Storie de Il Gladiatore
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Storie ispirate dal film Il
Gladiatore |
Lettura
sconsigliata ai minori di anni 18 |
Massimo
l’Immortale
MONDI PERDUTI
Se ho potuto scrivere questo racconto, lo devo a un
grande scrittore, da poco scomparso: a Gary Jennings, l’autore dell’epopea
splendida e terribile di Mixtli l’Azteco. I nomi indigeni di persone, cose e
località li ho desunti dalla sua opera, e mi sembra doveroso dirlo.
Finca De Los Morros, Puebla de
Zaragoza, Messico centrale, anno 1608, tardo autunno.
Aveva piovuto tutto il giorno, il vento batteva
l’Altipiano freddo quasi come in pieno inverno e l’asino di cui si serviva per
i suoi spostamenti si era impantanato diverse volte nel fango, ma quando era
arrivata a destinazione non doveva essere ancora tardi, aveva pensato don
Hernan con un sospiro di sollievo. Come tutti gli uomini non ne capiva più di
tanto in proposito, ma sapeva che il parto non sarebbe stato facile. Sua moglie
aveva quasi trentacinque anni, e quello era il loro primo figlio. Il primo,
dopo oltre dieci anni di matrimonio infecondo. L’erede tanto atteso dei beni,
del titolo e della casata. Lo avrebbe chiamato Hernan, come lui, come tutti i
maschi primogeniti della famiglia. Perché sarebbe stato un maschio, di questo
ne era sicuro.
La donna, avvolta da capo a piedi nel suo scialle
pesante di lana, il cesto pieno di barattoli ed erbe secche affastellate in
fascetti appeso al braccio, aveva una sessantina d’anni, era magra e ossuta, e
don Hernan non aveva mai capito se non conoscesse lo spagnolo o preferisse
ignorarlo di proposito ed esprimersi solo in nahuatl[1]. Sicuramente le era stato messo un nome
cristiano, come imponeva la legge, ma tutti la conoscevano come Cuicani. In
città ti avrebbero già bruciata, pensò scotendo la testa mentre la guardava
entrare nella camera nuziale, dove doña Isabel si torceva in preda ai dolori e
mordeva una cocca del lenzuolo per non urlare. Era una brava levatrice, anche i
bianchi avevano imparato a fidarsi di lei. Sua moglie sarebbe stata in buone
mani.
Il travaglio durò quasi tutto il pomeriggio. Gli
faceva male sentirla urlare come se la squartassero, aldilà della pesante porta
nera. Ma per quanto ne sapeva, era qualcosa che succedeva a tutte. Tante
morivano, e Isabel era esile, delicata e malaticcia. Don Hernan percepì un
brivido corrergli lungo la schiena quando sentì l’ultimo urlo, più forte e
straziante degli altri, a cui era seguito il pianto di un neonato. Del suo figlio
primogenito, don Hernan Rogelio de Molina y Soto, erede del nome, dei beni e
della casata.
Quando Cuicani gli si parò davanti reggendo tra le
braccia suo figlio avvolto in una coperta, Don Hernan non riuscì a leggere
nulla sul volto impassibile della titilt[2], fosse bene, fosse male.
Il neonato era grosso e si dimenava strillando
vigorosamente. Isabel aveva messo al mondo una creatura forte, nonostante la
sua debolezza, nonostante avesse trentacinque anni e qualche filo grigio in
mezzo ai capelli chiari. Eppure l’uomo esitò, quando la donna dalla faccia
color cuoio gli disse guardalo, è tuo figlio. In nahuatl. Lui non capiva
molto di quella lingua.
Già. Altrimenti non avrebbe avuto bisogno di scostare
il telo che avvolgeva la creatura, per restare deluso. Credeva fosse un
maschio, invece era una femmina. Ma c’era di peggio.
La bimba era gonfia e brutta. La sua pelle scura e
grinzosa rassomigliava a quella di Cuicani, ma don Hernan conservava memoria
dei fratellini venuti al mondo dopo di lui, rossi gonfi e congestionati a pochi
istanti dal parto. Tutti quanti i neonati erano così. Ma quei capelli. Erano
incredibilmente folti e lunghi. Incredibilmente grossi e neri. Diversi dai
suoi, radi, chiari e sottili. Diversi da quelli biondi di Isabel. Capelli
simili li avevano i figli dei peones[3] che sfacchinavano nella sua tenuta. E che
erano indios e meticci.
Impallidì, sotto lo sguardo duro e impassibile di
Cuicani. Senza che parlasse, sembrava volergli dire che non era lei quella
sterile, eri tu. Questa bambina è figlia di un altro e non tua. Di uno dei tuoi
schiavi.
Con una spinta, la mandò a ruzzolare per terra.
Cadendo, la vecchia batté la testa e restò a giacere immobile sul pavimento di
maiolica decorato a disegni moreschi, mentre una grande macchia di sangue le si
allargava dietro il capo, come un’aureola. Crepasse pure, chi se ne importava,
tanto era quello che era, un niente. Come il mostriciattolo che, stretto tra le
sue braccia, strillava a pieni polmoni. Don Hernan afferrò senza delicatezza la
neonata e si avviò verso le stalle. Aveva infilato alla cintura la pistola
carica, strappato dalla rastrelliera un nerbo di bue. Avrebbe lavato nel sangue
il suo onore insozzato, pensava mentre gridava a squarciagola il nome dell’uomo
da cui era stato vilipeso.
Yeyac. Solo poche ore prima non lo avrebbe creduto
possibile, ma chi poteva essere, se non lui? Quando sua moglie gli aveva
chiesto di insegnarle a cavalcare, l’aveva affidata alle cure dello stalliere,
senza pensarci troppo. Un giovane servitore devoto e silenzioso, che aveva
vent’anni e quella repellente pelle scura e liscia che mai sua moglie si
sarebbe sognata di toccare. Invece…
FURORE
Quattro giorni dopo
In giro non si vedeva un’anima e la pioggia aveva ripreso
a cadere, fredda e sottile come aghi minuscoli che dove colpivano pungevano. Ma
ormai la Finca de los Morros non era lontana, nella casa padronale, il
cavaliere avrebbe trovato un fuoco acceso davanti al quale asciugarsi i
vestiti. E, con tutta probabilità, cibo e vino buono con cui brindare
all’evento che il padrone attendeva da anni.
Voglio che crescano insieme, mio figlio e quello che
sarà il suo primo cavallo. Gli aveva detto solo un paio di mesi prima,
osservando gli animali liberi dentro il corral[4]. Il primo cavallo di un bambino, aveva
controbattuto l’allevatore, dev’essere di taglia non troppo grande, robusto, di
indole mansueta e di giovane età, perché gli animali vivono troppo meno di noi,
vederlo morire cagionerebbe al fanciullo il primo grande dolore della sua vita
e voi non volete che questo accada troppo presto. Guardate quella giumenta.
- E’ l’acquisto che mi consigliate?
Sì, aveva risposto l’altro con un cenno della testa.
L’ho domata io personalmente. E’ un animale docile, forse troppo per un uomo,
ma non certo per un bambino. Neppure per una bambina, se il vostro primogenito
fosse tale.
Maximo Meridas ricordò che il suo interlocutore si era
adombrato, come se quelle semplici parole avessero avuto il potere di
stravolgere i suoi sogni. Lo conosceva da anni, sapeva quanto desiderasse un
figlio maschio a cui trasmettere il nome, il titolo e i beni e quante volte le
sue attese fossero andate deluse. Ma sua moglie, una donna non più giovane,
gracile e con un muso di topo, era entrata nell’ottavo mese. Don Hernan Rogelio
de Molina y Soto avrebbe avuto finalmente il figlio tanto atteso.
La giumenta era un bell’animale d’un paio d’anni, dal
mantello storno, con una folta coda che le arrivava ai garretti e occhi umidi
dall’espressione dolce. Don Hernan non l’ aveva portata via subito perché era
superstizioso, ma non appena il tempo fosse venuto, sarebbe stato Meridas
stesso a condurla alla Finca de los Morros. E il momento era arrivato.
Le aveva messo nome Demetra. Come l’antica dea delle
messi. Era probabile che il piccolo de Molina y Soto, non appena fosse stato in
grado di intendere, glielo avrebbe cambiato con Estrella, Querida o qualcosa di
altrettanto stupido. Ma cosa poteva importargliene, dal momento che, quando il
denaro fosse passato dalle mani di don Hernan alle sue, non avrebbe più potuto
accampare alcun diritto sull’animale che aveva allevato per vendere?
L’importante era che il nuovo padrone lo trattasse bene, faccenda in merito
alla quale non aveva mai dubitato: quell’uomo amava i cavalli altrettanto
quanto lui.
La pioggia continuava a cadere implacabile e fredda,
quando l’uomo in groppa allo stallone nero seguito dalla piccola giumenta
storna varcò al galoppo i cancelli della Finca de los Morros.
- Yeyac!
Il vento riportò indietro l’eco della sua voce.
Contrariamente al solito, il giovane mozzo di stalla non gli si era precipitato
incontro con il passo leggero e i capelli mossi dalla brezza. Benché piccolo e
magro, era forte come il ferro: un Tarahumara al quale sembrava che la
fatica non pesasse, abituato com’era all’aria rarefatta degli Altopiani. I Mexica[5], che prima dell’arrivo degli Spagnoli avevano
dominato l’intera regione e sottomesso tutti i suoi popoli, li chiamavano
“Quelli delle Nuvole”.
- Yeyac!
Ancora il vento. Ancora l’eco della sua voce che si
perdeva nella pioggia battente e fredda. Maximo Meridas smontò da cavallo e
prese a procedere circospetto. L’istinto gli suggeriva di stare in guardia. E
il suo istinto non lo aveva mai ingannato.
- Yeyac…
No, non poteva rispondergli. Qualcuno aveva fatto
della sua carne palpitante il cibo di cui due avvoltoi tzopilotin si
stavano nutrendo in quel momento. Qualcuno che lo aveva legato al palo e fustigato
a sangue finché non aveva visto biancheggiare le sue ossa e sentito il sibilo
del suo ultimo fiato. Quale colpa gli era stato chiesto di scontare patendo
quella fine atroce e perfino la negazione della sepoltura, che non si rifiuta
neppure al più abbietto degli assassini?
