di chilometri da qui… Non c’è tutta quella fretta. Prima di mettere in moto, aprii il portafogli per dare una sbirciatina al contenuto e vagliare quegli elementi che mi avrebbero aiutata a restituirlo al proprietario. Conteneva esattamente quanto mi sarei aspettata, la patente di guida, un paio di biglietti da visita, la Mastercard e pochi spiccioli. Carino, pensai osservando la fototessera sulla patente. Lì aveva i capelli più corti, e gli occhi grandi e malinconici mi sembrarono chiari, anche se era difficile dirlo con certezza. Si chiamava Max Dacey Merrit ed era nato a Galway, Repubblica d’Irlanda, il 7 aprile 1966.

 

Che cosa ci facesse un irlandese dalle mie parti non me lo domandai a lungo, perché la risposta la ebbi sbirciando il suo biglietto da visita, un semplice cartoncino beige elaborato al computer e stampato con una comunissima inkjet. Max D. Merrit, località Pranu ‘e Jana, V. Seguivano il numero di telefono, quello del cellulare e l’indirizzo e-mail.

A Pranu ‘e Jana c’era una vecchia casa colonica mezza diroccata che i proprietari, residenti ormai da decenni a Cagliari, si erano decisi a vendere, insieme con i terreni circostanti. La transazione era avvenuta meno di un anno prima e i lavori di ristrutturazione iniziati immediatamente e portati a termine nel giro di pochi mesi. In paese dicevano che il nuovo proprietario avesse in animo di inaugurare un’azienda agrituristica e la notizia era stata accolta con favore dai molti disoccupati che speravano in un’occasione di lavoro. Parecchia gente, al mio paese, vive sperando e quando si accorge che di speranze non si campa allora emigra. Controvoglia, perché noi sardi siamo legati alla nostra terra da profonde radici, che è difficile estirpare senza sentire dolore.

 

Nessuno sapeva chi avesse comprato la cascina di Pranu ‘e Jana, né che cosa intendesse farne. Qualcuno aveva visto movimento di mezzi, uomini e cavalli, un paio di settimane prima, quindi nelle botteghe, dal barbiere e la domenica prima della messa aveva cominciato a circolare la voce che il proprietario fosse un inglese interessato all’allevamento dei cavalli. Poteva anche essere. L’importante, chiunque sia e qualsiasi cosa faccia, è che assuma qualche ragazzo, qualche padre di famiglia alla disperazione. Dalle mie parti, in genere gli uomini sono pastori e agricoltori, e molti di loro ci sanno fare sul serio, con i cavalli.

 

A quest’ora si sarà sicuramente accorto d’aver perso il portafogli, e sarà quantomeno preoccupato, niente è seccante come smarrire documenti e carta di credito, poi è capace che, essendo straniero, lui non sappia neppure dove andare a parare… Poveretto. Rassicuriamolo, pensai cavando fuori dalla borsetta il mio portatile. Ho trovato il suo portafogli, signor Merrit. L’ho qui con me e glielo porterò oggi stesso, non appena riuscirò a liberarmi dai miei impegni di lavoro… Trattenendo il fiato, cercai di richiamare alla memoria tutto l’inglese studiato a scuola. Mi raccomandai l’anima a Dio e composi il suo numero.

-Hallo Mr Merrit? It’s miss Marras. I found your wallet, and…

-Sì?! Fantastico. Lo sa che stavo per bloccare la carta di credito? Neanche immagina quanti fastidi mi ha risparmiato…

Disse esattamente quel che mi aspettavo. Ma non come me lo aspettavo: in un italiano pressoché perfetto e quasi completamente privo delle inflessioni britanniche che era lecito attendersi. La voce lenta, grave, impostata come quella di un attore di teatro, poi, era bellissima, la più bella che avessi mai sentito, nemmeno i sibili, i fruscii e gli schiocchi del mio cellulare quasi scarico riuscivano a rovinarla. La riunione di consiglio di classe mi era sembrata terribilmente lunga, quel pomeriggio.

 

PRANU ‘E JANA

(Piano della fata)

 

Inventai una scusa con il preside e i colleghi, e riuscii a guadagnare una decina di minuti. La strada dal centro dove insegno al mio paese è abbastanza trafficata, e avrei dovuto percorrere, una volta arrivata a casa, un altro paio di chilometri di strada bianca prima di giungere a Pranu ‘e Jana.

 

Generalmente guido con prudenza e non mi piace correre. Quel giorno superai i cento e ancora adesso mi domando come ho fatto. Quando giunsi nei pressi dei cancelli, notai che l’edificio era stato ristrutturato in modo tale da non stravolgere le sue caratteristiche originarie. Bel lavoro, pensai. E pensai anche che, se fosse finito nelle mani di qualche cafone arricchito locale, sicuramente sarebbe stato trasformato in uno dei molti obbrobri architettonici che infestano centri abitati, campagne e spiagge, minacciando seriamente di deturpare la bellezza austera della nostra terra.

Scesi dall’auto e fui assalita dai latrati violenti di due cani, due grossi lupi, che si lanciavano contro il recinto e ringhiavano mostrandomi i denti. Colui che venne ad aprirmi dopo aver ammansito le belve aveva l’aspetto di un nordafricano e qualche volta mi era capitato di incontrarlo nella bottega di generi alimentari o dal panettiere. Aveva fatto da poco la sua comparsa in paese e non avevo idea che lavorasse qui. Mi invitò a seguirlo, spiegandomi in un italiano incerto che il signor Merrit mi stava aspettando e rassicurandomi a proposito dei cani.

 

-La signorina… Marras mi pare?

Indossava un paio di jeans scoloriti, una polo nera a maniche corte, e si cacciava continuamente indietro con gesti nervosi delle mani i capelli che, sciolti questa volta, gli arrivavano alle spalle.

-Si accomodi dove le pare, e scusi il disordine, è solo quindici giorni che sto qui e ancora non ho potuto sistemare tutto.

Ancora una volta mi stupii del suo ottimo italiano e di quanto fosse ammaliante la sua voce calda e profonda.

Disordine ce n’era parecchio davvero, lì dentro, e anch’egli mi sembrò… molto attraente e molto disordinato, come se in lui ci fosse qualcosa fuori posto. O forse era proprio lui ad essere fuori posto, un irlandese che parlava l’italiano meglio degli italiani e che all’inserviente marocchino si rivolgeva addirittura in arabo. Doveva essere particolarmente versato per le lingue, contrariamente a quanto accade di solito agli anglosassoni. Forse le aveva apprese viaggiando e soggiornando a lungo all’estero… Ma per averlo fatto davvero avrebbe dovuto avere un numero di anni molto superiore ai trentatré denunciati dai suoi documenti.

 

Quando gli allungai il portafoglio mi sorrise e le sue dita sfiorarono le mie. Gli sorrisi di rimando e pensai che, con quei capelli che gli ruscellavano giù per le spalle, la barbetta che gli incorniciava le mascelle forti e il mento volitivo e, soprattutto, gli occhi azzurri dall’espressione dolcissima, rassomigliava a un Cristo rinascimentale. Era alto, anche se avevo conosciuto uomini più alti di lui. Mi colpirono la prestanza del suo corpo, le spalle larghe, le braccia muscolose che la maglia a mezze maniche non nascondeva. Non avrà freddo, così sbracciato, in fondo è novembre, pensai stringendomi nel mio caldo maglione di lana. Sicuramente è abituato a climi ben più rigidi di questo, mi risposi da sola.

Emanava odore di sapone di Marsiglia e un’aura irresistibile di seduzione di cui mi domandai se si rendesse conto. Probabilmente sì, anche se non lo dimostrava: se avesse cominciato a circolare a V., sicuramente le donne avrebbero impiegato poco tempo a notarlo e i ragazzi a detestarlo.

 

Ho detto che mi ricordava un Cristo rinascimentale, per via dei capelli lunghi, della barba e degli occhi azzurri e dolci. Ma a guardarlo bene, quest’impressione svaniva. Troppo sensuale e seduttivo, una creatura fatta al tempo stesso di carne e di magia, come gli esseri di cui mi raccontava tzia Peppa quando ero bambina. Come la jana che aveva dato il nome alla località dove mi trovavo in quel momento e che, secondo una leggenda, aveva portato alla follia e alla morte l’uomo che aveva avuto la sventura d’innamorarsene.

 

-Le dà fastidio se fumo?

-Non si preoccupi, signor Merrit…

-Max. E lei?

-Olivia.

La mano che teneva la sigaretta gli tremò per un attimo lungo il tempo di un battere di ciglia e un brivido che non mi sfuggì gli attraversò la pelle. Forse aveva freddo, anche da noi a novembre non è il caso di girare a maniche corte, pensai. Ma gli fui grata che l’avesse fatto. Quella notte, decisi che avrei sognato di dormire stretta tra le sue grosse braccia.

 

-Sta a S.G.?

-No, abito a V. A S.G. lavoro.

-Dal dottor Pais? Dal veterinario?

-No, insegno in una scuola. Latino e storia al liceo.

