Storie de Il Gladiatore |
Storie ispirate dal film Il
Gladiatore |
Lettura sconsigliata ai minori di anni 18 |
Massimo l’Immortale
LA META’ OSCURA DELLA LUNA
Parte seconda
ALTER EGO
PROLOGO
Brest, fine aprile 1803
Aveva cercato Marianne, il giorno stesso in cui era tornato
a Brest. Aveva chiesto di lei, in giro, e gli era stato detto che aveva
affittato il mezzanino a un giovane studente. Allora non l’avrebbe cercata, si
disse da sé solo, non ne valeva la pena tantopiù che gli avevano detto che la
sua nave, la corvetta Le Heros sarebbe partita fra tre giorni con un
carico di armi. Destinazione Haiti.
Massimo Meridio si tastò piano la mezzaluna di
madreperla che portava appesa a un lacciolo di cuoio, accanto al suo amuleto e
alla croce del vecchio prigioniero. Quell’uomo, pensò, avrebbe segnato in
maniera indelebile la sua vita nei giorni a venire. François Dominique
Toussaint Louverture: era morto con il nome della libertà sulle labbra, e i
suoi compagni di lotta lo credevano un traditore.
HAITI
Le Cap Haitien, primi di giugno 1803
L’odore che gli aveva solleticato le narici lo aveva
sentito tante volte, in tutte le città di mare dove il destino lo aveva
portato, da Antiochia a Cadice, da Istanbul a Shangai, da Zanzibar a Nuova
Orleans. Era quello stimolante della salsedine mista alle spezie, e quello
nauseabondo del pesce guasto misto al sudore dei facchini che scaricavano le
merci dalle navi. Era quello del legno, delle derrate d’ogni genere, del
catrame e della pece.
Ma a Le Cap Haitien, la terra e il mare avevano anche
l’aroma appiccicaticcio dello zucchero e quello amaro dell’indaco. E l’odore
greve della morte.
Sarebbe stato prudente non scendere a terra, o
quantomeno girare armati e scortati. Con i tempi che correvano, chi aveva la
pelle bianca avrebbe fatto meglio a non mostrarsi troppo in giro. Gliel’aveva
detto lo stesso Toussaint: i suoi intrepidi e crudeli generali, Dessalines e
Christophe, avevano giurato di scaraventare ai pescicani i cadaveri dei soldati
francesi che avessero osato mettere piede sull’isola, e le loro non erano
semplici minacce. Hanno la schiena arata dai segni delle scudisciate, e odiano
i bianchi. Loro non sono quello che ero io.
Il Terzo Ufficiale, il tenente di vascello Massimo
Meridio, guardò il mare sfrangersi sulla chiglia, dall’alto del cassero di
poppa, mentre la corvetta Le Heros attraccava in porto. Chiuse gli
occhi, per ripararli dall’offesa del sole tropicale, e quel cattivo odore
continuava a indugiargli nella gola. Odore di escrementi, di carogne e di rose.
Sarebbe stato difficile, si chiese da sé solo, procurarsi un cavallo? Sarebbe
stato difficile eludere la sorveglianza di coloro che, più o meno
discretamente, avrebbero dovuto vegliare sulla sua sicurezza e andarsene chissà
dove, a cercare chissà chi per raccontargli che l’aveva conosciuto, lui, il
Generale, che aveva veduto con i suoi occhi com’era stato trattato dai
francesi? Sarebbe stato difficile convincere quella gente che Louverture non
era un giuda e non s’era venduto la libertà dei suoi fratelli in cambio di una vita
ricca e tranquilla in terra di Francia, ma era morto di freddo e di stenti in
una prigione in mezzo alle montagne?
Massimo Meridio si ricacciò indietro con un
movimento nervoso della mano i capelli. Il nastrino di velluto nero che glieli
teneva raccolti sulla nuca si era allentato ed era scivolato via,
lasciandoglieli sciolti. Gli arrivavano alle spalle e il trascorrere del tempo
li aveva curiosamente schiariti. In quell’altra vita, pensò, erano stati molto
più scuri, ma forse dipendeva dal fatto che allora li portava corti. Avrebbe
dovuto tagliarli, come imponeva la nuova moda e soprattutto la praticità, ma
alle donne piaceva quella lunga capigliatura selvaggia, morbidamente ondulata,
alla cui base castana si mescolavano pochissimi capelli grigi e molti color
mogano, miele, rame e oro… Capelli che nemmeno un cieco avrebbe potuto prendere
per quelli di un negro.
Come tutto quanto il resto: gli occhi azzurri, la
bocca delicata, la pelle chiara. Poteva imbrattarsi il viso e le mani con della
cenere, poteva… Non avrebbe ingannato nessuno. Tanto valeva non provarci
neppure. Doveva andare dove lo portava l’istinto, in un qualsiasi posto, sui
monti, in mezzo alla foresta, ovunque fosse possibile incontrare qualcuno dei
compagni di lotta del vecchio Generale: i capibanda spietati, quelli che dopo
ogni assalto andato a buon fine si ubriacavano come spugne; o Dessalines e
Christophe che, con le spade sguainate in pugno, avevano giurato morte ai
francesi. O forse, perché no, quel Martin. Incidere il suo nome sul ciondolo di
madreperla a forma di mezzaluna doveva essere stata l’ultima azione cosciente
che il vecchio fosse riuscito a compiere. Martin Gr. E poi? Louverture era
morto prima di poter completare l’opera.
Non sarebbe stato facile trovarlo, ammesso e non
concesso che fosse ancora vivo. In quella succursale dell’inferno dov’era
finito, la morte ti stava appiccicata alle calcagna dal momento in cui nascevi
e non ti mollava più. Eppure, all’apparenza, Haiti poteva rassomigliare a un
piccolo Eden, con le cime delle montagne che si stagliavano contro il cielo
azzurro, la vegetazione rigogliosa, l’aria tersa, il mare dai riflessi
iridescenti, i bambini dai grandi occhi lucidi e le donne belle come fiori. Un
eden impregnato di sangue, gonfio di odio. A pochi metri dalla chiglia della
sua nave, Massimo vide galleggiare un cadavere. Era talmente gonfio e sfigurato
dai pesci e dalla salsedine che non si capiva neppure se, in vita, quel
poveretto fosse stato un bianco o un negro. Emanava un tanfo atroce, e lui
faticò a ricacciare indietro il conato di vomito che dallo stomaco gli era
salito alla gola. Haiti gli dava il bentornato.
MORNE
ST.RAPHAEL
Il cavallo che aveva affittato gli fece rimpiangere
Erebus, che aveva dovuto giocoforza lasciare in Francia. Era un vecchio brocco
dal mantello storno[1] e dalle zampe tozze e
doveva essere abituato a tirare la carretta, più che a portare in sella un
cavaliere, ma era docile come una scolaretta e ubbidiente come un frate. Doveva
aver conosciuto una vitaccia, si disse da sé solo. Come tanti, lì ad Haiti.
Uomini e animali, bianchi e neri. L’epidemia di febbre gialla che aveva
decimato l’esercito francese era finita. A Charles Victor Emmanuel Leclerc, era
costata la pelle. Venuto per sterminare qualsiasi negro che avesse portato spalline
militari sulla giacca, era tornato in Francia chiuso dentro una cassa e
accompagnato da una moglie che, c’era da supporre, non lo avrebbe pianto a
lungo. Adesso, il comandante in capo dell’esercito francese ad Haiti era
Rochambeau. Forse non si ubriacava come Jeannot e Biassou dopo ogni impresa
vittoriosa. Ma non lo si poteva definire migliore di loro solo perché era un
bianco civilizzato ed educato. Quando l’epidemia gli aveva decimato l’esercito,
aveva deciso di rimpiazzare i soldati morti con grossi cani feroci, addestrati
a saltare alla gola e a uccidere. Cani capaci di fiutare controvento l’odore di
negro a chilometri e giorni di distanza. Quelli, almeno, non si ammalavano di
febbre gialla[2]. Né si chiedevano se ciò
che gli era stato imposto di fare fosse o meno giusto. Ammazzavano e basta.
Non sapeva dove sarebbe andato. Uscendo dalla città,
non aveva incontrato molte persone: soldati di pattuglia, perlopiù, e negri
dall’apparenza indaffarata, che si muovevano a testa bassa, quasi a voler
impedire che qualcuno potesse leggere segreti inenarrabili dentro i loro
liquidi occhi scuri. Segreti che avrebbero raccontato storie di odio e di
dolore. Segreti legati forse al ricordo di un uomo in cui avevano voluto
credere e che li aveva traditi in cambio d’un pugno d’oro: come i capitribù
africani che vendevano ai mercanti di carne umana i fratelli neri.
Non sapeva dove sarebbe andato. Si sarebbe diretto
verso l’interno, e avrebbe cavalcato fino al tramonto. Poi si sarebbe fermato. Per
proseguire, all’alba del giorno dopo finché non avesse incontrato qualcuno.
Faceva un caldo d’inferno. Massimo Meridio si tolse
la giacca e la mise di traverso sulla sella. Poi si aprì la camicia. Le sue
dita incontrarono il dente di lupo, il portafortuna che accompagnava da sempre
il corso della sua vita senza fine. Quante volte aveva sentito ululare i lupi
alla luna sotto un cielo che sembrava di ferro, e quel pianto gli aveva portato
alla mente il ricordo lontano di cose perdute? In quante lingue, il suo nome e
quello del lupo erano stati associati, nello scorrere ineluttabile del tempo
che tutto riduceva in polvere? “Ich bin Wulf…“ “Lupus ego
sum…” Io sono
il lupo. Il lupo di Roma. Non c’erano lupi, ad Haiti.
Si tastò piano il crocifisso di legno che era
appartenuto al Generale. E la mezzaluna con quel nome inciso sopra. Un ricordo
più che un portafortuna: contrariamente alla maggior parte dei suoi congeneri,
Toussaint Louverture non era superstizioso. Si definiva un buon cristiano, e la
superstizione è peccato. Martin doveva essere qualcuno che gli era stato caro.
Qualcuno a cui il suo presunto tradimento doveva essere pesato sul cuore come
un macigno.
La montagna si trovava quasi sul confine di quella
parte dell’isola che era appartenuta alla Spagna, fino a pochi anni prima[3]. Era coperta da una fitta
vegetazione in mezzo alla quale sicuramente si nascondevano bande di ribelli,
quelli che i bianchi chiamavano marons[4]. Si erano rifugiati lì quando
Louverture era stato costretto ad arrendersi e continuavano la loro lotta che
forse sapevano persa in partenza. Ma la più orribile delle morti è sempre
preferibile alle catene. Non conoscevano il loro futuro e l’unica certezza che
avevano era che non si sarebbero mai arresi.
I tramonti dei tropici erano diversi da quelli del
suo mondo. Il buio calava sulla luce quasi come una scure, dopo un crepuscolo
che durava solo pochi istanti. Doveva cercarsi un riparo, se non voleva
trascorrere la notte all’addiaccio. Non era cosa da poco, in quella landa
disabitata.