Maximo raccattò da terra una manciata di sassi e li
scagliò con tutta la forza del suo braccio contro i due uccellacci che si
allontanarono saltellando per poi distendere le ali e andarsi ad appollaiare
sui rami bassi di un’acacia poco distante. Puzzavano di fango, di carogne e di
morte. Non appena lui se ne fosse andato, sarebbero tornati al loro turpe
banchetto, se qualcuno non avesse provveduto a sotterrare quei poveri resti.
Chi? In giro non si vedeva un’anima, e la sola voce che rompesse il silenzio
era quella del vento. Con il suo coltello, l’uomo recise le funi che legavano i
polsi del poveretto e, mentre lo faceva, distolse lo sguardo per non vomitare.
Gli avvoltoi avevano mangiato i suoi occhi. Gli avevano strappato via le labbra
e l’espressione della sua faccia sembrava congelata nella parodia sinistra di
un sorriso. Forse era ancora vivo, quando gli uccellacci avevano iniziato a
divorarlo. C’è nessuno? Urlò. Imprecò una bestemmia tra i denti. I servi sono
stati minacciati. La sua tomba sarà lo stomaco dei cani e degli uccelli da
rapina e voialtri farete la stessa fine se solo vi azzarderete a toccarlo.
Quali cause avevano potuto spingere fino a quei punti l’ira di don Hernan?
Malgrado non si trattasse di un attrezzo adeguato allo
scopo, s’era servito di una vanga dal manico troppo corto che aveva visto
appoggiata al muro, unico mezzo a sua disposizione, e della sua forza per
scavare una fossa a fior di terra e seppellirci quel che restava del povero
ragazzo. Asciugatasi con la manica la fronte dal sudore e dalla pioggia, si
mosse quindi a lunghi passi verso la casa padronale. L’istinto, quel suo
istinto infallibile che gli anni, la responsabilità pressante di altre vite e i
pericoli avevano reso sempre più acuto, gli diceva che qualcosa di terribile
doveva essere accaduto, oltre il vasto patio ombreggiato dalle acacie.
Qualcosa che la voce lugubre del vento portava con sé,
spazzando l’altopiano. La porta era aperta e le imposte sbatacchiavano, come se
nessuno, padrone o servo, fosse presente per chiuderle, mettendo al sicuro la
casa e i suoi abitanti dal freddo e dalle intemperie.
Somigliava a tutto quello, la follia? Si disse
varcando la soglia e dirigendosi a lunghi passi verso gli appartamenti
padronali. Un lezzo dolciastro, nauseabondo, impregnava l’aria. Lezzo di
cadavere. Lo conosceva bene. Il vento e il ronzio insistente e fastidioso delle
ultime mosche dell’autunno erano gli unici rumori in quella dimora di morti.
Oltre la porta semichiusa della camera, la parete di
fronte al letto era schizzata di sangue, frammenti d’ osso e materia cerebrale.
Don Hernan si era fatto saltare le cervella dopo aver ammazzato sua moglie e la
vecchia guaritrice india che l’aveva aiutata a partorire il bastardo.
MADRE CAGNA
Maximo Meridas corse fuori. Benché nessuno, in quella
casa di fantasmi, potesse vederlo, ebbe la decenza di nascondersi dietro un
angolo, prima di vomitare il suo orrore, il suo disgusto e un fiotto di bile
giallastra. Avrebbe cercato qualcuno, si ripromise comprimendosi con la mano lo
stomaco martoriato dai conati, perché li portasse via e li seppellisse. C’era
un piccolo camposanto, nella tenuta, in cui i De Molina Y Soto venivano
seppelliti da quando si erano impadroniti di quelle terre, all’indomani della Conquista:
il bisnonno di don Hernan aveva fatto parte della spedizione di Cortes e lui ne
era sempre andato orgoglioso.
Non mancava troppo al tramonto e la città era lontana,
pensò l’uomo. Ma lui non avrebbe dormito in quella casa di morti. I cavalli, liberi
dalle pastoie, pascolavano aldilà del recinto e li richiamò con un fischio. Si
fosse fatto tardi, avrebbe cercato ospitalità in qualche villaggio indio, al
peggio dormito all’addiaccio avvolto nella sua coperta, con un occhio aperto e
l’altro chiuso e con la pistola carica a portata di mano, per tener lontani dai
suoi cavalli coguari e grassatori.
Un rumore lo distolse dai suoi pensieri. Quanto tempo
era passato da quando… Da quando aveva sentito per l’ultima volta il pianto di
un neonato?
Era un pianto tanto forte da sfidare il vento, un
pianto che recava in sé l’energia della vita, non il terrore della morte.
Qualcuno si era salvato dalla furia di don Hernan. Il bambino. Il figlio
bastardo della signora di quella casa e dello schiavo indio Yeyac.
Con lo sguardo, percorse i dintorni finché non lo
vide. Strillava a pieni polmoni ed era completamente nudo. Scuro di pelle,
grosso, forte e con tanti capelli. Un bel bambino. Una bambina, anzi, si disse
da sé solo cercando di sorridere, mentre osservava la fessura del sesso tra le
gambe grassocce.
A lunghi passi, si avvicinò alla creatura, che giaceva
sopra un cumulo di immondizie. Non era sola. Tre cuccioli ancora ciechi le
strisciavano intorno uggiolando, neri e lustri come salamandre.
La cagna gli ringhiò contro. Era una grossa bestia
dalle costole sporgenti e dalle mammelle pendule. Non l’avrebbe lasciato
avvicinare ai suoi cuccioli, pensò Maximo, raccattando da terra una pietra. Ma
se voleva portare in salvo la bambina, in un modo o nell’altro avrebbe dovuto
farla allontanare… Rabbrividì, mentre allungava il braccio. Non aveva mai
colpito un cane, in tutti gli anni che aveva vissuto. Si morse le labbra, per
sforzarsi di dominare il brivido che lo stava percorrendo. Quanto tempo era
trascorso, da quando, aggrappato alla coda di una grossa cagna, aveva mosso i
suoi primi passi? E dacché il vecchio maestro gli aveva raccontato la leggenda
di Romolo e Remo? Dei due gemelli, figli anch’essi del disonore, abbandonati
lungo gli argini del fiume e che una lupa aveva salvato da morte certa? Nelle
leggende c’è sempre un fondo di verità, ma forse aveva ragione il suo signore
quando, mentre una notte si scaldavano al fuoco di un bivacco, gli aveva detto
che i lupi li mangiano, i neonati, e colei che aveva raccattato i gemelli lungo
l’argine del fiume doveva essere in realtà una puttana. Anche quelle le
chiamavano lupe tanto, tanto tempo prima.
Il mare del tempo non aveva cancellato dai suoi ricordi
il nome della vecchia compagna di giochi: Andromaca. Quando era morta, lui non
aveva ancora compiuto otto anni. Nel bosco, era stata morsa da una volpe
rabbiosa e suo padre era stato costretto ad abbatterla. Aveva pianto. Proprio
come due mesi dopo, quando un furioso incendio aveva distrutto la sua casa e si
era portato via le vite dei suoi genitori e del suo fratellino.
Colpita ad una zampa, la bestia si allontanò
lamentandosi, senza schiodargli di dosso i grandi occhi dorati. Maximo si chinò
a raccattare da terra la neonata. Era calda, pulita e ben nutrita, con il
moncone dell’ombelico asciutto, come se di lei si fosse occupata una madre
umana invece che una povera cagna randagia.
Maximo l’avvolse nel mantello, scotendo la testa per
ricacciare indietro le lacrime che non avrebbe potuto piangere. La piccola
aveva occhi scuri come schegge d’ossidiana, profondamente infossati nelle
orbite gonfie, e capelli bruni, ispidi e lunghi. Nella parte interna della
coscia destra aveva un angioma violaceo la cui forma gli ricordò quella di uno
scorpione. “Lucila…” mormorò sfiorandole con un dito la guancia morbida e
paffuta. Quindi montò in sella.
Lanciò il cavallo al galoppo. La cagna per un po’ lo
rincorse abbaiando, ma lui non si voltò a guardarla. Quindi la voce del vento e
la distanza coprirono il suono del suo ululato lamentoso.
SANTA MARIA DE LA MERCEDE
Stretta contro il suo petto, la creatura si era
addormentata, cullata dal ritmo cadenzato degli zoccoli e dai colpi del cuore
che le batteva contro la guancia. Maximo la guardò e sorrise, prima di
chiedersi che cosa sarebbe stato più giusto fare. Tanto Puebla che la sua
tenuta distavano un paio d’ore e prima che il sole calasse, se avesse incitato
il cavallo a galoppare, poteva essere a casa. O in città.
Tienila con te, gli diceva il cuore. E’ impossibile,
controbatteva la testa. Impossibile, già, per un mucchio di ragioni: non c’era,
tanto per cominciare, una donna che potesse occuparsene, a casa sua. Non una
compagna, e neppure una serva. E c’erano un mucchio di altre ragioni, perfino
più serie di quella.
Scosse il capo, per chiarirsi i pensieri e scacciare
la tristezza. Sarebbe stato bello crescere quella figlia che il cielo gli
mandava, bearsi dei suoi primi sorrisi e delle sue prime parole, vegliare in
ansia quando, inevitabilmente, sarebbe stata male, guidare i suoi primi passi
esitanti. Chiuse gli occhi sui suoi sogni che troppe circostanze non avrebbero
mai permesso si realizzassero. E fece voltare il cavallo in direzione della
città.
La neonata continuò a dormire placidamente per tutto
il tragitto, al riparo dal vento e dalla pioggia nel calduccio confortante del
suo mantello che sapeva di cuoio, lana e resina di pino, al sicuro tra le sue
braccia delicate e forti. Odorava di latte e di piscio, come tutti i neonati, e
gli aveva bagnato di bava lo sparato della camicia. Lui sorrise, sfiorandole il
visetto con la mano guantata di camoscio nero, le labbra morbide come la pelle
di una pesca con l’indice. Aveva avuto un figlio maschio, in quell’altra vita.