Un largo sorriso gli illuminò il volto dai tratti regolari, quasi delicati. Quando sentenziò un “notevole” si sentiva che le sue non erano vuote parole di circostanza. Volle sapere se i miei alunni mi seguivano con interesse e io, scotendo la testa con espressione di esagerata mestizia, fui costretta a deluderlo. I ragazzi di oggi non sono molto interessati al passato, gli dissi.

-Eppure, ero convinto d’averla incontrata stamattina all’ambulatorio veterinario. E anche di averlo perso lì, il fottuto portafogli... Oh, mi scusi, miss.

-Effettivamente. Avevo la mattinata libera da impegni scolastici, e ho portato il mio cane dal veterinario per il richiamo delle vaccinazioni. A proposito… Mi dispiace per quel che è successo al suo. Immagino come ci si possa sentire.

-Non era il mio cane… Olivia. Era semplicemente una povera bestia che qualcuno ha investito e poi è scappato. Ma sarei stato felice se fossi riuscito a salvarlo, invece…

 

Lo guardai mordersi le labbra, contrarre nervosamente la mascella, come se avesse qualcosa da dirmi ma non osasse farlo. Trovai meraviglioso che quell’uomo avesse perso il suo tempo per soccorrere un povero randagio investito da un’auto pirata, il suo denaro per cercare di salvarlo. La sorte dei cani randagi mi commuove e mi indigna da quando ero alta così. Forse perché anch’io, da bambina, mi sono sentita abbandonata, da mia madre, dal destino, da chi non importa.

 

-Venga con me.

Avrei voluto dirgli mi dispiace, ho fretta, sono le sei passate e detesto guidare con il buio, anche se da qui a casa mia ci saranno al massimo un paio di chilometri. Arrivederci, Mr Merrit, è stato un piacere conoscerla. Ma non dissi nulla, e lo seguii fuori. Si era gettato sulle spalle un giubbotto di tela cerata che, ai miei occhi, lo faceva rassomigliare a un navigatore solitario. Beh, doveva essere abituato a guardare in faccia e a prendere a pugni le difficoltà che incontrava strada facendo, compresa quella di venirsene a stare qui, lui, uno straniero, in un paesetto della Sardegna lontano dalla città, dal mare, dai flussi turistici, da tutto quanto. Per fare che cosa? In Irlanda allevava cavalli, mi disse. Era interessato alla nostra bella razza, animali agili, nevrili, nelle cui vene scorre il sangue dei campioni inglesi e arabi. Aveva già acquistato cinque giumente.

-Voglio farle vedere una cosa.

Mi ricordò un bambino che mostri entusiasta ad un adulto i suoi giocattoli nuovi.

-Non si avvicini troppo… Non è tagliato.

Già. Si dice che i cavalli non castrati siano imprevedibili e pericolosi. Forse anche quello lo era. Un bellissimo animale, nero come la notte. I manti morelli sono piuttosto rari, sentenziò. E quelli così lucidi e perfetti, quasi unici.

-Lei che nome gli darebbe?

Non ci pensai più di tanto. Ossidiana. La pietra vulcanica nera e tagliente come vetro con cui i miei antenati forgiavano le lame, prima d’imparare l’arte di fondere i metalli.

 

Mi avviai verso il cancello, affiancata da lui e preceduta dai suoi cani. Agili e guizzanti come spiriti della notte, sembravano due lupi. Il lupo non è un animale dei nostri boschi, in Sardegna non ce ne sono mai stati. Forse è per questo motivo che le vecchie sono state costrette ad inventarli loro, i mostri per mettere paura ai bimbi capricciosi, su mommotti, sa palpaeccia, sa mamma e funtana[5]

C’era qualcosa di primitivo, ancestrale in quei due animali agili e snelli, che si rincorrevano nella luce bassa del crepuscolo per poi fermarsi ad aspettare il loro padrone. Non mi sembrano due pastori tedeschi, domandai al mio interlocutore temendo di fare la figura della stupida. No, non lo sono, rispose lui. Mi sono sempre piaciuti i cani che rassomigliano ai lupi ma trovo che i pastori tedeschi siano animali troppo manipolati dall’uomo. Questi sono Saarloos wolfhounds e discendono dal frutto dell’esperimento di un veterinario olandese che, anni or sono, incrociò un cane con una lupa. L’uomo ha sempre incrociato cani e lupi, da che il mondo è mondo. Nell’antica Roma, la prassi era comune.

-Si chiamano Caesar e Cleo.

Mi disse allungando loro una carezza. Li avrei accarezzati anch’io, mi fossi fidata di loro: ma erano animali d’una quarantina di chili, forti e risoluti. E non trovavo rassicurante il loro aspetto selvaggio.

 

-Lei deve amare molto gli animali.

Annuì, con un breve cenno di assenso. Quindi, prima che potessi salire sulla mia auto, mi afferrò per un braccio e, senza staccare i suoi occhi dai miei, mi disse a bassa voce:

-Quel cane che ho portato stamattina dal veterinario… Beh, aveva il bacino e la colonna vertebrale fratturati. Penso che sia stato investito da qualcuno che poi ha tagliato la corda. Succede.

Già, succedeva e succede. Gli occhi di Mr Merrit continuavano a fissarmi, addolorati e furiosi, scintillanti come fuochi fatui.

-Ma c’è dell’altro. Quel cane era un pitbull. Guercio, con un orecchio sbrindellato, pieno di vecchie cicatrici e ferite recenti, alcune ancora fresche. Morsi, miss. Da queste parti qualcuno organizza combattimenti clandestini di cani.

 

FESTA DI NOZZE

 

Il giorno seguente al nostro primo incontro mi fece recapitare un’orchidea e un grazie scritto sopra uno dei suoi biglietti da visita. Peccato, pensai, che non fosse una rosa. Detesto le orchidee, le loro forme bizzarre e asettiche, il fatto che non emanino alcun profumo. Ma il pensiero era stato gentile da parte sua, e mi aveva resa felice. Peppa mi chiese se avessi un nuovo corteggiatore, e io facendo finta di non notare il suo sorriso largo fino alle orecchie, frugai dentro la borsa alla ricerca del cellulare. Il suo numero era rimasto in memoria, per fortuna. Gli mandai un sms per ringraziarlo e dirgli che non si sarebbe dovuto disturbare, restituendogli il portafogli non avevo fatto altro che il mio dovere.

 

Per un paio di giorni, non pensai più a lui, anche se avevo deciso che avrei conservato in mezzo a un libro la sua orchidea, quando si fosse seccata. In fondo, sono rimasta una ragazzina sentimentale.

 

Lo incontrai di nuovo un sabato di fine mese, dove mai avrei immaginato. Si sposava la figlia del più grosso proprietario terriero di V., uno che in banca aveva i miliardi. Ero stata invitata e andai, anche se ne avrei fatto volentieri a meno. Sapevo che sarebbe stato il solito matrimonio della gente ricca e cafona, con una torma di invitati sbracati, di mocciosi urlanti e il contorno delle sbronze, dei discorsi senza capo né coda, dei coretti “e per gli sposi, hip hip hurrà” e degli scherzi volgari. Qualcuno ci si diverte, io invece non amo queste cose. Ero stata invitata perché madrina di cresima di una sorellina della sposa e proprio non potei farne a meno, offendere Totore[6] Collu e il suo clan era affar serio… Ci andai, a parte gli scherzi, sapendo che mi sarei annoiata e riproponendomi di tagliare la corda appena possibile. Come se non bastasse, avevo le mestruazioni, mi ero beccata una congiuntivite che mi costringeva giocoforza a rinunciare al trucco e alle lenti a contatto, quindi quella sera non sarei stata al culmine del mio fascino. Detesto portare gli occhiali e fuori casa non lo faccio mai, anche se spendo un sacco di soldi in montature all’ultima moda che mi stanno pure bene, a detta dei più. Mi sembra che mi conferiscano un’aria da maestrina saputella. Ma tanto non avrei dovuto affascinare nessuno, alle nozze di Barbarina Collu.

 

Quando lo vidi da lontano, con i capelli raccolti sulla nuca e l’abito blu di sartoria che indossava con il piglio di un principe, prima di maledire gli occhiali e la congiuntivite, prima di pregare il Cielo che non mi notasse, mi domandai che cosa ci facesse anche lui lì. Poi ricordai che la sua proprietà confinava con quella di Totore Collu: era stato invitato in quanto vicino di casa.

 

Che non mi vedesse era da parte mia una piissima illusione. Mi puntò da lontano, mi venne incontro sorridendo e mi costrinse a sedersi vicino a lui. Così mi terrà compagnia, qui dentro non conosco nessuno.

-Oggi è veramente carina, Olivia.

Giuro che l’avrei strozzato. Ho i lineamenti marcati e i colori decisi delle donne della mia terra, quindi anche senza trucco non sembro particolarmente scialba. Di solito. Ma non quando devo portare gli occhiali perché costretta dalla congiuntivite, per esempio. O quando sono afflitta dalle mie tormentose mestruazioni che mi costringono a imbottirmi di analgesici per reggermi in piedi. Disturbi di origine psicosomatica, hanno sentenziato i molti ginecologi che mi hanno visitata. Dovresti prendere marito e fare un figlio: guariresti. Era la solfa che tzia Peppa mi ripeteva tutti i mesi. Ma i complimenti che il bell’irlandese mi elargiva con la sua dolce voce ipnotica e il suo sorriso da bambino discolo mi facevano piacere: fossero o non fossero sinceri. Anche perché adoravo vederlo sorridere e sentirlo parlare.

