Storie de Il Gladiatore
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Storie ispirate dal film Il
Gladiatore |
Lettura
sconsigliata ai minori di anni 18 |
Massimo
l’Immortale
RONCISVALLE
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori
le cortesie, le audaci imprese io canto…
(Dal proemio dell’Orlando Furioso, di L. Ariosto)
Versante
spagnolo dei Pirenei Settentrionali, Anno Domini 777, tarda primavera.
Il sole di maggio
non aveva sciolto la neve sui picchi che si stagliavano contro il cielo terso,
ma il bosco pulsava di colori e di nuova vita, pensò il cavaliere ammirando il
paesaggio che lo circondava, mentre il suo grande cavallo da guerra procedeva
al passo, fermandosi, di tanto in tanto, a brucare un ciuffo d’erba fresca, che
sapeva di fiori e di aromi. C’era un buon profumo, nell’aria. Certo, non era
frequente, di quei tempi, godersi in tutta tranquillità la bellezza del
paesaggio incontaminato senza essere costretti a guardarsi le spalle dai
nemici. Ma il tempo della guerra sarebbe tornato, come erano tornati i voli
delle rondini nel cielo, le margherite sui prati e il profumo della menta
nell’aria sottile e frizzante del primo mattino.
E, in attesa della
guerra, sarebbe tornato il tempo della caccia, svago e necessità per i nobili
guerrieri come lui, perché ricca fosse la sua tavola imbandita, caldo il suo
letto e, inseguendo le prede come fossero state Saraceni dalle scimitarre
ricurve e dai lunghi mantelli svolazzanti, Avari dalle code equine, selvaggi
Sassoni adoratori del tuono e della pioggia, Longobardi mancatori di parola,
non disimparasse neanche per un istante chi era. Il fabbro avrebbe fuso e
battuto per lui frecce micidiali, giavellotti leggeri come piume, spade, asce e
mazzafrusti. Per la guerra prossima ventura contro i nemici di Dio e della Fede,
pensò accarezzando l’elsa della sua lunga spada: era un dono del suo signore,
realizzata con il migliore acciaio, e il suo filo avrebbe potuto tagliare
longitudinalmente un capello. Nell’impugnatura, poi, erano state richiuse le
sacre reliquie di San Giorgio martire guerriero. Con quella spada in pugno
aveva giurato fedeltà a Dio e al re, quando aveva ricevuto l’investitura a
cavaliere. Con quella spada aveva portato via la vita ai nemici, Saraceni dalle
scimitarre ricurve, Avari dalle code equine, Sassoni selvaggi, traditori
Longobardi. Inseguendoli come soleva inseguire il cervo dagli ampi palchi,
guardandoli negli occhi prima di colpirli, come era solito fare con i lupi,
creature vomitate sulla terra dall’inferno più profondo per portare al il
genere umano lutto, tormento, rovina e pericolo.
Quei boschi, pensò,
dovevano brulicare di selvaggina: daini, cervi, cinghiali, uri. Ma anche lupi,
linci e orsi. Gli sarebbe piaciuto stanare qualcuna di quelle belve e sfidarla
guardandola negli occhi come in un duello all’ultimo sangue, per poi colpirla
al cuore e portarle via la vita. Il piacere era anche dato dall’ebbrezza del
pericolo, mai lui si sarebbe abbassato a cacciare con il falcone anatre e
beccacce, come le donne e i preti.
Smontò da cavallo,
si diresse verso la roccia da cui il vento e la pioggia non avevano cancellato
quelle scritte, vergate in caratteri arabi, nonostante fosse passato tanto
tempo. Si morse la bocca per non ricordare quel che aveva significato scoprirle
e costringere il priore di un non lontano convento a leggergliele. Lui non era
in grado di farlo neppure con la sua lingua: del resto, chi ha detto che un
guerriero debba saper leggere e scrivere e debba anche conoscere la lingua
degli infedeli? Sono altre, e ben più importanti, le abilità richieste a un
combattente e quelle mai gli avevano fatto difetto. Nemmeno quando l’amore era
stato a un passo dall’impadronirsi della sua ragione, tanti anni prima.
Il sottobosco
odorava d’erba fresca, di terra smossa, dei primi frutti che la primavera
faceva nascere tra i rovi. Ma anche di piccoli animali morti, di brandelli di
carne che, rifiutati dai predatori, marcivano al suolo, contribuendo a
concimarlo, a renderlo più fertile e più ricco. Si stiracchiò, facendo
schioccare le ossa della schiena. Era sempre agile, integro e forte, si disse
da sé solo, ma non lo sarebbe stato ancora per molto: di lì a tre mesi, avrebbe
compiuto quarant’anni e, se era stato fortunato ad arrivarci, quell’età
rappresentava la soglia della vecchiezza e l’addio definitivo ad una vita che
aveva preteso molto da lui. Ma l’aveva appagato. Dopo, si sarebbe rassegnato a
trascorrere gli inverni nel suo castello senza attendere, con la primavera, gli
eventi che altri e non lui avrebbero vissuto. E sarebbe finito il tempo della
caccia al cervo, al lupo e al cinghiale, degli inseguimenti tra le forre, dei
limieri[1] che fiutavano l’usta[2], naso all’aria e circondavano la preda
terrorizzandola con i loro alti latrati. Orlando, conte di d’Anglante e di
Blaye, nipote del Re e comandante delle sue guardie, si sarebbe dovuto
rassegnare a cacciare anatre e beccacce con il falcone. Come le dame. Come i
preti.