L’INCAPPUCCIATO
Aveva notato una piccola capanna di frasche a breve
distanza da dove si trovava. Uno di quei ripari provvisori che i negri
chiamavano ajupa. Un buon posto per passarci la notte: gli avevano detto
che Haiti pullulava di serpenti velenosi, ma chi lo aveva informato non era al
corrente del fatto che lui non aveva niente da temere. Era un segreto, quello.
Un segreto di cui nessuno sapeva.
Massimo Meridio smontò di sella e si avviò a piedi
verso il riparo, tenendo il cavallo per le briglie. Il crepuscolo mitigava il
caldo afoso della giornata. Meno male, se non altro sarebbe riuscito a chiudere
gli occhi e a riposare per un po’, tantopiù che, da qualche giorno, era
tormentato da un feroce mal di testa che quasi non gli dava requie.
Non era solo. Quando se ne accorse, inforcare il
cavallo e scappare sarebbe stato impossibile. Era improbabile che lo avessero
seguito, se ne sarebbe accorto. I due sembravano spuntati dal nulla ed era
stato per caso che si erano trovati quasi faccia a faccia con lui. Uno era
appiedato, l’altro a cavallo. Un uomo dalla pelle nera e dalla taglia
imponente, il primo: alto quasi due metri e largo in proporzione, aveva un
grosso cranio rasato a zero che brillava sotto gli ultimi raggi del sole
morente. Era a torso nudo, portava uno schioppo a tracolla e una sciabola
infilata nella fusciacca. L’altro aveva la testa nascosta da un cappuccio e
scrutava i dintorni dall’alto di un bel cavallo baio. Con una bestia del
genere, non avrebbe impiegato molto a raggiungerlo, se avesse tentato di
scappare, pensò Massimo senza lasciare il suo nascondiglio. Il suo intuito gli
diceva che quello a cavallo doveva essere un individuo pericoloso. Più
dell’altro. E il suo intuito non l’aveva mai ingannato.
Si avvicinò silenzioso, ventre a terra, incurante
dei rovi che gli graffiavano le mani. Abbastanza da vederli bene, senza
tuttavia essere visto, anche se, sicuramente, avevano notato il cavallo e
adesso lo stavano cercando. Quello grosso e appiedato portava grandi orecchini
di rame infilati ai lobi e aveva le guance e la fronte sfregiate dalle
cicatrici. Scarnificazioni tribali, pensò. Doveva trattarsi di un bossal
africano. Aveva spalle larghe e bicipiti poderosi, ma il ventre molle che gli
debordava dai calzoni e le natiche grasse come quelle di certe donne toglievano
imponenza e forza alla sua figura, finendo col renderla quasi patetica.
Dell’altro non si capiva granché, un po’ per la distanza e molto per il
cappuccio che gli occultava completamente la testa. Esile ed efebico, doveva
essere molto giovane: ma che quello più grosso prendesse ordini da lui era
evidente dall’attitudine eretta con la quale stava in sella, da cui traspariva
una naturale autorevolezza che niente aveva a che vedere con le dimensioni dei
suoi muscoli. Un bel momento, smontò da cavallo e s’incamminò nella direzione
in cui lui si era nascosto, a lunghe falcate elastiche. A Massimo ricordò un
felino selvatico. Un leopardo, agile e leggero e altrettanto forte. E
pericoloso. Malgrado quel che gli aveva riservato in dono la sorte, Massimo si
mise in guardia. Le vecchie abitudini sono dure a morire, si disse da sé solo.
L’incappucciato era piuttosto alto, notò, anche se
non quanto l’altro. Aveva le mani infilate dentro guanti neri e gli unici
brandelli di pelle scoperta erano quelli intorno alle orbite degli occhi,
lasciate libere dai fori del cappuccio. Portava anch’egli una sciabola al
fianco e un lungo fucile a tracolla, un vecchio catenaccio arrugginito che
indubbiamente sapeva usare con perizia. Tra un po’, forse avrebbe potuto
provarlo a sue spese, si ritrovò a pensare. Chissà come ci sarebbero rimasti,
quando… Probabilmente se la sarebbero data a gambe e fino alla fine dei loro
giorni avrebbero raccontato dell’incontro con un fantasma. I neri erano
superstiziosi, gli aveva detto qualcuno.
Forse non lo avrebbe fatto se non avesse avuto dagli
dei e da una donna innamorata il dono grande e terribile che aveva ricevuto, un
mare di anni prima. Avrebbe finto di non veder luccicare tra l’erba, appeso ad
una cordicella, un ciondolo uguale a quello di Louverture. Onice nera, però,
non madreperla: la metà oscura della luna.
- Martin! - gridò emergendo dal suo nascondiglio.
Il cuore accelerò i battiti, quando il suo sguardo incontrò
quello dell’incappucciato. La sua sensazione, si ritrovò a pensare per un
istante lungo un secolo, fu la stessa che dovevano aver provato gli avversari,
nella grande arena di Roma, quando i suoi occhi beffardi li avevano fissati
attraverso i fori della maschera. E quegli occhi avevano lo stesso colore e la
stessa espressione fredda dei suoi.
Si lasciò sfuggire un’imprecazione a mezza voce
quando l’incappucciato gli sferrò con la rapidità di un fulmine un calcio ai
testicoli che lo fece vacillare, strozzandogli in gola un grido di dolore.
- Dev’essere venuto per insegnare la strada ai cani
di Rochambeau. Chacha, finisci il lavoro e… legalo al cavallo. Lo portiamo
all’accampamento.
Fece in tempo soltanto a strabuzzare gli occhi,
prima che il calcio del fucile di Chacha lo colpisse alla testa, facendolo
crollare a terra tramortito. Dopo, fu il buio.
INCUBI
DAL PASSATO
Quando si risvegliò, percepì ancor prima della luce
di cento torce, l’umido della notte sulla pelle nuda del petto. Gli avevano
tolto la camicia e gli stivali e lasciato soltanto i calzoni. I piedi scalzi
calcavano un terriccio molle e fangoso in una sorta di piccolo avvallamento
forse naturale, più probabilmente scavato da qualcuno.
Non appena aveva riaperto gli occhi, si era accorto
di avere le mani legate. Si ritrovò circondato da una cinquantina di facce
nere, ma gli occhi che lo squadravano non erano cento, visto che diverse di
quelle facce, tutte chi più chi meno segnate da terribili cicatrici, erano
guerce. L’uomo che gli si era avvicinato brandendo un grosso coltello senza
cessare di sghignazzare era basso, nerboruto e indossava un’uniforme sgargiante
e sbrindellata, grondante frange, mostrine e cordoni dorati degni di nota
soprattutto per il loro incredibile sudiciume. Gli si avvicinò barcollando e lo
fissò con occhi vitrei iniettati di sangue.
- Martin e Chacha hanno trovato uno dei cani bianchi
di Rochambeau nella foresta…
La voce brancolava e l’alito gli puzzava di rhum
cattivo. Quell’individuo doveva essere ubriaco fino alle ossa, pensò Massimo
abbassando la testa.
- Tra un po’ ci divertiremo tutti quanti, c’est
vrai, mauvais sujet[5]?
Le intenzioni erano chiare molto più delle parole
che aveva pronunciato con voce strascicata e ubriaca in gombo, il
dialetto degli schiavi. La luce delle torce faceva scintillare gli occhi
arrossati, i denti bianchi e le mostrine dorate sulla sudicia giacca dell’uomo.
Massimo sapeva che gli avrebbe fatto passare un brutto quarto d’ora e
rabbrividì, nonostante fosse quello che era. Sentì le mani callose e sudate
palpeggiarli le braccia e il petto, le dita pizzicargli i capezzoli. Non avesse
avuto le sue legate dietro la schiena, avrebbe impartito volentieri una bella
lezioncina a quel maledetto ubriacone: detestava che qualcuno si prendesse certe
avvilenti e non autorizzate libertà con il suo corpo. E faticò anche a
reprimere la voglia di sputargli in faccia quando, dopo essersi alzato in punta
di piedi, l’altro gli sollevò il mento e gli alitò un “Vediamo come ti sai
battere” prima di recidere con un colpo di coltello la fune che gli
imprigionava i polsi e di spingerlo al centro dello spiazzo sterrato.
- Voglio parlare con Martin, - disse Massimo a voce
bassa, massaggiandosi i polsi.
- E se invece ti facessi parlare con Babouin? Non ti
andrebbe bene lo stesso?
- Voglio parlare con Martin, ho detto.
L’altro non rispose. E quando Massimo sollevò gli
occhi da terra vide, come un incubo emerso dal passato, un uomo che impugnava
due coltelli caracollare verso di lui.
Lo avrebbe aspettato fermo al centro di quell’arena
improvvisata, pensò. Avrebbe colto in un attimo il modo in cui si muoveva, in
cui allungava le braccia per colpirlo. Avrebbe cercato e trovato, anche se
quello era armato e lui no, i suoi punti deboli per tentare di batterlo. Come
un mare di tempo prima. Come quando era ancora una questione di vita o di
morte.
Adesso non lo era, pensò. Non lo era, almeno per
lui, anche se i fendenti di quei due lunghi coltelli erano andati a segno un paio
di volte. Il suo avversario aveva gambe storte, braccia e torace massicci e
muscolosi. Il suo volto era sfregiato da orrende cicatrici. Bruciature, con
ogni probabilità. Ma quel che rendeva ancor più repellente quella mostruosa
creatura era la mancanza dei padiglioni auricolari, mozzati entrambi rasenti
alla testa. L’uomo in uniforme sbrindellata lo aveva chiamato Babouin. Un nome
che gli si addiceva a pennello.
Massimo sentiva il sangue grondargli lungo il
fianco, impregnandogli i pantaloni della divisa e portandogli via la voglia di
resistere. Gli strepiti degli spettatori che gli rimbombavano nel cervello
erano tutti per il suo avversario, un nero come loro. Se non lo avesse steso,
pensò, se si fosse lasciato crollare a terra, il suo segreto sarebbe trapelato…
Forse valeva la pena tenerlo nascosto, forse… Strinse i denti, si ingiunse da
solo di resistere. Anche solo per orgoglio. Non era armato, ma sapeva che tutto
il suo corpo poteva trasformarsi in un’arma micidiale: un calcio assestato
violentemente al plesso solare, un colpo alla carotide vibrato di forza con il
taglio della mano, l’indice che entrava nell’occhio e finiva nel cervello…
Potevano uccidere un uomo. Avevano già ucciso.
I larghi, affilati coltelli di Babouin balenavano
alla luce delle torce a pochi centimetri dalle sue braccia, dal suo ventre e
dalla sua gola. Il mostriciattolo gli sorrideva beffardo mostrandogli i lunghi
denti limati in una sorta di ghigno animalesco. Aveva il vantaggio dei coltelli
ma era meno agile di lui, pensò Massimo. Zoppicava da una gamba e, guardandolo
da vicino, si accorse che aveva un occhio solo, l’orbita sinistra era vuota.