 

Fu grazie a lui se quella sera non mi annoiai, nonostante i presupposti ci fossero tutti. E fu piacevole sentirsi addosso le occhiate invidiose di tutte le donne presenti, compresa la sposa, bassotta, grassottella, con quel vestito dalla gonna a mongolfiera grondante pizzi e trine che doveva essere costato un patrimonio e non le donava affatto. Mi ritrovai per un attimo a pensare che non mi sarebbe piaciuto proprio, un matrimonio chiassoso, volgare e sbracato come quello. Se mai mi fossi maritata: avevo quasi perso le speranze e, dopo aver lasciato il mio fidanzato storico e l’uomo sposato sempre in bilico tra amore e dovere, l’idea del matrimonio non mi sorrideva affatto. Forse avevo, come zia Maria, la vocazione della zitella.

 

-Mi accompagna fuori?Avrei voglia di fumare e qui non si può.

E io avrei avuto voglia di fargli la predica, il fumo fa male, accorcia la vita… Come se la sua vita fosse mia, o Max fosse qualcuno dei miei alunni ancora minorenni a cui fare la ramanzina. Ma lo accompagnai ugualmente fuori a fumarsi la sua piccola dose di veleno e a prendermi tutto il freddo di quella serata di fine novembre spazzata da un maestrale gelido e forte.

 

Era elegantissimo, nel suo completo blu scuro. Portava la camicia, azzurra come i suoi occhi, aperta sul collo. Mi confidò che non metteva la cravatta neanche nelle occasioni più formali. Neanche il giorno che si sposerà? Lui piegò all’ingiù le labbra e si strinse nelle spalle. Poi mi disse:

-Posso darti del tu, Olivia? - Accennai di sì con la testa e non gli dissi che non aspettavo altro.

 

-Ho mangiato ottimamente, bevuto anche meglio e… e mi sarei annoiato a morte, non fosse stato per te. Grazie, Olivia.

Allora poteva sembrarmi assurdo, o dettato comunque da motivi che ancora non conoscevo, ma il modo in cui pronunciava il mio nome mi faceva sentire i brividi fin dentro le ossa. Percepivo, nel suono della sua voce, desiderio che non osava esternare per la paura di offendermi, chissà, una dolcezza struggente e un dolore che niente e nessuno poteva lenire. Era un uomo strano: gli piaceva godersi la vita, al banchetto di nozze aveva dimostrato di essere un gagliardo mangiatore e bevitore, quasi sicuramente era anche un gagliardo amatore, e non mi sarebbe affatto dispiaciuto appurarlo… Eppure il sorriso che spesso gli accendeva lo sguardo intenso si convertiva in malinconia senza una causa apparente, per me che non lo conoscevo abbastanza da poter leggere nei suoi pensieri.

 

-Torniamo dentro?

Scossi la testa in un cenno di diniego. Non volevo, e neanche lui. La gente avrebbe mormorato, e chi se ne importava. Piuttosto, faceva freddo e la giacca che indossavo sopra una camicia di seta bianca e pantaloni ampi di velluto non mi proteggeva abbastanza. Lui, invece, nonostante avesse addosso più o meno lo stesso quantitativo di indumenti che avevo io, sembrava non sentire il fendente del vento che a me tagliava la faccia.

-Vieni con me, se non vuoi ancora rientrare.Almeno possiamo stare caldi e chiacchierare un po’.

Mi fece accomodare sul suo grosso fuoristrada che odorava di verbena, buccia d’arancia e pelo di cane. Notai una sella e finimenti borchiati, sul sedile posteriore. Un giorno, gli avrei chiesto se fosse disposto a insegnarmi a cavalcare: è da quando ero bambina che lo desidero. Perché non allora? Lui mi aveva passato il braccio intorno alle spalle, e mi stringeva piano, quasi a proteggermi da chissà che cosa. Aveva una muscolatura forte e un sentore impercettibile di sapone al sandalo. Non usava profumi. Quando mi chiese se avessi un chewing-gum da offrirgli, temetti, o m’illusi, che intendesse baciarmi e voleva che il suo bacio sapesse di menta piuttosto che di gamberi, vino e grasso di maialetto arrosto. Ma non lo fece.

 

Non avevo notato, prima, il minuscolo brillante che gli scintillava al lobo dell’orecchio sinistro. Come non avevo notato le quattro sottili cicatrici parallele sul collo. Aveva una bella carnagione, chiara e compatta, segnata da qualche ruga d’espressione sulla fronte e agli angoli degli occhi, un profilo da medaglione, labbra delicate e una splendida capigliatura: era, decisamente, l’uomo più attraente con cui avessi mai avuto a che fare.

 

Il vento continuava a soffiare, scotendo, freddo e impetuoso, i rami spogli delle acacie. Molte delle leggende che mia zia o qualche vecchia mi avevano raccontate erano nate ascoltando quel suono lugubre come il muggire lamentoso di una creatura che sconta, soffrendo, colpe che la giustizia terrena non è stata in grado di farle pagare.

 

“Malladittu e bentu estu! Mi parisi s’Erkidu kandu a su notti si n’di andada moliendi e atzappuendi is peis aint’e bidda… Insarasa, tottus si tremminti, piccioccheddus, femminasa, ominis fottis, beccius e giovunus…”[7]

 

Mi sorpresi a pronunciare le parole che avevo sentito tante volte da tzia Peppa. Ma non mi sorpresi quando lui mi guardò con aria interrogativa e mi domandò cosa stessi dicendo. Da queste parti, gli spiegai, si crede che gli assassini sfuggiti alla giustizia umana non sfuggano a quella divina neppure in vita. Di notte si trasformano in buoi giganteschi, che hanno le corna alte come forche e girano muggendo e strepitando per le vie del paese. Se si fermano davanti a un portone battendo lo zoccolo e levando al cielo i loro alti lamenti, significa che in quella casa qualcuno morirà… Solo un coraggioso che li atterri e seghi a colpi d’ascia le loro corna d’acciaio temprato potrebbe liberarli dalla maledizione e dall’inferno che li attende dopo la morte: ma nessuno si azzarda a farlo.

 

-Tu ci credi?

-Sono solo favole, buone per i bambini e per gli sciocchi. Ma hanno il loro fascino e sono parte della nostra cultura. E nelle notti di maestrale… Beh, la solitudine fa paura.

-Anche in Irlanda abbiamo le nostre favole e i nostri spauracchi. E le nostre fate.

 

Aveva socchiuso gli occhi e sorriso, e allora gli raccontai quel che le vecchie dicevano a       proposito di Pranu ‘e Jana, il luogo dove aveva scelto di vivere. “Molto tempo fa, un giovane cacciatore, mentre inseguiva un cinghiale ferito, incontrò la Jana. Era una bellissima creatura piccola come una bambina, dagli occhi mutevoli e dai lunghi capelli neri che le arrivavano alle ginocchia. Vederla e innamorarsene fu tutt’uno… Lasciò casa sua, la giovane moglie e il loro bambino e andò a vivere con lei nelle forre in mezzo ai boschi. Non so se non lo sapesse o volle ignorarlo di proposito: le Janas vivono migliaia di anni e la vecchiaia non può niente contro di loro. Lui, se una disgrazia o una malattia non lo avessero tolto prima dal mondo, era destinato a invecchiare in un tempo che per la piccola fata equivaleva a qualcuno dei nostri giorni. E quando al cacciatore cominciarono a incanutirsi i capelli e a guastarsi i denti lo scacciò. Sei un vecchio, gli disse. Non so che farmene di te. Lui si gettò da una rupe e morì, dannando la sua anima.”

 

Mi teneva stretta al suo petto, e non potei ignorare il pulsare rapido del suo cuore, il tremito che gli attraversò la pelle.

-Olivia…

Dal tono struggente con cui pronunciava il mio nome, dedussi che doveva aver conosciuto, e perduto, una persona che si chiamava come me e che era stata cara al suo cuore. Ma non compresi il perché del suo turbamento quando gli raccontai quella stupida vecchia storia che Peppa mi aveva narrato centinaia di volte e che, naturalmente, era finita nel libro di mia zia.

-Torniamo dentro, Max: credo che gli sposi stiano per tagliare la torta.

 

IL BRANCO

 

Non mi aveva baciata come speravo, la sera del matrimonio di Barbarina Collu. Era un uomo strano, e non riuscivo a capacitarmi del fatto che non ci provasse, come tutti quanti, quando si trovano ad avere a che fare con una donna piacente, libera e per giunta  tutt’altro che impermeabile al loro fascino. Mi chiesi perfino, stizzita, se non fosse omosessuale. O se, faccenda più verosimile, io non fossi abbastanza desiderabile, per quel dio che lui era.

