Storie de Il Gladiatore |
Storie ispirate dal film Il
Gladiatore |
Lettura sconsigliata ai minori di anni 18 |
Massimo l’Immortale
Voglio dedicare questo mio lavoro a un
elettrodomestico anziché a un essere vivente: al mio vecchio computer,
collocato a riposo dopo sette anni di onorato servizio. Grazie per aver liberato
la mia creatività dagli impicci della macchina da scrivere e dalla fatica di
dover controllare la mia grafia illeggibile. E per avermi permesso, tramite la
Rete, di condividere i miei sogni con tante altre persone.
IL MIRACOLO
IL CIMITERO DEGLI SCOMPARSI
Il freddo delle montagne e dell’inverno incipiente gli mordevano feroci la
carne, anche se le ferite non gli facevano più male. Aprì gli occhi, ed era come
se avesse dormito un mese di seguito. Quanto tempo era passato? Si erano
dimenticati di togliergli l’orologio dal polso, prima di gettarlo via, come se
il suo corpo torturato, ferito, brutalizzato fosse stato un’immondizia, un
oggetto rotto di cui disfarsi. Si erano dimenticati l’orologio perché con tutta
probabilità s’era scassato mentre lo picchiavano ed era uno Swatch di plastica
che valeva proprio poco, e i jeans, perché erano stretti, avrebbero perso troppo del loro tempo
prezioso a sfilarglieli di dosso e, in ogni caso, valevano poco anche loro,
logori e scoloriti com’erano. La camicia di flanella a scacchi, il giaccone in
panno foderato di pelo sintetico, i pochi pesos che aveva in tasca e i camperos
che calzava glieli avevano portati via in prigione, senza preoccuparsi di
chiedergli il permesso, e anche il minuscolo cerchietto d’oro che teneva
infilato al lobo dell’orecchio. Prima. Prima, cioè, che quella bestia che si
faceva chiamare sergente Mendoza, in prigione, glielo strappasse via senza neanche
preoccuparsi di aprirlo borbottando qualcosa come “roba da finocchi” e
facendogli cacciar fuori un fiotto di sangue e un grido di dolore così forte,
acuto e stridulo che per un attimo aveva temuto d’impazzire. E quello era solo
l’antipasto, a detta dei suoi aguzzini: non dovette passare molto tempo prima
che s’accorgesse di quanto avessero ragione.
Un fruscio di ali sollevò un refolo d’aria gelata a due passi dalla sua
faccia. Un condor lo fissava immobile con gli occhietti maligni, il collo nudo
proteso, il becco adunco spalancato. Mangiano solo roba morta, si disse da sé
solo, e lui morto non era, a differenza di quegli altri, carcasse mezze
spolpate e irriconoscibili alle quali soltanto il freddo gelido delle montagne
e dell’inverno incipiente aveva impedito di putrefarsi. Ne aveva contate sette.
Si alzò. Il freddo gli sollevava i peli sulle braccia e sul petto e gli
illividiva dolorosamente le dita delle mani e dei piedi, la punta del naso. Non
se ne preoccupò più di tanto, avrebbe superato anche quello, pensò stringendo
il labbro inferiore tra i denti, le mani una nell’altra. Ne aveva viste
veramente tante, dacché stava al mondo e quella era, in assoluto, una delle
peggiori: i tuoi avversari torturali, seviziali, poi ammazzali a forza di
botte, quindi fai sparire i loro cadaveri dove nessuno potrà mai più ritrovarli
e i loro cari non avranno nemmeno una tomba su cui piangerli… Con lui avevano
fatto male i loro calcoli, anche se Mendoza era convinto d’averlo mandato
all’altro mondo, quando aveva sentito scricchiolargli le costole sotto i calci
dei suoi scarponi ferrati e gli aveva visto il sangue colare dalla bocca: con
un polmone perforato si muore. Di solito.
Sentì la necessità di urinare e, cosa strana e stupida in una circostanza
simile, andò a nascondersi dietro uno spuntone di roccia, come se qualcuno
potesse vederlo. Gli bruciava ancora un po’ e l’orina era striata di filamenti
sanguigni. Sarebbe passata anche quella, pensò mentre tirava su la cerniera.
Sapeva che sarebbe passato tutto quanto anche quando gli avevano dato la
corrente sui genitali e sghignazzavano guardandolo urlare e contorcersi,
pregustando come sarebbe morto.
Lui lo sapeva, loro no. Si tastò il lobo dell’orecchio sinistro. Era sano e
integro. Si passò le mani sul corpo intirizzito e notò che il suo portafortuna
non gliel’avevano tolto, forse perché valeva poco, come i jeans scoloriti e
l’orologio di plastica scassato: un canino di animale appeso ad un logoro
lacciolo di cuoio. Neanche un sudicio indio si metterebbe addosso roba simile,
era stato il commento del sergente Mendoza mentre gli strappava di dosso la
camicia. La mano scese lungo i muscoli del petto, sullo stomaco, sul ventre,
sulla patta dei jeans aderenti. Niente ferite, né ematomi. Le costole erano a
posto, come prima che lo picchiassero e lo gettassero via convinti d’averlo
ammazzato. Già, convinti di averlo ammazzato.
Rise, come se fosse in compagnia di qualcuno con cui dividere la tristezza
e l’allegria, invece che di sette cadaveri spolpati e di un grosso condor indifferente
perché appesantito dal troppo cibo, che avrebbe potuto ammazzare a bastonate,
se solo avesse voluto.
Quando scenderò in città, pensava, mangerò a crepapelle, berrò fino a
crollare a terra ubriaco, mi cercherò una donna con cui fare l’amore per festeggiare.
Poi andrò a cercare Mendoza, dannato porco, per sputargli in faccia e guardarlo
morire di paura perché io sono un fantasma, un non morto, e voglio vendetta...
Ma prima dovrò procurarmi qualcosa da mettermi addosso e prima ancora dar
sepoltura a questi poveretti. Loro, la morte non li aveva rifiutati. Chissà chi
erano. Nelle condizioni in cui si trovavano, neppure si riusciva a capire se in
vita erano stati maschi o femmine, giovani o vecchi. Dovevano esserci finiti
prima di lui, nella discarica per cadaveri, anche se non era facile appurarlo.
Stavano dall’altra parte, solo questo era dato di sapere sul loro conto.
Stavano dall’altra parte con la ragione o con l’istinto, forse quello di cui
erano incolpati non era stato fatto neppure di proposito. Com’era capitato a
lui: gli avevano detto spia del nemico solo perché parlava correntemente
l’inglese ed era stato inutile cercar di giustificarsi dicendo che aveva
studiato negli Stati Uniti, che conosceva bene anche il tedesco ed era
particolarmente predisposto ad apprendere le lingue, non gli era stato
difficile neppure imparare il quechua per poter comunicare con gli indios
delle montagne... O per ficcare in testa a quei pidocchiosi pericolose idee di
giustizia, diritti e rivoluzione? Qualcuno lo aveva detto, il sonno della
ragione genera i mostri e a quel qualcuno, chissà chi era, non si poteva certo
dire hai sbagliato, amigo.
Non aveva niente che potesse tornargli utile a scavare sette fosse, e pensò
che li avrebbe collocati dentro i grandi buchi che crivellavano la roccia,
anche se non sarebbe stato facile come poteva sembrare, solo a toccarli quei
corpi mummificati si sarebbero sgretolati in mille pezzi, come orrende bambole
rotte.
E’ da prima di me che sono stati gettati in questa discarica, pensava, e il condor era ancora lì, lo guardava fisso mentre tentava di dar sepoltura a quei poveri resti, cercando di arrecare meno danni possibili alle ossa tenute insieme solo da brandelli di pelle incartapecorita e filamenti di tendini essiccati. Il vento delle montagne gli faceva accapponare la pelle nuda, gli scompigliava i lunghi capelli castani. Capelli lunghi, barba incolta. Le stigmate del sovversivo. Come El Comandante, El Che. Capelli lunghi, barba incolta e sogni di lotta e di rivoluzione dentro la testa. El Che era morto già da diversi anni e anche Maximo Meridas doveva morire.
PADRE CESAR
Uno. Due. Poi tutti gli altri, piano piano, perché non si sgretolassero
come mummie riportate alla luce dopo tremila anni dalla loro morte. Il primo
doveva essere stato il corpo di una donna: un piccolo scheletro non più lungo
di un metro e sessanta, coperto di pelle incartapecorita e con qualche lungo
ciuffo di capelli scuri che spuntavano dal cranio. Una donna, già, era piccola,
minuta e con il bacino largo per partorire agevolmente i figli che, con tutta
probabilità, non aveva partorito mai. Maximo aveva studiato medicina, per lui
certe cose non erano un segreto. Una donna, e giovane, aveva i denti bianchi e
tutti sani… Poveretta. La prese tra le braccia con la maggior delicatezza
possibile. Se fosse stata viva, pensò. Gli avrebbe sorriso con i suoi bei denti
bianchi e si sarebbe abbandonata al suo abbraccio, come una ballerina di tango
in una bettola della Boca di Buenos Aires. Chissà chi era stata, non meno di
cinque o sei mesi prima.