L’ORSA
Il cavaliere si
chinò a raccogliere un ciuffo d’erba fresca, solo per il gusto di strapparla
dalle sue radici e di gettarla lontano, quasi con cattiveria. Come nove anni
prima, quando aveva scoperto, dalle parole dei pastori e dal balbettio
imbarazzato del vecchio priore che sapeva la lingua degli infedeli, che la
donna per cui moriva amava un altro.
La donna per cui moriva,
già. Pensò. La donna che il destino non aveva voluto dargli in sorte. Quella
che voleva con tutto se stesso, malgrado fosse legato a un’altra, alla madre
dei suoi figli. Ma l’avrebbe ripudiata senza rimpianti, se la donna infedele,
che aveva pelle d’alabastro, stretti occhi d’ossidiana e capelli neri come le
ali dei corvi, avesse accettato le sue profferte invece di fuggirlo come la
peste. Nello stesso modo in cui suo zio, il suo sovrano, aveva rispedito a
Pavia presso il padre, Ermengarda, la grassa e sciatta figlia di re Desiderio,
che la ragion di stato l’aveva costretto a sposare senza amore e che non era
stata neppure capace di dargli un figlio che assicurasse continuità alla casata
d’Heristal.
Le parole che quasi
lo avevano ferito a morte erano ancora incise in quei frammenti di roccia che
non era riuscito a demolire colpendola con la spada che, come la sua anima, era
stata consacrata a Dio, non a pensieri oziosi, a desideri carnali. Era stato
l’uomo, a inciderle con un punteruolo. Si chiamava Moahmed Hor[3], ed era un guerriero saraceno. I pastori gli
avevano detto che era giovane, bello come un angelo e ferito in modo tanto
grave che ben difficilmente sarebbe sopravissuto. E invece… E invece era
scampato all’inferno, e l’aveva portata via. Inshallah, dicevano quelli
come lui. Sia come Dio vuole: anche se non è ciò che noi vorremmo.
“Avrà avuto sì e no
vent’anni e non era certo quel che aveva detto d’essere lei, la figlia del più
grande re dell’Oriente, ma un semplice fantaccino armato con una leggera
corazza di cuoio, arco e frecce. Erano belli, però, insieme, lei piccola e
bruna, lui alto e biondo come la statua di San Michele sull’altare della
chiesa…” Alto e biondo, già. E con due occhi di un azzurro trasparente come
l’acqua gelida delle sorgenti dell’Ebro, ai piedi di quelle montagne. Sembrava
il ritratto di un Sassone o di uno Scandinavo, quello, non certo di un
Saraceno. Ma nel momento in cui il pastore gliene aveva parlato, mostrandogli
il braccialetto d’oro che egli stesso aveva donato alla donna come pegno del
suo amore, la rabbia e la gelosia gli avevano impedito di ragionare su quelle
incongruenze. Grazie a Dio, qualche santo gli aveva messo le ali ai piedi,
facendolo fuggire prima che potesse uccidere il poveretto, testimone ignaro di
ciò che egli non avrebbe voluto accadesse.
Le dita di Orlando,
conte d’Anglante e di Blaye, corsero lungo le incisioni nella roccia,
accarezzando i nomi dei due amanti, Moahmed Hor, miserabile infedele, e Han
Cheng3, la figlia dell’Imperatore del Catai[4].
Possiate essere
maledetti per sempre, bofonchiò tra i denti, prima di voltarsi in direzione del
cavallo. Era tempo di tornare.
E fu allora che la
sentì, prima ancora di vederla. E quando la vide, era tardi: un’orsa gigantesca
che, sbucata dal nulla, gli caracollava contro mostrandogli le zanne
impressionanti, i lunghi artigli taglienti come coltelli. Era primavera
inoltrata, il tempo in cui le femmine degli animali avevano figliato da poco e
la necessità di difendere i cuccioli poteva renderle pericolose. I cuccioli,
già. Accanto al tronco marcio di un albero abbattuto, i due orsacchiotti
giocavano ignari. Avessi avuto l’arco e le frecce. Avessi avuto… Non fece in
tempo a pensare ancora che sentì il puzzo acre e il peso della belva
travolgerlo, gli artigli lacerargli la carne del braccio fino all’osso. Fece
appena in tempo a raccomandarsi l’anima a Dio, e poi fu il buio.
HILEZKOR
Non sono morto, si
ritrovò a pensare. No, non lo era. Perché se lo fosse stato, non avrebbe sentito
dolore, sete e arsura. Non avrebbe avuto, negli sprazzi di lucidità tra un
delirio e l’altro, modo di vedere l’ampio letto dove giaceva: non aveva cortine
e baldacchino come i letti dei nobili signori ed era coperto da soffici pelli
d’orso e di lupo. Fuori, ricordò, non faceva freddo, ma lui batteva i denti
come nel gelo dell’inverno, nonostante il fuoco che ardeva gagliardo nel grande
camino di pietra.