 

Ci frequentavamo da amici che stanno bene l’uno in compagnia dell’altra. Parlavamo di tante cose ma, nonostante avessi intuito che il suo cuore era pieno di segreti anche dolorosi, non mi aveva mai rivelato niente di sé. Né io osavo chiederglielo, era come se temessi di fargli del male, di uccidere sul nascere un sogno che aveva mostrato da subito preoccupanti segni di fragilità. Non mi aveva mai baciata, ma gli piaceva cingermi le spalle e tenermi stretta al petto. E allora io percepivo la forza fisica incredibile, quasi brutale, del suo corpo. Un giorno, gli dissi che mi ricordava un antico gladiatore.

-Un imbecille pieno di muscoli il cui solo scopo dell’esistenza era ammazzare per non essere ammazzato? - Aveva commentato lui con una risatina. - Come ti è venuta in mente un’idea simile?

-I gladiatori piacevano molto alle donne. Nelle sue Satire, Giovenale parla di una gran dama, una certa Eppia, che perse la testa e la decenza appresso a uno di loro.

-Sergiulus. Un poveraccio sfregiato dalle cicatrici, con la testa calva e un grosso bitorzolo sul naso[8].

Prima di darmi il tempo di domandarmi come mai quel cavallaro irlandese conoscesse Giovenale, si chinò a baciarmi sulla fronte, e mi strinse forte contro il panno del suo lungo cappotto blu scuro. Stavamo uscendo da un pub di S.G. ed evidentemente qualcuno ci aveva visti perché il giorno dopo, a scuola, una mia alunna mi disse, con gli occhi che le scintillavano e un sorriso fino alle orecchie:

-Che figo il suo ragazzo, prof!

 

Ho detto che era un uomo strano. Adesso dirò che era anche incredibilmente generoso. Ne ebbi le prove qualche giorno prima che incominciassero le vacanze di Natale. Eravamo scesi a Cagliari a goderci una pizza e un bel film ed era quasi l’una di notte, quando rientrammo a S.G.. Avevamo viaggiato sulla mia Seicento, ma avevo lasciato che fosse lui a guidare: mi sembra di avere già detto che detesto farlo con il buio. Era una nottata fredda, ed eravamo rimasti quasi senza benzina. Max si avvicinò ad un distributore automatico e lo guardai trafficare con la pompa e la carta di credito, sperando che non mi chiedesse di aiutarlo, perché mai in vita mia ho osato lasciarmi sfiorare soltanto dal pensiero di mettermi ad armeggiare con quei marchingegni. Poco lontani da noi, sedevano un paio di ragazzotti, che chiacchieravano di faccende loro incuranti del freddo. Li guardai bene, e riconobbi Bebo. In quattro e quattr’otto, decisi che dovevo parlargli.

 

Lui mi guardò scendere dall’auto, avvicinarmi a quei due ragazzini. Pensai che avrebbe voluto dirmi qualcosa, forse di non farlo. E’ notte fonda, potrebbero essere tipi poco raccomandabili. Spesso i minorenni deviati sono più pericolosi dei delinquenti incalliti. Ma io conoscevo quel ragazzo. Era un mio alunno, e aveva mollato la scuola. Volevo convincerlo a ritornare.

 

Bebo mi indirizzò un sorrisetto sghembo, prima di dirmi vattene, non abbiamo niente da dirci io e te. Sapevo che si era messo a frequentare brutte compagnie e che i suoi genitori avevano perduto qualsiasi controllo su di lui, malgrado fosse ancora minorenne. Li conoscevo, erano due persone a posto, senza particolari problemi ma il padre, rappresentante di commercio, era spesso lontano da casa per lavoro mentre la madre, una donna debole e senza carattere, lasciava fare ai figli tutto quel che volevano.

Mi ripugnò il modo in cui mi si era rivolto, forse perfino più di come era conciato: testa rasata, orecchie, narici, sopracciglia crivellate di buchi. Fosse mio figlio, lo prenderei a schiaffi, mi ritrovai a pensare.

-Allora…

-E lasciami in pace, troia!

Certo che ti lascio in pace. Ma avrai modo di pentirti di ciò che stai facendo, ragazzino. E guardati come sei combinato, sembri un…

Non feci in tempo a terminare la frase, che mi ritrovai circondata da cinque o sei giovinastri conciati come Bebo, ma più grandi di lui per età e corporatura. Questi non erano mocciosi che giocavano a fare i duri, mi ritrovai a pensare. Questi facevano sul serio. Uno stringeva in pugno una pattadese[9], un secondo un guinzaglio all’altro capo del quale stava un botolo ringhioso non molto grande ma con il corpo tarchiato e canini impressionanti. Un pitbull.

Urlai. Mi ritrovavo sola circondata da sei o sette pessimi soggetti sicuramente alterati da qualche droga, era buio, la strada deserta… Anche Max non avrebbe potuto molto contro di loro. Max. Il mio gladiatore.

 

Disarmò quello con il coltello con due mosse veloci di una lotta che mi sembrò karate, anche se non me ne intendo. L’altro liberò il cane dal guinzaglio e glielo aizzò contro. Vidi la bestiaccia bloccarsi di fronte a Max, immobile, la coda bassa, il pelo ritto. Mi sembrò di sentirlo guaire come un cucciolo spaventato, senza che lui gli avesse fatto niente.

 

Si dileguarono in pochi istanti. Tutti meno Bebo. Aveva perso l’aria di sfida e guardava Max, che gli aveva appena somministrato due manrovesci, con la stessa aria stranita del cane. Avrebbe voluto parlare, magari chiederci scusa.

-Ti piacciono i cavalli? Se non l’hai fatto ancora, mettiti in regola con il richiamo dell’antitetanica[10] poi vieni a lavorare da me. Spalare un po’ di letame dovrebbe insegnarti a stare al mondo, ragazzino. E faresti bene a tornare a scuola, come ti ha consigliato la tua insegnante. Così almeno non butterai via la tua vita.

 

BEBO

 

Non fosse stato troppo giovane per esserlo davvero, avrei potuto tranquillamente affermare che Max si comportò come un padre nei riguardi del ragazzo. Ed era quello di cui lui aveva bisogno, per riprendersi la vita che stava gettando via, a diciassette anni soltanto. Mi chiese scusa e promise, anzi giurò che sarebbe tornato a scuola, dopo le vacanze di Natale. Era sempre stato uno studente senza infamia e senza lode, ma comunque in grado di apprendere senza troppa fatica, se si fosse messo a lavorare d’impegno. E se avesse, come diceva Max “buttato nel cesso certe pastigliette e tirato lo sciacquone”.

 

Bebo era lungo e magro, più alto di Max di qualche centimetro e tanto leggero da dar l’impressione che una raffica di vento potesse spezzarlo. Aveva buttato via, oltre alle pastigliette, anche i suoi orrendi piercing, tenendosi soltanto un anellino al lobo dell’orecchio sinistro e non si rasava più a pelle la testa. Adesso era presentabile. Quasi carino, oserei dire. Adorava Max, e avrebbe voluto essere come lui, grande, grosso, forte e risoluto. Lui gli aveva promesso che gli avrebbe insegnato a cavalcare, e se lo portava appresso quando andava a correre in campagna. Il footing aumenta la resistenza e la capacità polmonare, diceva sempre. Ed era convinto che un po’ di sano esercizio fisico non avrebbe potuto non giovare al ragazzo.

 

-Qual è il suo vero nome? Non me l’ha mai detto.

-Marco. Marco Pisanu.

-Marco. Ah.

Mi sembrò turbato, quando glielo dissi. Anche quel nome, come il mio, doveva risvegliare in lui un ricordo struggente e doloroso. Forse aveva perso tragicamente qualcuno che gli era stato caro: Marco e Olivia. Un uomo e una donna. I suoi genitori? I suoi fratelli? Improbabile, non erano nomi  irlandesi o inglesi, quelli. Forse si trattava di amici e la donna magari era anche andata a letto con lui. Strinsi forte il pugno per non pensarci, per convincere me stessa che, di qualsiasi cosa si fosse trattato, era ormai acqua passata.

 

Un giorno mi confidò che Bebo sapeva qualcosa a proposito dei combattimenti clandestini di cani che, come lui aveva sospettato, qualcuno organizzava da quelle parti. Ma era refrattario a parlare, perché, diceva, in quel giro erano coinvolti alcuni dei suoi amici. Begli amici, mi ritrovai a pensare.

-Sono sulla buona strada per convincerlo a denunciarli. E’ una porcheria che deve finire.

Era, come sempre, deciso e risoluto a proseguire per la sua strada. Lui detestava chi si diverte a cagionare sofferenza negli altri, a maggior ragione negli animali, che non sono in condizioni di difendersi. Anch’io, ma avrei avuto paura a mettermi contro certe persone. Ero sicura che anche in paese qualcuno sapesse qualcosa, e se non parlavano era perché anch’essi la pensavano come me: il coraggio non è un dono che Dio abbia elargito a tutti quanti a piene mani.