Un figlio che era vissuto troppo poco, e per volere degli uomini, non certo
degli dei.
Giunse in città mentre calavano le ombre e la ronda
lanciava il suo grido rauco dall’alto dei bastioni. Lasciò che il cavallo si
inerpicasse al passo lungo la ripida salita che portava al convento di Santa
Maria de La Mercede. Il cuore prese a battergli più veloce e più forte, e la
bambina sussultò nel sonno, lamentandosi con un piccolo, breve pianto di
cucciolo affamato.
Non gli piacevano i conventi. Non era mai riuscito ad
accettare l’idea che una donna potesse scegliere per sua volontà di seppellirsi
viva in uno di quei posti né tanto meno che, come s’usava, un genitore potesse
costringere una figlia a farlo. Ma quelle suore che aveva visto tante volte e
con le loro tonache candide che svolazzavano nel vento gli ricordavano i
gabbiani, raccoglievano e allevavano trovatelli. Avrebbero accolto anche la
piccola orfana.
Non avrebbe voluto farlo, pensò esitando a bussare. Ma
sapeva che avrebbe dovuto. La monaca che andò ad aprirgli tenendo in mano una
candela infilata nella bugia di ottone era una novizia sui vent’anni, con il
volto paffuto e rosso incorniciato dai panni bianchi del soggolo e due bambini
d’un paio d’anni attaccati alle sottane. Aveva occhi scuri, ingenui e tristi,
l’aria buona e rassegnata di chi ha accettato una vita che non aveva scelto.
Non doveva essere stato facile, neppure per lei.
- Si chiama Lucila. I suoi genitori sono morti.
Chissà se gli avrebbe creduto. Verrò a trovarla, le aveva
detto, e lei s’era fatta l’idea che quella bambina dovesse essere in realtà
figlia sua e di un’indigena, era scura e aveva i capelli folti e ispidi dei
nativi. Una figlia della lussuria e della colpa, come la maggior parte dei
bambini affidati alla loro carità.
- Dammela.
Era stata una voce sortita dall’ombra a parlargli. In nahuatl.
La voce di un’india dalla faccia più vecchia degli anni che doveva avere, con
un bimbetto appeso dietro le spalle, che s’era materializzata a fianco della giovane
suora e aveva afferrato la neonata, senza lasciargli il tempo di parlare. La
donna s’era quindi sbottonata il corpino mentre la monaca distoglieva
pudicamente lo sguardo e s’era attaccata la piccola al capezzolo. Beh, in un
modo o nell’altro, quelle pie vergini illibate dovevano provvedere alle
esigenze dei lattanti abbandonati che Dio affidava alla loro carità, si ritrovò
a pensare Maximo.
- Tornerò per sapere di lei, - disse infilando il
piede nella staffa. - Verrò spesso.
Non dovevano avergli creduto, né l’una né l’altra. Ed
egli stesso si domandò se sarebbe stato in grado di mantenere le sue promesse.
La monaca lo salutò con un sorriso timido. La vita che aveva scelto o che
subiva perché costretta non aveva avuto il potere di spegnere tutti quanti i
suoi sogni.
CHICHI
Città del Messico, giugno 1627.
Era più che sicura di non sembrare quello che era,
pensava la donna mentre, protetta dal suo travestimento, spazzava con una
grossa ramazza il pavimento sterrato della bettola; facchini, venditori
ambulanti, picari, leperos[6], lazzaroni e mignotte, la brutta gente che
riempiva il locale, non aveva ragione di pensare che non fosse quello che
sembrava. Eppoi teneva un coltello affilato, nascosto nelle brache e, all’occorrenza,
avrebbe saputo bene come difendersi. Andassero a chiedere a Juan Damasceno,
quelli che non ci credevano. Ammesso che fosse ancora vivo.
Non conosceva quella città, dove non era mai stata. Ma
aveva il senso dell’orientamento e il fiuto del pericolo di un animale e,
nonostante tutto quello che aveva passato, ne era sempre uscita viva. Almeno,
fino a quel momento.
Neanche Caridad, la vecchia taverniera, aveva mai
sospettato che chi aveva assunto per spazzare in terra e dare una mano in cucina
non fosse quel che sembrava, un ragazzino meticcio piccolo di statura, con i
capelli dritti che gli arrivavano alle spalle e gli occhi guardinghi. Ma
l’inganno non poteva durare a lungo, questo lo sapeva bene: la verità sarebbe
venuta a galla, prima o dopo, e tutto sarebbe diventato terribilmente
difficile, da quel momento in poi.
Chichi. La Cagna. La sua balia la chiamava così, anche
se le suore dell’orfanotrofio non volevano. Era una donna strana. L’avevano
battezzata con il nome cristiano di Catalina, ma la conoscevano tutti quanti
come Ameyatl, ed era così che anche lei la chiamava dopo aver imparato a
parlare. Aveva la pelle color cuoio, precocemente invecchiata, e le erano morti
il marito e tutti i figli eccetto l’ultimo, un lattante dai lineamenti
schiacciati e dalla lingua che la bocca stentava a contenere. Dicevano che
sarebbe diventato un idiota, crescendo. Se fosse cresciuto.
Le suore del convento in cui era stata abbandonata
l’avevano affidata a quell’azteca morta di fame perché l’allattasse. Morta di
fame e piena d’orgoglio, nonostante tutto. Il padre di suo padre era stato un
nobile, le diceva, al tempo in cui i caxtilteca[7] dai volti barbuti avevano messo il paese a
ferro e fuoco. E le diceva ciò che sapeva a proposito di quel mondo splendido e
crudele, degli dei assetati di sangue e dei palazzi incrostati d’oro, dei
guerrieri eroici e dei potenti sacerdoti. Le diceva di un mondo perduto di cui,
per metà, era parte anche lei.
- Tuo padre era un caxtilteca. Io l’ho visto,
quando ti ha abbandonato al convento della Mercede perché non voleva saperne di
te.
Di lei. Di una figlia bastarda meno piccola di
un’india ma non alta quanto una bianca, che aveva zigomi sporgenti incorniciati
da una capigliatura liscia e pesante, ma castana e non nera. Di Chichi la
Cagna, che apparteneva a due mondi ed era estranea ad entrambi.
Tante volte aveva chiesto ad Ameyatl di parlarle di
suo padre. E lei se l’era cavata dicendole che era un caxtilteca con il
pelo sulla faccia. Anche suor Maria del Pilar l’aveva visto. E le aveva
raccontato che suo padre aveva gli occhi azzurri ed era bello come un angelo.
Molto di più non aveva potuto dirle, per una monaca non sarebbe stata cosa
decente parlare di uomini.
I suoi anni erano ancora troppo pochi perché quei
ricordi non fossero straordinariamente vivi. Le piacevano i cani e lei piaceva
a loro. Anche ai più feroci, che da quella curiosa bambina si lasciavano
strattonare la coda e cacciare le mani in bocca. Ameyatl le diceva che era come
se, invece del suo, avesse bevuto latte di cagna. Da quello le era venuto il
nomignolo con il quale aveva preso a chiamarla, anche se le monache non
volevano: Chichi. C’era un popolo, che viveva al nord, ai margini degli aridi
deserti rinchiusi tra le Cordigliere. Un popolo di selvaggi mangiatori di carne
umana che non conoscevano i vestiti e che i Mexica chiamavano con
disprezzo Chichimeca: la Gente del Cane.
Al convento aveva imparato a leggere, scrivere e
lavorare di cucito. E a quattordici anni, era entrata a servizio presso un ricco
mercante, vedovo, che cercava una governante per i suoi tre bambini. Il suo
destino sarebbe stato quello di servire generazioni e generazioni della
medesima famiglia, finché avesse avuto fiato in corpo. Non poteva pretendere
nulla di diverso, ma tra quelle mura sarebbe stata al sicuro come dentro il
convento, e questo era importante, per una come lei che neppure sapeva chi
fosse. Ecco, forse le sarebbe piaciuto sapere chi erano sua madre e suo padre.
Un’india. E un caxtilteca bello come un angelo.
Aveva trascorso anni sereni, in quella solida casa
dalle grate panciute alle finestre. I bambini erano cresciuti, ed era cresciuta
anche lei, con loro. I sostanziosi avanzi della tavola del padrone le avevano
fatto mettere un po’ di carne sopra le ossa. Era diventata carina. Non
bellissima, forse, ma molto graziosa. E Don José, il socio del padrone, se
n’era accorto.
Don José. Maledetto porco. Il padrone, che pure era
sempre stato buono con lei, non aveva voluto sentire le sue ragioni, quando gli
aveva raccontato tutto: si era limitato a scacciarla. Ed era stato allora che
la sua strada si era incrociata con quella di Juan Damasceno.
Le circostanze erano state curiose, si ritrovò a
pensare. Juan Damasceno non aveva una casa, dormiva in un carrozzone trainato
da una brenna vecchia e sbilenca, e si guadagnava il pane esibendosi nelle
piazze come giocoliere, prestigiatore e ammaestratore di cani. Ne aveva tre,
che condividevano con lui il cibo, il letto e la puzza. Non doveva avere sangue
indiano dentro le vene, era un uomo lungo e secco, che si portava appresso una
faccia patibolare permanentemente fuligginosa di barba, un dente d’oro e mani
adunche da scheletro. Si diceva che una coltellata rimediata nel corso di una
rissa lo avesse privato della virilità. Non fosse stato il mezzo uomo che era,
di certo lei non lo avrebbe seguito senza cercare d’ingannarlo a proposito
della sua identità: una ragazzina mezzosangue piccola, snella, che sorrideva
poco, cucinava discretamente e non aveva paura dei cani. Ma con uno così
sarebbe stata al sicuro. Non poteva rimanere a Puebla, questo lo sapeva, anche
se la giovane età e l’inesperienza non le permettevano di comprendere appieno
quel che sarebbe potuto capitarle, se fosse rimasta. Qualcosa di brutto, le
diceva l’istinto.