Gli altri sembravano uomini. Più grandi, massicci. Giovani o vecchi,
chissà. Uno aveva i denti davanti spezzati e parecchie ossa rotte. Dovevano
averlo torturato e ammazzato poi a calci e pugni, com’era successo a lui, ma
quello era morto sul serio e per sempre. L’ultimo… Il lungo scheletro curvo di
un vecchio, con le ossa annerite dal fuoco e qualcosa che spuntava tra le
falangi scarnite di quelle che erano state le sue dita, un po’ di tempo prima.
Qualcosa… Il suo rosario di legno: strano che non fosse bruciato. Strano che
non fossero riusciti a strapparglielo dalle mani come gli avevano strappato via
la vita e, prima ancora, il buon nome e l’onore.
Tutto era talmente assurdo, pensava Maximo mentre cercava di farsi caldo
strofinandosi le mani contro le braccia e saltellando come se, invece che su
uno strato di pietre coperte di brina, i suoi piedi nudi poggiassero su di un
letto di carboni ardenti. Quelle rocce crivellate di grossi buchi, quel condor
con la pancia talmente piena da non potersi neppure muovere, quei cadaveri, il
rosario annerito che padre Cesar o meglio quel che restava di lui stringeva
disperatamente nella mano… Erano sei mesi che lo cercava. Giorno più, giorno
meno. Sei mesi che era sparito, inghiottito dal nulla. Sei mesi che lui andava
regolarmente a rompere le scatole al posto di polizia per avere sue notizie.
Sei mesi che si aspettava il peggio e si svegliava di notte, in preda agli
incubi, col cuore che martellava e il sudore che inzuppava le lenzuola. La vista
di quella mummia incartapecorita che stringeva in mano il rosario era la
conferma ultima e definitiva delle sue peggior congetture: padre Cesar era
stato ammazzato e il suo cadavere fatto sparire, nella certezza che mai nessuno
l’avrebbe ritrovato. Ma prima di ammazzarlo, l’avevano sepolto sotto tonnellate
di fango. E’ un maiale, avevano detto, e l’avevano scritto perfino sui
giornali. Uno che tocca i bambini tra le gambe e li costringe a fargli le
porcherie. Se è sparito, è perché temeva di essere scoperto… Probabilmente,
erano riusciti a comprare per quattro soldi qualche testimonianza falsa che lo
inchiodasse, e così tutti lo avrebbero creduto quello che non era e non lo
avrebbero rimpianto. “Mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi…”[1] Quante
volte, con un sorriso mesto stampato sulla vecchia faccia, padre Cesar aveva
citato le parole del Vangelo? Le Beatitudini: il manifesto programmatico di una
fede che aveva conosciuto la persecuzione eppure, troppo spesso, aveva stretto
patti d’alleanza con il Potere. Ma padre Cesar non avrebbe fatto niente del
genere neppure costretto. Era di quelli che, col nome di Dio e della Giustizia
sulla bocca, sarebbero stati disposti ad affrontare anche il martirio.
Padre Cesar. Non doveva avere più di cinquantacinque, sessant’anni, ma la
faccia emaciata, i capelli bianchi che portava lunghi e incolti e la barba
ispida lo facevano sembrare molto più vecchio. Indossava una tonaca scolorita
e, nelle giornate particolarmente fredde, un lungo poncho a disegni fantasiosi,
tessuto con la lana dei guanachi dalle donne del villaggio, su cui dondolava il
crocifisso di legno d’un rosario che era solito portare al collo perché la
Vergine lo proteggesse, diceva sempre. Oltre a dir messa, insegnava a leggere e
a scrivere ai ragazzi e agli adulti, curava i piccoli malanni per i quali non
c’era bisogno di scomodare il dottore e, in caso di emergenza, con la sua
ricetrasmittente scalcagnata si collegava con l’ospedale di San Miguel de
Tucuman per chiedere lumi o soccorso. Era stato in una circostanza del genere
che si erano conosciuti. Joselito, un ragazzino di otto anni, era stato
malamente morsicato da un cane. Poiché le sue ferite erano serie e c’era più
d’un sospetto che l’animale fosse idrofobo, padre Cesar aveva richiesto
l’intervento dell’eliambulanza. Ma entrambi gli elicotteri erano alle prese con
i soccorsi alle vittime di un grave incidente stradale. Un bambino di otto anni
non poteva morire, e di che brutta morte, per mancanza delle cure a cui aveva
diritto. Giusto. Quel rompiscatole di un prete può anche aspettare, avevano
brontolato all’ospedale, in fin dei conti la rabbia ha un lungo periodo
d’incubazione, il bambino non rischia, e anche se morisse… E’ solo un indio. Ne
muoiono tanti. Nonostante la giornata d’inverno, nonostante la nebbia,
nonostante non potesse permettersi di buttare il denaro dalla finestra, Maximo
aveva noleggiato un Chessna. Certi discorsi non voglio nemmeno sentirli,
pensava, mentre il piccolo aeroplano che pilotava personalmente faceva lo slalom
tra le nuvole, i fiocchi di neve e le cime aguzze delle montagne: il regno del
Dio-Condor, dove gente dalla faccia scura e dagli occhi impassibili e
rassegnati viveva di stenti, dove un bambino di otto anni poteva anche morire
per il morso di un cane.
Quando si trovò faccia a faccia con Padre Cesar, il suo cuore mancò un
battito. Lo sguardo triste degli occhi cerchiati, i capelli e la barba bianchi
come la neve, le mani lunghe e sottili segnate dal rilievo delle vene gonfie…
Ti ho conosciuto, nella prima delle mie mille vite. Conosciuto, rispettato e
amato, pensò. Allora eri coperto di porpora e d’oro e stringevi in pugno i
destini del mondo. Adesso invece… Adesso portava sul corpo lungo e magro una
tonaca scolorita alla quale mancava qualche bottone e un poncho di tessuto
grossolano per difendersi dal freddo delle montagne. Non è lui, è impossibile
che lo sia, si disse Maximo da sé solo, è un missionario, un idealista che
lotta contro le ingiustizie armato solo di un vecchio crocifisso, uno che, per
amore degli ultimi, ha rinunciato ad una vita tutta sua. La somiglianza è solo
casuale, nessuno muore per rinascere. Nessuno.
-Il bambino?
-Mi segua, dottore.
Joselito giaceva su di un pagliericcio e lo scrutava con i suoi acuti occhi
a fessura, senza emettere un lamento. Il braccio e la gamba sinistra erano
straziati dai morsi, ma più di quelle ferite era stata la scalfittura sulla
guancia a preoccupare Maximo.
-Più la fonte di contagio è vicina alla testa, minore è il tempo d’incubazione
della malattia. Bisogna ricoverarlo immediatamente, la terapia antirabbica va
iniziata in tempi rapidissimi e non è del tutto esente da rischi… Ma se non
verrà curato, morirà, questo è certo.
Joselito si era salvato e Maximo era tornato spesso al villaggio indiano.
Perché quella gente aveva bisogno di lui. E perché lui aveva bisogno di padre
Cesar.
Maximo ricacciò indietro i capelli, si sfregò gli occhi come per asciugare
il pianto. Avrebbe dato chissà cosa, per poter piangere, ma il solo sfogo al suo
dolore fu un sospiro rauco come un colpo di tosse. Lui non aveva mai creduto a
quelle calunnie e quando, agitando il pugno davanti al comandante della polizia
di Tucuman, aveva cominciato a inveire chiamando tutti quanti assassini, era
stato arrestato. Quindi torturato. Con le cicche delle sigarette, con la
corrente elettrica. Quindi ammazzato. A calci e pugni. Quindi gettato via nella
discarica per resti umani di Los Brujos, a tenere compagnia al suo amico prete
che invece di limitarsi a dir messa, pretendeva di ficcare nella testa degli
indios l’idea che libertà e giustizia fossero diritti inalienabili. Come lui, el
doctor, del resto. Un bel giovane barbuto, con i capelli bruni che gli
accarezzavano le spalle e un fisico prestante da sportivo. Si fosse limitato a
prescrivere medicine e a fottersi tutte le donne che sicuramente gli correvano
dietro, invece d’impegolarsi in faccende che non lo riguardavano. Aveva
studiato negli Stati Uniti e apriva spesso la bocca a sproposito, come quando
aveva detto che le autorità argentine, prima d’imbarcarsi nell’impresa inutile
e costosa di tentar di strappare agli inglesi le Malvinas[2], quei quattro scogli incrostati di guano,
avrebbero fatto meglio a preoccuparsi delle condizioni in cui viveva la povera
gente. Discorsi da comunista, e i comunisti bisognava farli fuori. Già,
bisognava farli fuori. Maximo sorrise, e non solo perché comunista lui non lo
era mai stato. Nemico delle ingiustizie, questo sì, e in vita sua ne aveva
viste davvero tante. Ma se avesse parlato, lo avrebbero preso per pazzo.