 

LA NOTTE DI SAN SILVESTRO

 

L’ingresso nel nuovo millennio l’avrei festeggiato in compagnia dei soliti amici: un paio di coppie, due o tre coetanee avviate come me sulla strada dello zitellaggio, un manipolo di scapoli disperati che nessuna aveva voluto… Ero, e sono, di quelle che Capodanno, Pasquetta, Ferragosto e la Festa della Donna li abolirebbero per decreto legge, ma anche la prima a cascarci, per poi lamentarsi puntualmente di come sono andate le cose. Solito locale, soliti amici che vedi solo in quell’occasione, solita nottata trascorsa nella villetta al mare di un’amica, per non mettersi in viaggio a tarda ora… Solita cena a base di porcherie, soliti balli latino americani, solita finta allegria… No. Questa volta sarebbe stato diverso. Avrei convinto Max ad accompagnarmi e, una volta tanto, le mie amiche sposate mi avrebbero guardata con invidia invece che con commiserazione.

 

Lui accettò. Senza grande entusiasmo ma, mi disse, stare con me gli avrebbe fatto piacere. Allora passo a casa tua verso le sette. Portiamo la tua auto… O la mia?

 

Credevo di trovarlo pronto, invece era appena uscito dalla doccia e si asciugava, seduto davanti al camino acceso, i capelli che, fradici d’acqua, mi sembrarono ancora più lunghi del solito. Certo, se fosse uscito in quelle condizioni, si sarebbe buscato come niente un bel malanno.

-Non hai freddo?

Lui mi sorrise, scotendo la testa. No che non ne ho. C’è un bel calduccio qui dentro. Non lo senti? Togliti il piumino, altrimenti avrai freddo tu, piuttosto, quando usciremo fuori.

Lo guardai, e gli sorrisi di rimando. Portava soltanto un paio di boxer elasticizzati, sotto l’accappatoio di spugna bianca, ed era incredibilmente seduttivo. Quando usciremo fuori… Avevo pagato in anticipo per i balli e il cenone in quel solito locale, e quelle centomila lire ce le avrei rimesse molto volentieri, se solo lui… Ma quella sera l’avrei lasciato senza fiato, avevo promesso a me stessa.

 

Mi sfilai il piumino nero, lo stesso che avevo acquistato l’anno prima in una bancarella del mercato e messo tutto l’inverno per recarmi a scuola. Costava quattro soldi, ma era carino e soprattutto caldissimo. Sotto, indossavo quel che avevo messo il giorno delle nozze di Barbarina Collu, un paio di pantaloni ampi di velluto, neri anch’essi, una camicia da uomo, in seta bianca, abbottonata fino al collo. Scarpine scollate, di vernice nera ai piedi. Niente di particolarmente provocante o seduttivo: non fosse stato perché, per la prima volta in vita mia, avevo volutamente dimenticato d’indossare il reggiseno.

 

Non avevo mai fatto niente del genere in vita mia e pensavo che mai sarei arrivata a tanto, invece… Lui mi guardava, e la carezza del suo sguardo era altrettanto eccitante di quella delicata della seta contro la pelle. La camicia non era trasparente, ma disegnava in maniera implacabile il profilo dei miei seni e Max continuava a deglutire, a mordersi le labbra senza riuscire a staccarmi gli occhi di dosso.

-Questo è un colpo basso. - mormorò con la sua voce rauca e ammaliante. Io avvampai, come se un perfetto sconosciuto mi avesse sorpresa nuda sotto la doccia.

-Sono indecente?

-Sei favolosa.

 

Mi venne dietro, mi abbracciò avvolgendomi nell’odore tiepido della sua pelle pulita e ancora umida. Tremavo per il desiderio, lui lo sapeva che non era freddo, la stanza era ben riscaldata dal camino acceso e dall’impianto ad aria condizionata, e arrossii ancora quando lui mi strinse più forte e lo sentii eccitato. Non mi baciava. Non ancora. Mi alitava nell’orecchio il suo fiato caldo e i versi, in latino, della più sconcia tra le liriche di Catullo. Mi avrebbe baciata. Lo fece. Con un’avidità che era quasi fame. Mi sfiorò il collo, quindi il seno, attraverso la camicia che aveva iniziato a sbottonare. Mi piace, disse, il profilo dei tuoi capezzoli velati dalla seta. Sei bella… Era il terzo uomo a dirmelo, in una situazione del genere. Sicuramente quello più strano, più eccitante, e quello al quale mai in vita mia avrei pensato di darmi. Troppo giovane per i miei gusti. Troppo inquietante, troppo bello. Straniero e misterioso, poteva essere chiunque. Con quello che si sente in televisione, che si legge sui giornali… Sono prudente e razionale, di solito, ma non lo fui in quella circostanza. Come il giovane cacciatore che perse la sua anima per amore di una creatura fatata.

 

-Si è fatto tardi, forse dovremmo darci una sistemata e uscire… I miei amici ci aspettano.

Lo dicevo senza crederci e quando lui, continuando a stuzzicarmi i capezzoli con le sue lunghe dita forti, mi disse tu non andrai da nessuna parte non protestai. Cercai a tentoni la borsetta e, senza trovare il coraggio di dirgli di smetterla, estrassi il portatile e composi il numero della mia amica Clara. C’è stato un piccolo contrattempo, non so se potremo raggiungervi… Di quale contrattempo potesse trattarsi e del fatto che sicuramente non li avremmo raggiunti, Clara ebbe conferma quando i baci di Max si fecero particolarmente audaci e mi lasciai sfuggire un gemito prima di spegnere il cellulare e interrompere la comunicazione.

 

La prima volta con il mio primo ragazzo era stata consumata frettolosamente nell’utilitaria di lui. La mia prima volta con l’uomo maturo e sposato in una camera d’albergo. La mia prima volta con Max davanti a un grande camino, nel salone della sua casa che aveva travi di ginepro sul soffitto e pavimento di cotto toscano disseminato di tappeti, piumoni, cuscini e disordine. Notai sul divano una vecchia sella, un logoro plaid di tessuto scozzese, diversi libri. Notai i suoi stivali da equitazione appoggiati per terra. Non so che cosa avrei dato per vederlo in groppa al suo cavallo nero, con i capelli sciolti, un paio di pantaloni stretti e una camicia aperta sul petto, che il vento gonfiava, preceduto dai suoi cani che sembravano lupi… Lui era un sogno, ma realtà era il piacere che con le sue mani esperte, la sua lingua umida, la sua pelle calda e fremente dava al mio corpo. Il suo… L’avevo guardato incantata, quando si era sfilato di dosso l’accappatoio di spugna. Grande, proporzionato, forte sul serio, come quello di uno spaccalegna o di un fabbro ferraio, non gonfiato dagli anabolizzanti o deformato grottescamente dall’eccesso di palestra. Virile e molto vero, proprio come lui. Abbronzato dappertutto e non troppo villoso. Il corpo di un antico gladiatore. Glielo avevo già detto un’altra volta. Glielo dissi ancora.

 

Era pieno di cicatrici: sul collo, sul braccio sinistro, nella parte alta della coscia… Una, appena sotto la scapola, non riuscivo proprio a spiegarmela. Sembrava un marchio a fuoco. Questo, gli dissi accarezzandolo lentamente, è un fendente di spada. Quest’altro, la trafittura di una freccia. Questi sottili segni paralleli il ricordo del tuo incontro… con una pantera? O era una tigre, forse? E qui… è dove il tuo padrone, colui che ti faceva combattere e intascava il denaro delle scommesse, ti ha marchiato con un ferro rovente per ribadire che la tua vita gli apparteneva… Per una frazione di secondo, percepii sotto le dita il fremito che gli attraversava la pelle. Le cicatrici me le sono fatte giocando a rugby, mi disse sorridendo. Anche i graffi sul collo. Non è stata una tigre, e nemmeno una pantera, bensì un quarterback neozelandese particolarmente falloso. Giocavo in nazionale, sai, prima di fracassarmi malamente un ginocchio ed essere costretto a smettere. L’abrasione sul braccio è quel che rimane di un tatuaggio che ho preteso di cancellare senza fare ricorso a un chirurgo plastico. E il marchio a fuoco… Si chiamava branding. Ne avevo sentito parlare dai miei alunni. L’ultima atrocità della moda di strada, dopo i tatuaggi e i piercing. Se l’era fatto fare a New York, un paio d’anni prima. Una P. La lettera iniziale del nome della donna di cui credeva di essere innamorato. Paula. Si chiamava così. Una bellissima nera che di mestiere faceva la spogliarellista. E che io sentii di odiare, anche se adesso Max era sopra di me, dentro di me… E lei apparteneva al passato.

 

A mezzanotte ci versammo addosso il contenuto di una bottiglia di Dom Perignon ed entrammo nel nuovo millennio leccandocelo via a vicenda come due animali. E ricominciando un’altra volta. Era instancabile. E insaziabile. Ma anche tenero e caldo come un cucciolo, come un bambino. Mi piacerebbe un figlio tuo, gli dissi, e vidi il sorriso spegnersi dai suoi straordinari occhi azzurri venati di verde e spruzzati d’oro. Dovevo aver detto qualcosa che avrei fatto meglio a tenere per me, e cambiai discorso. Voglio entrarci felice nel 2000. Felice e appagata, perché sarà la prima ed unica volta che… Risi, ma la mia risata annegò nel suo silenzio, come se avessi detto qualcosa di sciocco, di imbarazzante. Qualcosa che poteva averlo ferito, e che avrei fatto meglio a risparmiarmi.

