Storie
de Il Gladiatore
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Storie ispirate dal film Il Gladiatore |
Lettura sconsigliata ai minori di anni 18 |
Massimo l’Immortale
PERSONA
Il cielo non minacciava pioggia, e il sole freddo di fine inverno avrebbe asciugato il fango dalle strade, rendendolo duro come e più della pietra. Aldilà del recinto, i suoi cavalli masticavano rumorosamente la biada e lui si ritrovò a pensare d’aver percorso invano la strada da Caen a Bayeux. Sarebbe tornato a casa con le tasche vuote e tutte le sue bestie, ne era più che certo: quando i tempi si fanno difficili e la voglia di buttar via il danaro dalla finestra passa, chi li compra, cavalli come questi? Si chiese da solo, conoscendo già la risposta.
Una puledra dal mantello baio si avvicinò al recinto, gli annusò la mano tesa. Bell’animale. Come gli altri, del resto. Tempo prima, qualcuno era stato addirittura acquistato per le scuderie reali… Ma i tempi non erano più quelli. Meglio sarebbe stato trattare brocchi, muli e asini vecchi, da vendere a contadini e ortolani, gente che poteva permettersi di spendere poco, perché li spremessero finché non gli restava in corpo un soffio di fiato, per poi fare colla delle loro ossa e tamburi delle loro pelli.
Sarebbe dovuto rientrare alla locanda dove aveva alloggiato, preparare i suoi bagagli. Si era proposto di ripartire l’indomani all’alba. Ma la brezza fredda della sera era meglio del puzzo di chiuso e di fumo che stagnava lì dentro, delle voci ubriache di vino e di rabbia, perfino degli osceni rumori corporali di quella marmaglia. E non doveva essere il solo a pensarla in quel modo, considerò guardando l’uomo uscire a lunghi passi dalla porta della bettola per dirigersi verso il recinto dei cavalli. Era smilzo, non molto più basso di lui, con una lunga coda bionda che il vento gli spettinava. Un ragazzo, o poco di più. Ben vestito. Probabilmente ricco. Diverso da quelli che stavano lì dentro a bere, ruttare e bestemmiare. Un nobile. Uno di quelli che loro odiavano. Ci voleva un bel coraggio, ad andarsene in giro tutto solo, con i tempi che correvano.
Il giovane aveva passo leggero, e lunghe mani dalle dita forti. Lui lo guardò tenderne una verso il recinto, ipnotizzato quasi dai suoi gesti sicuri. Lo guardò cercar di attirare l’attenzione del più bello fra i suoi splendidi animali, un arabo dalla testa cesellata e dalla lunga criniera, nero come una notte senza luna e senza stelle. “State attento. E’ irrequieto, ha sentito l’odore di una cavalla in fregola e come se non bastasse non è stato ancora domato. Potrebbe mordervi.” Lo pensò. Ma non glielo disse.
- Quanto volete per lo stallone nero?
- Non lo vendo. Ma posso affittare le sue monte, se disponete d’una giumenta degna di lui.
L’altro sorrise, senza dirgli nulla. I suoi zigomi affilati come spade sembravano voler forare la pelle abbronzata del viso su cui spiccavano denti candidi e un paio d’occhi celesti dal taglio obliquo, acuti come quelli d’un gatto senza padrone. Le guance sottili, incorniciate da molli riccioli che sfuggivano ostinati dalla coda, non recavano ombra alcuna di barba, come quelle di una ragazza. Ma c’erano i solchi di piccole rughe, agli angoli dei suoi occhi, e potevano essere solo opera del tempo. Non si trattava di un giovinetto, malgrado, di prim’acchito, potesse anche sembrarlo. Una strana creatura dalle movenze eleganti, i tratti ambigui, la voce carezzevole. Un cantante. Pensò l’uomo. Un cantante castrato.