“Maximo Meridas, nato il 7 aprile 1950 nell’estancia[3] di Trujillo, Gran Chaco. Professione
medico chirurgo, stato civile, celibe. Capelli castani, occhi blu, statura
1,80.” Così attestavano i suoi documenti.” Segni particolari, nessuno.”
Non gli fu facile collocare al riparo in uno dei fori che crivellavano la
roccia, i poveri resti di padre Cesar. Non gli fu facile pregare per lui, ma
forse quell’uomo non aveva bisogno delle preghiere di nessuno, se esistevano un
Dio e una giustizia ultraterrena uno come lui doveva aver ricevuto il premio
finale e definitivo che spetta a chi ha annullato se stesso per darsi agli
altri anima e corpo, a uno che, nel nome dei principi in cui ha creduto, ha
affrontato lo scherno, la maldicenza, il disonore, la tortura, la morte,
perfino il vilipendio del suo cadavere. Ti restituirò la reputazione che ti è
stata tolta, amigo. La reputazione, e più di quella. Sarai grande anche
agli occhi del mondo… Padre Cesar. Mormorò Maximo tirando su col naso e strofinandosi
una contro l’altra le mani gelate.
“Maximus Decimus Meridius, nato l’Anno Domini 147 a Tergillium, nella Provincia Senatoria dell’Ispania Baetica. Contadino, generale, schiavo, gladiatore e regicida. Segni particolare: Immortale.
IL VILLAGGIO
Maximo riconobbe l’uomo ritto sul ciglio del burrone come quello conosceva
lui: Pedro, il fratello maggiore di Joselito. Lo avrebbe aiutato, se non altro
per riconoscenza perché, se non fosse stato per lui e per padre Cesar… Beh, le
ferite del ragazzino avrebbero fatto la crosta e sarebbero guarite, ma di lì a
non molto il povero piccolo avrebbe cominciato a stare sempre peggio, a
delirare digrignando i denti, sbavando e lamentandosi, a bruciare di sete senza
poter inghiottire un goccio d’acqua, a essere squassato da dolori sempre più
insopportabili e infine sarebbe morto soffocato dalla sua stessa bava o
stroncato da una convulsione più forte delle altre che gli avrebbe spezzato la
schiena. Se quella gente sapeva cosa volesse dire riconoscenza, forse… Anche se
la paura è una cattiva consigliera, si disse da sé solo, e il denaro può
corrompere chiunque, specialmente se ha lo stomaco roso dai morsi della fame.
La miseria non rende nessuno più buono.
Si arrampicò sulle rocce. Arti marziali, nuoto, cavallo, free climbing… Era
sempre stato uno sportivo, e agilità, forza e coraggio gli erano serviti varie
volte a togliersi d’impiccio. In questa vita e nell’altra. Anche se era dura
strisciare su quelle rocce taglienti scalzo e a torso nudo. Quando raggiunse il
ciglio del burrone, Pedro gli tese la mano scura, spaccata dal freddo e dalla
fatica. “Doctor…”
Non sono un fantasma, se è questo che temi. Portami al villaggio, a casa
tua, o a casa di qualcun altro, non importa di chi, e procurami dei vestiti e
qualcosa da mettere sotto i denti, per amor di Dio, anche gli Immortali sentono
il freddo e la fame.
Lo guardarono davvero come si guarderebbe un fantasma tutti quanti, la
giovanissima moglie di Pedro con il suo neonato attaccato al seno, il padre, la
madre, il vecchio nonno mezzo cieco e una torma di bambini d’ogni età e d’ogni
taglia, ma tutti quanti con gli stessi capelli corvini, le stesse guance
screpolate e gli stessi occhi seri e impassibili di Joselito.
-Mi hai fatto male.
-Era necessario, Joselito. Quelle iniezioni ti hanno salvato la vita, lo
sai? E poi… Pure a me hanno fatto male. Molto male. E anche a padre Cesar.
-Non è con te?
-E’ volato in cielo con gli angeli.
Il bambino lo guardò con occhi indifferenti strofinarsi acquavite sulle
mani per disinfettare i tagli. Ne volavano tanti, in cielo con gli angeli,
uomini e donne, bambini e vecchi… Ma gli uomini in divisa dicevano che padre
Cesar era cattivo, e i cattivi non volano in cielo con gli angeli, sprofondano
nell’inferno, in mezzo al fuoco che non si spegne mai.
-Gli uomini in divisa hanno detto cose a cui non devi credere. Me lo
prometti?
Hanno comprato con il denaro e con le minacce falsità per screditarlo,
ancor prima di farlo morire. Maximo s’infilò la camicia che Pedro gli aveva
prestato, calze spesse, scarponi pesanti, non doveva essere stato facile per
loro reperirne un paio numero 45, un poncho con disegni stilizzati di uomini e
lama lungo i bordi consunti. La camicia gli scopriva i polsi, Pedro era molto
più basso di lui e aveva la sagoma tarchiata degli uomini della montagna, i
miserabili discendenti di coloro che erano stati i signori degli Altipiani ed
erano vissuti dentro palazzi dai tetti d’oro e d’argento, prima che arrivassero
gli spagnoli a distruggere tutto.
-Tu… Non sei volato in cielo con gli angeli?
Maximo gli scarruffò i capelli.
Erano ruvidi e grossi, diversi dai suoi.
-Non credere una parola, se ti diranno male di lui. Padre Cesar era… Era un
santo.
14 giugno 1982.L’Argentina si arrende alla flotta inglese:
è la fine della guerra delle Falkland.
17 giugno 1982: con le dimissioni del Presidente,
Generale Leopoldo Gualtieri, è definitivamente sancita la fine della dittatura
militare.
RITORNO ALLA NORMALITA’
La gente non aveva impiegato molto a rimuovere qualsiasi traccia di quegli
anni di barbarie. L’ospedale maggiore di Tucuman non era cambiato, men che meno
il caos istituzionalizzato del pronto soccorso dove Maximo, fresco della
specializzazione in chirurgia d’urgenza conseguita presso l’Università Fisk di
New York, aveva iniziato a lavorare tre anni prima. Tentativi di suicidio,
incidenti d’auto, mogli pestate a scadenze fisse da mariti beoni e maneschi,
ossa rotte, pelli ustionate, risse tra ubriachi che finivano male, ferite da
ricucire… Se andava bene. E se invece andava male, qualcuno ti moriva tra le
mani, e allora sentivi il peso del mondo addosso, come se fosse colpa tua.
Quando padre Cesar era sparito, per cercarlo senza intoppi Maximo s’era preso
le ferie. Ho bisogno d’un po’ di riposo, aveva detto, e solo lui sapeva che non
era vero. E quando era stato arrestato, all’ospedale era arrivato un misterioso
telegramma, che qualcuno aveva inviato fingendosi lui e che attestava come,
essendosi fratturato la clavicola cadendo da cavallo nell’estancia di
suo padre, il dottor Meridas era stato costretto giocoforza a rimandare il suo
rientro in sede di un mese almeno. A giustificare la sua sparizione, avrebbero
pensato in seguito. Le cose, però, erano andate diversamente da come sarebbero
dovute andare, i quattro scogli incrostati di merda di gabbiano erano rimasti
nelle mani degli inglesi, i generali avevano tolto il disturbo… E lui non aveva
detto niente, anche se qualcuno doveva aver capito. Sorella Dolores, per
esempio. La caposala. Una monaca ancora giovane, dall’aria arcigna, le mani da
uomo, il labbro superiore ombreggiato di peluria. Una che gli parlava il minimo
indispensabile ed era evidente che non le piacevano i suoi jeans scoloriti,
l’orecchino d’oro, i capelli lunghi che, quando lavorava, era solito
raccogliere a coda. Era un bravo medico, preparato e scrupoloso, ma era
evidente come in lui ci fosse qualcosa che non andava. Suor Dolores vedeva il
peccato dappertutto.
-Come si diventa santi, sorella?
Che strana, una domanda simile in bocca a uno come quello lì.
-Facendo la volontà di Dio.
Era tornato dopo un paio di mesi e si portava appresso un’aria triste e
inquieta. Chissà, forse…
-Questo lo so. - Aveva un sorriso dolce, tratti quasi infantili. Un
bell’uomo, uno che perfino una suora non poteva fare a meno di notare. -
Intendevo… Come… Come il fatto di essere diventati tali venga riconosciuto
ufficialmente dalla Chiesa.
-E’ una procedura lunga e complicata, che può durare anni e anni. Bisogna
produrre delle prove presso la Congregazione per le Cause dei Santi. Miracoli,
dottore.