Juan Damasceno maltrattava i suoi animali. E
maltrattava anche lei, se s’azzardava a dire qualcosa che non doveva o non gli
cuoceva la cena a puntino. Beveva pulque[8] e quando si ubriacava diventava violento. Ma
con il suo carrozzone scalcinato aveva in animo d’arrivare a Città del Messico,
dove nessuno la conosceva e Chichi poteva sperare, in un modo o nell’altro, di
lasciarlo. Dopo… Dio ci avrebbe pensato, al dopo.
Quella città non le aveva dato ciò che voleva. Era
grande, e tanto caotica che sarebbe stato facile perdercisi. Le vestigia
dell’antica civiltà e il fasto delle chiese barocche la rendevano splendida, ma
il vento che soffiava dal lago Texcoco portava con sé l’odore di putrefazione e
di morte che s’esalava dai quartieri miserabili dove gli uomini e gli animali
nascevano, campavano e crepavano insieme. Uomini dalla pelle scura, come lei.
Cent’anni prima, il nome di quella città era Tenochtitlan. Poi erano arrivati i
caxtilteca e avevano rubato e distrutto tutto quanto.
Chichi era una donna decente: giovane, graziosa e
pulita, con un’aria di rispettabilità che avrebbe dovuto proteggerla. Ma da chi
e da che cosa? Non da Juan Damasceno, la cui virilità non era stata compromessa
da nessuna rissa e da nessuna coltellata. Quando le aveva sollevato la gonna e
cacciato dentro la garrancha[9] non aveva potuto far altro che dimenarsi,
urlare e poi piangere. Ma la seconda volta che lui ci aveva provato, era stata
svelta ad afferrare il coltello e ad affondarglielo nel ventre. Nessuno, ne era
sicura, si sarebbe preoccupato della morte di un saltimbanco. E, soprattutto,
nessuno l’avrebbe attribuita alla ragazza che stava con lui, perché Chichi
sarebbe scomparsa, come se l’avesse inghiottita il nulla. Senza perdere la
calma, si era lavata, aveva indossato una camicia e un paio di vecchie brache,
bruciato i vestiti sporchi di sangue, tagliato le trecce, rubato le monete che
l’uomo teneva nascoste dentro il pagliericcio. E se n’era andata, dopo aver
saettato al suo corpo immobile un’occhiata
indifferente. In fondo, le razze da cui discendeva, sangue ne avevano
versato a fiumi: i Mexica l’avevano offerto, sugli altari di pietra
delle grandi piramidi, a Huitzilopoctli e a Xipe Totec, i loro déi crudeli. E i
Caxtilteca dai volti barbuti non erano stati da meno.
EL GACHUPIN[10]
Non le era stato difficile trovare quella
sistemazione, vitto e alloggio in cambio di un lavoro massacrante che la
vecchia Caridad del Cobre non le avrebbe offerto, avesse saputo cos’era.
L’unica attività che potesse avere in serbo per una donna era quella che
sbrigavano quattro ragazze sguaiate e ridanciane, che tenevano scoperte le
spalle, trovavano ogni scusa per appollaiarsi sulle ginocchia degli avventori
puzzolenti di sudore, di pulque e di denti guasti, e si lasciavano
palpeggiare da loro senza alcun ritegno.
L’uomo che le dava la schiena indossava un gilet di
cuoio su una camicia di batista, ben tagliata e con i merletti ai polsi e sullo
sparato; aveva spalle grosse e lunghi capelli ondulati, non troppo scuri. Un caxtilteca,
pensò rabbrividendo, mentre gli serviva il pranzo. Carne con contorno di
verdura, dall’invitante profumo speziato: Caridad del Cobre era brava a
cucinare.
Gli speroni dell’uomo tintinnavano sotto il tavolo. Li
portava per darsi importanza, come tutti gli spagnoli che avevano fatto i soldi
con il commercio o esercitavano, in nome del re, mansioni importanti nella
colonia. Un caxtilteca sui trenta, trentacinque anni, bello come un
angelo. Suo padre doveva rassomigliargli, si ritrovò a pensare.
Si domandò che cosa ci facesse lì dentro, uno come
lui. E lo guardò come un uomo non guarderebbe un altro uomo. Aveva la pelle
chiara sotto l’abbronzatura, un viso dai tratti delicati incorniciato da una
barbetta quasi bionda. La borsa che ostentava appesa alla cintura doveva essere
bella piena. In un posto come quello, sarebbe stato opportuno che la
nascondesse, invece… Non portava armi con sé, anche se sembrava terribilmente
forte. Certo, avesse potuto mettere le mani su qualcuna di quelle belle monete
lustre… Non pensarci, Chichi. E’ rischioso, s’era detta da sé sola. E non si
fa.
Dormiva lì da due giorni, in una cameretta al piano di
sopra. La locandiera le aveva raccontato gonfiandosi d’orgoglio che, se quel gachupin
portatore di speroni sceglieva di alloggiare lì invece che nel posto decente
che si sarebbe potuto tranquillamente permettere, era perché la conosceva bene.
Lui e il suo povero marito defunto, un maniscalco che spesso aveva ferrato i
suoi cavalli, quando scendeva nella capitale dalla sua tenuta, nei paraggi di
Puebla, con la mandria dei puledri da vendere, erano stati grandi amici.
Puebla, pensò Chichi mordendosi le labbra. Lei era cresciuta in un orfanotrofio
di quella città. E si era ritrovata tante volte a chiedersi da dove venisse,
chi l’avesse messa al mondo e quale sangue le scorresse nelle vene.
Chichi. Alla padrona della bettola aveva detto di
chiamarsi Chico e lei se l’era bevuta. Ma con quell’uomo giovane, prestante e
dalla vista acuta, di certo molto più perspicace della vecchia taverniera, che
ci vedeva poco e ancor meno le volte che alzava il gomito, doveva stare
attenta. Molto attenta. Come quando lui le aveva ordinato di portargli in
camera una tinozza e un paio di secchi d’acqua calda, s’era spogliato
completamente davanti ai suoi occhi e le aveva chiesto di strofinargli la
schiena. Era stata dura fingere indifferenza, e in vita sua non aveva mai
provato niente del genere: una fitta acuta di desiderio che certamente le
monache dell’orfanotrofio e anche Ameyatl avrebbero giudicato riprovevole. Forse
era l’amore, quello. Ciò che non aveva provato quando don José le aveva
mostrato sghignazzando le sue vergogne, men che meno quando quel bastardo di
Juan l’aveva presa come un animale. Il forestiero era bello: alto, grande, ben
fatto. Dappertutto. Aveva i denti bianchi e sani, gli occhi limpidi. E l’odore
pulito della sua pelle aveva qualcosa di familiare, o era semplicemente il vago
ricordo di un sogno di cui lei non ricordava altri particolari. Sei strana, le
diceva Ameyatl quando, bambina, la vedeva carezzare senza timore certi grossi
cani che mettevano paura solamente a guardarli. Era magia, quella che
s’irradiava da lei. Una magia capace, forse, di dar vita ai sogni: anche se,
nella situazione in cui si trovava, era assurdo osare sperarlo.
AHUILNEMA[11]
“I nostri occhi non sono come i loro. Puoi guardare
l’anima e vedercela, dentro lo sguardo di uno di noi. Ma loro hanno gli occhi
come vetro. Specialmente quando sono chiari. Occhi senza anima e senza
espressione, fissi come quelli dei serpenti e degli uccelli. Gli dei avrebbero
considerato un oltraggio l’offerta del loro sangue, quando…”
Quando i tempi non erano ancora cambiati e non si
sapeva che, aldilà del mare, vivessero strani uomini dal volto barbuto e dagli
occhi chiari. Uomini che montavano grandi cervi senza corna e impugnavano
bastoni che sputavano fuoco. Uomini che avevano sete del loro sangue e fame
delle loro ricchezze.
Lui era uno di loro, pensava Chichi sentendo le sue
mani forti stringersi intorno alle braccia e farle male. Ma i suoi occhi erano
laghi agitati dalla tempesta, ed era possibile guardarci dentro, come a
bicchieri di vetro pieni d’acqua.
- Adesso mi restituirai quello che ti sei preso, hijo
de puta[12]…
E lei negò, scuotendo la testa. Negò inghiottendo le
lacrime. Non ho preso quel denaro. Non sono un ladro. Ma non osava parlare,
perché non sapeva mentire. Ameyatl diceva sempre che i maledetti caxtilteca
avevano concimato con le ossa dei Mexica le terre che avevano rubato
loro. Che male ci sarebbe stato, a portargli via quattro monete? Le sarebbero
servite per andarsene da qualche parte, prima che la vecchia Caridad del Cobre
scoprisse tutto. Che era una donna. Che era un’assassina. E che era incinta
dell’uomo che aveva ammazzato.
Gli uomini non piangono, pensò lui guardandola.
Neanche i mocciosi come quello, che si era intrufolato nella sua camera con la
scusa delle pulizie e aveva tradito la fiducia sua e della padrona trafugando
un pugno di monete. La miseria non rende nessuno più onesto, pensò. Men che
meno un ragazzo che poteva avere, al massimo, tredici o quattordici anni ma
della vita aveva sicuramente conosciuto il lato peggiore. Aveva zigomi larghi,
labbra sottili e occhi impassibili. Come gli indigeni. Ma i capelli lisci e
pesanti che gli arrivavano appena sotto le spalle erano castani invece che
neri. E aveva un pugno di lentiggini sotto gli occhi e sul naso. Come i
bianchi.
Lui l’avrebbe picchiata, pensò. Doveva essere così
forte da poter uccidere a mani nude, ma era sicura che non lo avrebbe fatto. Si
divincolò nella stretta soffocante delle sue braccia, gli sibilò mariçon[13] quando si rese conto che stava per baciarla. E lui la strinse ancora
più forte, immobilizzandola. Dici a me, ragazza? Le sussurrò con le
labbra sulle sue labbra. Quell’uomo aveva scoperto il suo segreto. Se solo
volessi, potresti guadagnarteli, quei soldi che ti sei presa… E non li
reclamerei sicuramente indietro.