La folla li venerava, gli impresari teatrali erano disposti a svenarsi per poter ingaggiare i più famosi. E molti poveracci non esitavano a storpiare i figlioletti che il Padreterno aveva dotato d’una bella voce, con la speranza di farne idoli adorati come antichi dei senza sesso, buffe creature capricciose pagate a peso d’oro per cantare con quelle voci alle quali una brutale mutilazione aveva permesso di conservare la purezza dell’infanzia. Non c’è niente che possa più della miseria, si ritrovò a pensare l’uomo: rischiare la morte del proprio figlioletto per setticemia o dissanguamento è un gioco che vale la candela anche per un padre e una madre, se sull’altro piatto della bilancia ci sono prestigio e ricchezze. Anche se, come in un giro di carte o una partita ai dadi, la fortuna è il destino di pochi. Anche se una vita infelice e un’identità violata sono in realtà la prospettiva dei più. Bisogna essere forti per sopravvivere a tutto questo, pensò l’uomo. E quell’altro doveva esserlo, malgrado l’aspetto diafano da antica divinità silvana e, soprattutto, malgrado quel che l’avidità degli altri aveva fatto di lui.
- Seigneur…
Oscar…
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Oscar. Lancia di Odino. Davvero strano chiamarsi così, per un cantante castrato. Di solito, quelli come lui adottavano vezzosi nomignoli, vestivano d’oro e d’azzurro, muovevano le mani con gesti affettati e avevano i tratti del viso imbolsiti dal grasso. L’uomo si tracannò da solo il suo vino, guardando l’altro allontanarsi senza aver preso niente, dopo che qualcuno lo aveva chiamato con quello strano nome, rivolgendosi proprio a lui; posò quindi il boccale sul bancone e lanciò un’occhiata interrogativa al locandiere.
- Lo conoscete? - Gli domandò.
- I parenti di sua madre hanno una grande proprietà, da queste parti.
La smorfia che torse la bocca dell’oste non poteva essere fraintesa.
- Sua madre è una contessa. Suo padre un generale.
Un generale. Sarà certamente orgoglioso di suo figlio, pensò l’uomo, mentre il locandiere, richiamato da un avventore, si allontanava brontolando. Sales aristocrates. Maledetti nobili.
****
Presto sarebbe calata la notte. Si disse da solo, guardando il sole che tramontava dietro le colline. Brutti tempi, pensò, e non solo per i mercanti di cavalli come lui. Beh, era vissuto abbastanza da averne conosciuti di migliori, ma anche di peggiori, se questo poteva servire a consolarlo.
Si domandò, come spesso accadeva, se ci fosse al mondo qualcuno capace di leggergli dentro il segreto che teneva nascosto da quando era tornato indietro dall’aldilà per opera di magia, ben mille e seicento anni prima. Gli zingari, forse. Si diceva che loro lo potessero. Ed era per quello che la gente li temeva e li odiava, non per i polli che rubavano e i figlioletti che mandavano in giro coperti di stracci a caritare.
Si leccò le labbra aride, ricacciò indietro con la mano un ciuffo di capelli che gli era ricaduto sugli occhi. Ormai da anni si recava a Bayeux per la fiera del bestiame. Li conosceva bene, quegli zingari, tre uomini, beccai e cozzoni[1] di buoi, e una donna che leggeva il futuro nelle carte e sulle linee delle mani. Impossibile non si fossero domandati, guardandolo, come mai il tempo che incideva di rughe la loro pelle color cuoio e disseminava d’argento i loro capelli corvini scivolasse come l’acqua su di lui, lasciandolo indenne e sempre uguale a se stesso. O avevano smesso di farlo, conoscendo già la risposta. Li guardò con la coda dell’occhio trascinare di forza fuori dal recinto un grosso toro e rabbrividì. Stava calando la notte, e faceva freddo.
- Ha un nome, quel vostro bel cavallo che non volete vendere?
Si voltò, e venne a trovarsi faccia a faccia con il figlio effeminato della Contessa e del Generale.
- Ghibli. - Sussurrò. Come il vento che soffia sul deserto. E lo guardò rabbrividire. Ma stava calando la notte, e faceva freddo.