Doveva approfittarne. Sferrandogli al polso un calcio che lo fece urlare come
un cane malato, Massimo gli disarmò la mano sinistra. Ma lo sforzo richiesto al
suo corpo ferito e dolorante lo fece crollare a terra e pochi istanti dopo
l’avversario gli fu addosso. Strattonandogli i capelli, cercò di fargli alzare
la testa e di scannarlo, ma riuscì soltanto a graffiargli il petto, prima che Massimo
se lo scrollasse di dosso e gli facesse cadere, mordendogli la mano che lo
impugnava, anche l’altro coltello. Il resto fu facile anche se la ferita al
fianco gli faceva male e, mentre se ne stava inginocchiato in una poltiglia di
sangue e di mota, sentiva di essere lì lì per crollare a terra svenuto.
TI
BON ANGE[6]
- I cani di Rochambeau hanno buoni denti, vedo… E
adesso raccogli uno di quei coltelli e finiscilo. Questo lache[7] non merita di vivere.
Massimo Meridio alzò gli occhi su colui che gli stava
di fronte e che, con la punta dello stivale prendeva a calci l’uomo
rannicchiato a terra come un fagotto di stracci.
- Non ammazzo uno che non è in condizioni di
difendersi.
- Invece adesso tu raccogli il coltello, canaille,
e scanni questo mangiapane a sbafo. Lui lo avrebbe fatto, al posto tuo.
- Ho detto che non ammazzo un uomo disarmato.
Massimo Meridio tentò, a fatica, di alzarsi in
piedi. Si tastò la ferita sul fianco. Era profonda e continuava a sanguinare.
Avrebbe continuato chissà ancora per quanto.
- Ammazzalo, o ti sparo.
L’altro gli afferrò i capelli costringendolo ad
alzare la testa, e gli puntò alla tempia la canna fredda della sua lunga
pistola.
Massimo non si scompose. La testa gli girava. Paura?
Forse. Anche se non aveva senso. E’ la morte a ingenerare terrore. No…
Altrimenti, quella pistola puntata contro la sua tempia, gli occhi folli
dell’uomo ubriaco di tafià[8] e di odio, il corpo inerte
di quell’altro, a cui il destino non aveva riservato i suoi stessi privilegi,
non gli avrebbero riempito il cuore di un’angoscia densa, fredda, quasi
palpabile.
- Biassou…
- Ti Bon Ange! Che ci fai qui… anche tu?
- Lascialo stare, Biassou. Non lo vedi che sta
morendo?
Martin, riuscì a pensare Massimo prima di rovinare
pesantemente a terra. O piuttosto Ti Bon Ange. Piccolo Angelo Buono.
Anima mia. La donna più incredibilmente bella che avesse mai visto.
Al risveglio, fu il volto di lei la prima cosa che
vide materializzarsi nella luce dell’alba che inondava la piccola stanza
disadorna attraverso un’ampia finestra senza vetri. Era inginocchiata vicino al
suo giaciglio. Aveva tratti meticci, zigomi alti e bocca prepotente. La pelle
era color cioccolato al latte, i
capelli lunghi e lucidi, di un nero corvino le ruscellavano lungo la schiena,
raccolti in una complicata acconciatura fatta d’un numero incredibile di
piccole trecce. Ma a catalizzare la sua attenzione furono gli occhi della
donna: grandi, tagliati a mandorla, vagamente crudeli. Occhi da animale
selvatico, da felino della foresta. Occhi di un blu profondo, che sfumava nel
verde quando la luce li colpiva, riducendo le pupille a minuscoli fori. Occhi
che, pur diversi nella forma, erano dell’identico colore dei suoi, pensò
Massimo. Potremmo essere fratello e sorella, si disse da sé solo. Anche se lei
era nera, lui bianco. Anche se lei dimostrava ventiquattro, venticinque anni e
lui… lui ne aveva oltre mille e seicento.
- Martin… - Disse con un filo di voce rauca. Gli
faceva uno strano effetto chiamare con un nome maschile quella splendida donna,
eppure il fatto che anche Biassou l’avesse chiamata così sgombrava il campo da
ogni possibile equivoco. Quel Martin che cercava era proprio lei. Le avrebbe
parlato, decise puntellandosi sui gomiti e tentando di sollevarsi. Le avrebbe
raccontato del suo incontro con Toussaint Louverture. Le avrebbe detto che era
morto di freddo e di stenti in una fortezza in mezzo alle montagne e che non
aveva tradito nessuno.
- Stai giù, o ti si riaprirà la ferita. Eri messo
male, credevo che morissi. Ho dovuto ricucirti. Ti resterà una gran brutta
cicatrice.
Aveva cercato di sorridergli, sollevando appena un
angolo della bella bocca.
- Come ti chiami?
- Massimo.
- Non sei francese.
- No.
- Allora perché avevi addosso quella divisa?
- Non lo so.
Massimo sospirò, chiudendo gli occhi. Era la verità,
quella che le aveva raccontato. O forse sapeva bene perché aveva scelto di
indossare quella divisa, di combattere per un paese che non era il suo. Ma il
risveglio dai sogni, il crollo delle sue illusioni, all’improvviso lo fece vergognare
di quel che aveva fatto. Rivide Louverture, la sua faccia grigia e le sue rughe
profonde. E si morse forte il labbro inferiore fino a sentire il sapore salato
del suo stesso sangue. Per non pensare.
- Potrei riavere… I miei vestiti?
- Sì. Quando saranno asciugati.
- E il mio cavallo?
- Riavrai anche quello: non siamo ladri, bianco.
- Debbo considerarmi… vostro prigioniero?
- Mio ospite.
Lo aveva guardato dritto negli occhi, mentre gli
parlava: occhi nei quali il cielo e il mare si mescolavano con i bagliori
sinistri dell’acciaio.
- Che ne è stato… di Babouin?
- Avresti dovuto ammazzarlo. Per pietà, Massimo.
Biassou diventa cattivo quando si ubriaca. Diventa incontrollabile.
Martin abbassò sugli occhi le lunghe ciglia nere.
Lui avrebbe voluto chiederle e che ci state a fare, con uno così, voi siete
diversa, siete… Era alta, snella, con un corpo favoloso, temprato da anni di
vita difficile. Vestiva come un uomo, eppure era di una femminilità bruciante,
sconvolgente. Indossava brache di cotone rigato e una camicia bianca, le cui
maniche arrotolate esponevano i serpenti che aveva tatuati sui polsi e sugli
avambracci. Calzava stivali da soldato, alti fino al ginocchio. La mezzaluna
d’onice, appesa a un cordino ingrommato, le dondolava sul seno perfetto, il cui
profilo si intuiva sotto la camicia informe.
- Biassou… E’ il vostro capo?
- Sì. E’ coraggioso e astuto. Grazie a lui, ci siamo
tolti dai guai tante volte. I francesi lo temono e hanno messo una taglia sulla
sua testa.
Anche sulla vostra, si ritrovò a pensare Massimo.
Perché sicuramente lo era, coraggiosa e astuta. Le guardò i tatuaggi sui polsi.
Molti uomini della banda di Biassou avevano serpenti tatuati sulle braccia e
sul petto. Forse, quel segno significava qualcosa, per loro. Come gli anelli
d’oro e d’argento che alcuni di essi portavano infilati nei capezzoli. Un segno
di virilità e di coraggio. Come nell’antichità, quando a fregiarsi di quegli
atroci gioielli erano i pretoriani degli imperatori di Roma[9].
Massimo serrò forte le palpebre sugli occhi, quando
Martin scostò il lenzuolo dal suo corpo. Li riaprì, e vide la donna ferma
accanto a lui con in mano una ciotola che, dall’odore acre, doveva contenere
acqua, aceto e qualche erba pestata. Nell’altra mano, teneva una pezzuola
pulita.
- Che diavolo volete da me?
- Lavarti, bianco. E’ inutile che tu faccia tanto il
pudico, ti ho ricucito e ti ho visto tutto quanto. Eppoi… Qui fa caldo. L’odore
del sudore e del sangue attira le mosche, e quella ferita ti si riempirà di
larve nel giro di poche ore. Hai mai visto una ferita che brulica di vermi,
di’?
Massimo inghiottì la saliva e la lasciò fare,
serrando gli occhi quando sentì la pezzuola umida sul fianco, poi sul basso
ventre. Le cuciture sbilenche tiravano e i labbri biancastri non sanguinavano
più. Sei uno che guarisce in fretta, gli aveva detto la donna. Ma ti resterà lo
stesso una gran brutta cicatrice. Andrà ad aggiungersi alle altre che hai e
che…
La guardò mordersi le labbra. Forse avrebbe voluto
dirgli che le cicatrici sul corpo di un combattente sono il segno manifesto del
suo coraggio e che niente, per una donna, è attraente come un uomo coraggioso.
Forse avrebbe voluto dirgli che non sarebbe mancata chi gliel’avrebbe baciata,
quella cicatrice. Ma non disse nulla e lui la guardò, prima di domandarle che
fine avessero fatto il suo portafortuna e la croce e il ciondolo di Louverture.
- La zanna te la restituirò. Ti ho già detto che non
sono una ladra. Ma la croce e la mezzaluna me le terrò… Perché mi appartengono.
Lui continuò a guardarla. Era bellissima, con quella
piccola testa altera sul lungo collo flessuoso. I capelli raccolti in fitte
treccioline gli portarono alla mente i serpenti di Medusa. Chissà se lo sguardo
distante di quei suoi occhi così incredibilmente chiari poteva pietrificare un
uomo. Chissà…
- Martin…
Sentì le dita sottili della donna stringere piano le
sue. Poi la guardò sorridergli. Aveva denti bianchi e squadrati, tra le labbra
sensuali.
- Solitude Martin Grinville De
La Fère.
LO SPRETATO
Si svegliò quando la luce dell’alba inondò il buco
in cui l’avevano richiuso, ma quale ospite, lo tenevano prigioniero, altro che
storie, e le sue orecchie percepirono il cigolio della chiave nella serratura.
Solitude. Pensò Massimo. Di nuovo lei, la sua bella
carceriera. Aveva un cognome lungo quanto le sue gambe, neanche fosse stata una
duchessa invece che una ex sguattera di piantagione. Era indubbiamente una
donna molto bella; ed era anche decisamente strana. Ti guardava dritto in
faccia, parlava poco ma chiaro e aveva l’aria di chi sa esattamente quel che
vuole; perfino il feroce Biassou, che pure si ubriacava come un carrettiere e
non aveva paura di niente diventava un pulcino bagnato, se solo lei gli
piantava in faccia i suoi occhi color acquamarina.
Ma la luce che inondava la piccola stanza non
illuminò la figura elegante della donna.