Miracoli, già. Una guarigione scientificamente inspiegabile, per esempio. O
il ritorno di un morto dall’aldilà… E padre Cesar avrebbe riavuto indietro l’onore che gli avevano portato via e
non solo quello. Nelle chiese, la gente si sarebbe inginocchiata a pregare
davanti alla sua statua. Un… miracolo… Il fatto che Joselito non avesse
contratto la rabbia ma fosse perfettamente guarito? Maximo si strofinò la
guancia barbuta. No, era stato tutto quanto merito del siero Pasteur, in quel
caso Dio o i santi non c’entravano proprio. Il miracolo che ti serve non è la
guarigione di Joselito, si disse infine da sé solo. Quello sei tu… Basta che lo
provi, e nessuno oserebbe non crederti. Con ciò che ti è capitato, dovresti essere
morto, invece… Anche se Dio e i santi con te non c’entrano esattamente come non
c’entravano con Joselito, solo tu sai come stanno in realtà le cose, e sai
anche che non ti conviene dirlo troppo in giro, o rischieresti di finire
rinchiuso in qualche manicomio. Ma una bugia per una giusta causa… Mentire gli
era sempre riuscito difficile, anche nell’altra vita. Questa volta c’era
l’onore di un uomo che non meritava niente di quel che gli era accaduto, di
mezzo. Un paio di radiografie e qualche testimonianza… Procurati le prime,
Maximo. Sbatti davanti al naso di quattro preti la testimonianza chiara ed
evidente di quanto ti è accaduto. Con uno spuntone di costola che penetra nel
polmone e lo perfora si muore. E tu sei vivo.
HELGA SCHIELE
I pedofili
pervertiti non li fanno, i miracoli, rimuginava sfogliando distrattamente il
giornale in sala d’attesa. I miracoli li fanno i santi e, stabilito una volta
per tutte che le porcherie di cui era stato accusato padre Cesar non erano che
luride menzogne estorte dalla polizia a quattro poveri indios ignoranti con le
promesse e le minacce, adesso toccava a lui fare il resto. Era tutto
tranquillo, all’ambulatorio di radiologia. Niente incidenti d’auto, niente
gambe rotte durante la partita di calcio tra scapoli e ammogliati. Niente
bambini che inciampano o casalinghe fatte ruzzolare giù per le scale da mariti
imbestialiti dall’alcol. Lasciò passate gli altri pazienti, non aveva fretta. E
poi avrebbe dovuto delle spiegazioni ad Helga Schiele, la radiologa. Una tipa
strana, una tedesca che lì dentro non aveva legato con nessuno, si ostinava a
dare del lei ai colleghi che conosceva da anni e, nonostante avesse dei begli
occhi e una figura slanciata, continuava a mortificarsi con orribili occhiali
da vista, capelli che sembravano tosati da un barbiere dell’esercito e
camicioni che la infagottavano tutta quanta. E che, Maximo sorrise al pensiero,
con lui parlava il minimo indispensabile, proprio come suor Dolores, malgrado i
rapporti tra l’ambulatorio di radiologia e il pronto soccorso fossero, per
ovvie ragioni, davvero molto, ma molto intensi e produttivi.
-Chi mi manda
questa volta, dottor Meridas?
-Me stesso.
-La clavicola?
Maximo fece una
spallucciata. Quale clavicola? Quella che si era fratturato cadendo da cavallo
durante le sue ferie nella tenuta del padre? Quale clavicola, quale caduta e
quale frattura? Quelle cose, le aveva inventate la polizia al solo scopo di
gettare un po’ di fumo in faccia a chi si sarebbe potuto preoccupare, quando
non fosse rientrato al lavoro. E a lui, in fondo, aveva fatto comodo che
credessero potesse essere la verità… Fino a quel momento.
-Non la clavicola.
Il torace.
-Sa quello che deve
fare. Si tolga la camicia, dottore. E se avesse addosso oggetti metallici, si
tolga anche quelli.
-I pantaloni?
La dottoressa
Schiele non alzò gli occhi dai fogli che stava compilando e si limitò ad
accennare di sì senza guardarlo. La fibbia della cintura, la cerniera e i
bottoni potrebbero provocare problemi, era un medico anche lui e avrebbe dovuto
saperlo. O forse lo faceva solo per metterla in imbarazzo.
-Anche… questo?
Quella specie di
lungo canino che portava appeso al collo con un laccetto di cuoio bisunto. Il
suo portafortuna. Cielo, quanto sono maledettamente superstiziosi, questi
latini. E lo guardò di straforo armeggiare con il nodo ingrommato, tentare di
scioglierlo senza riuscirci.
Lo aiutò, senza che
lui le avesse chiesto niente, domandandosi dove fossero finiti la sua
freddezza, il suo distacco e la sua professionalità. La aveva perse di botto,
solo perché, invece del consueto ragazzino con la gamba rotta, si trovava
davanti il più bello stallone di Tucuman coperto soltanto da un paio di boxer
neri?
Il nodo era stretto
e sembrava come impastato dal tempo e dal sudore, a forza di stare a contatto
con la sua pelle. Una pelle appena abbronzata, e incredibilmente morbida, tesa
su muscoli che sembravano scolpiti. Il viso delicato, libero dai capelli che
aveva raccolto a coda sulla nuca, era indurito dalla barba e incrudelito da un
paio d’occhi né azzurri né verdi che scintillavano come schegge di vetro: occhi
da tigre.
-Trattenga il
respiro, dottor Meridas. Ecco fatto. Può rivestirsi. E domani passi a prendere
i referti.
La guardò, mentre
si infilava la camicia sul petto nudo, strano, era pieno inverno e non aveva
freddo; la guardò e le disse, con la
sua grossa voce roca, dottoressa, avrei bisogno di parlarle di faccende serie…
in privato. Venga domani a casa mia, è qua vicino. Termino il turno alle diciannove. Era sicuro che sarebbe venuta.
IL REFERTO
Era pallida, come e
più del solito, alla cruda luce artificiale delle lampade alogene. Aveva la
pelle trasparente come l’alabastro e gli occhi chiarissimi, grandi e quasi
spaventati, senza lo schermo di quei brutti occhiali dalle lenti affumicate e
dalla pesante montatura nera. Si era perfino truccata, pensava Maximo. Non lo
faceva mai. E si era messa il gel nei capelli, per tentare di rimediare ai
danni che il suo parrucchiere aveva fatto loro e a cui, per anni, non doveva
aver mai badato. Prima. Prima di accorgersi di essere una bella donna. Era ora.
-Entri, dottoressa
Schiele.
-Sono qui come
voleva, Meridas. Ha detto che desiderava parlarmi.
-Si accomodi.
Viveva in un
monolocale ricavato da una mansarda situata in un vecchio palazzo a due isolati
dall’ospedale. Sicuramente una prigione, per lui che, fin da bambino, era
sempre stato abituato ad avere un sacco di spazio intorno. Helga Schiele non
sapeva molto di lui, se non che era nato in una azienda agricola del Gran Chaco
e che si era laureato negli Stati Uniti. Quello che, all’ospedale, sapevano
tutti quanti. Nella mansarda doveva starci il meno possibile, giusto per
mangiare e dormire. Viveva solo. Strano che non si fosse mai sposato, un uomo
come quello.
-Allora?
La guardava
impaziente con quegli occhi né azzurri né verdi, dallo sguardo sornione e
sonnolento. Portava addosso i soliti jeans e una camicia di flanella a scacchi,
arrotolata sugli avambracci e generosamente aperta sul petto, su cui dondolava
un lungo canino ingiallito di animale. I capelli castani, che la luce delle
alogene accendeva di riflessi rossastri, gli accarezzavano le grosse spalle e i
piedi scalzi affondavano in una moquette ordinaria che aveva il colore della
crosta di pane.
-Non immaginavo
niente del genere, Meridas.
Le lastre finirono
sulla scrivania, sotto la luce cruda della lampada. Maximo si versò del whisky,
si accese una sigaretta. Lei scosse la testa quando lui fece per offrirgliene,
dell’uno e delle altre. Non beveva e non fumava. Un medico non dovrebbe. Ma quelli
non erano affari suoi.
-Davvero? In che
senso?
Le sorrise. Aveva
piccoli denti bianchissimi, regolari, e le fossette sulle guance.
-Nel senso che… Che
lei non si è mai fratturato una clavicola cadendo da cavallo. Lei è… E’ stato
torturato dalla polizia. Guardi qui, si vedono ancora i segni: sette fratture
alle costole e lo sterno… molto malridotto anche quello.
-Me l’hanno
sfondato, senza ombra di smentita. Erano in tanti, avevano pugni pesanti,
manganelli e scarponi chiodati. Volevano ammazzarmi, era evidente. E per poco
non ci sono riusciti.
Mi meraviglio che
lei non sia morto. Davvero. Avrebbe voluto dirglielo, ma la voce le morì in
gola, quando lui le andò tanto vicino da lasciarle sentire il rumore del suo
respiro, l’odore tiepido della pelle.
-La verità è che io
DOVEVO morire, invece… Lei crede in Dio, dottoressa?
-E lei, ci crede?
-Perché risponde ad
una mia domanda con un’altra domanda?
Un modo come un
altro per sfuggirgli. Fremette, quando sentì la grande mano calda dell’uomo sfiorarle
la spalla. Si voltò per guardarlo in faccia, e i suoi occhi incontrarono quelli
di lui, né azzurri né verdi, scintillanti tra le fessure delle palpebre
semichiuse.
-Me lo chiede per
sapere se credo nei miracoli? I miei erano luterani. Io sono atea e credo solo
in quello che vedo.