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Oscar François de Jarjais saettò una lunga occhiata indagatrice sull’uomo che gli[2] stava davanti. Un popolano, pensò, con la faccia cotta dal sole e le spalle larghe di chi spacca la legna o batte il ferro arroventato sopra un’incudine. Emanava un’aura di brutale energia a stento trattenuta che si trovò ad invidiargli. Non era la prima volta che gli capitava, in presenza di un uomo tanto prestante. Avrebbe voluto la sua forza. Se l’avesse avuta, la vita gli sarebbe stata più facile pensò, mordendosi le labbra. Aveva notato, lo sconosciuto, quanto erano morbide e sinuose? Aveva notato l’arco delle sopracciglia, la tonalità quasi d’argento delle iridi, la linea elegante del profilo, allo stesso modo in cui lui aveva notato la sua virile bellezza? Voce grave, mascella forte, occhi né verdi né azzurri, capelli castani che gli ruscellavano ondulati lungo una logora giacca di daino, mani grandi e callose, abituate a maneggiare la vanga, l’accetta… O la spada. Chi sei? Avrebbe voluto domandargli. Una divinità barbarica, un eroe tornato dall’aldilà, dal passato e dalle leggende? No. Semplicemente un bifolco che aveva avuto in dono dalla sorte un aspetto fisico che non passava inosservato. E che, con ogni probabilità, considerava imbarazzante se non insolente il modo in cui un altro uomo continuava a fissarlo.
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- Monsieur le Colonel?
- Sono venuto a saperne di lui.
- S’è agitato nel sonno, ma la caduta non dovrebbe aver fatto danni gravi, è solo un po’ ammaccato. Ha avuto fortuna, quel toro avrebbe potuto ammazzarlo.
O avrebbe potuto ammazzare me, si ritrovò a pensare Oscar François de Jarjais. Avrebbe fatto una brutta fine se quel bifolco che sembrava la reincarnazione di Sigfrido non l’avesse spinto via dalla traiettoria della massa nera, scalpitante e furente che, sfuggita al controllo degli zingari, si era precipitata contro di lui a testa bassa, le narici che fumavano, le micidiali corna acuminate pronte a colpire e a trafiggere. Invece, grazie al Cielo, se l’era cavata con qualche livido e i vestiti impolverati.
- Vorrei vederlo.
Il locandiere non avrebbe potuto fermarlo, neanche volendo. Lui non era nessuno, quell’altro il figlio del Generale, Le Comte de Jarjais. Capitava che ogni tanto qualcuno degli avventori della bettola, magari dopo un bicchiere di troppo, sproloquiasse a proposito di tempi nuovi e di un mondo migliore. Ma quel mondo e quei tempi erano ancora di là da venire.
- Andate, Monsieur Le Colonel. Ma forse lo troverete ancora addormentato.
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Colonnello. L’aveva chiamato così, pensò l’uomo rivoltandosi tra la veglia e il sonno, ben difeso dal freddo grazie alle coperte che quell’altro, perché sicuramente doveva essere stato lui, gli aveva fatto portare. Ufficiale, e d’alto rango, altro che cantante castrato. Anche se, a guardarlo, non ci avrebbe scommesso un soldo. Era bello, ma non come può esserlo un uomo: come una donna.
- Chi debbo ringraziare per avermi salvato?
I modi semplici e decisi smentivano quella prima impressione e anche il fatto che avesse trovato strana la faccenda, quando il locandiere gli si era rivolto chiamandolo colonnello. E le pelli che lo avvolgevano con il loro caldo abbraccio dovevano essere appartenute ad orsi e lupi che egli stesso aveva ucciso.
- Maximus.
Maximus. Un nome latino. Semplice indovinare che un figlio del genere doveva averlo deluso, suo padre. Esattamente come lui aveva deluso il suo, nel momento stesso in cui era venuto al mondo.
- Un nome impegnativo, il vostro.
- Un nome latino. Mio padre era di quelli che amano il passato perché detestano il presente e temono il futuro.
- Non credo sia il solo.
- E voi siete…
- Oscar François de Jarjais, colonnello della Guardia Reale.
La luce della lanterna illuminava incerta la stanza. Eppure, lui avrebbe giurato che quell’altro fosse arrossito, mentre gli rispondeva. Come arrossirebbe una ragazza, se un bell’uomo sconosciuto le rivolgesse la parola porgendole magari un fiore, o semplicemente sorridendole. Suo padre era un generale, così gli aveva detto il locandiere. Chissà se aveva motivo d’essere orgoglioso di quello strano figlio. O, più probabilmente, di vergognarsene.