Aveva una voce scura, roca e brancolante. La sua pelle
mandava un buon odore di pulito. Il viso era bellissimo. E veniva da Puebla, le
aveva detto Caridad del Cobre. Dallo stesso posto dove lei era cresciuta, senza
sapere a chi dovesse la vita.
Avrebbe fatto di lei quel che voleva. Come Juan
Damasceno. Ma sarebbe stato impossibile difendersi anche semplicemente
fuggendo. Come ti chiami, le alitò nell’orecchio. Quindi accolse la sua
risposta con una breve, bassa risata. Chichi. Cagnolina. Un nomignolo tenero e
grazioso, in fondo. No, voglio conoscere il tuo nome vero: nessun genitore
potrebbe battezzare così sua figlia. Ma io non ho nessuno, aveva controbattuto
lei.
Lasciatemi. Che volete da me? Ma le sue piccole mani,
le sue braccia esili non avevano la forza sufficiente per respingerlo. Ci sono
quattro ragazze che tengono compagnia agli avventori. Io sono solo una sguattera.
Anzi, tutti mi credono un ragazzo, qua dentro. Un ragazzo meticcio brutto e
secco e che non vale niente, invece voi…
E se ti dicessi che non me ne importa niente di quelle
quattro puttane? Che è proprio te che voglio? L’ho capito appena ho incrociato
il tuo sguardo, che non eri quel che pretendevi di far credere. E poi… Tu non
sei affatto brutta, Chichi.
Non conservava memoria del suo sorriso, dei sui occhi
chiari che dardeggiavano, azzurri verdi e dorati, tra le palpebre pesanti. Ma
il suo odore, il calore del suo corpo, i colpi del cuore che gli echeggiavano
nel petto non le erano estranei. Come se lo avesse incontrato, nel corso di una
precedente esistenza in cui era stata sorda, cieca e muta.
Socchiudendo gli occhi bellissimi, le disse che quando
faceva l’amore era solito tenersi addosso soltanto il dente di animale che
portava al collo, appeso ad un lacciolo vecchio e consumato. E che gli piaceva
guardare il corpo della donna che stava con lui, toccarlo e baciarlo. Per
cancellare il dolore e la paura, per dare e ricevere non solo amore ma perfino
conforto. In fondo, amarsi era anche quello.
Aveva un sorriso stranamente triste, come se nel suo
cuore ci fosse qualcosa che pesava. Che cosa, lei si rifiutava comprenderlo,
ammetterlo, accettarlo. Né, men che meno, lo avrebbe giustificato. Essere
tristi quando si ha avuto tutto dalla vita è come sputare in faccia alla
fortuna.
- Come ti chiami?
- Maximo. Ma adesso basta parlare.
Chichi lasciò che lui la spogliasse, che la liberasse
dalle bende con cui si era compressa il busto. I seni erano pieni, invitanti. I
capezzoli turgidi e gonfi. Peccato tenerli nascosti. Rabbrividì al suono della
voce dell’uomo, al contatto delle sue dita, quindi delle labbra e della lingua.
Dappertutto, dove mai avrebbe osato pensare. Ma non sentiva timore o vergogna,
men che meno quel ribrezzo che aveva provato quando Juan Damasceno le aveva
sollevato la gonna e l’aveva stuprata, o quando don José l’aveva costretta a guardarlo
mentre si masturbava.
Non riuscì a trattenere un grido, quando lui le
sollevò i seni tra le mani e si chinò a succhiarle i capezzoli. La gravidanza
glieli aveva resi ancora più sensibili e, grossi e scuri com’erano diventati,
rappresentavano al momento l’unico segno tangibile della sua condizione.
- Chichi…
L’avrebbe voluto subito, il suo corpo lo reclamava
dentro di sé. Ma forse il momento non era ancora giunto perché la loro unione
fosse perfetta, il godimento che si sarebbero dati l’un l’altra completo. Ahuilnema:
l’unione perfetta e appagante di un uomo e una donna.
- Sei bellissima, Chichi…
E anche lui lo era, grande e forte come un dio, come
Quetzalcoatl che i suoi antenati avevano a lungo atteso e che la profezia
descriveva barbuto e fulvo come un leone di montagna, come l’uomo che stava
dando al suo corpo tutto quel piacere inimmaginabile.
- Chichi…
Non aveva voluto abbassare gli scuri, spegnere la
candela. I nostri occhi devono godere come la bocca e le mani… La prese, e lei
gridò ancora. Non devono sentirci, le disse, e le chiuse la bocca con un bacio.
Quindi scese ancora a percorrere, con le dita, le labbra e la lingua, i
sentieri del suo corpo esausto e appagato: la gola, i seni lucenti di sudore, i
grandi capezzoli scuri, l’ombelico, il rilievo del monte di Venere. La mano si
insinuò fra le cosce, cercando nella tipili[14] umida dei suoi umori e dello sperma di lui, il centro del piacere.
- Chichi. Piccola, dolce cagnolina… Lucila…
La donna si era addormentata e, se aveva sentito la
sua voce bassa pronunciare in un soffio il nome che non gli aveva rivelato,
forse doveva aver creduto di sognare. Ma l’unico sogno che Chichi sognò quella
notte era la vecchia che, all’angolo della strada, vendeva alle puttane di
Caridad del Cobre creme per schiarire la pelle, profumi da quattro soldi e
pozioni abortive. Sarebbe andata da lei, perché l’aiutasse a liberarsi di quel
che Juan Damasceno le aveva messo dentro, e che non avrebbe mai potuto amare.
CHI SONO?
Nessuno gliene aveva mai parlato, ma una volta
soltanto qualcuno l’aveva presa tra le braccia e cullata, come farebbe una
madre. E non si trattava di qualcuna delle suore nel cui brefotrofio era stata
abbandonata da chi l’aveva messa al mondo o di Ameyatl, la sua balia, che il
destino e la vita avevano inasprito fino alla cattiveria. Qualcuno che era
tornato, adesso che non era più una bambina rifiutata e sola. L’aveva chiamata
Lucila: il nome cristiano con cui era stata battezzata e che solo le monache della
Mercede e la sua balia conoscevano.
Non era la stanzetta senz’aria e senza finestre alla
bettola di Caridad del Cobre, quella. Era un carro, e proprio gli scossoni e i
sussulti delle grandi ruote sul sentiero pietroso la stavano svegliando dal
torpore che le ottundeva la coscienza. Un carro, come quello che era stato la
sua casa, quando viaggiava con Juan Damasceno. Ma non c’era lui, chino sul suo
giaciglio.
- Chichi…
- Dove sono?
- Salva e al sicuro, Chichi. Tu… E il tuo bambino.
Il suo bambino. Il parassita che Juan Damasceno le
aveva messo dentro con la forza. Non era riuscita a liberarsene. Gli intrugli
di quella vecchia che stava all’angolo della strada non erano serviti a niente.
O forse quell’uomo che l’aveva raccattata più morta che viva aveva chiamato un
medico, una guaritrice, uno stregone, chi accidenti gli pareva e costui li
aveva salvati tutti e due: erano tante, questo lo sapeva, le donne che morivano
nel tentativo di liberarsi d’un figlio indesiderato. Certo, lui doveva averlo
capito, che era incinta. La visione del suo corpo nudo glielo aveva fatto
comprendere con certezza, anche se il ventre era ancora piatto. Era un
brav’uomo, e credeva di agire per il suo bene, senza sapere neanche quale fosse
esattamente. E di certo non era crescere dentro di sé, partorire e allevare il
frutto avvelenato di uno stupro. Si fosse impicciato, una volta tanto, degli
affari suoi.
Alleva i più bei cavalli della Colonia. Anche il
Viceré monta in sella a un cavallo che gli ha venduto Maximo Meridas. E’ un
uomo ricco e va trattato con tutti i riguardi. Così le aveva detto Caridad Del
Cobre. Per lei, solo il denaro, l’abito talare o la nobiltà dl sangue rendevano
un individuo degno di considerazione. Tutti gli altri erano letame. Compresa
lei.
Ma lui doveva pensarla diversamente. La guardava e,
alla luce della lanterna da carrozze che teneva in mano, i suoi occhi azzurri
erano chiari e scintillanti come cristallo. Verrete a stare con me, tu e il
bambino. Penserò io ad ogni vostra necessità. Sarete la famiglia che non ho. Da
troppo tempo… Da troppo tempo sono tanto solo, Chichi.
E magari, in cambio della tua ospitalità mendicherai
il mio amore finché non troverai una che nessuno si azzarderebbe a chiamare
Cagna, una degna del tuo sangue e delle tue ricchezze, e le promesse che mi hai
fatto le scorderai in un attimo. Non ti sarà difficile chiedere e avere, Maximo
Meridas. Chiunque tu sia e che i tuoi occhi e le tue parole siano o non siano
sinceri. Chiedermi di amarti… O, semplicemente, di lasciarti sfogare in me le
tue voglie. Mi sarà facile, perché sei giovane e bello, non un vecchio dalla
bocca sdentata e dalla testa calva come un avvoltoio tzopilotin. Perché
starei al caldo e al sicuro, nella tua casa, e non patirei la fame e il freddo.
Potrei perfino arrivare a fingere che il bastardo di Juan Damasceno sia figlio
tuo, e provare ad amarlo. In fondo hai ragione, lui non ha nessuna colpa. Lui…
E’ come me.
- Allora, Lucila… Accetti la mia proposta?
E come potrei dirti di no, pensò la donna assentendo
con la testa senza scollargli di dosso gli occhi. Sei solo da tanto tempo,
dici. Solo e triste, anche se sei bello, ricco e appartieni alla razza dei
dominatori. Anch’io sono sola, come te. Sola, orfana, povera, incinta e
assassina. Mezza bianca e mezza azteca.
- Avevo una moglie e un figlio, tanto tempo fa. Sono
morti.
- Tu sai chi
sono, Maximo Meridas. Altrimenti non conosceresti il mio vero nome.