 

Mille anni a oggi… I suoi occhi si erano fatti cupi, mentre parlava. Immagino che la gente, aspettando che tutto finisse, non abbia fatto quello che stiamo facendo noi, continuai io. Mille e non più mille, era stato profetizzato. Pregavano. Si flagellavano. Si pentivano… Disse lui. Guardavano il cielo, aspettando che la pioggia di fuoco cominciasse a cadere… Rabbrividii al suono delle sue parole. Perché era come se avesse vissuto quel che in realtà stava solo immaginando.

 

FRAMMENTI

 

Pensavo all’estate che era finita da poco, mentre il fruscio e il ticchettio dei macchinari che lo tenevano appeso alla vita per un filo sottile come la bava del ragno mi echeggiava nel cervello, indistinto e vago come in un sogno, come se quella non fossi io e lui non fosse lui.

 

-Non ci sono speranze?

Mario mi guardò scotendo la testa, mi abbracciò. Contava qualcosa per te? Mi domandò, e lasciai che mi leggesse la risposta negli occhi. Non l’avevo mai più rivisto se non da lontano, da quando ci eravamo lasciati. Mi sembrò invecchiato, arreso in qualche modo. Diverso dall’uomo che avevo amato, che speravo lasciasse la moglie e scegliesse me.

-Perché ne parli al passato, Mario? Respira ancora.

Mi aveva spiegato che solo il suo cuore straordinariamente forte lo teneva ancora in vita. Il cuore, e tutti quei tubicini che entravano e uscivano dal suo corpo. Aveva due fratture alla colonna vertebrale con compromissione del midollo, il bacino a pezzi, il fegato spappolato, un ematoma intercranico inoperabile. Potrebbe essere fra un’ora, fra una settimana… mi aveva detto Mario cercando di adeguare il suo gergo medico al mio miserando livello di comprensione, cercando le parole adatte a dirmi rassegnati, porgendomi un caffè forte in un bicchierino di plastica. Mi sforzai di buttarlo giù, mi sforzai di non piangere, mi sforzai di pensare che la vita sarebbe continuata, nonostante tutto. C’era un caldo soffocante, lì dentro, e io morivo di freddo.

-Stiamo facendo il possibile, Olivia.

Il possibile… Gli chiesi se soffriva, e lui scosse la testa. Non sente più niente. Mi disse.

 

Me lo avevano lasciato guardare cinque minuti, attraverso un vetro dopo che, parlando con Bebo, quel che era accaduto mi era stato chiaro. Erano andati a correre in una strada di campagna, quando un furgoncino li aveva investiti. Per spingere Bebo fuori dalla sua traiettoria, Max aveva perso tempo. Ed era stato preso in pieno, anche se non era lui che volevano. Bebo aveva denunciato alla polizia gli “amici” che smerciavano pastigliette in discoteca e organizzavano combattimenti clandestini di cani. Era lui che doveva pagare.

 

Mi abbandonai sulla sedia di fòrmica, pensando che non mi avrebbero lasciata lì tutta la notte a vegliare le sue ultime ore perché non ero nessuno per lui e nelle condizioni in cui si trovava non avrebbe avuto bisogno di niente. Avrei voluto saltare al collo del dottor Locci, del primario chirurgo, di Mario, del mio amante di un tempo, chiamatelo come volete, avrei voluto graffiargli la faccia, gridargli allora staccatelo da quelle macchine che gli assicurano una parodia di vita e lasciatelo morire in pace, con dignità… O è il suo cuore forte che volete, che gli prenderete quando a lui non servirà più, e… Il suo cuore, i suoi grandi occhi belli, che dicevano più di mille parole… Altro non avrebbero potuto prendergli, viste le condizioni in cui era stato ridotto da quel maledetto incidente.

 

Chiusi gli occhi, lo rividi com’era stato, ripensai a certi minuscoli frammenti del nostro tempo insieme. All’orchidea secca in mezzo ai versi di Pavese che amavo. Un’orchidea, non una rosa. Un fiore senza profumo, che somiglia a un mostruoso insetto di plastica. Io detesto le orchidee. Ripensai al brivido che gli aveva attraversato il corpo come se l’avesse sfiorato un serpente quando ci eravamo recati all’Anfiteatro di Cagliari per assistere al concerto di Sting, al lampo che gli aveva acceso, nel buio della notte, gli occhi chiari come quelli di un gatto randagio intrappolato in una macchia di luce.

Ripensai al cane moribondo che teneva tra le braccia la prima volta che ci eravamo incontrati. Il dottor Pais gli aveva dato quel sonno pietoso che a lui stavano negando… Perché?

Ripensai alla nostalgia e al desiderio struggente che leggevo nella sua voce quando pronunciava il mio nome, a come mi stringeva al petto e mi sussurrava nell’orecchio senza alcun ritegno i suoi desideri che erano anche i miei… Inghiottii le lacrime e pensai con cattiveria che Bebo Pisanu se l’era cavata con qualche livido e un terribile spavento, mentre lui…

 

-Olivia…

E’ ora di andarmene. Lo so. Mi alzai in piedi reggendomi sulle gambe a fatica, quando Mario mi posò la sua mano sulla spalla, cercando, con parole inutili e gesti goffi, di darmi quel conforto nel quale sarebbe stato disumano sperare.

 

Chiusi gli occhi, inghiottii la saliva. Neanche un mese prima, eravamo stati al mare a Cala Luna[11]. Stavamo nuotando affiancati, quando una medusa mi si avvicinò, sfiorandomi quasi. Lui l’afferrò con la mano, la strinse finché non la vide afflosciarsi, perdere consistenza. Uscimmo dall’acqua e gli chiesi perché lo avesse fatto. Il palmo della mano ti brucerà terribilmente per giorni… Ma non c’erano segni sopra le sue mani né, men che meno, bruciore o vesciche. Mi ero domandata perché, sul momento. Mi trovai a domandarmelo allora. E, curiosamente, a sperare, nonostante sapessi che non c’era più speranza.

IL REDIVIVO

 

Non ero certamente in condizioni di andare al lavoro, e avevo preso dieci giorni di congedo. Non era mai capitato che mi assentassi per così tanto tempo da scuola. Ne avrei presi altri, non fossero bastati, e altri ancora, pensavo stringendomi le tempie con i pugni. Il medico condotto era venuto a casa e mi aveva praticato un’iniezione di non so quale porcheria, per farmi dormire. E non dormii lo stesso.

 

Erano le otto quando, tra la veglia e il sonno, sentii il trillo del cellulare che avevo lasciato acceso sul comodino. Potrebbe essere tra un’ora, una settimana… Mario non mi aveva nascosto niente. Sei un’adulta Olivia. E’ triste dirlo, ma la vita deve andare avanti. Sarà il tempo ad aiutarti a fartene una ragione.

 

-Olivia…

Conoscevo la sua voce, il tono in cui modulava le parole per esprimere i suoi sentimenti e le sue intenzioni. Sapevo quel che stava per dirmi, eppure… C’era qualcosa di strano nel tono della sua voce. Un’eccitazione che non gli era consueta.

-E’…?

-Non dire nulla, Olivia. Infilati qualcosa e vieni subito qui. Se non te la senti di guidare, fatti accompagnare da qualcuno.

Max era morto. E lui non trovava le parole per dirmelo. Max non aveva nessun parente e, forse, mi cercavano per avere un avvallo alla decisione di espiantare quei pochi suoi organi che l’incidente non aveva ridotto a poltiglia sanguinolenta.

-Vengo. - dissi con la voce impastata dal dolore, dal sonno e dai tranquillanti.

 

Mi accompagnò un fratello di Peppa, un pensionato di settant’anni con la sua 127 che andava come una lumaca e perdeva i pezzi per strada.

 

Mario non aveva l’aria che ostentano i medici dei telefilm americani quando gli muore un paziente. Ma lui era un medico vero, aveva cinquant’anni parecchi dei quali spesi nel pronto soccorso di un ospedale: capace che ci si fosse indurito, che la morte non gli facesse più né caldo né freddo. Capace, pensai prima di scacciare a forza quel pensiero mostruoso, che provasse ancora qualcosa per me, dopo tanti anni, che odiasse quel bel giovane forestiero che mi aveva rubato il cuore, che fosse felice della sua morte… Il cuore degli uomini è un mistero difficile da sondare.

 

-Non avrei mai creduto… che qualcosa del genere potesse capitare proprio qui… proprio sotto i miei occhi…

Un miracolo, diversamente non lo si poteva definire.Un miracolo che avrebbe messo in forse le sue convinzioni di agnostico dichiarato. E anche le mie. Io in Dio ci credo, anche se non vado a messa tutte le domeniche. Anche se lo prego e lo cerco quando ho bisogno di Lui perché sono disperata. Com’era successo anche in quella circostanza. E Lui mi aveva ascoltata.