No, non era morto,
il conte d’Anglante e di Blaye. Non era morto ancora.
Chissà quanto
sarebbe durato, pensò l’uomo scotendo la testa. La fronte gli scottava come il
fuoco e la ferita che le grinfie dell’orsa avevano aperto sul suo braccio era
tanto profonda da lasciar intravedere il biancheggiare dell’osso. Era brutta,
brutta parecchio, pensò ricacciando all’indietro con un gesto nervoso della
mano i lunghi capelli castani che gli scendevano fino alle spalle. Lacera e
sporca di terra e di sangue incrostato. Cancrena. Il rischio era serio e
concreto, le ferite prodotte dai denti e dagli unghioni degli animali avevano
di frequente quella terribile conseguenza. E se il destino ti risparmiava di
marcire ancora vivo potevano esserci gli spasimi e la rabbia in agguato, che
portavano inevitabilmente alla morte dopo atroci sofferenze. Con un cenno della
mano, l’uomo ingiunse al suo servo di avvicinarsi.
- E’ un guerriero, Sidi[5]. Un cavaliere del signore d’Austrasia e
Neustria[6]…
Un nemico, avrebbe
voluto dirgli il giovane dalla pelle olivastra e dai tratti sottili che gli era
scivolato accanto leggero come il balzo di un gatto selvatico sulla preda. Un
nemico come avrebbe dovuto esserlo lui, che era bianco e cristiano. Ma al
signore della rocca abbarbicata in mezzo alle montagne, a colui che i Saraceni
chiamavano Al Khalid e i Guasconi Hilezkor, non importava nulla
di quel dettaglio. Chiunque fosse il cavaliere che, nel bosco, aveva salvato
dagli artigli di un’orsa inferocita, aveva bisogno d’aiuto: un bisogno
disperato.
- Il Profeta, se
non mi sbaglio, ha insegnato alla tua gente il valore dell’ospitalità e della
misericordia, Osman.
- Il Profeta ci ha
anche ingiunto di lottare contro i nemici di Allah, Sidi.
- Arroventa l’attizzatoio, Osman. Possiamo
riporre solo nell’azione del fuoco la speranza di salvarlo. E chiama gli altri.
Sentirà parecchio dolore quando gli cauterizzerò la ferita e bisognerà tenerlo
fermo.
Eh già. Sarebbero
occorse le braccia di quattro uomini forti per inchiodare al letto un individuo
come quello. Era alto e snello, non più giovanissimo, i capelli bruni e folti che
portava raccolti sulla nuca con un laccio di cuoio erano attraversati da spesse
striature grigie, al pari della barba che gli copriva la gola e le mascelle. Ma
i muscoli asciutti ed allungati tradivano un grande vigore fisico, tutta la
forza di un guerriero abituato a muoversi portando addosso una pesante
armatura, a sollevare lo scudo e a maneggiare la spada, la lancia e il
mazzafrusto. Non sarebbe stato facile tenerlo fermo. Avrebbe inarcato la
schiena e urlato come un ossesso, si sarebbe dimenato rendendo difficoltoso il
lavoro del suo signore. Ma lui e i suoi compagni, quattro montanari baschi
dalla corporatura tarchiata e dalle facce lentigginose cotte dal sole,
avrebbero fatto del loro meglio per impedirgli di muoversi.
- Fate attenzione…
ai suoi denti e alla sua bocca. Non credo che l’orsa fosse rabbiosa, ma in
questi casi la prudenza non è mai troppa.
- Quel che
desiderate sarà fatto, Hilezkor.
Orlando, conte
d’Anglante e di Blaye, Paladino del Regno Franco, aveva sentito il fuoco
mordergli la carne, mentre la ferita veniva cauterizzata. Aveva visto quattro
uomini robusti tenergli ferme le braccia e le gambe e un altro, anch’egli
grande e forte, avvicinarsi brandendo il ferro rovente. E’ necessario, gli
aveva detto, parlandogli nella sua lingua. Questo lo sapeva. Non era medico né
guaritore ma, da combattente, aveva visto ferite di tutti i generi curate
sempre nello stesso modo: il fuoco arrestava le emorragie, bloccando il flusso
del sangue, e impediva che la cancrena facesse marcire la carne ancora viva. Ma
non sempre. E gli artigli degli animali, la sua esperienza di cacciatore
gliel’aveva insegnato, causavano le ferite peggiori, talvolta anche la rabbia,
che portava alla morte tra indicibili sofferenze.
Aveva stretto i
denti per non urlare come una donnicciola e, prima che uno svenimento pietoso
lo togliesse di coscienza, aveva sentito le voci di quegli uomini farsi sempre
più lontane, veduto i loro lineamenti confondersi in una nebbia indistinta.
Erano giovani, tutti e cinque. Molto più di quanto non lo fosse lui. Uno aveva
la pelle scura e i tratti affilati dei Saraceni, gli altri i capelli chiari e
la sagoma tarchiata dei contadini di quelle parti. E l’ultimo… Era bello e
gagliardo come Thor, il Signore del Tuono che i suoi avi avevano venerato prima
di conoscere il vero Dio ai tempi ormai lontani di Clovis il Santo. Aveva occhi
chiari, un volto delicato incorniciato da splendidi capelli e da una corta
barbetta, grossi bicipiti adorni di bracciali d’argento che il giustacuore di
cuoio privo delle maniche gli lasciava scoperti.