E un giorno te lo dirò, quando ti domanderai perché il
tempo per me non passa come passerà per te, per il tuo bambino non ancora nato,
per tutti quelli che ho visto, vedo e vedrò nascere, invecchiare, morire… Non
so perché ti ho chiesto di restare, Lucila. Da troppo tempo sono solo e ho
nostalgia di quello che chiunque può avere ma non io, una donna, un figlio, una
famiglia… Te lo dirò, quando le circostanze mi costringeranno a farlo, ma non
adesso. Non ancora. Perché potresti maledirmi per essere stato tanto egoista da
coinvolgerti in questa mia vita che non è vita. Ed è presto, adesso che ti ho
appena incontrata. E’ presto, credimi. Davvero.
- Maximo…Chi sono?
- Adesso dormi… Lucila.
AMEYATL
La dimora di cui Maximo Meridas era il signore non era
molto grande e non aveva pretese di lusso. Costruita con i mattoni d’argilla rossa
che gli indigeni chiamavano adobe, era arredata con semplicità spartana
e tuttavia accogliente. Da adesso, la mia sarà anche la tua casa. Sarebbe stato
per sempre? Si era domandata lei guardandosi attorno circospetta, non appena
aveva messo piede lì dentro. Gli uomini come quello che l’aveva raccattata
febbricitante e portata lì erano abituati a fare promesse che sapevano di dover
disattendere. Ma la notte, a lui piaceva lasciarsi accarezzare tutto il corpo
dalle sue labbra e dalle sue mani. Ed era perfino arrivato a convincersi che
colui che le cresceva nel ventre fosse davvero il figlio del suo seme e del suo
sangue.
Le aveva promesso di insegnarle a cavalcare, una volta
che il bambino fosse nato. Per il momento, doveva accontentarsi di assistere
alla doma dei puledri, e a lei piaceva guardarlo mentre piegava alla sua
volontà anche gli animali più riottosi. Oppure mentre aiutava i servi nei
lavori dei campi, senza disdegnare quelli più umili e faticosi, e il sudore gli
scorreva a rivoli giù per il torso nudo, facendo scintillare sotto il sole la
pelle dorata tesa sulla muscolatura perfetta, invitante preludio a ciò di cui
avrebbe goduto, quando fosse scesa la notte.
E lui s’incantava a guardarla giocare con i suoi cani.
Neppure di Argos, il gigantesco, temibile incrocio tra un lupo e un mastino
addestrato a cacciare il puma e il giaguaro aveva paura. E la grossa bestia
mostrava di gradire le sue carezze. Ma l’uomo sapeva che quella meticcia
piccola e silenziosa e la neonata figlia del sangue e del disonore, che aveva
una macchia a forma di scorpione impressa nella coscia e, nelle sue prime,
difficili ore di vita aveva bevuto latte di cagna erano la stessa persona.
Il rimorso, si era detto tante volte, è una compagnia
pessima quanto vuoi, ma tanto tenace da rimanerti attaccata alle costole anche
tutta la vita. Lui era stato fortunato a ritrovarla, la bambina che aveva
abbandonato in un convento per paura che scardinasse lo scrigno dei suoi
segreti: adulta, incinta e segnata per sempre da una vita difficile. Gli dei
erano stati benevoli con lui.
Si chiama Lucila, e dovrete portarle rispetto. Tutti
quanti. Sicuramente non sarebbe stato facile, per loro, non si fosse trattato
di un ordine ingiunto dal padrone. Erano tutti indios, e disprezzavano i meticci,
i figli bastardi nati da amori colpevoli o, peggio, da un atto di sopraffazione
accettato a denti stretti. Sembrava che lui volesse bene a quella giovane donna
piccola e silenziosa, che portava in sé suo figlio. L’abbracciava davanti a
tutti, la copriva di tenere attenzioni. E aveva fatto venire da Puebla
un’anziana donna perché le tenesse compagnia durante le sue frequenti assenze e
fosse in grado d’intervenire, in caso di necessità, adesso che Chichi era
entrata nel sesto mese.
La donna dai capelli bianchi e dalle mani ossute
poteva avere una sessantina d’anni, e la pelle della sua faccia sembrava il
cuoio invecchiato di una bisaccia consunta dal tempo e dal troppo uso. Ma le
piccole iridi scure, semisepolte tra le pieghe delle palpebre cadenti, scintillavano
acute come spilli. Aveva alcuni anni in più e diversi denti in meno rispetto
all’ultima volta in cui Chichi l’aveva vista, ma non poteva essere cambiata
tanto da diventare irriconoscibile, Ameyatl, la sua vecchia balia.
- Il caxtilteca mi aveva detto che la sua donna
era incinta. Ma non mi sarei mai aspettata che quella donna fossi tu… Chichi.
La voce della vecchia era ferma, sferzante come una
staffilata. Parlava metà spagnolo e metà nahuatl, come tanto tempo
prima. Le metteva paura, proprio come allora, anche se adesso erano serva e
padrona, e se avesse chiesto a Maximo di scacciarla, lui l’avrebbe fatto.
Glielo avrebbe detto, appena lui fosse tornato. O forse no, si era ritrovata a
pensare, sentendosi scrutare fin dentro la pelle dai gelidi occhi scuri di
Ameyatl.
Tornerà il tempo degli dei, le diceva. E non di
nascosto come quando si guadagnava la fame sfacchinando da sguattera al
convento di Santa Maria de la Mercede e lasciandosi succhiare il sangue e il
latte da quei bastardi pidocchiosi che le suore raccattavano per strada e che
erano tutti quanti mezzi indios e mezzi bianchi, né carne né pesce, figli della
sopraffazione e della colpa. Tornerà il tempo degli dei, e allora sarà finita
per i caxtilteca e i luridi bastardi che hanno generato. Se avesse
parlato a voce alta e chiara di quelle cose, avrebbe rischiato la tortura e il
rogo, allora gliele sibilava tra i denti a bassa voce, per il gusto di vederla
tremare dalla paura, come un passero ipnotizzato da un serpente.
No, il tempo degli dei assetati di morte non sarebbe
tornato. Meglio così. I caxtilteca adoravano un Dio di bontà e
misericordia, amico di chi è povero, solo, afflitto e sofferente. E a quel Dio
che dicevano padre di tutti gli uomini sacrificavano i nemici della fede: non
già strappandogli dal petto il cuore ancora palpitante, ma bruciandoli tra le
fiamme, perché dicevano di non sopportare di veder la vita fluire con il sangue
dal corpo di un uomo.
E’ bello, il tuo maledetto caxtilteca con il pelo
sulla faccia. Bello come lo era tuo padre. Io l’ho visto, quando ti ha portata
al convento della Mercede perché si vergognava di te e non voleva tenerti.
Alto, con tanti capelli chiari e quegli occhi azzurri come ce li hanno solo
loro. Erano due gocce d’acqua, lui e il tuo uomo…
Lei aveva sentito il sangue farsi ghiaccio, a quelle
parole. Ma la vecchia Ameyatl, si era detta da sé sola, sicuramente
farneticava. Molti bianchi avevano gli occhi e i capelli chiari e una presunta
somiglianza tra i due era solo nella fantasia della donna e nel ricordo di un
incontro fugace, di uno scambio di sguardi furtivi avvenuto quasi vent’anni
prima. A giorni, Maximo sarebbe tornato. Gli avrebbe chiesto di scacciarla. E
poi, nella quiete della loro stanza, nel tepore del letto che dividevano, gli
avrebbe detto tu sai chi sono, e devi dirmelo, perché altrimenti uscirò dalla
tua vita, e sarà per sempre.
IL DIO SENZA PELLE
- Maximo… Chi sei?
Le sue stesse parole le echeggiavano nella testa come
un suono lontano e ovattato e si confondevano con l’ululato dei coyote, nella
notte senza stelle. Lui non le stava vicino. Doveva essersene andato all’alba,
come capitava spesso, ma dentro le narici lo sentiva ancora, l’odore caldo e
muschiato della sua pelle. Chi era? Le sarebbe bastato guardarlo per
rispondersi, da sola: un gachupin con gli stivali adorni di speroni
d’argento tintinnanti e il cappello piumato, che si era trasferito nella
colonia in cerca di fortuna. O per sfuggire a quei demoni che gli danzavano in
fondo agli occhi e di cui non parlava mai.
- Ho visto la luce in Spagna, in una proprietà nei
pressi di un villaggio chiamato Trujillo. Sono stato un bambino felice, prima
che un terribile incendio, a cui sono scampato per puro caso, si portasse via i
miei genitori, mio fratellino e tutti quanti i beni della famiglia.
Le disse che era stata una vecchia zia poco affettuosa
a tirarlo su senza troppe smancerie e che, appena aveva potuto, si era
arruolato. Si combattevano tante guerre, allora, il Re aveva bisogno di soldati.
E quando lei gli domandò quanti anni avesse, lui aveva risposto trentatré,
mentre i suoi occhi chiari scintillavano come quelli di un gatto randagio
intrappolato in una macchia di luce.
E’ troppo giovane, per essere mio padre, ricordò di
aver pensato, prima di addormentarsi con la guancia posata sul vello morbido e
sottile del suo petto. Dimmi di me, perché tu sai chi sono. E scaccia Ameyatl
da questa casa: ho paura di lei. Quelle richieste le bruciavano sulle labbra,
ma si era fatto tardi. Avrebbe aspettato il mattino, per chiederglielo. O la
notte.
Era notte o giorno? Il vento sbatteva contro la
struttura instabile di una tenda, e il suo letto non era quello che aveva
diviso con Maximo, ma un cumulo di vecchie coperte, e odorava di muffa.
Qualcuno che teneva una torcia in mano si era chinato su di lei, per guardarla
risvegliarsi. Qualcuno che non aveva il suo bel viso e i suoi occhi chiari e
acuti.
- Hai detto che avresti chiesto al tuo caxtilteca di
mandarmi via. Era lo yoyotli[15] a farti parlare… Chichi.