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L’uomo dei cavalli strinse gli occhi, cercando nel buio lo strano volto del suo interlocutore, sottile come quello di un giovane fauno. Gli avrebbe chiesto chi siete, e lui avrebbe fatto bene ad escogitare per tempo qualche bugia credibile che soddisfacesse la sua curiosità. Un padre colto ed istruito, per esempio. Che si sarebbe vergognato se avesse saputo che ne era stato di suo figlio, non fosse morto, in circostanze tragiche, quando lui aveva solo otto anni. Era un uomo discreto, e non gli avrebbe domandato altro. Del resto, i cavalli erano una buona compagnia. Loro e la solitudine. Quella solitudine che lo proteggeva da qualcosa, da qualcuno… forse semplicemente da se stesso.
Si tirò su a sedere sul letto, e una smorfia di dolore gli torse la bocca. L’incidente di poco prima non era trascorso senza conseguenze. Aveva un grosso livido sul petto, notò il Colonnello, forse addirittura qualche costola rotta. Ed era pieno di cicatrici, proprio come un vecchio soldato. Un soldato, già. Le sue non erano le mani di un contadino, ma quelle di un guerriero. Le mani che avrebbe voluto in luogo delle sue, troppo sottili e delicate per essere credibili quando si stringevano intorno all’elsa di una spada. Le mani da cui avrebbe voluto sentirsi sfiorare.
Un ermafrodito che si chiamava come un eroe delle saghe nordiche. Un sensale di cavalli che si portava appresso un solenne nome latino. La vita non segue schemi razionali, il più delle volte. Maximus strinse i denti, per evitare che l’altro gli leggesse in faccia il dolore che sentiva.
- Domani vi manderò un medico. Temo proprio che abbiate qualche costola rotta.
- Non datevi pena… Colonnello. Non ne ho bisogno.
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Gli occhi di quell’uomo selvaggio gli ricordarono le pietre che scintillavano sul diadema della Regina. Strinse le labbra fra i denti, per ricacciare indietro i pensieri molesti che facevano a pugni dentro la sua testa. Valeva la pena di continuare a fingere? Gli sarebbe piaciuto gettare via la sua maschera e la sua corazza, raccontargli quella verità che forse aveva intuito da solo, anche se non aveva spiegazioni che ne giustificassero il perché. La sua vita sarebbe stata diversa, non fosse nato nel palazzo di un nobile generale, ma nella casa modesta dove l’altro doveva aver visto la luce. Se così fosse stato, sarebbe vissuto nella pienezza della verità piuttosto che nel compromesso e nella menzogna. Non sarebbe stato costretto ad accettare l’identità fittizia che gli era stata imposta, sarebbe stato libero di amare… E di odiare: gli aristocratici arroganti di cui sapeva le colpe, il sovrano imbelle e la regina fatua e leggera che le circostanze lo costringevano a servire… Sarebbe stato libero di essere se stesso. Nel bene e nel male.
Il tempo gli scorreva addosso, inesorabile. Aveva capito che non gliene restava molto, quando aveva scoperto quelle chiazze di sangue sul fazzoletto con cui aveva cercato di soffocare un accesso violento di tosse. Un male che non conosceva misericordia, il suo. Lo sapeva. Esattamente come sapeva che anche al suo mondo malato e corrotto non restava molto da vivere. Eppure, gli sarebbe piaciuto che quell’uomo vigoroso con la pelle segnata dalle cicatrici e la schiena marchiata come un delinquente la stringesse tra le braccia e le facesse conoscere l’amore. Prima che fosse troppo tardi.
Avrebbe avuto voglia di raccontargli tutto quanto. Sono una donna, monsieur. Questa mascherata mi è stata imposta da un padre che non accettava la realtà, dopo quattro bambine un’altra figlia femmina. In casa di un nobile, c’è bisogno di un figlio maschio. E a chi un generale potrebbe assegnare la sua eredità di onore e di gloria? Non certo ad una donna.
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Le Amazzoni. Qualcuno gli aveva parlato di loro, tanto tempo prima. Vivevano ai limiti orientali del mondo e avevano fatto della guerra l’unica ragione della loro vita. Non credevano nell’amore, vi avevano rinunciato, consapevolmente, perché ne temevano le conseguenze? Amando, si può concepire un figlio. Amando si può perdere la libertà e diventare schiavi. Ne valeva la pena?