-Ci ho messo
parecchio a perdere conoscenza e ho capito quello che mi stava succedendo,
quando invece che aria ho cominciato a respirare sangue. Me lo sono sentito e
visto venir fuori dalla bocca, imbrattarmi tutto quanto. E ho capito che una
scheggia delle mie costole fracassate mi aveva perforato il polmone. Sarei
dovuto essere morto… Invece sono vivo.
-E chi sarebbe il
suo santo in paradiso… Meridas?
Helga Schiele sentì
il respiro di lui andare giù a fatica, come quando stava morendo, pestato a
sangue dalle guardie nella prigione di Tucuman. Gli sorrise per cercare di
allentare la tensione caduta tra di loro, ma il viso gli restava serio.
-Padre Cesar
Barrantes. Se lo ricorda?
-Ho letto di lui
sui giornali.
-Non hanno detto la
verità. L’hanno calunniato, estorcendo menzogne a qualche povero indio
ignorante. Padre Cesar ha fatto la stessa fine che avrei dovuto fare io,
invece…
Invece lui è morto
e tu sei vivo. E glielo devi.
-Mi sembra che le
calunnie di cui era stato fatto oggetto siano state ritrattate, Meridas.
-Non basta.
Quell’uomo merita ben altro.
Gli onori degli
altari. E non importa che tu non ci creda, come non ci ho mai creduto io, in un
Dio o nell’aldilà. Si muore, ed è finita. Per tutti, per i santi come quel tuo
prete e per i bastardi, come il capo della polizia di Tucuman, che la gente
chiamava il boia e che, alla caduta del regime, s’è ficcato in bocca la canna
della sua Beretta e ha lasciato partire il colpo. L’ho visto steso sul tavolo
anatomico, senza più faccia, così come tu hai visto padre Cesar ridotto a uno
scheletro nella discarica di Los Brujos. Il mondo è brutto, ma è il solo che
abbiamo, e non c’è un bel niente, dopo.
-Allora intende
usare quelle radiografie per provarlo… Meridas?
Lui annuì, le labbra
stirate in un mezzo sorrisetto, la punta della lingua tra i denti. Ma gli occhi
restavano seri, come prima, come sempre.
-Sono diversi anni
che ci conosciamo… Perché continui a darmi del lei, Helga?
SOLITUDINE
Non lo so. Mi
riesce difficile dare confidenza a qualcuno. La solitudine, beh… è il mio
rifugio, e mi protegge da tante cose cattive. Anche dai ricordi. E tu pure sei
solo… Ma io sono cinica, tu sei un sognatore. Forse. Tu vorresti cambiare il
mondo, mentre io so che è inutile e così tento di ritagliarmi un rifugio dove
nascondermi… Darti del tu? O limitarmi a chiederti di toglierti i vestiti, come
ieri in ambulatorio, e poi accarezzarti e baciarti fino a sfinirti? E’ da tanto
tempo che non faccio l’amore con un uomo… E non l’ho mai fatto con un uomo …
come te.
Avrebbe voluto
dirglielo, e non gli disse nulla. Ma non si ribellò quando lui le passò la mano
carezzevole sui corti capelli biondi, massaggiandole piano la cute, come il suo
parrucchiere quando glieli lavava e le disse non tagliarli più, sono così
belli… E neppure quando le sfiorò con l’indice le labbra un po’ screpolate dal
freddo tagliente dell’inverno. Sarebbe accaduto, lo sapeva. Ed era per quel
motivo che, prima di andare da lui, aveva lasciato a casa gli occhiali e si era
truccata il viso. Lo sapeva, o forse ci sperava, anche se era difficile che un
uomo si accorgesse di una come lei, a maggior ragione uno come Maximo Meridas,
bello, forte, giovane… Più giovane di lei. Uno che nella vita ci credeva ancora
e voleva assaporarla a morsi golosi, perché sapeva che non c’è niente di più
labile dell’esistenza, l’aveva provato sulla sua stessa pelle, e voleva
godersela, finché avrebbe potuto farlo.
-Non hai freddo? -
gli disse insinuandogli le dita dentro l’apertura della camicia, sfiorandogli con
i polpastrelli la carne nuda e calda del petto.
-Io non ho mai
freddo.
Allora passami un
po’ della tua vita, pensava, perché ne ho bisogno, e fu come se lui riuscisse a
leggere nei suoi pensieri, quando se la strinse contro, solleticandole il collo
con i peli ispidi della barba.
-Mi hanno dato la
corrente elettrica sui genitali, un paio di giorni prima di picchiarmi. Fitte
terribili, in successione rapidissima. Credi di morire, e non muori, le scosse
ti provocano un’erezione talmente dolorosa che… Che preghi che succeda presto.
Certi diventano impotenti dopo un trattamento del genere.
-Non tu.
L’aveva vista
sorridere, mentre si stringeva ancora di più al suo corpo caldo e vitale, che
reagiva con forza alla spinta primordiale del desiderio. Non si era mai accorto
di quanto fosse bella, o forse era lei che non aveva mai permesso ad alcuno di
accorgersene.
-Si sono limitati a
bruciacchiarmi qualche pelo… Oh, scusami, sono stato… così volgare.
-Ti sei limitato
alla verità, Maximo… E la verità può essere spiacevole. Capita spesso che lo
sia.
E allora non
abbiamo il coraggio di guardarla in faccia… Vieni con me, Helga, il mio letto è
grande. E ti scalderò con il mio corpo, se avrai freddo.
La guardò spogliarsi,
togliersi i pantaloni e il maglione lavorato a mano a grosse trecce. Era molto
bella, anche se i vestiti nei quali si infagottava non lo facevano supporre. Se
i suoi capelli, che erano di un biondo lunare, fossero stati lunghi invece che
malamente tosati e rigidamente pettinati all’indietro, lo sarebbe stata ancora
di più. S’era tenuta addosso solo la sua biancheria: slip e reggiseno di
prezioso pizzo nero che lasciavano poco spazio all’immaginazione. Che li avesse
indossati per sedurre era chiaro ed evidente. Lui, o un qualunque sconosciuto…
Fare l’amore, in fondo, è una necessità fisiologica come un’altra. Gli piaceva,
in ogni caso la biancheria di pizzo: era quanto di più seducente avesse mai
visto addosso ad una donna, nel corso della sua vita senza fine: più delle
tuniche semitrasparenti di lino egizio o dei busti irrigiditi dalle stecche di
balena. Più delle scollature incipriate e delle spalle scoperte… Forse perfino
più della nudità completa, quel velo leggero che separava la carne tremante di
lei dalle sue dita, dalle sue labbra calde.
Era un’amante
esperta, malgrado la sua timidezza. Sembrava diffidente come un animale
selvatico. O forse, quella era solo apparenza, un rifugio per continuare a
nascondersi agli occhi curiosi del mondo, ma in lui aveva avuto fiducia, e
allora si era lasciata accarezzare, baciare, non si era negata neppure alle sue
proposte più audaci, intriganti… E sconvenienti. Probabilmente doveva solo
soddisfare una necessità impellente del suo corpo, che reclamava amore come
avrebbe reclamato acqua e cibo, se avesse avuto sete e fame.
E’ un amante pieno
di fuoco, ma anche attento e gentile, pensava la donna, guardandolo mentre le
giaceva accanto sdraiato sul fianco e dormiva profondamente. Aveva capelli
incredibilmente lunghi, appiccicati al viso e sparpagliati sopra il cuscino e
la stessa espressione dolce, malinconica e un po’ tesa che lo caratterizzava
quando era sveglio, come se neppure nel sonno riuscisse a trovare pace. Anche
lui, forse, aveva bisogno di un rifugio in cui nascondersi agli occhi del
mondo, ma era forte abbastanza da non cedere alla tentazione di fuggire sempre,
al contrario di lei. Lo accarezzò piano, per non svegliarlo, sul collo, le
spalle, la schiena… Aveva il corpo di un atleta, muscoli duri, guizzanti e
compatti, ricoperti da una pelle tonica e calda. Ed era pieno di cicatrici
troppo vecchie per poterle attribuire alle torture a cui era stato sottoposto
nelle prigioni di Tucuman solo tre mesi prima: tra le spalle, sulla schiena,
sul braccio sinistro…Una le ricordava un marchio a fuoco, di quelli che si
usano con il bestiame. Gliele sfiorò con la punta dell’indice, gliele baciò
piano. Tutte. E, da sé sola, si disse che anche lui doveva aver sofferto,
quanto lei, per colpe di cui era innocente.
LE COLPE DEI PADRI
Niente di diverso
dalle solite gambe rotte. Un paio. Quelli che le mandavano dal pronto soccorso,
dove lavorava il giovane dottore che aveva la faccia d’angelo e a letto sapeva
farti impazzire, pensò la dottoressa Schiele sfilandosi il camice e mordendosi
a sangue la bocca per non pensarci più. Avanti un altro. Lo scrosciare della
doccia, il getto ora troppo freddo, ora troppo caldo dell’acqua sui loro corpi.