I suoi servi lo
chiamavano Hilezkor. Aveva percepito quella parola in lontananza, il
conte d’Anglante e di Blaye, in un breve sprazzo di lucidità tra un delirio e
l’altro. Suo nonno gli aveva parlato di un uomo che portava quel nome e che
aveva combattuto con lui a fianco di Carlo Martello a Poitiers, quando
l’avanzata, che sembrava inarrestabile, dei Mori era stata fermata. Un
gentiluomo basco dall’aspetto formidabile, uno stratega abilissimo, un
combattente temerario senza il contributo del quale, forse, quella battaglia
non sarebbe stata vinta, e sui colli di Roma sarebbe stata issata la bandiera
verde dell’Islam.
Hilezkor. Così lo chiamavano i montanari baschi.
Sicuramente quell’altro doveva essere stato un suo antenato, e con le terre e
il castello gli aveva trasmesso anche il suo soprannome. Hilezkor era lo
stesso di Al Khalid. Era così che lo chiamava il suo servitore
arabo. Due parole diverse, in due diverse lingue, per indicare lo stesso
concetto: Immortale.
OSMAN
Osman si passò la
mano sui corti riccioli neri, poi si strofinò gli occhi per scacciare il sonno.
Il suo signore gli aveva ordinato di vegliare accanto al ferito, finché un altro
degli uomini non gli avesse dato il cambio. Potrebbe morire, gli aveva detto, e
non voglio che muoia solo.
Come poteva
prendersela tanto a cuore per un individuo che non gli era niente? si domandò
il ragazzo. Forse perché, contrariamente a parecchi cristiani, che avevano
disimparato l’insegnamento del loro profeta, lui si portava addosso la smania
di mostrarsi caritatevole ad ogni costo. Anche con i nemici. Era un individuo
strano, il suo signore.
Ma era anche un
brav’uomo, Al Khalid. Lo era stato pure con lui quando, a dodici
anni, si era ritrovato orfano e solo, dopo che un manipolo di cavalieri come
quello che adesso gli giaceva davanti più morto che vivo, con gli occhi chiusi
e il braccio fasciato da una benda chiazzata di sangue e materia infetta, aveva
sterminato la sua famiglia e incendiato la sua casa. Cavalieri di Re Carlo
d’Heristal, nemici dei nemici di Dio. Eppure, il Dio in cui gli era stato
insegnato a credere, Allah il Grande, il Misericordioso, era lo stesso dei
Cristiani e degli Ebrei. Erano passati tanti anni da quando l’imam[7] della moschea gli aveva detto che Ebrei,
Cristiani e Musulmani affondavano tutti quanti le loro radici in Abramo e
credevano negli stessi valori, oltre che nello stesso Dio. Allora, perché li
divideva il mare dell’odio?
Non avresti dovuto
uccidere l’orsa che lo aveva assalito nella foresta, Sidi. E adesso fai
male a prodigarti per lui perché si salvi. Se guarirà, se ne andrà. Ma non
passerà molto tempo, e lo vedremo tornare. Alla testa di un esercito di fanatici
che ci stermineranno tutti e faranno di quest’oasi di pace un cimitero. Che
bruceranno i tuoi campi come a suo tempo bruciarono la mia casa.
Glielo dirò, quando
lo vedrò. Pensava guardando la sagoma del ferito che giaceva sul letto, alzando
con il suo respiro irregolare e affannoso le coperte che lo avvolgevano per
difenderlo dal freddo che solo lui sentiva. L’aria era impregnata dell’aroma
resinoso delle torce e di un fetido sentore dolciastro che gli indugiava nella
gola, provocandogli una leggera nausea. Era il braccio dell’infedele, a puzzare
in quel modo. Non si sarebbe salvato, e forse era meglio così.
- Vai a dormire,
Osman.
Sarebbe stato lui a
dargli al cambio, vegliando il moribondo perché non si ritrovasse solo,
nell’attimo del suo appuntamento col destino. Teneva una torcia in mano ed era
seguito dai suoi cani, una coppia di giganteschi mastini bianchi del tutto
simili a quelli che vegliavano sulle greggi tenendo lontani lupi, orsi e
predoni. La luce della fiamma lo illuminava abbastanza da permettere ad Osman
di distinguere, nel buio, i suoi tratti. Aveva morbidi lineamenti nordici,
grandi occhi azzurri, lunghi capelli castani sfumati di miele e di rame, spalle
possenti e grosse braccia forti. Era come loro. Forse era uno di loro. Uno a cui
era stato insegnato a cavalcare, a battersi con coraggio e sprezzo del
pericolo, a considerare nemici tutti coloro che professavano un altro credo e
avevano pelle scura e tratti stranieri. Uno a cui era stato insegnato che anche
i bambini dei nemici vanno sterminati, come si fa con i cuccioli di volpe.
Eppure, lui lo aveva salvato da chi voleva ucciderlo, aveva curato le sue
ferite, dato cibo alla sua fame, conforto alle sue lacrime e rifugio alla sua
solitudine.