Il Colonnello aveva gli occhi incredibilmente chiari. Più di quanto lo fossero i suoi. Occhi duri e tristi al tempo stesso, segnati agli angoli da un ventaglio di piccole rughe. E il sole aveva bruciato la pelle delicata della sua fronte, asciugato le linee morbide delle sue guance. Si domandò quanti anni potesse avere. Abbastanza da temere quel che il tempo, prima o poi, avrebbe fatto di lei. Le donne hanno paura d’invecchiare. Ma lei non era come tutte le altre. Chissà se aveva mai amato. Chissà se provava rimpianti.
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Oscar François de Jarjais ripensò al Conte di Fersen. Strinse forte i pugni, nonostante fosse acqua passata. Aveva faticato a controllare la gelosia feroce nei confronti di quella Regina a cui aveva giurato una fedeltà che non meritava, l’odio per quel padre che Dio, gli uomini e la consuetudine le imponevano di amare, rispettare e onorare… Non era stato facile.
Acqua passata. Lui le voleva bene come a un fratello, come a un amico. Le parole feriscono, ma non possono uccidere. E l’amore non è un’arma, né un male che non conosce cura. Sarebbe sopravissuta anche a quello, si era detta stringendo i denti. Avrebbe deciso di vivere come un uomo.
Come un uomo, aveva gustato la carne calda e profumata di certe damigelle impudiche ignare, o il più delle volte consapevoli della sua reale natura. Uomo in mezzo ai suoi uomini, dura con gli altri, implacabile con se stessa, spietata con chi si struggeva di tenerezza guardandola negli occhi. Con André, il fratello che non era un fratello, colui che l’amava e non avrebbe potuto amare.
Il Colonnello si vergognò del suo passato, del suo presente e dei suoi pensieri. Guardò ancora una volta l’uomo disteso sul letto, che non parlava e aveva capito tutto quanto, perché sicuramente anch’egli nascondeva segreti impossibili da condividere con qualcuno. Non era raffinato ed elegante come il conte di Fersen, ma lui pure splendido nella sua rude, maschia avvenenza di popolano che mai aveva conosciuto seta, profumi e parrucche incipriate. Perché non sorridi, perché non mi domandi di sdraiarmi accanto a te? Saresti il primo, lo sai? A trentacinque anni, sono ancora intatta come una bambina, ma ho trascorso una vita nelle caserme, e conosco gli uomini, ho ascoltato i loro discorsi impudichi, conosco i loro desideri segreti… Potrei farti felice… Maximus.
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L’uomo dei cavalli la guardò arrossire, intuire i suoi pensieri segreti e vergognarsene. Se ne sarebbe andata, ne era sicuro. Sarebbe scivolata, la schiena eretta, gli occhi seri e imperturbabili, le mani dietro la schiena e il buio e il niente l’avrebbero inghiottita, con la maschera della sua identità fittizia.
Persona. Come l’antica maschera etrusca che copriva il volto di chi, reo dei crimini più abominevoli, veniva condannato ad essere sbranato da un cane. Phersu. Ognuno di noi è maschera e persona, pensò guardando allontanarsi quell’enigmatico ermafrodito, quella donna misteriosa che vestiva come un uomo e portava il nome di un antico guerriero vichingo. Maschera, come quella che non aveva gettato per raccontargli la verità, anche se il suo sguardo e il suo rossore lasciavano intendere quanto dovesse averlo desiderato. Maschera, come quella che lui era costretto ad indossare per nascondere il mistero della sua eterna giovinezza, della sua vita senza fine. Cambiare identità allo stesso modo in cui un serpente cambia la sua pelle era più semplice che rivelare una verità che sembrava una menzogna, pensò Massimo Decimo Meridio, contadino, soldato, generale, schiavo, gladiatore e regicida, richiamato indietro dall’aldilà per opera di magia fino alla fine dei secoli. E si avvolse nelle coperte, aspettando il sonno.
FINE
Lalla, 18 novembre 2004
Massimo l’Immortale |