Pelle bagnata. E mani vogliose… Chiuse gli occhi, rivide il suo sguardo triste
tra lo spolverio delle lunghe ciglia. Perché hai tutte quelle cicatrici? Gli
aveva domandato, curiosa. E lui, le hai notate… No, niente che abbia avuto a
che fare con le torture che ho subito. Semplicemente, sono sempre stato
spericolato, fin da piccolo. Credo che mia madre non mi abbia mai visto senza
gli stinchi sbucciati e le croste sulle ginocchia. Più grande, ho cominciato a
praticare diversi sport, e la situazione non è certo migliorata… Anzi.
Gli aveva chiesto
della cicatrice che gli segnava la base del collo: quattro segni sottili,
paralleli. Avrebbe pensato alla zampata di una grossa bestia, di un felino, non
fosse stato pazzesco perfino immaginarlo.
“Avevo diciotto
anni, ed ero uscito a cavallo. I cani mi sono venuti dietro, come al solito:
cinque dogo, la muta di mio padre, addestrata alla caccia grossa. Un puma è
sbucato da dietro un cespuglio e ha aggredito la mia cagna preferita, Habanera.
L’ho difesa, ma ero armato solo di un coltello…”
L’hai salvata,
almeno? O è stato inutile mettere a repentaglio la tua vita per salvare un
cane? Tu sei pazzo, Maximo…
Avrebbe voluto
dirglielo. Glielo avrebbe detto, un giorno, non quello, e forse lui non
l’avrebbe più guardata in faccia, non avrebbe mai più sentito su di sé il
calore delle sue mani, della sua bocca, del suo respiro, del suo sguardo… Così
le cose dovevano andare, ma non ancora, si era detta. Era troppo presto.
-Sei stato un
bambino felice.
-Perché non mi
mancava niente, tanto spazio, i miei animali… E perché ero amato. Questo è
fondamentale, non credi?
Doveva averla
sentita tremare, malgrado avesse cercato di controllarsi, come sempre
succedeva. Ma, in quel momento, non aveva un rifugio dove andare a nascondersi.
-Non credo che tu
non lo sia stata, Helga.
L’aveva guardata
negli occhi con i suoi, così chiari e acuti, occhi ai quali era impossibile
nascondere segreti. Come succede con le mie radiografie, si ritrovò a pensare.
Maximo riusciva a leggerle nei pensieri, a portare alla luce il perché della
sua tristezza.
Sì, sono stata
amata. Mio padre mi raccontava le favole per addormentarmi. Mio padre mi
aiutava a fare i compiti e mi spiegava sempre la lezione, quando non la capivo.
Mio padre mi portava allo zoo a vedere gli animali… E’ morto quando avevo
undici anni, davanti ai miei occhi. Un infarto fulminante.
-Io sono nata in
Germania. C’era la guerra, allora. Avevo tre anni, quando è finita, e non
ricordo nulla, anche se è come se le avessi respirate, la tristezza e la paura.
Mio padre… Mi asciugava le lacrime, quando portavo a casa un brutto voto, e non
mi rimproverava mai, era sempre molto tenero con me. Mi manca, nonostante siano
passati tanti anni. Mi mancano la sua voce, la sua forza sicura. Penso che
continuerei ad andare a piangere sulla sua spalla, se fosse ancora vivo.
Mio padre. Mi aveva
insegnato a nuotare, e i nomi degli alberi e degli animali selvatici. Quelli
dei nostri boschi, la volpe, il lupo, il cervo, il gallo cedrone… Li avevo
visti solo nelle illustrazioni sui libri. Quando siamo andati via, ero così
piccola. Tu non li hai mai visti, i nostri boschi, nel cuore della vecchia
Europa…
Maximo se l’era
stretta forte al petto, mormorando no, non li conosco, ed evitando di
incrociare il suo sguardo, perché se lei gli stava dicendo la verità, lui
mentiva. Altroché se li conosceva, i boschi della Germania. E aveva visto con i
suoi occhi animali ormai da tempo estinti, l’uro, la lince, il bisonte. Nelle
vene della donna senz’altro scorreva il sangue di quei barbari contro cui gli
era stato ordinato di combattere, nel nome dell’Impero e della sua grandezza,
nel nome della civiltà che andava difesa e divulgata. Costasse quel che
costasse. Anche se, forse, quegli ideali servivano soltanto a mascherare giochi
di potere, come sempre sarebbe accaduto, finché il mondo avesse continuato a
girare appeso al cielo.
-Helga, ma tu
piangi.
Gli occhi chiari le
scintillavano di lacrime.
-Mio padre… Era un
colonnello delle SS. Un criminale di guerra. E’ per questo che siamo venuti
qui, per sfuggire alla giustizia dei vincitori. Se fossimo rimasti, sarebbe stato
processato, e condannato. Quando l’ho saputo, avevo dodici anni, lui era già
morto, ma è stato come se il mondo mi crollasse addosso lo stesso. Ha
semplicemente ubbidito a degli ordini, mi aveva detto mia madre, ma io leggevo
sui libri di uomini senza pietà, che non si domandavano come mai lo facevano,
semplicemente, ci credevano e lo ritenevano giusto… Mi hai visto piangere,
Maximo; sai che a quarant’anni sono ancora sola, lo sono sempre stata e, forse
lo immagini, sarò sola finché starò al mondo. La solitudine è la mia
maledizione, pesa come una condanna, ma non voglio dividere con nessuno la
colpa di essere viva, quando sono morti in tanti, anche perché un uomo che
amavo e nelle cui vene scorreva il mio stesso sangue non ha trovato il coraggio
di disubbidire. Gli antichi dicevano che le colpe dei padri sono destinate a
ricadere sui figli… E avevano ragione.
Fu allora che
l’uomo rivide con gli occhi della mente un bambino esile e bruno, che giocava a
rincorrersi con un piccolo cane su un prato tempestato di margherite e
fiordalisi. Un bambino di nome Marco, un bambino come tutti quanti gli altri,
che piangeva se, cadendo, si sbucciava le ginocchia, che rubava i dolci di
nascosto e diceva che da grande sarebbe diventato un soldato, come suo padre;
soffocò un singhiozzo senza lacrime, e la strinse più forte a sé, perché lei
credesse che la stava consolando, non cercando conforto alla sua disperazione.
FERITE APERTE
-Dottor… Meridas?
-Direttore.
Il direttore
amministrativo dell’ospedale lo pregò di accomodarsi sulla poltrona. Quindi si
tolse gli occhiali da presbite come per osservarlo meglio. Avrebbe iniziato con
la solita solfa tra il serio e il faceto a proposito dei capelli lunghi e
dell’orecchino, solfa che lasciava il tempo che trovava. Un brav’uomo, in
fondo. Uno che aveva sempre lavorato e che ci teneva, al buon nome e al decoro
dell’ospedale. Meridas? Un medico scrupoloso e competente, anche se di chi era
e cosa faceva quando usciva dal bailamme del pronto soccorso, si sfilava il
camice e indossava quel suo giubbotto di pelle nera si sapeva poco o niente;
anche se aveva i capelli che gli ruscellavano giù per le spalle come al Cristo
sull’altare della chiesa del Sacro Cuore, il cerchietto d’oro al lobo
dell’orecchio sinistro e girava su una grossa motocicletta, come un poco di
buono. Certo, avesse tagliato i capelli e gettato via l’orecchino… Lo squadrò
dalla testa ai piedi, i capelli, la barba, il pastrano nero lungo fin quasi a
terra che nascondeva una camicia di flanella e un paio di jeans consunti, i
lunghi piedi calzati da stivali con la punta di metallo, le mani callose come
quelle di un contadino. Suo padre, gli era stato detto, era un ricco fazendero
del Gran Chaco, uno che allevava cavalli da corsa. Ma il giovanotto, più che
agli azzimati signorini a cui sarebbe dovuto assomigliare, somigliava a un gaucho.
I pazienti del pronto soccorso e a maggior ragione i loro congiunti avrebbero
potuto scambiarlo per un macellaio, Dio guardi, altro che chirurgo.
-Ho da parlarle di
cose serie… dottore.
Niente allusioni
sulla lunghezza dei suoi capelli o sulla necessità di entrare in un buon
negozio e rinnovarsi il guardaroba, una volta tanto. Gli occhi del Direttore
erano seri, e tristi più del solito. Somigliava a un segugio da pista, a uno di
quei cani grossi e bonari, dalle lunghe orecchie e lo sguardo languido.
-Ho visto il
segretario di Monsignor Arcivescovo, proprio ieri.
Niente di strano
che lo vedesse spesso, i due erano in rapporti più che cordiali, il Direttore
era sempre stato un cattolico devoto e timorato di Dio. O non piuttosto,
timorato degli altri uomini, specialmente di coloro che stavano più in alto di
lui? Maximo abbassò lo sguardo alla punta dei suoi vecchi camperos, per
impedire all’altro di leggerci dentro i suoi pensieri. Ci aveva parlato anche
lui, col segretario dell’Arcivescovo, non più di quattro o cinque giorni prima.