Massimo strinse tra le dita il coccio di bottiglia
che era riuscito a raccattare, lo nascose sotto il cuscino. Nessuno doveva
accorgersi che la sua ferita si era già chiusa senza lasciare traccia e quel
piccolo, tagliente pezzo di vetro gli sarebbe tornato utile allo scopo. Anche
se, in fondo, che poteva importargli qualora la verità fosse venuta a galla? I
neri erano terribilmente superstiziosi, gli aveva detto qualcuno. Credevano che
si potesse tornare indietro dall’aldilà. I neri. Ma l’uomo appena entrato era
bianco come lui, senza possibilità di equivoci.
Vestiva di scuro, e i suoi abiti erano vecchi e lisi;
aveva capelli grigiastri che gli pendevano ai lati del cranio sguarnito, il
volto cavallino, di un pallore malsano, su cui spiccavano il naso grosso, le
sopracciglia cespugliose e una bocca livida che si apriva su una dentatura
incompleta e traballante. Ma nonostante il suo aspetto sgradevole e trascurato
non doveva avere più di cinquant’anni. Che ci faceva, un bianco nella banda di
Biassou?
- Salute a te… Massimo, mi pare. Forse aspettavi la
bella Solitude, e invece… Spero di non averti deluso troppo e di poterti
tornare utile. Desideri qualcosa?
I miei vestiti, i miei stivali, il mio amuleto, il
mio cavallo e la libertà di andarmene da qui quando mi pare, rispose lui,
sbuffando. Quell’altro lo invitò con cortesia ad avere pazienza ancora qualche
giorno, finché la ferita non fosse guarita del tutto e poi… E poi forse si
sarebbe dovuto rimettere agli umori instabili del capo per sperare di andarsene
da lì. Magari dopo aver chiarito un paio di cosette con Solitude Martin
Grinville De La Fère. In ogni caso, gli sarebbe piaciuto coricarsela sotto,
quella magnifica femmina fiera color della cannella. Rabbrividì al pensiero che
i suoi acuti occhi azzurri e le sue dita sottili e forti gli avessero sfiorato
il corpo nudo. Tante donne avevano desiderato il suo grande corpo caldo e
vigoroso, in questa vita e nell’altra… Ma forse lei era diversa, forse non gli
avrebbe perdonato il fatto di essere bianco. Forse se la faceva con quel
gigante dall’aria ebete che la seguiva sempre come un grosso cane, o con Biassou…
O magari con quell’omiciattolo dalla testa tignosa che puzzava quanto un gregge
di capre ma che aveva l’innegabile vantaggio di stare dalla loro parte, ad onta
del colore della sua pelle.
- Mi chiamo Carlos Obregon.
Parlava un buon francese, corretto e un po’ forbito,
non il vernacolo inintelligibile dei negri. E Massimo aveva capito che era
spagnolo ancor prima di sentirgli pronunciare il suo nome. Doveva trattarsi, in
ogni caso, di una persona istruita. Chi sei e che ci fai qui? Gli chiese, anche
se conosceva già la risposta. Sono venuto a controllare la tua ferita. Ma forse
avresti voluto che fossero le mani di Solitude a toccarti, anche questa volta.
- Chi è Solitude Martin Grinville De La Fère?
Gli occhi dello spagnolo ammiccarono maliziosi. Ti
piace? Gli chiese. Quella piace a tutti. Ma… E’ pericolosa, amico. E’ piena di
veleno, come una vipera. Quando è scappata dal suo padrone, ha fatto fuori
quattro uomini. Da sola. E aveva quindici anni appena.
- Ti ho solo chiesto di dirmi chi è Solitude Martin
Grinville De La Fère.
La faccia di Obregon tornò seria. Anche se, in
verità, sono venuto soltanto per dare un’occhiata alla tua ferita, ti parlerò
di lei… E di tante altre cose. Ma preferirei non farlo in francese. Qui anche i
muri hanno orecchie.
- Potrei parlare la tua lingua: la conosco bene.
- Ma la conoscono bene anche parecchi degli uomini
di Biassou: aldilà del Morne St.Raphael era territorio spagnolo, prima che
Louverture lo liberasse.
Lo sguardo scuro di Obregon bruciò la pelle di
Massimo, mentre le sopracciglia cespugliose si aggrottavano nel dubbio se
formulargli o meno la domanda. Quello era un soldato. Quando l’avevano preso
nella foresta, aveva addosso l’uniforme della Marina da Guerra francese. Non
era ciò che era stato lui, tanto tempo prima. Era quasi impossibile che…
- Maiorum sermonem loqueris?
- Maiorum sermonem loquor[10].
Gli disse di essere stato un prete, molti anni
prima. Era stato suo padre a volerlo tale, senza chiedergli nessun parere.
Quello era il suo destino, dal momento stesso in cui la madre l’aveva messo al
mondo. Era stato costretto a chinare la testa e a ubbidire. Di malavoglia.
- Non sono stato un buon prete. Nemmeno un buon
cristiano, se vogliamo vederla da questo punto di vista. Mi piaceva mangiare, bere.
Mi piacevano le donne. Ero un epicureo. Ma il destino che mi era stato cucito
addosso dagli altri non mi apparteneva. E tu… sei stato l’artefice del tuo
destino, Massimo?
Il ferito si era seduto sul giaciglio, puntellandosi
con i gomiti, e il lenzuolo gli era scivolato lungo il corpo nudo. Sì. Gli
aveva risposto. Quel che faccio è ciò che ho sempre fatto e che ho scelto
personalmente di fare. I miei genitori e mio fratello morirono nell’incendio
della fattoria dove vivevamo quando avevo solo otto anni. Mi sono salvato
perché in quel momento ero nel bosco a cercare fascine. E’ stata una mia
vecchia zia a crescermi. O meglio, a farmi trovare tutti i giorni un piatto di
minestra e un tozzo di pane sul tavolo e tutte le notti un letto asciutto su
cui dormire al riparo dalle intemperie. Ma aveva sessant’anni passati e non era
in grado di tenere dietro a un ragazzino.
- Capisco.
Già. Ma quel che non capiva era il fatto che quel
rozzo soldataccio parlasse il latino con incredibile disinvoltura, meglio di lui
che l’aveva studiato per anni. Il resto, era come aveva immaginato. A
quattordici anni si era arruolato nella marina da guerra e poi… Poi non aveva
fatto altro.
- Da dove vieni?
- Da un paese vicino a Ventimiglia.
- La chiamavano Repubblica di Genova, una volta. E
adesso quel brigante di Napoleone se l’è pappata. Si sta pappando mezzo mondo,
ma debbo essergli grato di aver fatto piazza pulita dell’Inquisizione in Spagna
e nei suoi territori d’Oltremare. E’ uno che ha rischiato di finire arrostito
sulla pubblica piazza come nemico di Dio a dirtelo. Mi ero messo con una donna
meticcia e avevo avuto dei figli da lei, nonostante i voti. Ma, quel che è
peggio, non credevo in niente malgrado mi avessero ordinato prete. Quel che
facevo… era per ipocrisia, Massimo. E per salvare la pelle. Morire bruciati
vivi è una gran brutta morte.
- Perché prendi ordini da Biassou?
- Io non prendo ordini da nessuno.
- Mettiamola diversamente, allora: Biassou odia i
bianchi, eppure…
- Forse. Ma rispetta il coraggio e teme la magia.
- Vorresti farmi credere che sei un mago?
Lo spretato rise, mettendo in mostra la chiostra
nera e incompleta dei denti.
- No. Sono semplicemente un dokté-feuilles[11]. Fu la mia donna a
insegnarmi i segreti delle erbe. Anche quel cataplasma che hai sulla ferita e
che ti aiuterà a guarire l’ho preparato io.
- Ma Biassou è convinto che tu lo sia.
- Già. E francamente mi fa comodo che lo creda. Te
l’ho detto, lui rispetta il coraggio… e teme la magia. Per il resto, è più
inaffidabile d’un cane malato di rabbia.
- Hai reso l’idea. Sei il suo medico, immagino.
- In questa situazione, chiunque abbia qualche
conoscenza di medicina è il benvenuto. Anche Solitude conosce le erbe e i
veleni. E’ lei che ti ha ricucito la ferita.
- Allora debbo intuire che questo luogo dove mi
trovo è una specie… di ospedale?
- Più o meno. E’ l’unico edificio in muratura di
tutto l’accampamento. Probabilmente era il casino di caccia di qualche grand
blanc[12] e non si capisce come mai
non l’abbiano bruciato.
- Avevi promesso…
- Che ti avrei parlato di lei? Tanto per iniziare,
comincia a pensare che non è roba per te, quella.
- Ma neanche per te.
- Per nessuno. Neanche per Biassou. Lo sai perché si
è fatta tatuare i serpenti sulle braccia? Per gridare al mondo che appartiene a
Damballa. Al dio. Nessuno di questi negri oserebbe toccarla, se lei non lo
volesse. E lei non vuole. Contaci. Anche se… Anche se non credi nelle
superstizioni dei negri. E sei un gran bel giovanotto, Massimo. Forse potresti
perfino piacerle.
Eh già. Pensò saettandogli un lungo sguardo. Aveva
gli occhi teneri e un bellissimo corpo, massiccio e muscoloso. Il suo volto era
incorniciato da una lunga capigliatura ondulata, schiarita dal sole e le guance
piene sporcate da un’ombra di barba. La bocca, piccola e ben disegnata, si
apriva su una chiostra di denti regolari e bianchissimi. Ma Solitude non lo
avrebbe voluto, né lui né un altro. Nel cuore di Solitude c’era posto solo per
i suoi demoni.
- Nelle vene di quella donna scorre sangue Fulah.
Erano un popolo fiero, convinto che il fatto di credere nel verbo del Profeta
li tenesse al riparo dal rischio di finire schiavi[13]. Almeno fintantoché il
commercio dei neri non è finito nelle mani degli europei, perché allora la
musica è cambiata. Anche per loro.
Massimo inghiottì con un groppo di saliva gli
insulti che avrebbe voluto vomitargli addosso: non esiste al mondo essere umano
disposto a tollerarla, la schiavitù: nero, bianco, giallo, cristiano,
maomettano o pagano che egli sia.
- I Fulah sono schiavi ribelli e vendicativi. Come i
Mandinka. Gli Eboe sono invece inclini al suicidio. Pensano, morendo, di
ritornare alla loro terra. I più remissivi sono gli Arada del Dahomey e i
Congo. Almeno, così si dice. Lei è mezza bianca. Suo padre era bianco.
Una smorfia sarcastica torse in un ghigno la bocca
di Obregon. Non mi piace, pensava Massimo. Ma avrebbe avuto ancora tante cose
da chiedergli. Strinse il coccio di vetro tra le dita, lo fece correre, sotto
la garza allentata, sotto il cataplasma di grasso ed erbe pestate, sulla ferita
già chiusa. Voleva che sanguinasse, quando l’uomo gliel’avrebbe scoperta per
controllarla e rinnovare la medicazione. Diversamente, il suo segreto sarebbe
venuto a galla. E non era il caso.