 

Di primo mattino, l’infermiera Corrias era entrata in sala di rianimazione. Prima che al paziente, aveva gettato un’occhiata ai macchinari che monitoravano le sue funzioni vitali. Fermi. Era morto. Poveretto, così giovane, aveva pensato segnandosi e recitando una frettolosa preghiera.

 

-Ne ho viste tante… - aveva detto. Tante sì. Aveva i capelli grigi ed era ormai alle soglie della pensione, ma ad un miracolo non aveva assistito mai. I macchinari erano fermi perché lui si era strappato gli elettrodi dal petto e dalle tempie, si era tolto via gli aghi delle flebo, aveva sputato come un boccone amaro il boccaglio dell’ossigeno, s’era cavato la cannula che gli drenava il liquido dai polmoni impedendogli di soffocare. Perfino il catetere, aveva detto arrossendo perché, nonostante il mestiere le avesse imposto la visione di migliaia di uomini nudi, Anna Corrias, infermiera diplomata con trent’anni di esperienza, era rimasta una zitella pudibonda e un po’ bigotta.

 

-Potrei avere qualcosa da mangiare? Non ci vedo dalla fame.

Aveva detto così, e l’infermiera Corrias aveva faticato a non urlare, quando se l’era trovato davanti seduto sul letto, con il lenzuolo che a malapena gli copriva quel che è indecente mostrare in giro, il bel viso incorniciato dai capelli impiastricciati di gelatina e illuminato dal suo sorriso canagliesco.

 

-Come se nulla fosse accaduto. Come se quel dannato furgone non gli fosse passato sopra fracassandogli le ossa e gli organi interni, il giorno avanti. L’abbiamo visitato dalla testa ai piedi e non ha niente. Niente, Olivia. Lo capisci?

 

La mente razionale di Mario rifiutava di ammettere il miracolo, ma anche l’errore. Colui che era stato portato al pronto soccorso la mattina prima, dopo quel terribile incidente, era un moribondo, non poteva esserci alcun dubbio. Impossibile sbagliare non solo per un medico dopo una serie di visite accurate, ma persino, dopo un’occhiata distratta, per l’ultimo degli inservienti, anche per chi non si fosse mai trovato a lavorare faccia a faccia con la morte ogni santo giorno della sua vita… Lo avrebbero tenuto ancora qualche giorno sotto osservazione, mi disse. Naturalmente, sarebbe stato trasferito in una stanzetta singola, nel reparto di medicina generale. Per scrupolo, solo per quello.

 

-E non voglio che trapeli nulla di quel che è accaduto. Per il buon nome dell’ospedale… e per la tranquillità futura del signor Merrit. Con la polizia, posso anche ammettere di aver sbagliato la diagnosi. Non voglio che si parli… di miracolo, ecco.

 

MAXIMUS

 

Resistette altri due giorni, lì dentro, voltato e rivoltato dal dottor Locci, sottoposto ad ogni genere di radiografie e di analisi, portato quasi in segreto con l’ambulanza all’ospedale Brotzu[12] per una TAC che non aveva rilevato niente di anormale. Quando cominciò a fare il diavolo a quattro, dovettero dimetterlo. Le consiglierei di non raccontare troppo in giro quello che le è capitato, Mr Merrit, gli aveva borbottato Mario, in inglese. Per lei, per la sua tranquillità. Se una cosa del genere arrivasse alle orecchie delle tv e dei giornali, non la lascerebbero più in pace. Non si preoccupi, aveva risposto lui, quindi si era infilato i jeans e la t-shirt che gli avevo comprato per l’occasione, augurandomi di non sbagliare la misura, ed era venuto via con me, felice come una pasqua, incurante del fatto che la maglia fosse un tantino troppo stretta e i jeans, al contrario, larghi ai fianchi e corti di gamba.

 

Piansi di sollievo e di consolazione, quando mi tenne tra le braccia e mi cercò la bocca, infischiandosene della gente che ci guardava. E’andata meglio di quanto avessi temuto, grazie a Dio. Gli dissi. E lui mi rispose che non vedeva l’ora di essere a casa per lavarsi via di dosso l’odore dell’ospedale… E per festeggiare.

 

Festeggiammo, ben prima che lui si decidesse a lavarsi via di dosso l’odore dell’ospedale. Festeggiammo, anche se lui sapeva ancora di disinfettante e aveva i capelli e la peluria sul petto impiastricciati di quella gelatina giallastra che gli avevano spalmato addosso per mantenere ben saldi al loro posto gli elettrodi che avrebbero dovuto monitorare le funzioni del suo cuore e del suo cervello quando… Mi morsi le labbra per non pensarci ancora: lui era vivo, sopra di me, e mi succhiava il seno come un cucciolo avido, mentre con le gambe gli cingevo i fianchi e con le mani accarezzavo la seta della sua pelle. Soltanto il giorno prima non avrei mai osato immaginare che potesse esserci un altro momento come quello, per me e per lui. Ma intuivo che, forse, quello poteva anche essere l’ultimo. C’era qualcosa che non riuscivo a spiegarmi, in ciò che era accaduto. L’avevo visto attraverso un vetro, Max, e sulle sue condizioni non mi ero sbagliata, esattamente come non si era sbagliato Mario, come non si erano sbagliati i suoi colleghi: perché l’uomo che faceva l’amore con me in quel momento, con la dolcezza e l’impeto che gli erano consueti, stava per essere rapito dalla morte, allora.

 

Entrammo insieme sotto la doccia per lavare via l’odore dell’ospedale che lui ancora si portava appresso e gli umori dei nostri corpi eccitati. L’acqua calda, le mani rese scivolose dal sapone, ci invitarono ad un altro abbandono, e lui mi prese ancora. Era il solito Max di sempre, dolcissimo e insaziabile, l’uomo che amavo con tutta me stessa senza sapere niente di lui.

 

Non sono brava a cucinare, e per placare il suo gagliardo appetito (io avevo lo stomaco chiuso ed ero sicura che avrei vomitato se solo avessi tentato d’inghiottire qualcosa), avevo acquistato un pollo arrosto e uno di quei grossi pani caserecci che dalle nostre parti chiamiamo civraxiu. Mangiando, si scolò anche una bottiglia di cannonau[13] che aveva stappato con i denti: per festeggiare il suo ritorno alla vita, perché bere gli piaceva… o per prendere il coraggio a quattro mani e dirmi quel che mi doveva dire: il momento era arrivato.

 

Lo guardavo. Mi piaceva tutto di lui, perfino i suoi piccoli difetti che lo rendevano ancora più particolare, il leggero strabismo degli occhi taglienti, la bocca quasi infantile, troppo delicata per un volto tanto maschio, i nei sulle guance, il pugno di lentiggini dorate che aveva sotto gli occhi e sul dorso del naso.Gli baciai la gola ruvida di barba, percepii il suo sospiro pesante, quando gli posai la mano sul petto.

-Credo di essere ubriaco.

-Vuoi andare a dormire?

-Voglio parlare con te… Olivia. Di tante cose.

 

Lasciai scivolare la mano sul suo petto, mi beai del suo gemito di piacere quando gli sfiorai il capezzolo. Allora parla, gli dissi con le labbra sul suo collo, inebriandomi dell’odore della sua pelle. E lui raccontò: aveva un superbo talento di narratore, mi ritrovai a pensare che anche zia Maria avrebbe ascoltato volentieri le sue storie.

 

“Tanti secoli fa, c’era un uomo che, con la sola forza della sua intelligenza, della sua onestà e del suo coraggio, aveva percorso una brillante carriera ed era diventato, a meno di trent’anni, generale comandante in capo di tutte le legioni che difendevano i confini settentrionali dell’Impero Romano dalle orde dei barbari. Proveniva da una modesta famiglia di agricoltori dell’Hispania Baetica, ma questo era solo un dettaglio per il Cesare Marco Aurelio che, sull’esempio di quanto già fatto dai suoi predecessori, aveva in animo di adottarlo e di lasciargli in eredità la porpora imperiale.

 

“Ma nella potenza e nella gloria non c’è felicità soltanto. Quell’uomo aveva una moglie e un figlio, in Hispania, ed erano anni che non li vedeva. Il dovere. L’onore. Il giuramento di fedeltà alla patria e a Cesare… Carichi pesanti da sopportare, anche per uno come lui. Quando tutto sarà finito, gli aveva promesso il suo signore, ti lascerò tornare a casa. Ma quella era una promessa bugiarda e lui lo sapeva.

 

“L’imperatore saggio che amava la pace e trascorse metà della sua vita sui campi di battaglia morì all’improvviso senza lasciare disposizioni sulla successione. Era stanco, malato, più vecchio dei suoi anni. Ma non se l’erano preso gli dei, era stato assassinato. Commodo, il suo figlio legittimo, e chissà se lo era poi davvero, lo aveva ucciso. Voleva il potere e non lo avrebbe avuto, se avesse aspettato anche soltanto un giorno. Era un giovane crudele, vigliacco e debosciato e a Roma erano in molti a sussurrare che il suo vero padre non fosse Cesare ma un gladiatore barbaro a cui quella puttana dell’Augusta Faustina si era concessa. Sembra che lo facesse spesso.