- Buona notte,
ragazzo mio.
- Buona notte a
voi, Sidi.
***
La notte non si era
portata via la vita dell’infedele come il suo signore aveva temuto e lui,
forse, sperato. Quell’uomo doveva avere una fibra d’acciaio, com’era lecito
attendersi da un guerriero qual era. Nei momenti di lucidità che
inframmezzavano il suo torpore non emetteva un lamento, anche se il braccio,
che doveva fargli un male d’inferno, gli si era gonfiato da mettere paura, e
questo non lasciava presagire niente di buono.
- Forse le sue
condizioni migliorerebbero se si riuscisse a spurgare quel braccio dal sangue
infetto.
L’aveva fatto con
le sue bestie, qualche volta, mai con gli esseri umani. Ma se non ci avesse
provato il ferito sarebbe morto. E’ giusto farlo soffrire ancora? Doveva
essersi domandato mentre arroventava sul fuoco la lama del coltello. Il sangue
marcio gli sarebbe potuto con facilità schizzare addosso, per cui si era tolto
la tunica e Osman guardava il suo corpo possente, segnato dalle cicatrici, i
muscoli contratti del collo e delle braccia, la smorfia che la diceva lunga
sugli sforzi che stava facendo per ricacciare indietro la nausea che dallo
stomaco gli era salita fino alla gola.
Il bacile di rame
raccolse parecchio del suo sangue putrido, prima che la ferita gli venisse
lavata con l’aceto e fasciata con bende pulite. Sembrava, o forse era solo il
riflesso delle torce che illuminavano la stanza, che le sue guance avessero
ripreso un po’ di colore, che il suo respiro si fosse fatto più regolare. Ma
anche quelle, sicuramente, erano illusioni soltanto.
- Io credo che
avrebbe bisogno di un medico vero, - disse Osman alzando le spalle. E non di un
cristiano. Erano ciarlatani, quelli. Non lo disse, ma lo pensò e il suo signore
Al Khalid che aveva la pelle color dell’avorio e gli occhi azzurri, come
al solito gli lesse nel pensiero.
- Cercarne uno
potrebbe comportare un lungo viaggio, dacché Pamplona e Saragozza sono cadute
nelle mani di Re Carlo e i Saraceni e gli Ebrei sono stati scacciati. Essere
qui di ritorno con il medico richiederebbe giorni, e non c’è tempo da perdere.
Trasportare il ferito, nelle condizioni in cui si trova… Sarebbe impossibile,
Osman. Morirebbe strada facendo.
Era triste, come se
chi non poteva aiutare fosse suo fratello, non un estraneo o, peggio, un
possibile nemico. Che ve ne importa, avrebbe voluto dirgli. Avreste dovuto
lasciare che quell’orsa lo uccidesse, che i lupi e i corvi si saziassero dei
suoi putridi resti. Certa gente non merita pietà, e voi siete troppo buono, Sidi.
- Aggioga la mula
alla carretta, Osman. Quello di cui quest’uomo ha bisogno non sta molto lontano
da qui.
Un’intuizione. Un
sorriso che si accese sulle labbra del signore di quei luoghi e spense quello
del giovane moro. C’erano una decina di miglia dalla rocca di Hilezkor e
l’antica fortezza romana nascosta dietro le colline ai piedi del Passo, in
posizione strategica. Quelli venuti dall’est stavano lì da otto anni almeno con
il consenso del suo signore. Cercavano casa e rifugio perché erano in fuga,
braccati come lupi dai cacciatori, e molte costruzioni all’interno della
Fortezza erano solide ancora abbastanza da accoglierli, malgrado lo scorrere
implacabile del tempo e il succedersi degli eventi. Con loro, si diceva, c’era
la donna più bella che mai si fosse vista, la preda sulle tracce della quale si
erano scatenati i cani vestiti di cuoio e di ferro, i feroci cavalieri di Re
Carlo, che fossero maledetti.
Osman aveva
aggiogato al carro la vecchia mula. Avreste dovuto lasciar fare al destino,
pensava guardando due robusti montanari caricare sul pianale il corpo inerte
del moribondo, mentre il suo signore, inforcato il cavallo, lo spronava a
muoversi in direzione sud-ovest. Verso la Fortezza.
Il destino mi
sarebbe stato amico, perché se quest’uomo che sta morendo di febbre e di
cancrena non è uno di loro, è quello che erano loro. Invece, lo stiamo portando
verso la salvezza. Perché Kai Ge, il Saggio, salverà dall’inferno anche la sua
sporca vita.
KAI GE
Orlando, conte d’Anglante
e di Blaye, sussultò alla voce che veniva dai suoi sogni ed era quella di un
vecchio. Come ad un vecchio apparteneva la piccola sagoma curva che avanzava
verso di lui appoggiandosi pesantemente a un lungo bastone, per poi fermarsi ai
piedi del suo letto.
Sto sognando. Si
disse da sé solo mentre le dita dell’uomo, fredde come le zampe di una
salamandra, gli sfioravano la fronte, la base del collo, i margini slabbrati e
infetti della ferita.