- Suo padre era bianco, dici. Che cos’ha di speciale
un nero con del sangue bianco nelle vene?
- Maschio o femmina, è di solito una gran bella
creatura. Ma il sangue bianco può renderlo inaffidabile. E lei è tutto questo,
Massimo… Come ti ho già detto, quando è fuggita, ha ammazzato quattro uomini.
Da sola. E di questi quattro uomini, uno era suo padre, l’altro suo fratello.
- Tu non hai mai ucciso, Obregon?
E a te non fa orrore chi spezza la vita di coloro
che hanno nelle vene il tuo stesso sangue, Massimo? Che razza di uomo sei? E
che razza di…
Obregon vide i graffi sulle dita dell’uomo che
stringevano il coccio di vetro tagliente come un rasoio. Vide la ferita
scoperta e sanguinante, e glielo domandò ancora, che razza di uomo sei, Massimo
Meridio?
- Voglio parlare con lei. - Disse Massimo, mentre lo
spretato gli ripuliva la ferita. Aveva capito tutto quanto, vedendo con i suoi
occhi il sangue stagnare, i labbri chiudersi senza lasciare alcuna traccia
sopra la pelle. Aveva capito da quale recesso del passato venisse quel marinaio
senza istruzione che parlava il latino meglio di lui. Perché mi hai detto
d’essere l’artefice del tuo destino, Massimo? Ciò che sei non l’hai deciso tu,
di questo ne sono sicuro.
Massimo non disse nulla. Chiuse gli occhi, abbandonò
sul cuscino la testa. Quell’uomo aveva scoperto il suo segreto. Far qualcuno
parte dei propri segreti è lo stesso che consegnarsi prigioniero nelle sue
mani, pensò. E aspettò, senza parlare, che Obregon se ne andasse.
REVENANT[14]
- Massimo?
Socchiuse gli occhi al suono della sua voce. Era lei,
ed era venuta a riportargli i vestiti. Lavati, rammendati, perfino stirati.
Tuttavia non doveva essere opera delle sue mani, quella. Aveva notato altre
donne, all’accampamento: le compagne, le figlie, le madri dei combattenti. Ma
lei non era ciò che erano loro. Era Solitude Martin Grinville De La Fère, che
sapeva maneggiare la spada meglio di un uomo e avrebbe potuto staccare le ali
ad una mosca in volo, con un colpo della sua pistola.
Senza scostarsi il lenzuolo di dosso, si infilò le
mutande ed i calzoni. Solitude rise. Non ho mai conosciuto un uomo pudico come
te, gli disse.
Quando si ritenne sufficientemente coperto da non
offendere il pudore della donna, Massimo si alzò dal suo giaciglio e le andò
vicino. Era alta quasi quanto lui e, snella com’era, lo sembrava ancora di più:
gli ricordò una giovane palma. Lui si era sempre sentito paragonare a una
quercia.
- Poco ci è mancato che il coltello di Babouin ti
cacciasse fuori le budella e dopo due giorni soltanto sei in piedi di fronte a
me. - Con gli occhi chiari gli percorse senza soggezione il torso nudo,
soffermandosi sul ventre. Non c’era nessuna cicatrice fresca, dove avrebbe
dovuto esserci, solo muscoli sodi e una pelle abbronzata coperta da una fitta
peluria scolorita dal sole. - Comincio a credere che Obregon mi abbia detto la
verità, a proposito di una certa faccenda sul tuo conto.
Un brivido gli passò sotto la pelle, a quelle
parole. Obregon le aveva detto tutto quel che aveva scoperto di lui. Che non
poteva morire e le sue ferite si chiudevano senza lasciare il segno. Che era un
revenant. Uno tornato indietro dall’aldilà. Per sempre.
- Chi sei, Massimo?
Lo guardava dritto negli occhi. Erano dell’identico
colore dei suoi, azzurri sfumati di verde, e non tradivano paura alcuna.
Eppure, lui sapeva delle tenebrose superstizioni alle quali quella gente
credeva. Anche di morti fatti tornare dall’aldilà e asserviti ai vivi: loro li
chiamavano zombi. Chi sei tu, Solitude Martin Grinville De La Fère,
avrebbe voluto controbattere lui.
- Uno che calca la polvere del mondo da oltre mille
e seicento anni, ragazza. Dovresti aver paura di me.
Adesso le dava del tu, come a una vecchia amica,
come lei aveva fatto da subito. Paura? Di te? E perché dovrei? Ho visto uomini
morire ammazzati nelle maniere più bestiali che la turpitudine umana possa
concepire, ho conosciuto la schiavitù, ho ucciso chi aveva il mio stesso sangue
dentro le vene per riprendermi quello che mi spettava di diritto, ho sentito
tutte le notti, quando vegliavo con le dita contratte sull’impugnatura del mio
coltello il siffleur montagne[15] che cantava e mi diceva, attenta,
la morte ti cammina vicino… Dovrei aver paura di te?
Lui la guardava, studiandola con occhi attenti. Era
incredibilmente bella. Forse, azzardò, la femmina più bella che avesse
incrociato la sua strada, in oltre mille e seicento anni che stava al mondo:
pelle scura, occhi azzurri, lineamenti delicati, il naso sottile, leggermente
aquilino dei suoi antenati arabi, il corpo snello e forte che avrebbe voluto
prendere lì stesso, in quel preciso istante… Si vergognò dei suoi pensieri, e
inghiottì il groppo di tensione che gli serrava la gola, quando lei gli mise
intorno al collo il cordino con il dente di lupo e lo annodò, sfiorandogli il
collo e la nuca sotto i capelli. E pensò che alle donne piacevano, i suoi
capelli morbidi, folti e lunghi.
- Anche questo viene dalla tua prima esistenza?
Si era seduta sul suo giaciglio, e non gli scollava
gli occhi di dosso. Chissà se avrebbe capito, pensò Massimo. Sicuramente lei
non era come Obregon lo spretato, non aveva abbastanza istruzione da sapere
come andavano le cose mille e seicento anni prima, in quella grande città, la
capitale del più potente impero che mai fosse esistito. Sono stato soldato e
schiavo, le disse.
- Le cicatrici che ti segnano il corpo sono il
ricordo della tua prima vita.
Sì, rispose lui. Di quando, alla testa dei miei
soldati, combattevo contro i nemici del mio signore e di quando, schiavo,
mettevo la mia vita a repentaglio per il sollazzo di un branco di pervertiti
che si divertivano a guardare due uomini ammazzarsi.
- Allora il mondo non è poi così cambiato, in mille
e seicento anni. Anche Biassou voleva questo da te e da Babouin. E i bianchi,
in certe piantagioni, si divertivano a mettere gli schiavi uno contro l’altro,
come fossero stati galli, o cani. O… gladiatori.
No, il mondo non è cambiato, in mille e seicento
anni. La guardò, e ripensò al suo primo combattimento nella grande arena di
Roma. Rivide il carro da guerra dirigersi verso lui e i suoi compagni, le falci
dei mozzi straziare i loro corpi, in un inferno di sangue e di urla. C’era un
arciere sul carro. Una donna. Una bella donna nera che rassomigliava a
Solitude. Ricordò i bagliori della corazza dorata che riproduceva impudicamente
la sagoma del suo corpo, i seni alti, i capezzoli eretti… Ricordò di averla
desiderata, e di essersi vergognato dei suoi pensieri. Ricordò di averle
piantato la spada nel ventre fino all’elsa. Mors tua, vita mea.
IL
CIONDOLO E LA CROCE
Massimo si toccò il dente di lupo che gli pendeva
sul petto. Che fine hanno fatto la croce e il ciondolo di Louverture? Chiese
alla donna. Mi sembra di averti detto che quelli sono miei, Massimo. Che mi
appartengono. Di diritto.
La voce e il volto si erano induriti, mentre
pronunciava quella parole con un tono che non ammetteva repliche.
- Una cosa che mi piacerebbe sapere è come hai fatto
a prenderglieli.
- E’ molto semplice derubare un morto, Solitude.
Ai neri non è dato d’impallidire, ma se un gesto o
una parola, una verità o una bugia sconvolgono i loro pensieri e le loro
certezze, hanno mille altri modi per dimostrarlo. Solitude aveva visto
l’inferno. Si vantava di non temere niente e di avere il pieno controllo delle
sue emozioni. Eppure, Massimo vide una lacrima attraversarle lenta la guancia,
per poi andare a fermarsi alla commessura delle sue labbra..
- Non devi pensare che fosse la verità, quella in
cui ti hanno convinta a credere. Non vi aveva venduti in cambio di un mucchio
d’oro e di una vita comoda e senza problemi in Francia. Quando l’ho conosciuto,
marciva in una fortezza tra le montagne, consumato dall’etisia. Ai suoi
carcerieri era stato proibito di rivolgergli la parola e ingiunto di
risparmiargli cibo e coperte, per affrettarne la fine. Io sono penetrato nella
sua prigione con l’inganno, per oltre un mese ho raccolto le sue confidenze, ho
ascoltato la sua storia… Ero il terzo ufficiale a bordo della nave che l’ha
portato in Francia e… e non riuscivo a perdonarmelo. Incontrarlo, parlargli,
condividere il suo dolore è stato per me come esorcizzare un rimorso che mi
rodeva l’anima.
- Io amavo quell’uomo.
Forse lo aveva amato per davvero. Senza speranza.
Louverture aveva moglie e figli, e non era il genere d’uomo che vien meno alle
promesse stipulate. Anche se Susanne, sua moglie, era una donna grassa,
ordinaria, sciatta, più vecchia di lui di qualche anno e gli aveva portato in
dote un figlio senza padre. Anche se Solitude Martin Grinville De La Fère, che
gli si sarebbe data senza chiedere niente in cambio, poteva essergli figlia e
sembrava una dea.
- Il suo ultimo pensiero è stato per te. Il nome che
stava tentando d’incidere sulla mezzaluna di madreperla quando la morte l’ha
colto è il tuo… Solitude.
Grazie, gli disse lei asciugandosi gli occhi col
dorso della mano e sforzando un sorriso. Non fosse stato per te, anch’io mi
sarei tenuta dentro la convinzione che fosse un traditore della sua gente, uno
come tanti. L’oro corrompe, Massimo. L’oro fa marcire le anime degli uomini.
Forse non sai che… che i nostri capi hanno venduto certi di noi schiavi agli
spagnoli. Biassou dice che erano cattivi soggetti e bisognava liberarsi di
loro. E che se questo andava fatto, tanto valeva guadagnarci qualcosa che
poteva essere speso per la causa. Ma Toussaint Louverture non avrebbe mai fatto
niente del genere. Era un galantuomo, lui.