Gli aveva raccontato la sua storia, mostrato le radiografie. Gli aveva detto di
padre Cesar, e si era sentito rispondere non ancora, è troppo presto, lasci
passare almeno un anno, lasci che queste ferite si chiudano… Il sacerdote, un
uomo alto, di mezza età, che indossava un inappuntabile abito talare nuovo
fiammante, ben diverso dalla tonaca sdrucita di padre Cesar, gli aveva chiesto
se fosse credente. Maximo aveva risposto non lo so. Non sono stato battezzato e
non ho mai messo piede dentro una chiesa, ma questo non mi impedisce di agire
secondo coscienza, di fare il mio dovere e di non nuocere agli altri. E poi, so
per certo che c’è qualcosa, al di fuori e al di sopra di noi. Padre Cesar ci
credeva con tutte quante le sue forze come quelli che io stesso, in una delle
mie molte vite, ho visto morire bruciati, crocifissi, sbranati dalle belve pur
di non rinnegare i loro ideali, ma queste cose non gliele aveva dette, altrimenti
il prete lo avrebbe senz’altro e a ragion veduta preso per pazzo.
-Padre Cesar è un
martire di Dio e della giustizia.
-Lasci che sia la
Chiesa a stabilirlo, dottore. A luogo e a tempo debito. Ma non adesso, è ancora
troppo presto.
E l’aveva congedato,
lasciandogli il dubbio che tutti coloro che aveva visto morire nel nome degli
ideali in cui credevano, dai martiri cristiani a padre Cesar, fossero morti per
niente.
-Voglio darle un
consiglio, figliolo: lasci perdere. E non coinvolga altra gente in questa…
follia.
Helga Schiele, la
radiologa. Alludeva a lei. Una donna senza amore, una donna fragile. Una donna
che un uomo come quello avrebbe potuto abbindolare e distruggere come niente.
Gli sarebbe dispiaciuto, se qualcuno le avesse fatto del male, come se fosse
stata sua figlia. Aveva intuito, senza conoscerlo, un doloroso segreto, dietro
le lenti degli occhiali, gli abiti informi in cui si infagottava, il taglio
sgraziato e fuori moda dei capelli, la solitudine che s’era scelta come
compagna di vita.
Non la illuda,
dottor Meridas.
Non la illuda, già.
E non si illuda neppure lei di poter cambiare il mondo. Ringrazi Dio per come
le è andata, se ci crede, e lasci perdere, le parlo come le parlerebbe suo
padre… E adesso vada, dottor Meridas, i suoi pazienti la stanno aspettando.
NIENTE E’CIO’CHE SEMBRA
Maximo guardò il
fumo della sua sigaretta salire in lunghe volute verso il soffitto. Rimase a
lungo immobile a osservarlo, i capelli sparpagliati sul cuscino, il braccio sinistro
piegato sotto la testa. Lo guardò salire, allargarsi, poi disperdersi, cercando
di non pensare a niente. Si sarebbe riempito il bicchiere di whisky e l’avrebbe
buttato giù tutto d’un fiato, se questo avesse potuto, in qualche modo,
aiutarlo a distendere i nervi.
Helga se n’era
andata senza una parola di spiegazione. S’era messa in ferie dal lavoro, era
partita per un lungo viaggio, dicevano tutti quanti all’ospedale. Certo, ne
aveva bisogno, erano anni che lavorava come una dannata senza prendersi un
giorno di ferie. Erano anni che, pur senza concedere confidenze a chicchessia,
parlava di un viaggio in Europa, prima fantasticato, poi progettato e mai
realizzato.
Maximo avviò la
segreteria telefonica, riascoltò per l’ennesima volta il messaggio, la voce
morbida di lei, che parlava senza tradire emozioni, come prima che accadesse
tutto quel che era accaduto tra di loro, come prima che si lasciasse andare, ed
era stata voglia e non amore, almeno, così aveva pensato o sperato. “Non
cercarmi mai più. Non sono quella che credi.”
“Non sono quella
che credi. E mio padre non c’entra, questa volta. Sono una che si è data a
cento uomini conosciuti per caso, per dimenticare, per annegare i miei problemi
nel sesso fatto come viene viene, allo stesso modo in cui altri li
annegherebbero nell’alcol. Per i più, sono una donna anche troppo seria, dedita
al suo lavoro e a quello soltanto, una specie di versione laica e agnostica di
suor Dolores, una che per passare inosservata agli occhi degli altri, è
arrivata a mortificare la sua bellezza, a negarsi perfino le piccole gioie
quotidiane della vita. Solo io e gli amanti che ho raccattato in certi bar
malfamati sanno la verità, una verità che conoscerai anche tu, quando riceverai
e aprirai questa mia lettera…”
Helga Schiele alzò
gli occhi dal foglio, strinse forte tra i denti l’estremità della biro come
faceva quando, da scolaretta, si trovava alle prese con un problema difficile
da risolvere. Poteva bastare, si disse da sé sola. Non era necessario dirgli
del capo della polizia, di Vicente Nolasco, che era stato il suo amante per due
anni e che sicuramente aveva guardato, impassibile, i suoi uomini torturare
padre Cesar, ammazzarlo a calci e a pugni e scaraventare il suo cadavere sul
pianale di un pickup diretto a Los Brujos, dove lo avrebbero bruciato
lontano da occhi indiscreti. Di Vicente Nolasco, con i suoi capelli
imbrillantinati da ballerino di tango e lo sguardo crudele e indifferente di un
rettile. Di Vicente Nolasco, che s’era sparato in bocca quando il regime era caduto
e che, non molto tempo prima, era stato presente quando i suoi uomini avevano
torturato e pestato a sangue Maximo.
Maximo… Si ritrovò
a mormorare piano il suo nome una, due, dieci volte. Non è vero che non lo ami,
Helga, non mentire a te stessa. Era impossibile non amare un uomo come quello,
bello e coraggioso come un eroe delle leggende, un idealista che, per inseguire
un sogno, a momenti buttava via la sua vita. Maximo. Le sarebbero mancati,
quando non li avrebbe avuti più, la seta dei suoi capelli, il calore delle sue
mani, lo scintillio vagamente crudele di quei grandi occhi azzurri che la
guardavano in tralice e non sorridevano mai. Le sarebbero mancati la sua voce
vibrante, l’odore tiepido della pelle, i mille modi in cui sapeva farla
impazzire.
“Ti lascio perché
niente è ciò che sembra e tu non meriti i miei inganni. Non prendertela, ne
troverai a centinaia, migliori di me. Ma sappi questo: sei l’unico uomo con cui
sono stata che non mi abbia fatto sentire sporca.”
Maximo chiuse gli
occhi, aspirò il fumo della sigaretta. Niente è ciò che sembra. Aveva scritto
così, Helga, nella lettera che gli era stata recapitata quella mattina. E’
vero, niente è ciò che sembra. Pareva una donna timida e sola, invece era una
donna disperata. Sarebbe andato a cercarla quella notte stessa, avrebbe
rovistato nei locali malfamati di una città che contava trecentomila abitanti
e, quando l’avesse trovata, le avrebbe posato la grande mano calda sulla spalla
e detto non buttarti via, Helga, non ne vale la pena, accontentati di quello
che sei, vale a dire meravigliosa, il che non è poco. E poi ancora, hai
ragione, niente è ciò che sembra, neanch’io. La vuoi sentire la mia storia? E
le avrebbe raccontato di un contadino divenuto soldato, di un soldato divenuto
generale, di un generale che sarebbe potuto diventare imperatore ed era finito
schiavo, del più forte gladiatore i cui piedi avessero calcato la sabbia
insanguinata del Colosseo. Le avrebbe detto della morte di un tiranno e di
quella di un eroe, di una donna innamorata e di un sortilegio… Chiuse gli
occhi, inghiottì un grumo denso di saliva e l’ultimo fumo della sigaretta
consumata. O forse quello che era in realtà avrebbe continuato a tenerlo
segreto, pensò infilandosi la camicia di flanella e il chiodo di cuoio nero. Ma
l’importante era trovarla, parlarle, convincerla a smettere con quell’assurda
doppia vita. Erano secoli che Maximo aveva imparato a fiutare il pericolo
nell’aria, come un animale selvatico e forse Helga… Non doveva perdere un
minuto.
LA CORTE DEI MIRACOLI
La luce era livida,
la musica di sottofondo quella triste e struggente del bandoneon[4] che un cieco appollaiato
su uno sgabello tormentava davanti a un pubblico formato da quattro o cinque
avventori mezzo ubriachi.