La donna scosse lentamente la testa, per scacciare la
nebbia che la riempiva. C’era Ameyatl china su di lei. Aveva un gioiello
d’argento che le scintillava sulla fronte e piume di quetzal[16] intrecciate tra i lunghi capelli bianchi.
- So che non l’avresti fatto… Perché mi appartieni, e
lo sai. Tu. E anche tuo figlio.
Chichi ebbe a malapena la forza di sollevarsi dal
giaciglio di logore coperte puzzolenti e di chiederle perché con un filo di
voce impastata. Perché mi appartenete, tu e lui, aveva ribadito la vecchia.
Portava una pelle tarlata di giaguaro di traverso
sulle spalle ossute. Tante volte, da bambina, le aveva detto che il padre di
suo padre era stato un grande generale, ai tempi di Montezuma[17]. Lei aveva conosciuto la sua gloria solo dalle
parole piene di rabbia e rimpianto con cui l’uomo, ubriaco di octli[18] e consumato dalla nostalgia evocava il suo
mondo perduto: non era ormai che un miserabile vecchio, un patetico rottame che
aveva perso tutto, le sue ricchezze, il suo potere, la sua dignità, il suo
mondo.
- Colui che ti porti dentro sarà il mio erede, quel
che non sono potuti essere i figli del mio sangue, sterminati uno ad uno dalla
carestia e dalle malattie dei bianchi. Gli dei stanno per tornare, Chichi.
Chichi non sapeva perché fosse lì, né da quanto tempo.
Ricordava vagamente un dolore atroce alla testa e allo stomaco, forse provocato
dalle porcherie che la vecchia le propinava per tenerla in quella condizione di
semincoscienza che le avrebbe permesso di controllarla meglio. Ma adesso che
l’effetto della droga si stava dissolvendo, l’immagine e la voce della sua
carceriera le apparivano molto più chiare. In quanto alle intenzioni, quelle
restavano misteriose, ma l’istinto non le permetteva d’ immaginare niente di
buono.
- Quando gli dei torneranno, avranno bisogno di
sacerdoti. E tuo figlio raccoglierà l’eredità del fratello di mio nonno, che
era … il gran sacerdote di Xipe Totec.
Le parole della vecchia le rimbombarono nella mente
forte come tuoni. Xipe Totec, il dio della Primavera. La più orribile tra le
ripugnanti divinità azteche. Il poveretto la cui vita era offerta in pasto al
mostro quando la natura si risvegliava dal torpore dell’inverno, e non
necessariamente si trattava di un prigioniero di guerra, veniva stordito con
una randellata e scuoiato vivo. Quindi il sacerdote si gettava addosso la sua
pelle ancora sanguinante e danzava impugnando i femori scarnificati della
vittima. Chichi batteva i denti, scossa dai lunghi brividi della febbre e dell’orrore.
- Maximo…
- Il caxtilteca? Colui che ha violato il tabù
del sangue mettendoti dentro un figlio?
- Lui è troppo giovane per essere mio padre.
- Infatti il caxtilteca con il pelo sulla
faccia non è tuo padre, Chichi. E’ tuo fratello. E gli dei lo hanno punito per
la colpa di cui si è voluto macchiare, anche se sapeva.
- Lui è…
- Alzati, e vieni a vedere con i tuoi occhi che fine
ha fatto.
Sapeva. Diversamente, Chichi non sarebbe riuscita a
dare una spiegazione logica al motivo per cui quell’uomo conoscesse il nome con
cui era stata battezzata. Erano identici, lui e il caxtilteca ben
vestito che l’aveva abbandonata al convento della Mercede: stessi capelli,
stessi occhi, stessa corporatura, stessi tratti del viso. La medesima voce. Era
a conoscenza di tutto quanto, eppure non aveva trovato la forza di tenere a
freno la sua lussuria.
- Metà del tuo sangue è indio, e per lui non valevi
niente, Chichi. Ma ha fatto la fine che si meritava. Nel mictlan[19] c’è abbastanza posto anche per i bianchi.
E’ stato buono con me, e il figlio che porto dentro
non è suo. Avrebbe voluto gridarlo, ma dalla gola le uscì un rantolo soltanto,
quando vide Maximo legato ad un albero, con la testa che gli ciondolava inerte
sul petto, gli abiti a brandelli e il corpo trafitto da almeno venti frecce, i
cui spuntoni sporgevano da profonde ferite che ancora non avevano smesso di
sanguinare: come la statua di San Sebastiano nella cappella del convento della
Mercede. Peccato che siamo in ottobre, aveva detto la vecchia sghignazzando.
Una pelle come la sua sarebbe stata una degna offerta per celebrare la gloria
di Xipe Totec.
IL PUMA
Chichi si fermò dietro un piccolo folto di alberi zapote
per riprendere fiato e lasciare che i due cuori in tumulto che le battevano
dentro placassero la loro pazza frenesia. Maximo le avrebbe detto non piangere,
è tutto inutile ormai e lei cercò di cacciare indietro le lacrime. Salvati. E
salva il tuo bambino. Ma non aveva potuto vederla né parlarle, prima che gli
sgherri di Ameyatl lo massacrassero, quando era andato a cercarla, sperando
invano di riuscire a portarla via.
Tu e tuo figlio mi appartenete, aveva sibilato la
vecchia. Appartenete a me e a Xipe Totec. Al dio senza pelle. Aveva continuato
a ripeterlo mentre lei la colpiva con il coltello di cui si era servita per
difendersi da Juan Damasceno una, due, dieci volte. Finché il suo stesso sangue
non l’aveva soffocata e la voragine gelida del mictlan si era spalancata
ad accogliere la sua anima. Per sempre.
Non è difficile, uccidere. Si era detta contemplandosi
la gonna e la blusa intrise di sangue. Le due razze a cui apparteneva ne
avevano versato molto, questo era certo. E nessun giudice l’avrebbe punita per
quel che aveva fatto. Gli spagnoli chiamavano “Los Jaguares” quegli
indigeni che si davano alla macchia per attentare alla sicurezza della Colonia
e poter continuare a praticare lontano da occhi indiscreti i loro immondi
cerimoniali pagani. Naturalmente, davano loro la caccia e c’era una lauta
ricompensa in denaro per chi riusciva a consegnarne qualcuno alle autorità:
vivo o morto.
Ameyatl era morta, ma non gli altri. Sarebbero andati
a cercarla, dopo che il sole avesse cominciato a nascondersi dietro la linea
dell’orizzonte e le ombre della sera iniziassero ad allungarsi. Non avrebbe
avuto un rifugio dove nascondersi, e forse… Preferì sforzarsi di ignorare quel
che il futuro poteva riservarle. In fondo, era sempre stata brava a cavarsela
anche nei frangenti più spinosi, ma era ormai certo che la fortuna aveva deciso
di abbandonarla.
Gli occhi che spiavano i suoi passi, le orecchie che
ascoltavano il suono del suo respiro non erano quelli degli adepti al culto del
dio senza pelle. C’era un puma, in agguato sopra una roccia a picco sulla sua
testa. Una bella creatura dalle forme agili e dagli occhi di fuoco. Un demone
maligno che aveva fiutato l’odore della sua paura e della sua debolezza. Non
attaccherebbero mai un uomo armato, le aveva detto Maximo, tanto tempo prima.
Un uomo armato, no, ma una donna stanca, febbricitante, sconvolta e gravata del
peso di un figlio non ancora nato, sì.
Sarebbe balzato su di lei, rapido come un lampo, e la
sua sagoma fulva, le sue zanne assassine sarebbero state l’ultima cosa che i
suoi occhi avrebbero visto, prima di chiudersi sul mondo.
Occhi chiusi sul mondo. Zanne chiuse sulla sua gola.
Doveva essere finito tutto quanto, si ritrovò a pensare. Ma la brezza della
sera non era il gelo del mictlan. E, stranamente, la morte non le aveva
cagionato alcun dolore.
Riaprì gli occhi e vide accanto a sé la carcassa
immobile della belva. Giaceva inerte in mezzo all’erba secca, e una macchia di
sangue si allargava sotto la sua gola. C’era un uomo, chino su di lei. Aveva la
camicia strappata, i segni degli artigli del puma sul collo, sulla grossa
spalla scoperta.
- Alzati, Chichi. Torniamo a casa.
IMMORTALE
Forse l’uomo si aspettava che Chichi tentasse di
sfuggirgli: lo aveva visto trafitto da almeno venti frecce e sul fatto che
fosse morto non potevano esserci dubbi, quindi chi le stava davanti con il
collo graffiato e la camicia sporca di sangue che gli pendeva a brandelli
mostrando la pelle abbondantemente scoperta e perfettamente intatta non poteva
essere altri se non un fantasma. Eppure la donna continuava a fronteggiarlo immobile
e silenziosa, come se conoscesse quella verità che lui non aveva osato
rivelarle. Ma adesso il momento era arrivato.
- Sicuramente ti starai chiedendo perché.
Perché quelle frecce non lo avevano ucciso? Juan
Damasceno, ricordava Chichi, possedeva una spada la cui lama entrava
nell’impugnatura grazie a un trucco tanto semplice quanto ingegnoso. L’aveva
usata nei suoi spettacoli di illusionismo e quei sempliciotti dei peones di
fronte ai quali si esibiva avevano la certezza che l’uomo riuscisse, in virtù
di chissà quale magia, a cacciarsi in gola l’arma senza ferirsi. Magari anche
le frecce degli sgherri di Ameyatl erano qualcosa del genere, e tanto la
vecchia strega quanto l’uomo che aveva creduto di amare avevano voluto
ingannarla.
E’ tutto finito, Chichi. C’è un villaggio, da queste
parti. Non sarà difficile trovare un mulo e una carretta per tornare a casa
senza che tu ti stanchi troppo. Ma adesso lascia che ti abbracci. No. Non lo
avrebbe lasciato neppure avvicinare, perché i suoi occhi imploranti
nascondevano un abominevole segreto e lei… Lei sapeva che avrebbe creduto alle
sue parole, ceduto alla spinta tentatrice del desiderio. Nonostante tutto.
- Ameyatl ha detto… ha detto che tu sei mio fratello.