Già. Un galantuomo. Massimo chiuse gli occhi, rivide
la sua faccia scavata dal dolore, dalla malattia e dalla disillusione. E
ricordò le sue parole: “Sarei stato l’uomo più infelice della terra, se non vi
avessi conosciuto.”
LA
MARQUISE[16]
Quella mattina, mentre guardava fuori dalla
finestra, l’aveva vista esercitarsi con la spada. Si batteva bene, e sopperiva
alla mancanza di tecnica con l’agilità di una pantera. I neri sono tutti molto
scattanti, si era ritrovato a pensare Massimo. Perfino quelli corpulenti o in
età avanzata. Gliel’avrebbe detto, quando l’avesse rivista. Sai, Solitude,
forse non sarei tanto tranquillo se dovessi incrociare la lama con te. A
prescindere dalle mie grosse braccia, e da quello che ero e che sono.
Invece le aveva domandato se credeva nella magia. E
si era meravigliato quando l’aveva vista scuotere la testa in segno di diniego.
No, non ci credo. Però mi fa comodo per mettere paura agli altri e costringerli
a girare alla larga da me. Sono una donna, e sono più piccola e più debole
della maggior parte degli uomini. Ma quello che non può la forza lo può
l’astuzia, di solito. Non è così, Massimo? Sicuro, puoi ben dirlo, Solitude.
Come qualche giorno prima, pensò Solitude, quando
era stato appena catturato e Biassou l’aveva messo contro Babouin. Lui a mani
nude, quell’altro armato con due lunghi e affilati coutelas[17] che di solito venivano
usati per il taglio della canna. Babouin aveva già ammazzato o storpiato decine
di uomini con quei coltelli, ma lui era riuscito a batterlo e a umiliarlo.
- Ho ancora davanti agli occhi il modo in cui ti sei
battuto. Voglio conoscere il tuo segreto, Massimo. Voglio farlo mio per
diventare invincibile. Come te.
- Oh, ma io non sono affatto invincibile… Anzi,
direi che la peggior figura di tutta la mia lunga esistenza è proprio davanti a
te che l’ho fatta.
L’uomo rise, ricordandosi il modo in cui si era
lasciato catturare dalla donna e dal tipo corpulento. Non era stato troppo
scaltro, quella volta, pensò, ma l’essersi reso conto solo all’ultimo momento
di aver a che fare con una donna l’aveva spiazzato lasciando il tempo a lei di
colpirlo con una pedata nelle coglie che l’aveva tramortito. Era un osso duro,
Solitude. Non c’era da stupirsi se perfino il sanguinario Biassou la temeva.
- No, Massimo. Era il modo in cui muovevi le mani e
i piedi per colpirlo, il modo in cui hai trasformato tutto il tuo corpo in
un’arma… Il modo con cui guardavi il tuo avversario, facendogli capire che non
aveva speranze, malgrado quei coltelli che Biassou gli aveva messo in mano. Era
come… Come se non vedessi un uomo, ma Ogun Feraille, il dio della
guerra.
- Hai un notevole spirito di osservazione…
- …per essere una donna?
- Non intendevo offenderti.
- Ma non mi sono offesa. Conosco abbastanza gli
uomini da sapere che hanno la lingua più veloce del cervello.
- Adesso potrei essere io a ritenermi offeso dalle
tue parole.
- Piantala, e parlami del tuo segreto.
- A un patto.
- Parlami del tuo segreto, ho detto.
- Risale alla mia prima vita. Ero appena finito
schiavo ed ero stato comprato da un individuo che organizzava combattimenti di
gladiatori in una scalcagnata arena africana a margini meridionali dell’impero.
Un ex gladiatore anche lui, mezzo greco e mezzo cartaginese… Elio Proximo. Come
molti ex atleti, con l’età si era appesantito e le articolazioni gli facevano
male, quando cambiava il tempo. Con i primi soldi che gli avevo fatto
guadagnare, s’era comprato uno schiavo esperto di medicina per curargli i
dolori. Un ometto anziano con la pelle giallastra e gli occhi a fessura. Veniva
da molto lontano: dal Paese della Seta. Dalla Cina. Non gli avresti dato il
valore di mezzo asse bucato, ed era anche molto vecchio, ma credo di non aver
mai conosciuto un uomo più sapiente. Si chiamava Sung. E’ stato lui a
insegnarmi a prevedere le mosse del mio avversario con una semplice occhiata, a
trasformare il mio corpo in un’arma mortale con la sola forza della volontà.
Non mi sarebbe neppure stato necessario essere grosso e forte come sono, per
riuscirci, mi aveva garantito. Ed era proprio così.
- Insegnami.
- A una condizione. Che tu mi dica chi sei
realmente, Solitude Martin Grinville De La Fère.
- Sono l’ultima della mia razza, Massimo. L’ultima.
Ed è per questo che il titolo di marchesa spetta a me di diritto, anche se sono
nera. Anche se sono stata schiava.
IL
RACCONTO DI SOLITUDE (Parte Prima)
Solitude si sedette al suo fianco, le gambe
incrociate, le mani sulle ginocchia. Di tanto in tanto alzava gli occhi da
terra per piantarli nei suoi. Occhi che avevano il colore del mare e i bagliori
dell’acciaio. Parlava un buon francese, non il vernacolo inintelligibile degli
schiavi. E aveva dimostrato di conoscere i fatti e i personaggi di cui Massimo
le diceva quando le parlava della sua prima vita. Era sicuro che quella donna
avesse un’istruzione che andava ben aldilà del semplice saper leggere e scrivere.
- Sono l’ultima della mia stirpe maledetta. Dopo di
me non ci sarà un altro marchese De La Fère. E il mondo non piangerà per
questo.
Aveva gambe e braccia esili, ma sembrava temprata nell’acciaio.
Come la donna nera e bella che, dall’alto del carro da guerra, saettava sui
gladiatori i suoi dardi dalla punta ricurva come un amo, che avrebbero aperto
orribili ferite nei corpi di coloro che avessero cercato di strapparseli via
dalle carni. Come colei che per un attimo aveva desiderato e in un attimo
ucciso. Augurandosi che non facesse in tempo ad accorgersene. E a soffrire.
- Il titolo è molto antico, risale ai tempi di Re
Luigi Il Santo e della Settima Crociata. Ma quando mio nonno venne qui
vent’anni prima che in Francia scoppiasse la rivoluzione, aveva una cattiva
fama e neanche il becco di un quattrino, dopo che s’era bevuto, giocato e
scialacquato con le puttane l’eredità di suo padre e la dote di sua moglie.
Questo paese offriva… molte opportunità a chi era intraprendente e capace… E
abbastanza duro da chiudere gli occhi e turarsi le orecchie di fronte a tutto.
La proprietà era meno grande di altre. Due campi
coltivati a indaco, per gettare fumo negli occhi a chi sa che i beccamorti, i
ruffiani e i raccoglitori di letame fanno schifo ma guai se non ci fossero. Nel
resto del latifondo, coltivava il granturco e i fagioli, allevava i porci, le
vacche e le galline che servivano per dar da mangiare alla sua famiglia, ai
sorveglianti… e agli schiavi. Si era messo a trafficare e addirittura ad
allevare schiavi come se fossero cavalli e in pochi anni era diventato uno tra
gli uomini più ricchi di Haiti. Specialmente dopo aver capito ciò che i clienti
volevano: i mulatti, quelli dalla pelle chiara, che parlavano il francese e non
era necessario insegnargli tutto quanto, come ai bossales[18] che venivano dall’Africa e erano
cresciuti in mezzo alla foresta. E non aveva mai esitato a mettere a
disposizione il suo seme, per generare figli chiari che poi avrebbe venduto
nelle isole e sul Continente.
Aveva avuto quattro figli, figli legittimi intendo
dire, ma tre se li era portati via la febbre gialla. Il quarto, il
sopravvissuto, quello a cui lasciò tutto, era mio padre. Il Marchese Guillaume
Martin Grinville De La Fére. Era bello, mio padre: alto, biondo, robusto. Un
po’ ti somigliava. Un diavolo con la spada e con le donne. Quando sua moglie
morì dando alla luce il loro primo e unico figlio, non volle risposarsi. Non
aveva mai amato quella donna che aveva sposato unicamente per i soldi della sua
dote, e preferì restare solo, nonostante non avesse che ventotto anni. Tanto,
se voleva metterlo in corpo a qualcuna c’erano le negre. C’era mia madre.
Si chiamava Youma, ed era una Fulah della
Mauritania. Aveva quattordici anni quando la portarono via, ed era talmente
bella che il comandante della nave su cui era stata imbarcata aveva proibito ai
marinai di toccarla. Chi avesse osato farlo, sarebbe stato scaraventato ai
pescicani. Lui sapeva che la verginità di una schiava destinata al sollazzo dei
bianchi e non al lavoro nelle piantagioni vale denaro sonante. Quando mio padre
se la prese era intatta, le vecchie streghe della sua tribù non avevano fatto
neppure in tempo a storpiarla[19] prima che i bianchi la
portassero via.
Le vendeva tutti i figli che concepirono e quando le
vendette l’ultimo lei impazzì e si uccise gettandosi in un pozzo. Glieli tolse
tutti, meno me, e questo non sono mai riuscita a spiegarmelo. Forse era stato
suo figlio, a chiedergli di non farlo. Benoit, il mio fratellastro. L’erede
della casata e dei beni. Ero diventata la sua compagna di giochi, anche se ero
donna, nera e di cinque anni più giovane. Alloggiavo nella casa padronale, mi
vestivano come una piccola dama, assistevo con lui alle lezioni del precettore…
E imparavo. Ero svelta a imparare. Dai bianchi, dai neri, perfino dagli animali
di casa. A quattordici anni, cavalcavo, sparavo e tiravo di scherma meglio di
parecchi uomini. E non avevo paura di niente.
Alla piantagione c’era una donna che si occupava di
me. Nina. Una di quelle che noi chiamiamo dokté feuilles. E’stata
lei a insegnarmi i segreti delle erbe e dei veleni, a far nascere i bambini, a
rimettere a posto le ossa rotte e a cucire le ferite. Era la madre di Chacha,
quel tipo grande e grosso che mi segue sempre come un’ombra. Chacha era strano.
Dicevano che conoscesse il linguaggio degli animali e parecchie delle cose che
so le ho imparate da lui, anche se tutti, ai quartieri, affermavano che era
mezzo scimunito. Ma il padrone non lo vendeva, perché era forte come un bue,
l’uomo più forte che abbia mai conosciuto. Una volta, da solo, ha disincagliato
un grosso carro che si era impantanato nel fango. Un’altra, ha ridotto alla
ragione un toro infuriato afferrandolo per le corna e facendolo crollare a
terra.
Nina mi diceva che la magia mi avrebbe protetta.
Nessun uomo oserebbe toccare una donna che appartiene al dio, se lei non vuole.
Damballa, il dio-serpente. Io non ho mai creduto nella magia, ma sapevo che
Nina aveva ragione. Nessun uomo mi avrebbe toccata. Nessun nero.