- E’ conciato
piuttosto male, ma sopravvivrà. La mia scienza, che è quella antica della mia
gente, stanerà il male dal suo corpo senza dolore e senza lame roventi,
semplicemente ricreando in esso l’equilibrio tra caldo e freddo, acqua e fuoco,
umido e asciutto, maschile e femminile, positivo e negativo…Yn e Yang…
Stava sognando, sì.
Un sogno che veniva dai recessi di un passato nel quale aveva rischiato la
follia e da cui solo Dio l’aveva aiutato ad uscire senza troppi danni. E il
vecchio dalla voce rotta, che faticava a pronunciare la lettera r, apparteneva
a quei giorni. Non poteva essere altrimenti, la testa calva, gli stretti occhi
orlati di rosso nel volto pallido e rugoso erano una fantasia e un ricordo,
quello soltanto. Come la figurina delicata e sottile che gli si era
materializzata accanto e gli porgeva i lunghi aghi d’argento che il vecchio
conficcava nel suo braccio quasi senza guardare, come se conoscesse a memoria
la geografia della sua carne, senza infliggergli dolore, anzi, attenuando
quello terribile della ferita infetta.
Orlando, conte d’Anglante
e di Blaye, sentiva che la febbre lo avrebbe presto lasciato, che la ferita si
sarebbe rimarginata senza conseguenze, anche se quella del vecchio doveva
essere magia, opera del demonio e ciò che gli stavano facendo, se non era un
sogno che gli mandava il delirio, sicuramente non era giusto.
La donna, il cui
volto era nascosto tra le ombre di quella stanza male illuminata, indossava una
corta tunica scura, pantaloni ampi e aveva i capelli corvini stretti in una
spessa treccia che le arrivava alle anche. Era minuta e sottile, molto più di
quanto non lo fossero le altre donne che Orlando aveva conosciuto, Franche,
Sassoni, Bavare, Italiche, Longobarde, Saracene. Dal tavolino da notte, aveva
preso una ciotola piena d’un liquido dal profumo intenso e pungente, che s’era
affrettata a porgere al vecchio.
- Adesso avrei
bisogno di qualche pezza pulita, Han Cheng, mia principessa.
Gli occhi del conte
d’Anglante e di Blaye, Orlando, Paladino del Regno Franco, si allargarono nella
semi oscurità, quasi a voler catturare quell’incubo scaturito dai recessi del
passato e della follia onde esorcizzarlo, una volta per tutte. Han Cheng. Han Cheng… Angelica…
HAN CHENG
- Credi… che si
renda conto di ciò che gli succede intorno?
- Prima no di
certo. Ora, non so. E’ stato sul punto di morire, e temo sia ancora in pericolo
di vita.
Conosceva a memoria
quel viso, anche se erano trascorsi quasi tre anni dall’ultima volta in cui le
aveva parlato, dall’ultima volta in cui… Il signore della Rocca che guardava il
Passo si morse le labbra per non pensare a quei momenti.
- Perché lo hai
portato qui?
Han Cheng non aveva
la vocetta sottile e petulante delle altre donne della sua piccola corte, ma
una voce bassa e melodiosa che gli rimescolava ogni volta il sangue, non meno degli
occhi neri, obliqui come quelli di una lupa, che guardavano dritto dentro i
suoi. Ma non con la malizia d’una femmina di malaffare: come lo avrebbe
guardato un suo pari, un uomo, un soldato, uno che esige risposte che non siano
bugie.
Erano passati tanti
anni dalla prima volta in cui l’aveva incontrata. Otto. Anzi, quasi nove, se
non ricordava male.
- Perché l’hai
portato qui… Maximus?
- Mi sembra
evidente. Quell’uomo sarebbe morto senza l’intervento di Kai Ge.
- E tu avresti
dovuto lasciarlo morire.
La fiamma della
lanterna illuminò il volto delicato della donna. Gli anni sembravano passati
invano anche per lei, si ritrovò a pensare l’uomo. Quanti erano? Trenta, se non
di più. Eppure aveva ancora il viso liscio di un pallore alabastrino, i lineamenti
minuti che la facevano rassomigliare a una piccola statuetta intagliata
nell’avorio dalle mani di un artigiano dotato di una perizia e di una
sensibilità che travalicavano le capacità umane.
- Quest’uomo…
Avrebbe voluto
dirgli quel che gli aveva detto Osman: è un nemico, porterà scompiglio,
distruzione, rovina e morte in questo angolo nascosto dove, finora, siamo stati
dimenticati e lasciati in pace. Forse aveva ragione. Se fosse guarito, il
cavaliere sarebbe tornato, perché quelli come lui non conoscevano onore e
gratitudine. Sarebbe tornato per lei, pensò la principessa che veniva dai
limiti orientali del mondo e non lontano dagli altri estremi limiti della terra
credeva di aver trovato la pace che cercava.
Potrei credere che
lo conosca, pensò il Signore della Rocca e del Passo guardando come l’ira le
accendeva lo sguardo. Han Cheng diventava stupenda quando la tempesta le
agitava il sangue, quando il fuoco della passione o dell’odio accendeva i suoi
occhi impenetrabili, più neri di una notte senza luna e senza stelle.