La donna aveva
lunghe gambe inguainate di seta nera e una folta capigliatura rossa che le
scendeva giù per le spalle in riccioli disordinati. Si era mossa un poco sul
suo alto sgabello davanti al bancone e aveva voltato la testa dall’altra parte,
quando l’uomo l’aveva chiamata, come a ribadire che con lui non voleva averci
niente a che fare. Sorseggiò succo d’arancia dal suo bicchiere, non bevevo
alcolici, si alzò e fece per andarsene, dopo aver pagato il conto a una
cassiera che aveva gli occhi pesti di trucco e di sonno. Traballava su tredici
centimetri di tacchi a spillo ai quali era evidente come non fosse abituata e
sembrava a disagio, nell’abbigliamento provocante che indossava, minigonna di
pelle che le fasciava le natiche, camicetta scollata sotto la quale non portava
nulla e un pellicciotto sintetico per difendersi dal freddo dell’inverno. Una
puttana delle tante che frequentavano quel locale in cerca di clienti, pensò
Maximo. E l’uomo, un giovane tarchiato, dai capelli ricci, continuò a seguirla
anche in strada, a chiamarla malgrado lei camminasse a testa alta e a piccoli
passi traballanti, cercando di ostentare indifferenza. La raggiunse, l’afferrò
per un braccio, forse le sibilò un insulto a mezza voce, quando lei cercò di
scrollarselo di dosso. Una puttana e un cliente, si ritrovò a pensare ancora
una volta Maximo. Magari uno di quei tipi dai gusti strani con il quale non
valeva la pena di ripetere una brutta esperienza e allora andasse al diavolo,
lui e i suoi soldi. Era possibile che quella donna non avesse una grande
conoscenza della vita di strada, anche perché non ostentava la baldanza
provocatoria delle sue colleghe e si guardava continuamene intorno, quasi
temesse d’incontrare qualcuno che la conosceva e potesse rimproverarla per ciò
che l’aveva sorpresa a fare. Qualcuno, parente o amico, convinto magari che
fosse una brava ragazza e invece… E invece aveva una doppia vita, come… come…
Maximo rabbrividì
quando vide la lunga parrucca rossa penzolare nella mano dell’uomo e il taglio
drastico e fuori moda dei capelli biondi della donna. Helga… Niente è ciò che
sembra… Strinse forte le palpebre fino a sentire male agli occhi.
-Lasciala stare.
-E chi sei tu per
dirmi quello che devo e non devo fare?
Il giovane poteva
avere una trentina d’anni, più o meno l’età sua. Aveva capelli scuri, corti e
ricci, occhi gonfi, naso da boxeur, mascelle squadrate e labbra sottili e dure
come un taglio. Sotto una vecchia giacca di pelle, gli esplodevano grossi
muscoli saldi e allenati, come se fosse o fosse stato un pugile per davvero.
Dal modo in cui si comportava dimostrava di conoscere Helga, e bene. Forse era
uno di quei giovinastri che lei raccattava nei locali malfamati e si portava a
letto per ammazzare la sua tristezza.
-Ho detto lasciala…
La voce gli morì
nella gola con un rantolo soffocato. Anche lui aveva conosciuto quell’uomo, tre
mesi prima. Era lo stesso che, quando l’avevano arrestato e torturato, pestava
e rideva più forte degli altri. Maximo ricacciò indietro a fatica un conato di
vomito, al pensiero che Helga potesse essersi fatta toccare da un individuo
come quello.
-Non lo sai che è
una puttana… dottore?
Se non avesse
smesso subito di artigliarle il braccio facendole male, avrebbe finito di
rompergli il naso a suon di pugni, avrebbe perfino trovato il coraggio di ammazzarlo.
Perché uno come Mendoza non meritava niente.
-Dottor… Meridas…
Il sovversivo. Dovresti essere morto ed ero convinto che lo fossi, quando ti ho
visto rannicchiato sul pavimento e con tutto il sangue che ti scendeva giù
dalla bocca. Sei stato fortunato, maledetto te… - Un ghigno feroce aveva
contorto le labbra sottili dell’uomo. - Eh, già, hai la pelle più dura di quel
tuo amico prete… Dovevi sentire come strillava, sembrava un porco scannato… Era
eccitante, ammazzare i sovversivi a calci e pugni. Eccitante come scopare…
Peccato che il regime sia caduto e Nolasco sia morto… Non è vero, bellezza?
-Vieni via, Helga,
andiamocene. E’ ubriaco.
-In quanto a
questo, non ci metterei la mano sul fuoco, comunista. Piuttosto, che ci fa uno
come te con la figlia di un gerarca nazista? Con una che s’è fatta sbattere da
Vicente Nolasco, il boia di Tucuman? Te lo ricordi come rideva, mentre ti
davamo la corrente sull’uccello e ti mordevi la lingua per non urlare?
L’aria della notte
era fredda e tagliente come una lametta. Mendoza sollevò con la mano il mento
di Helga Schiele, le indirizzò un sorriso bieco, scoprendo i grossi denti
gialli di nicotina.
-Che mi dici,
bellezza, gli funziona ancora? Me lo ricordo bene, ce l’aveva bello grosso, ma
io non credo di avere un accidente di niente da invidiargli… Vieni con me, te
lo farò provare in tutti i modi e ti piacerà…
-Vattene a casa a
smaltire la sbornia, Mendoza, è l’ultima volta che te lo dico.
-E… E se non avessi
voglia, di tornare a casa già da adesso? E’ molto presto, la notte è giovane, e
ho ancora voglia di bere e di fottere, sovversivo di un maledetto comunista… A
meno che… A meno che la signora non si decida ad accompagnarmi…
Un pugno in faccia
gli soffocò in gola il ghigno osceno e gli insulti. Ma non cadde, barcollò
soltanto. Ed era tardi, quando Maximo ed Helga
percepirono lo scatto della lama, il balenio della luce dei lampioni
sull’acciaio. L’uomo stramazzò premendosi il costato, la donna si chinò su di
lui piangendo. E le ombre della notte inghiottirono Mendoza.
L’IMPOSSIBILE
Abbandonarsi al
pianto o cercare di aiutarlo? Era medico, anche lei, malgrado ormai da anni si
occupasse solo di guardare dentro i corpi dei suoi pazienti e non di cercar di
strappare alla morte un uomo con il petto squarciato da una coltellata. E
adesso che faccio?
A mani nude, cercò
di frenare l’emorragia comprimendo la ferita. Era sola, impotente, disarmata di
fronte alla morte. Perché da quello squarcio, a Maximo stava scorrendo via la
vita, con il sangue. Perché non era improbabile che il coltello di Mendoza
avesse leso organi vitali.
Tenergli la mano.
Guardarlo diventare sempre più pallido. Sperare, lei che aveva sempre creduto
solo in ciò che vedeva, che quel qualcosa che gli aveva permesso di salvarsi e
che lui, testardamente, attribuiva a un miracolo di padre Cesar potesse
ripetersi. Ero io che meritavo di morire, perché sono sporca e inutile, non tu.
Chiuse gli occhi.
Pregò il dio in cui non aveva mai creduto di aiutarlo, di salvarlo un’altra
volta…
-Ho freddo, Helga…
La sua voce era
ridotta ad un soffio, l’eco del cuore gli pulsava appena nella giugulare.
Ferita mortale, si ritrovò a pensare… O ferita che precede comunque la morte.
Ripensò alla guerra… E a quella scalcagnata arena africana, a Proximo, che
aveva gli occhi di ghiaccio e l’aveva comprato per farlo combattere. Uccidi troppo in fretta perché il pubblico
si diverta, Maximus… Sei bravo, sì… Ma potresti diventare magnifico se solo…
Ricordi della prima delle sue mille vite, di quella in cui era stato un uomo
come tutti gli altri, un uomo destinato a uccidere e a morire.
Helga si tolse il
pellicciotto e glielo posò sopra, perché fosse un calore confortante e non il
freddo della notte invernale ad accompagnare gli ultimi istanti della sua vita.
Lascia perdere, le disse con il suo ultimo fiato, non darti pena per me… E non
piangere. Baciami, se te la senti. E aspetta.
Un’ora era passata,
un’ora trascorsa al freddo della notte invernale, lui disteso, lei
rannicchiata, nascosti a possibili occhi indiscreti dalla vecchia utilitaria
della donna. Trascinarlo dentro la macchina, tentare una corsa disperata fino
all’ospedale… Sarebbe stato sicuramente tutto quanto inutile, lui lo sapeva,
quando con la poca voce che gli restava le aveva detto no, non serve, non darti
pena…
L’alba li trovò
rannicchiati uno accanto all’altra e lui era caldo e vitale. La ferita non solo
non sanguinava più, non solo si era completamente rimarginata. Era scomparsa,
come se mai fosse stata inferta. Eppure ti ho visto rantolare cercando l’aria
che ti mancava, ho visto il sangue zampillare da uno squarcio da cui la vita
sarebbe dovuta fuggire, invece... Non so che cosa tu sia, Maximo. E credo che i
miracoli di quel tuo vecchio prete c’entrino poco o niente con quel che ti è
successo. Forse dovrei aver paura di te… Invece sono contenta che tu sia vivo.
L’uomo si tirò su a
sedere, si abbottonò la camicia, chiuse la lampo del giubbotto. ”Liebe…”
Amore. Anche suo padre la chiamava così, tanto tempo prima. Andiamo via. E, strada
facendo, ti racconterò di un contadino che divenne soldato, di un soldato che
divenne generale, di un generale che sarebbe potuto diventare imperatore e finì
schiavo, del più forte gladiatore che mai avesse calcato la sabbia del
Colosseo, della morte di un tiranno e di un eroe, di un amore disperato e di un
sortilegio grande e terribile…
FINE
Lalla, 06/02/02