- I miei parenti sono morti in un incendio, Chichi; io
non ho più nessuno.
- Tuo padre non mi ha avuta dalla donna che aveva
sposato davanti a Dio, questo lo puoi immaginare da solo. Ameyatl l’ha visto, e
ha detto che era identico a te.
- Mio padre è morto quando avevo otto anni.
- Eppure, tu conosci il nome con cui mi hanno
battezzata.
- Lo conosco perché… Perché sono stato io a darti quel
nome.
- Lucila.
- Ho amato una donna che si chiamava come te… Tanto,
tanto tempo fa.
- Tua moglie?
- No.
- E lei, adesso…dov’è?
- E’ morta. Come i miei genitori, mio fratellino, la
vecchia zia che mi ha cresciuto, mia moglie e mio figlio.
Mi hai dato il nome che porto. Tutti coloro che hai
amato sono morti. Quando è stato, Maximo Meridas? Avrebbe voluto
domandarglielo, avrebbe voluto da lui una risposta credibile a quei misteri che
sembravano bugie, e sicuramente lo erano. Si limitò a chiedergli se la donna
che portava il suo nome era bella.
- Sì, lo era. Aveva lunghi capelli chiari, occhi
verdi, era alta e snella. Mi amava. Disperatamente. E’ a lei che devo il mio
dono.
Un figlio. Pensò Chichi. Un figlio voluto con la forza
della disperazione e dell’amore, a dispetto del discredito e del fango che
questa scelta le avrebbe, inevitabilmente, scaraventato addosso. Magari aveva
pagato con la vita quel dono prezioso all’uomo a cui aveva voluto bene.
- Le devo… la mia esistenza senza fine.
Chichi scosse la testa. L’esistenza senza fine,
l’invulnerabilità, la giovinezza eterna. Le frecce degli sgherri di Ameyatl lo
avevano colpito per davvero. In parti non vitali, perché la sua morte fosse più
lenta, la sua sofferenza più terribile. Aveva visto sanguinare quelle ferite,
ma adesso la pelle di Maximo era sana e intatta. Anche i segni delle zampate
del puma si stavano rimarginando, come se fossero passati giorni e non minuti.
Il sole stava calando e il vento che soffiava dalle
Cordigliere era freddo e fastidioso. Ma a pochi passi di distanza c’era una capanna
del sudore[20]. Un luogo angusto e buio, sul cui pavimento
sterrato si sarebbero a malapena potuti distendere. Avrebbero trascorso la
notte lì. Lui le avrebbe raccontato tutto, poi l’avrebbe guardata
addormentarsi.
- Sono nato nell’Anno Novecentesimo dalla fondazione
di Roma o nel 146 Dopo Cristo, come si dice adesso. Dalle parti di Merida,
Spagna meridionale. Sono stato un contadino… poi un soldato… Quindi un
generale, al servizio del Cesare Marco Aurelio Antonino. Ridotto in schiavitù
dal suo successore, il turpe Lucio Aurelio Antonino Commodo, mandante
dell’assassinio di mia moglie Olivia e di mio figlio Marco, venni costretto a
combattere nell’arena come gladiatore…
I pagani erano crudeli, le avevano raccontato le suore
del convento. Facevano morire i cristiani tra i supplizi, com’era successo al
centurione Sebastiano e a tanti altri. E si divertivano a guardare lo
spettacolo di due uomini che s’ammazzavano per il divertimento della plebaglia.
Erano posseduti dal diavolo, allo stesso modo degli Aztechi che strappavano il
cuore e la pelle alle vittime sacrificali. E allo stesso modo in cui, si
ritrovò a pensare Chichi, i bianchi gettavano fra le fiamme i nemici del loro
dio. Il mondo perduto di Ameyatl, il mondo perduto dell’Immortale, non erano
poi così diversi da quello in cui viveva. L’uomo, si disse da sé sola, non
rinuncerà mai a ubriacarsi di sangue. Come il puma che Maximo aveva ucciso per
difenderla. Ma gli animali sono innocenti della loro crudeltà inconsapevole.
Gli uomini no.
Le disse che le cicatrici che gli segnavano la pelle
erano il ricordo delle sofferenze patite in quell’altra vita, quando ancora
poteva morire. E che Annia Lucilla Galeria, la principessa imperiale, aveva
comprato per lui da una strega il dono della vita senza fine, dopo averlo visto
crollare nell’arena, ucciso a tradimento da Commodo, l’imperatore pazzo.
- Riuscii a scannarlo, prima di cadere a terra. Morì.
E per lui fu per sempre.
Ma non per Maximo, che la principessa innamorata aveva
riportato indietro dall’aldilà. Anche se sapeva che pochi anni di felicità strappati
al destino li avrebbe pagati lacrime amare. Lei sarebbe sfiorita e invecchiata,
mentre lui… sarebbe rimasto giovane e bello finché fosse esistito il mondo:
aveva trentatré anni, quando era stato ammazzato. Li avrebbe avuti per sempre.
Come Cristo, il Dio fatto Uomo. Si ritrovò a pensare
la donna, prima di scacciare dalla mente quella bestemmia. E si irrigidì,
quando lui le chiese di sdraiarsi lì, di lasciarsi abbracciare.
- Se hai tutti quegli anni, allora… Allora è possibile
che tu sia mio padre, Maximo.
Il buio della capanna non nascose del tutto agli occhi
di Chichi l’ombra di mestizia che gli aveva attraversato lo sguardo.
- Nessun dio, per quanto crudele possa essere,
permetterebbe a un Immortale di veder invecchiare e morire i propri figli,
Chichi. Neppure Xipe Totec. La misericordia degli dei, chiunque essi siano, ci
nega questo terribile dolore.
- Ma allora…
- Quando passerà la notte e torneremo a casa ti dirò
chi sei… Lucila.
LA GIUMENTA
Il vento freddo spettinava i lunghi capelli chiari
dell’uomo, gonfiava le maniche arrotolate della sua elegante camicia di bisso. Chichi
gli si strinse contro, rimanendo immobile in attesa delle sue parole.
- Non voglio che tu soffra. Nelle mie condizioni,
forse sono stato un egoista a prenderti con me, ma… Mi sentivo tanto solo, - le
aveva detto, arrossendo come un bambino sorpreso a rubare o a mentire.
Avevi bisogno di una donna e di un figlio, di una
parvenza di normalità, per te e non per gli altri. E hai trovato me. Povera,
sola, incinta e assassina. Mezza bianca e mezza india. Forse non mi avresti
detto niente di te, se le cose fossero andate diversamente, e avresti lasciato
che il destino facesse il suo corso, che io scoprissi piano piano perché non
potevi invecchiare… né morire. Ma io non ho paura di quello che sei, Maximo
Meridas.
- Se lo vorrai, scomparirò dalla tua vita. Naturalmente,
incaricherò il mio amministratore di provvedere a tutte le esigenze tue e del
bambino. Non vi mancherebbe nulla.
Chichi scosse lentamente la testa. Tu vuoi che resti e
io resterò. Gli disse con un soffio di voce. Anche se sapeva che sarebbe giunto
il momento in cui l’assurda brevità
delle loro vite lo avrebbe fatto soffrire ancora e così sarebbe stato fino alla
fine dei secoli.
- Avevi promesso di dirmi chi sono, Maximo.
L’uomo guardò in direzione del recinto, modulando un lungo
fischio. Quella cavalla, le disse indicando una vecchia giumenta storna, era
destinata a te. La stavo conducendo alla casa dove sei venuta al mondo, quando
ti ho trovata… e portata via. Avevi pochi giorni e giacevi sopra un cumulo di
immondizie accanto a tre cuccioli appena nati. E’ stata la loro madre, a
salvarti la vita.
- E chi…
- Chi ti ha messo al mondo? Tua madre era una
gentildonna bianca, tuo padre il suo schiavo. Il loro assassino, il marito di
lei, che era convinto fosse incinta di un figlio suo, invece… Sei nata dalla
passione, non da uno stupro, Lucila. Da un amore grande e impossibile.
- E tu mi hai portata via… e chiamata con il nome
della donna che ti ha tanto amato…
Lui accennò di sì con la testa. Per quel motivo
conosceva il suo nome. E, la prima volta che aveva giaciuto con lui, l’aveva
riconosciuta dalla macchia violacea a forma di scorpione che aveva sulla
coscia, proprio come la neonata che, col cuore straziato dal rimorso, aveva
dovuto affidare alle suore della Mercede.
- Avevi promesso che mi avresti insegnato a cavalcare,
una volta che il bambino sarà nato.
- Demetra è vecchia, ormai. Ma molti altri cavalli,
qui, sono figli dei suoi figli e hanno dentro le vene il suo sangue: animali
piccoli e mansueti, adatti ad una donna… e a un bambino.
FINE
Lalla, 18 ottobre 2003
Massimo l’Immortale |
[1] La lingua degli
Aztechi.
[2] Guaritrice.
[3] Braccianti agricoli.
[4] Recinto per il
bestiame.
[5] Altro nome degli Aztechi.
[6] Accattoni e avventurieri.
[7] Uomini bianchi.
[8] Acquavite di agave.
[9] Membro virile.
[10] Con questo nome che alla lettera significa “portatore di speroni”, venivano designati, nella Colonia, i Peninsulari, gentiluomini nati in Spagna e che, di solito, esercitavano mansioni amministrative per conto del Re.
[11] Atto sessuale (in nahuatl).
[12] Figlio di puttana.
[13] Invertito.
[14] Sesso femminile(in
nahuatl).
[15] Pozione soporifera che veniva propinata alle vittime sacrificali.
[16] Magnifico uccello
dal sontuoso piumaggio, che veniva usato per confezionare i copricapi di re e
sacerdoti.
[17] L’ultimo
imperatore azteco.
[18] Acquavite di
agave, lo stesso che pulque.
[19] Inferno.
[20] Capanne nelle
quali gli indios si sottoponevano, a scopo cerimoniale ma anche igienico, ad
una vigorosa sauna, onde espellere con il sudore tutte le impurità dal corpo.