Il ferito si
lamentò piano nel sonno, sollevò le palpebre e la fissò a lungo, prima di
mormorare il nome che lei tanto odiava. Angelica. Simile agli angeli. Qualcuno
le aveva spiegato che gli angeli erano creature di puro spirito, talmente
perfette da non provare nulla, né male, né desiderio ma nemmeno felicità.
Quella non era lei. Lei era una donna, non uno spirito incorporeo. Una donna di
carne e di sangue. Qualcuna che lui, forse, considerava sporca e indegna,
perché i suoi occhi erano diversi, perché veniva da lontano, perché non
venerava il suo stesso Dio. Angelica. Il Cavaliere ricoperto di cuoio e di
ferro aveva deciso di chiamarla con quel nome nel segreto del cuore per
giustificare in qualche modo i suoi desideri impuri, le sue intenzioni
malvagie. Aveva una moglie e dei figli, le era stato detto. Eppure l’avrebbe
presa lo stesso, come un animale, appena avesse potuto. E non contava che lei
non volesse. La volontà di una donna non contava nulla, a Oriente come a
Occidente.
Han Cheng aveva
mani piccole e sottili. Mani delicate come il soffio della brezza e le ali
delle farfalle, ma che all’occorrenza sapevano graffiare come artigli. Maximus
tremò, sentendole insinuarsi sotto la tunica e accarezzargli la carne calda e
sudata del petto.
- Voglio fare
l’amore con te.
Maximus inghiottì
il groppo che gli serrava la gola quando sentì quelle parole graffiargli
l’anima così come le unghie lunghe, appuntite e indurite da uno spesso strato
di lacca bluastra gli graffiavano la pelle del petto, delle braccia e della
schiena. Aveva dovuto dirle addio quando lei aveva scoperto la verità sul suo
conto: quell’uomo dolce e gentile, che l’aveva salvata dalla morte, accudita e
nascosta, quell’uomo che le aveva insegnato l’amore, non era come tutti quanti
gli altri. Era inevitabile che accadesse, come puntualmente era accaduto e
sarebbe continuato ad accadere con tutte, dacché era tornato dal Regno delle
Ombre grazie alla magia, quasi seicento anni prima. E avevano deciso di non
cercarsi mai più, anche se ciascuno di loro era ormai entrato nel sangue
dell’altro e recidere quel legame sarebbe stato terribilmente doloroso.
- Voglio fare
l’amore con te, Maximus. Come una volta. Voglio che tu mi faccia ancora gridare
e toccare il cielo. Voglio…
- Non qui. Non
davanti a lui.
Maximus aveva
cercato di sorridere, e non era stato facile. C’è una stanzetta con un letto,
proprio a fianco di questa. E perché non nel tuo letto, Han Cheng? Solo perché
i servi non se ne accorgano e non pensino male di te?
Le labbra della
donna erano piccole, e sinuose, e rosse come ciliegie mature. Il motivo non era
quello, intuì l’uomo guardando indurirsi quel suo viso di bambola, gli occhi
cupi scintillare come lame. Perché voglio che ogni mio sospiro e ogni tuo
gemito siano coltelli piantati fino all’impugnatura nel cuore di Orlando, conte
d’Anglante e di Blaye, paladino del Regno Franco. Di colui che odio con tutta
quanta me stessa.
***
Non te ne importa niente
di quello che sono Han Cheng? E’ ancora tutto come quando… non sapevi? Quando
ancora credevi che io fossi un uomo come tutti gli altri, invece del mostro che
sono?
Un lungo brivido
caldo la percorse dalla radice dei capelli alle unghie dei piedi, quando lui,
dopo averle imprigionato la bocca in un bacio bruciante, la spogliò e la toccò.
Gli piacevano la sua pelle bianca come l’alabastro, i suoi seni non più grandi
di quelli d’una bambina di dieci anni, ma i cui capezzoli turgidi e duri
rivelavano la sua natura sensuale di donna; gli piaceva il suo sesso
completamente depilato, innocente e impudico. Gli piaceva sentirla fremere e
rabbrividire, e gemere come la femmina di un animale quando le sue dita, le sue
labbra, la sua lingua e il suo membro sollecitavano fino allo spasimo le parti
più sensibili del corpo di lei e il confine tra il dolore e il piacere
diventava qualcosa di vago, indefinito… e terribilmente eccitante. Venne, anche
quella notte. Venne quando lui le succhiò i capezzoli con l’ingordigia di un
cucciolo affamato, glieli leccò e glieli morse, mentre i peli ispidi della
barba graffiavano la pelle sensibile delle sue areole. Venne quando lui tuffò
la testa tra le sue gambe e lambì il suo piacere e il suo miele. Venne quando
lui insinuò le dita forti nel suo varco, stupendosi, come sempre, di quanto
fosse stretto. E ogni volta gemette il suo piacere e la sua eccitazione in un
rantolo rauco che divenne un urlo quando lui la penetrò e, muovendosi dentro di
lei, fece sì che raggiungessero insieme un lungo orgasmo che li lasciò esausti
e appagati.