IL
RACCONTO DI SOLITUDE (Parte Seconda)
Solitude si alzò e cominciò a camminare avanti e
indietro nella piccola stanza. Taceva, ed evitava di guardarlo in faccia. Non
sarebbe stato facile, si disse, raccontargli quanto era stato duro il risveglio
dai sogni, e poi perché avrebbe dovuto farlo?
- Solitude…
Lui le aveva detto di essere tornato indietro dal
mondo dei morti mille e seicento anni prima. Le aveva detto di quando era stato
capo di uomini armati, poi schiavo e gladiatore. Era stato elusivo, quindi
niente lo autorizzava ad essere curioso. Eppure…
- Avevo quindici anni quando Benoit De La Fère, che
fino al giorno prima mi aveva chiamata sorellina, che mi aveva insegnato ad
andare a cavallo e a maneggiare la spada, che passava ore e ore a chiacchierare
con me, tentò di mettermi le mani addosso. Lo colpii con uno schiaffo in
faccia, che lui mi restituì. Quando mi difesi cercando di ricordargli che io e
lui avevamo lo stesso sangue nelle vene, mi disse che non ne era poi tanto
sicuro, visto che le negre sono delle puttane che vanno con tutti, e che quello
schiaffo glielo avrei pagato con gli interessi.
Una piccola smorfia piegò verso il basso gli angoli della
bocca di Massimo Meridio. E’ così che va il mondo, Solitude. Le disse. In mille
e seicento anni, non è cambiato niente.
- Sapevo che sarei scappata. E lo sapevano anche
loro. Per i bianchi di Haiti erano cominciati i tempi difficili, e quello
avrebbe potuto aiutarmi. Maneggiavo la spada e la pistola, andavo a cavallo, i
cani della maréchaussée[20], i mastini e i limieri che
Guillaume De La Fère usava per dare la caccia agli schiavi fuggiaschi
mangiavano il cibo dalle mie mani. Non avevo niente da temere. Almeno, era così
che credevo.
- Obregon mi ha detto che quando sei scappata hai
fatto fuori quattro uomini. Mi ha raccontato tutto quanto.
Solitude gli indirizzò un breve sorriso a labbra
chiuse, prima di assentire. E a lui tornarono alla mente le parole dello
spretato.
“Aveva rubato un machete e nascosto un lungo pugnale
sotto la gonna. Sapeva che, all’occorrenza, li avrebbe usati senza esitare. Per
uccidere. O per darsi la morte, visto che non aveva nessuna intenzione di
cadere viva nelle mani di Guillaume De La Fère. Nulla avrebbe mai cancellato
dalla sua mente le urla degli schiavi fuggiaschi seviziati dopo la loro
cattura. Appena pochi giorni prima, a uno di loro erano stati recisi i tendini
di un calcagno e il suo complice, che era recidivo, era morto sotto i colpi
della sferza. Aveva portato via dalla stalla il vecchio ronzino che tirava la
carretta quando si andava in città a far provviste: conosceva le carezze e i
gesti con cui è possibile blandire gli animali… E conosceva anche le parole con
cui il Marchese comandava l’attacco ai suoi mastini addestrati a saltare alla
gola e a uccidere. Due dei suoi inseguitori furono sbranati dai loro stessi
cani. Il terzo fu trascinato via dal suo cavallo imbizzarrito, quando cadde e
gli rimase il piede preso nella staffa. E il quarto…”
- Chi era il quarto uomo, Solitude? E che ne è stato
di lui?
- Perché me lo chiedi, visto che lo sai? Come saprai
che sono stata io a far imbizzarrire il cavallo di mio padre… altrettanto sai
che quello era Benoit. Mio fratello. E sai anche com’è morto.
- Voglio sentirlo da te.
Solitude gli voltò le spalle.
- E tu, quanti ne hai fatti fuori, quando sei
scappato, prima che gli uomini dell’usurpatore ti giustiziassero? Quanti ne hai
uccisi per compiacere il tuo pubblico e il tuo padrone? Uomini che conoscevi,
con i quali hai diviso la gloria, la paura, la rabbia e il dolore… con i quali
hai mangiato, bevuto, parlato… Obregon mi ha detto che eri un grande generale,
prima di diventare schiavo. Mi ha detto che le tue disgrazie sono cominciate
quando il tuo signore è morto ammazzato da qualcuno che voleva prendere il suo
posto e al quale hai negato il giuramento di fedeltà. Mi ha detto che tua
moglie e tuo figlio sono morti per questo… E che ancora non te lo perdoni. Tu
non eri con loro quando li hanno sterminati. E io non ero con loro quando…
quando…
Quando il tuo gesto di ribellione è stato pagato da
coloro a cui volevi bene, Solitude? Quando ti sei pentita di non averlo
compiaciuto, il giovane padrone che fino alla sera prima ti aveva chiamata
sorellina e di punto in bianco s’era messo a trattarti come l’ultima delle
puttane?
- A me sarebbe bastato afferrare una mano bagnata di
sangue, baciarla… E avrei avuto una vita normale. Forse avrei perso il rispetto
di me stesso, ma sarei invecchiato accanto a mia moglie, avrei visto crescere i
figli dei miei figli. Invece…
Solitude aveva ripreso a misurare a lunghi passi
nervosi la piccola stanza, come una lupa prigioniera. Gli disse che avevano
preso Chacha e sua madre, prima di andare a cercarla. Che li avevano battuti
per costringerli a parlare. Ma dalle loro bocche erano uscite soltanto urla di
dolore, poi lamenti flebili, e dopo ancora rantoli d’agonia. Alla cinquantesima
sferzata, Nina era crollata morta. Ma suo figlio era forte, aveva la pelle
dura…
- E a me sarebbe bastato lasciarmi prendere come una
puttana da uno che aveva dentro le vene il mio stesso sangue perché… Lo sapevi,
tu, che Chacha non è un uomo come tutti gli altri? Che per fargli dire quello
che non avrebbe saputo o potuto, e nemmeno voluto, mio padre lo aveva fatto
castrare, prima di darmi la caccia con i cani? Lo sapevi che il corpo di Nina è
stato bruciato e che l’unica cosa che resta di lei è una macchia di sangue nel
cortile della casa grande? E’ stato Benoit a dirmelo, pochi minuti prima che lo
colpissi. Forse né lui né mio padre si aspettavano di morire per mano di una
ragazza di quindici anni.
La morte ha gli occhi biechi e il viso truce. Ha il
colore delle tenebre e il puzzo del sangue. Lui l’aveva guardata in faccia
tante volte, troppe per pensare di non riconoscerla, qualsiasi maschera avesse
scelto per travestirsi. Può essere pietosa, quando porta via con la vita anche
la sofferenza e il disonore, ma non è un fiore, una farfalla, la fiamma di una
candela che danza con grazia nel vento. Massimo Meridio allargò le braccia, la
strinse a sé. Almeno, a te restano le lacrime, le disse asciugandole le guance
con le dita callose.
LA
PROMESSA
Adesso non era come qualche giorno prima. Massimo non
gemeva, ferito, nudo e indifeso, senza che i suoi occhi vedessero chi lo stava
toccando e gli aveva ricucito la ferita, prima di sapere che a quell’uomo il
destino avrebbe negato la morte fino alla fine dei secoli.
Era bello, si ritrovò a pensare la donna, lo sguardo
dolce, e come affamato d’amore, la pelle color miele piacevolmente tiepida,
sotto la camicia di lino sbottonata. Tiepida, e coperta da una sottile peluria
chiara. La stringeva a sé con braccia possenti come quelle di un dio
invincibile, e il respiro convulso di lei si perdeva nella seta dei suoi
capelli. Prima ancora che lo facesse, Solitude sapeva che l’avrebbe baciata.
Gli uomini sono tutti uguali, pensò. E lei non gli avrebbe opposto resistenza.
Era così forte… Ma non solo. La sua bocca, piccola e ben disegnata, era
soffice, anche se i peli che la incorniciavano erano ispidi, e graffiavano. Era
eccitante immaginare la carezza bruciante di quelle labbra rosee e sinuose in
ogni recesso del suo corpo, anche in quelli più segreti, dove nessuno l’aveva
mai toccata. Immaginare. Perché in realtà non gli avrebbe permesso niente.
- Lasciami stare. Io…
Lo respinse, dibattendosi tra le sue braccia,
premendogli le mani contro il petto. Io sono di un altro, e intendo rimanergli
fedele. Per sempre.
Quasi urlò, quando lui le afferrò entrambi i polsi
con una mano sola, mentre con l’altra le prendeva il mento e la costringeva a
guardarlo.
- Intendi rimanere fedele… a un morto?
Non si domandò come facesse a sapere di lei e di
Toussaint Louverture. Forse sapeva anche che lui l’aveva respinta, quando
Solitude aveva cercato di rivelargli il suo amore. Con gentilezza, ma con
decisione. Ho moglie e figli, le aveva detto. Tu non sei che una bambina, e
confondi l’amore con la gratitudine.
- Sei vissuta al suo fianco per alcuni anni, io per
poco più di un mese, ma credo di averlo conosciuto abbastanza da poterlo
giudicare. Beh, ho avuto da subito l’impressione di un uomo retto, fieramente
leale… Di un uomo molto severo con se stesso. Spietato, oserei dire. So che non
beveva alcolici e non mangiava carne, che si concedeva solo poche ore di riposo
per notte e che era un lavoratore instancabile. Gli uomini della sua specie non
tradiscono, né per tornaconto… né per amore.
- Lo sai bene… Perché sei così anche tu?
- Lo ero. Nell’altra vita. Ma l’amore e l’odio non
durano oltre la morte. Ed è duro mantener fede a certi principi per mille e
seicento anni.
- E’ stata una donna a riportarti indietro
dall’aldilà… Una donna innamorata.
Lui annuì, prima di chiederle, e tu, sei mai stata
innamorata di qualcuno, anche se già conosceva la risposta. Sì: di un uomo che
mi aveva accolta presso di sé salvandomi quando ero una fuggiasca con quattro
morti sulla coscienza, di un uomo che aveva messo la sua vita in pericolo per
liberare il mio amico Chacha, di un uomo che mi ha insegnato a credere in certi
valori… Anche se lui non mi amava. Non avrebbe potuto. Aveva moglie, figli e
cinquant’anni suonati. Ricordo che, un giorno, gli presi la mano fra le mie e
gliela carezzai a lungo. Soffriva di artrite, quando il tempo cambiava le ossa
gli facevano male, ma lui stringeva i denti e non si lamentava. Mai. Gliela
tenni stretta a lungo fra le mie, poi me la posai sul seno. Lui la tolse via
subito, come se avesse toccato il fuoco. Non c’è stato un momento soltanto in
cui ho creduto che potesse essere un traditore della causa e della sua gente.
Nemmeno prima che tu mi raccontassi tutto quanto.