Marco Aurelio era un uomo saggio, conosceva i difetti del figlio e non avrebbe permesso che i suoi amati sudditi finissero sotto il giogo di quell’essere abbietto e indegno… Aveva scelto un altro successore, presto ne avrebbe ufficializzato la nomina e l’adozione: il generale Massimo Decimo Meridio.”

 

IL SANGUE E LE ROSE

 

Rabbrividii nell’udire quel nome. Massimo Decimo Meridio. Max Dacey Merrit… Chiusi gli occhi, inghiottii l’aria e la saliva. Era impossibile, mi dissi da me sola. O no, forse no. Ciò che pensavo avrebbe spiegato tutto: anche il fatto che un furgone gli fosse passato sopra fracassandogli le ossa e riducendogli i visceri in poltiglia e lui, qualche giorno dopo, se ne stesse lì con me a fare l’amore, mangiare a crepapelle, bere peggio di una spugna come se tutto quanto fosse successo a un altro.

 

“Le fortune di Massimo Decimo Meridio ebbero termine prima ancora che il corpo di Marco Aurelio venisse calato nel sepolcro. Aveva scoperto tutto quanto, e l’usurpatore, il parricida non poteva permettergli di continuare a vivere.

 

“Gli scherani di Commodo massacrarono senza pietà sua moglie e il suo bambino. Lui riuscì a sfuggire ai suoi carnefici, ma era tardi quando li raggiunse e altro non poté fare se non seppellirli a fior di terra.”

 

-Tua moglie portava il mio stesso nome. - Gli dissi senza staccare gli occhi dai suoi. Lui accennò lentamente di sì con la testa. Era bruna come te, mi disse. Ti somigliava.

 

Incominciavo a comprendere certi suoi atteggiamenti, certi fremiti, certe ritrosie. Anche se faticavo a credere che potesse esserci del vero in quel che mi stava raccontando.

 

“Il generale divenne schiavo. Lo schiavo divenne gladiatore…”

 

Il mio sguardo lo percorse dalla testa ai piedi. Avevo associato a quell’uomo l’immagine del gladiatore altre volte, e lui si era schermito domandandomi quali affinità avessi potuto trovare tra lui e un imbecille pieno di muscoli il cui solo scopo nella vita era ammazzare per non essere ammazzato. Non mi ero sbagliata, quando avevo pensato al suo corpo come a una formidabile macchina da combattimento, alle cicatrici che lo segnavano come al ricordo indelebile delle sue vittorie e delle sue sconfitte. E il marchio sulla schiena non era il tributo ad una passione momentanea e a una moda discutibile. P non stava per Paula, ma per Proximo, il lanista, il suo padrone, colui che lo faceva combattere e intascava il denaro delle scommesse. 

 

-E adesso forse hai paura di me…

Chiusi gli occhi, ripensai al brivido che gli era passato sotto la pelle entrando all’Anfiteatro romano di Cagliari la sera del concerto di Sting. Era impallidito, quando gli avevo detto ridendo che un bel po’ di secoli prima i Romani si divertivano a vedere i cristiani mangiati dai leoni e i gladiatori che si sbudellavano, lì dentro. Ripensai all’orchidea secca in mezzo ai versi di Pavese e mi dissi da me sola che mai uno come lui avrebbe potuto regalarmi una rosa. Perché petali di rose a profusione venivano lanciati sull’arena per coprire il puzzo del sudore e del sangue. Perché lui associava il profumo delle rose alla morte.

 

No che non ho paura di te. Gli dissi senza scollargli gli occhi di dosso. Non ne avevo, esattamente come non ne aveva avuto il cacciatore nel momento in cui incontrò la piccola fata. Non ne avevo, anche se ero al corrente di quel che rischiavo. Ma lui non era una creatura fatua e maligna come la jana. Era rimasto turbato, ascoltando quella storia per la prima volta. Allora mi ero domandata perché, e la risposta la stavo avendo in quel preciso istante.

 

“Massimo il gladiatore crollò morto sulla sabbia del Colosseo dopo aver ucciso Commodo, usurpatore, assassino e parricida. Dopo aver compiuto un atto di giustizia.

La sua morte spezzò il cuore di Lucilla, la principessa imperiale che lo amava di un amore senza speranza e che…

 

“E che lo riportò in vita grazie a un sortilegio. Per sempre.”

 

Rabbrividii al suono della sua voce grave e calma, e mi dissi che era bravo a mascherare le sue emozioni. La vita senza fine… Un dono d’amore meraviglioso e tragico, a cui si era assoggettato senza dimenticare mai di essere se stesso: generoso, buono, leale. Come lo era stato Massimo Decimo Meridio nel corso della sua prima, breve vita. Come sarebbe stato per sempre.

 

Non dev’essere facile, gli dissi ricacciando indietro le lacrime. No, non lo è. Per adattarsi alle circostanze e ai cambiamenti che, inevitabilmente, il tempo porta con sé, occorrono qualità che non tutti  possiedono. Intelligenza. Astuzia. Spirito di sacrificio. Capacità di immagazzinare conoscenze, informazioni e abilità sempre nuove. Io, mi disse, parlo correntemente molte lingue e l’aver visto la luce mille e ottocento anni fa non mi ha impedito di imparare a imbracciare le armi da fuoco, a guidare l’automobile, a pilotare un aereo, a usare un personal computer, un telefono cellulare o una carta di credito. Adattarsi può significare abituarsi a mangiare qualsiasi cosa, cavallette, arrosto di serpente, latte di cammello, alghe, nidi di rondine senza fare gli schizzinosi… E anche abituarsi all’idea di dover cambiare spesso luogo di residenza per evitare che il segreto trapeli, a costruirsi di volta in volta un’identità fittizia ma credibile. Non è molto difficile procurarsi dei documenti contraffatti.

 

E l’amore?

Era stato lui a chiudere gli occhi, quando glielo avevo chiesto. Mi manca, come le lacrime che non posso piangere, come i figli che non mi è dato di generare. Mi sono portato a letto tante donne, in questa mia vita senza fine, ma sono sempre stato attento a non creare dolore. Già, come se un abbandono non lo fosse. Ma quello è un dolore destinato a passare, una ferita che non impiega molto a rimarginarsi. Io non invecchio e non muoio, a differenza di chi mi sta accanto. Ma non sono come la jana di quella tua favola. Io sono un uomo, con le mie miserie, la mia pietà, il mio coraggio e le mie paure, che neppure la certezza di non poter morire riesce a cancellare. Io… Io non potrei sopportare di vederti soffrire per causa mia.

 

Lo guardai un’ultima volta, la testa rovesciata all’indietro, i lunghi capelli castani ancora umidi, le palpebre abbassate su quegli occhi che non potevano piangere. E in quell’istante compresi che l’avrei perduto. Presto.

 

EPILOGO

 

Sono passati già due anni da allora, ma non credo che avesse ragione quando diceva che avrei fatto in fretta a dimenticarlo. Così non è stato anche se ci ho provato, se sono uscita qualche volta con un collega, un bravo ragazzo che piaceva tanto a zia Maria e a quell’impicciona di Peppa. Ma oggi è un giorno speciale. Diverso. Sono cominciate le vacanze estive, e ho ricevuto una e-mail sul mio pc. Mi sono trasferito in Corsica, con i miei cavalli neri e i miei cani che sembrano lupi. Diceva. Avrei tanta voglia di vederti ancora… Olivia.

Anch’io ho tanta voglia di vederti ancora, pensavo stipando la mia roba dentro la valigia. E immedesimandomi nel giovane cacciatore che un giorno, tanto tempo fa, mentre inseguiva un cinghiale ferito, aveva incontrato la jana.

 

FINE

Lalla, 7 gennaio 2003

 

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[1] Zia, appellativo con cui ci si rivolge alle donne anziane, non necessariamente parenti.

[2] ”Se non temi il demonio è brutto segno, ragazzina.”

[3] Fata.

[4] Ho scelto per la protagonista del mio racconto questo cognome perché è molto comune in Sardegna. Non ci sono altre ragioni.

[5] Si tratta di spiritelli malvagi che, secondo la tradizione, dovrebbero spaventare i bambini disubbidienti.

[6] Salvatore.

[7] Maledetto maestrale! Mi sembri s’Erkidu quando a notte fonda se ne va in giro muggendo e scalpitando per le strade del paese. E allora tutti, bimbi, donne, uomini forti, vecchi e giovani tremano di paura.

 

[8] Giovenale, Satira Sesta.

 

[9] Coltello a serramanico prodotto artigianalmente dai coltellinai di Pattada (Sassari).

 

[10] Gli escrementi equini contengono le spore della grave malattia; pertanto la vaccinazione è obbligatoria per chi lavora a contatto con i cavalli.

 

[11] Bellissima e turisticamente ancora poco sfruttata località balneare della Sardegna centrale.

[12] Il più moderno e attrezzato ospedale di Cagliari.

[13] Vino rosso ad alta gradazione.