Giacquero a lungo
in silenzio, madidi del loro sudore e degli umori dei loro corpi, che le
lucerne accese illuminavano come oro, come avorio levigato. Chissà se ci
sarebbe stata un’altra volta, si domandò Han Cheng curvandosi su di lui e
iniziando a leccarlo con la sua morbida lingua appuntita. Avrebbe dato a quel
corpo stupendo il piacere che lui aveva dato al suo, si ripromise, e il cane
che giaceva più morto che vivo nella stanza attigua avrebbe ascoltato ancora i
loro gemiti, i loro rauchi sospiri. E avrebbe sofferto l’inferno in terra,
perché era quello, e quello soltanto, ciò che meritava.
Maximus.
Significava il più grande, le aveva spiegato lui, nell’antica lingua delle
genti che, un tempo ormai lontano, avevano dominato il mondo, e quel nome gli
si confaceva. Le era piaciuto non appena l’aveva visto, quell’uomo grande e
forte, dai tratti delicati, dalla morbida barba e i lucenti capelli castani
marezzati d’oro e di rame come una pelliccia di zibellino, dalle iridi che
scintillavano simili a frammenti di giada tra le palpebre pesanti, frangiate da
lunghe ciglia dorate. Le era piaciuto, anche se era completamente diverso da
lei e dagli uomini della sua razza.
Aveva amato la
dolcezza quasi materna con cui si era preso cura di lei, la sollecitudine con
la quale aveva fatto sì che potesse riunirsi ai pochi sopravissuti del suo
seguito, il coraggio temerario con cui era riuscito a recuperare parte del
tesoro della sua dote, che le era stato rubato. Dopo aver sistemato nella
Fortezza lei e i suoi servitori, si era preoccupato di recarsi a Valencia per
procurarle, tramite un gruppo di mercanti arabi in affari con l’Estremo
Oriente, tutto quel che poteva occorrerle, dal mobilio alle suppellettili,
dagli abiti alle derrate di quella granaglia biancastra che i Mori avevano
iniziato a coltivare nelle huertas[8] dell’Andalusia, chiamavano al arroz[9], sapeva di amido e di cera e costituiva, per i cinesi, la base
dell’alimentazione.
Si era sforzata di
non amarlo, come aveva giurato a se stessa che non avrebbe amato mai nessuno,
perché l’amore è una gabbia e lei di sbarre ne aveva avuto abbastanza fin da
bambina. Una prigione, per quanto dorata e fastosa possa essere, è sempre una
prigione e niente e nessuno avrebbe potuto costringere il suo spirito tra
quattro mura. Aveva sei anni, quando avevano tentato invano di storpiarle i
piedi[10] e né lusinghe né minacce erano state capaci
di domarla. Alla fine, perfino suo padre, quella divinità distante che ella
stessa vedeva pochissime volte, prigioniero del suo potere e della sua
grandezza nei palazzi imperiali di Chang’han[11] si era dovuto rassegnare. Han Cheng era una
principessa e poco sarebbe importato della grandezza dei suoi piedi all’uomo a
cui era stata destinata nel momento stesso in cui era venuta al mondo, Abd Al
Rahman, il Califfo di Cordoba, signore dei limiti occidentali della terra. Gli
Arabi stavano diventando terribilmente potenti, sarebbe stato impossibile
innalzare a difesa dalla loro ambizione un’altra Muraglia. Meglio la stipula di
un’alleanza, coronata da nozze reali. E il lungo, difficile cammino di Han
Cheng verso la libertà era cominciato.
[1] Segugi.
[2] La traccia odorosa della grossa
selvaggina.
[3] Si tratta di Angelica e Medoro, i famosi
personaggi di ariostesca memoria. Li ho ribattezzati con un nome arabo e un
nome cinese per non incorrere nelle trappole dell’incongruenza narrativa. Cosa
che, del resto, aveva già fatto lo scrittore italiano Giuseppe Pederiali che,
ispirandosi alle canzoni di gesta e all’Orlando Furioso, ha scritto un bel
romanzo fantasy, “Donna di Spade”. Lui li aveva comunque ribattezzati Mehmet
Hor e Hen Je Lah.
[4] La Cina.
[5] Mio Signore, in arabo.
[6] Regioni del Regno Franco.
[7] Teologo dell’Islam. In questi tempi in
cui spesso sono balzati all’onore delle cronache fatti tragici e inquietanti
legati a certe frange integraliste dell’Islam potrebbe sembrare strano eppure,
nell’alto Medioevo, la civiltà araba era la più evoluta e tollerante del mondo
conosciuto. Fulgido esempio di tale cultura fu la Spagna, in cui Musulmani,
Cristiani ed Ebrei vivevano in pace collaborando proficuamente. Carlo Magno e
altri signori cristiani dell’Occidente costringevano invece, spada alla mano, i
cosiddetti infedeli a conversioni forzate, come accadde nel caso dei Sassoni
pagani.
[8] Terre irrigue della Spagna mediterranea.
[9]Riso.
[10] Si fa riferimento all’usanza invalsa tra
i Cinesi, e consueta fino ai tempi della rivoluzione comunista, di fasciare i piedi
alle bambine per impedir loro di crescere conferendo così alle donne la tipica
andatura saltellante che gli uomini trovavano particolarmente sensuale.
[11] L’antica capitale dell’Impero Tang.