- Solitude, adesso lui… è in pace.
Ma noi no, pensò la donna. Ogni giorno, l’alba
avrebbe potuto far comparire dall’altro versante delle colline i francesi con i
cani feroci e i fucili tirati a lucido. E non c’era più un uomo come Louverture
a guidare la lotta di liberazione: c’erano capibanda avidi, scaltri e violenti,
schiavi dei loro vizi e spesso anche apertamente rivali tra di loro. Fameliche
canaglie capaci di vendere i loro stessi compagni di lotta. Biassou l’aveva
fatto. Lui rispetta il coraggio e teme la magia, le aveva detto Louverture poco
prima di lasciare Haiti per andare incontro al suo destino. Tienilo d’occhio,
Solitude. E se… se dovessi accorgerti che ha tradito gli ideali in cui
crediamo, lascia che sia il tuo cuore a consigliarti come agire.
Gli ideali… Quali ideali? Allevata in mezzo agli agi
come una donna libera e ricca, aveva sempre chiuso gli occhi di fronte alla
realtà, almeno finché questa non le era rovinata addosso all’improvviso con la
violenza devastante di una frana. E quando era scappata, quando aveva liquidato
quattro uomini, lo aveva fatto per se stessa, non per gli altri. Certo, Nina si
era lasciata uccidere per coprire la sua fuga, Chacha era finito storpiato… Ma
la donna era vecchia e malata, l’uomo solo un povero idiota coi muscoli grossi
e il cervello di un bambino di otto anni. Lo avrei fatto, io, al loro posto? Si
era domandata tante volte quando, la notte, non riusciva a prender sonno. E le
sue domande non avevano ancora trovato una risposta plausibile.
Scosse la testa, ingoiò le lacrime. Non aveva mai fatto
l’amore con un uomo, si ritrovò a pensare, e aveva quasi venticinque anni.
Colui che la teneva tra le braccia non l’avrebbe respinta com’era capitato con
Toussaint Louverture. Perché anche Massimo Meridio stava morendo dalla voglia.
Perché lui aveva trovato il coraggio di reciderlo già da molto tempo, il legame
che lo teneva unito ad una che con ogni probabilità non era più nemmeno ossa.
ABBANDONO
- Anche se non c’è più, lui sarà sempre con te,
Solitude.
Adesso si era messo a parlare come un prete. A
dirle, per consolarla, cose che non erano vere, e lei questo lo sapeva, perché
anche se con la ragione ti sforzi di farlo, l’oblio alla fine travolge tutto
quanto, e chi ti era caro è come se non sia mai esistito.
Le parlava così, e si vedeva che avrebbe voluto fare
dell’altro, per consolarla, forse, o semplicemente per dar sfogo ai suoi
istinti in un corpo di donna. Nel corpo di una donna che tanti avevano voluto,
e nessuno avuto.
Gli prese la mano. Era grande, rozza, coperta di
graffi e di calli, con le unghie corte e smangiate. La mano di un uomo giovane
e forte. Di un contadino. La mano che aveva accarezzato teneramente le spighe
che crescevano nei suoi campi, un mare di tempo prima, in un paese e in un
tempo tanto lontani che riusciva impossibile immaginarli. La mano che aveva
carezzato il mantello del suo cavallo, la pelliccia del suo cane, la fronte
gelida del suo vecchio signore morto… La mano che aveva scavato la fossa a sua
moglie e al suo bambino, quando li aveva trovati dopo una cavalcata estenuante,
ed era troppo tardi.
Quella mano aveva sfiorato il corpo di colei che
aveva amato, e dato piacere a tante donne… Alla principessa, colei che aveva
chiamato la sua anima indietro dall’aldilà, e poi… Il tempo per lui si era
fermato. Doveva avere poco più di trent’anni quando era stato ucciso: li
avrebbe avuti per sempre. Il privilegio della vita senza fine e della
giovinezza eterna erano anche la maledizione della sua eterna solitudine.
Solitude guidò la mano di Massimo lungo la sua
guancia, lasciò che le dita le accarezzassero le labbra, che le entrassero
nella bocca, sfiorandola piano, e gliele succhiò, come avrebbe fatto un agnello
neonato con le dita del pastore. Rabbrividì, quando quelle dita bagnate dalla
sua stessa saliva le sfiorarono il collo. Poi guidò la mano di lui a posarsi
sul seno sinistro. Come aveva fatto con Louverture, alcuni anni prima.
Sentì il palmo, quindi i polpastrelli premere,
solleticare, stuzzicare la punta sporgente del seno, sotto il cotone della
camicia. Gemette per il piacere e l’attesa. Gemette d’eccitazione al pensiero
di quello che lui le avrebbe fatto, dopo. Il capezzolo era teso e duro da farle
quasi male. Non si sarebbe accontentato di quello, l’avrebbe succhiata, leccata
e morsa… Nella promiscuità in mezzo alla quale viveva, le era capitato di
guardare un uomo e una donna darsi reciproco piacere. Le era capitato di
domandarsi quando sarebbe venuto il suo momento.
Lui la baciò. Era la prima volta che la lingua di un
uomo si insinuava dentro la sua bocca, esplorandola e stuzzicandola, quasi una
premessa di quel che sarebbe accaduto dopo.
Non so se succede così anche a un uomo, si ritrovò a
pensare mentre le labbra di lui le correvano, umide e ingorde, lungo il collo e
sulla delicata sporgenza della clavicola e mentre le mani, frenetiche,
scostavano i lembi della camicia dai suoi seni. Il suo mondo era circoscritto
alla fame, all’urgenza di quel desiderio implacabile che le schiantava le
forze, riducendola debole e passiva come un gattino neonato. Avrebbero potuto farle
qualsiasi cosa, pensò in quel momento. Anche ucciderla, e lei non avrebbe
reagito. Ma forse quel che valeva per lei non valeva per lui. Aveva una bella
pelle, pensò Solitude accarezzandolo e baciandolo. Le piaceva la sensazione
della morbida peluria che gli copriva il petto contro le labbra. La piacevano
le cicatrici che aveva sul torace, sul collo, sulla schiena e sulle cosce.
Erano un segno tangibile del coraggio con cui aveva affrontato i pericoli,
quando ancora poteva morire.
- Louverture era un pazzo.Adesso lo so. Solo un
pazzo avrebbe potuto rifiutarti… Solitude. - disse Massimo affondando la testa
tra i seni della donna, strofinando le labbra morbide e i peli ispidi della
barba contro i suoi capezzoli orgogliosamente eretti. Sei bellissima, le disse
leccando, succhiando, mordendo, divorando, come se lei fosse stata pane e lui
un uomo che moriva dalla fame. Mi piace il tuo buon sapore confortante di
femmina. E bellissima lo era davvero, con quel suo statuario corpo africano che
aveva il colore e la lucentezza del legno di ciliegio levigato. Aveva mammelle,
alte e sode, sorprendentemente grandi, ampie areole scure e quei capezzoli duri
e sporgenti che avrebbero appagato la fame dei suoi figli, quando ne avrebbe
avuti… e adesso stavano appagando la sua lussuria.
La mano calda e ruvida di Massimo le percorse la
gamba, dalla caviglia alla sommità delle cosce. Lei gemette quando la sentì
sfiorare il rilievo leggero del monte di Venere, insinuarsi ad accarezzarle il
sesso, la cui fenditura s’intravedeva in trasparenza, tra il pelo ricciuto, non
troppo folto. Era umida e calda. Era pronta.
Solitude era come lui se la sarebbe aspettata: calda
e sensuale, il varco umido e accogliente in cui annegare tutte le sue
malinconie, come gli accadeva da mille e seicento anni a quella parte. Sospirò,
pensando agli infiniti inganni della sua vita senza fine, al compiacimento con
cui lei gli aveva accarezzato la coscia e guidato il pene dentro di sé. Come
avrebbe osato pensare che era vergine, quando spinse forte, e la vide stringere
i denti per non urlare il suo dolore?
- Perdonami, Solitude.
- Che cosa avresti da farti perdonare? Lo sapevo che
sarebbe andata così, mi era già stato detto.
Anche non sarà dolore soltanto. Sarà piacere che ti
si scioglierà tra le gambe denso e bollente, sarà… Lui aveva abbassato la
testa, e con la lingua lambiva via il sangue e gli umori di lei misti al suo
sperma. Sai, gli aveva detto lei quando, appagati, giacevano l’uno tra le
braccia dell’altra, mi piacerebbe un figlio tuo… Massimo aveva trattenuto il
respiro, sentendo la carezza leggera delle sue dita e delle sue labbra sul
petto, sul ventre, sul sesso svuotato del suo turgore, della sua energia e del
suo seme. Non osò dirle nulla, si augurò soltanto che Obregon le avesse detto
tutto quello che sapeva, su coloro che tornavano indietro dall’aldilà.. Che le
avesse detto che non potevano mettere al mondo figli, perché era stato loro
misericordiosamente negato il dolore di sopravvivere a chi avevano generato.
COUP
POUDRE’[21]
Li aveva visti uscire dall’acqua, madidi e nudi, e
non doveva essere la prima volta, quella. Si sentì invadere dal languore, e la
mano corse alla patta dei calzoni. Il prigioniero, il bianco… il revenant
era arrivato dove gli altri avevano osato soltanto sognare. Anche Biassou.
Però era bello, pensò Obregon, con quel grande corpo
muscoloso che sembrava scolpito nel marmo. Era degno di lei. Massimo Decimo
Meridio, generale delle legioni sotto Marco Aurelio, schiavo e gladiatore sotto
il suo figlio e successore, il turpe, sanguinario Lucio Aurelio Antonino
Commodo, folle e parricida.
“Solitude… Devo parlarti.”
La donna sentì la mano dello spretato artigliarle il
braccio, stringere forte. Che cosa vuoi? Gli chiese. In realtà avrebbe potuto
farne a meno, lo sapeva. Lui non è uno di noi. Quando l’avete trovato nella
foresta, aveva addosso la divisa del nemico. Solitude, lui è…
- Lasciamo stare. E smettila di spiarmi.
- Solitude, ti rendi conto che se Biassou sapesse…
- Biassou farebbe bene a vergognarsi per com’è
ridotto. Eppoi ho intenzione di chiedergli conto di quel che sta facendo.
- Non hai le prove, Solitude… E prima o poi questi
non saranno più sufficienti a proteggerti .
Obregon additò i serpenti tatuati sul polso sinistro
della donna. Biassou, pensò, era astuto e anche coraggioso, ma la superstizione
lo rendeva vigliacco. Quella meticcia dai gelidi occhi chiari apparteneva a
Damballa, il dio serpente. Era stato Toussaint Louverture a mettergliela alle
calcagna, visto che non si era mai fidato di lui. Tutti all’accampamento
sapevano che Biassou e il suo tirapiedi, il capitano Riau, fabbricavano zombi.
Tutti sapevano. E tacevano, per paura di far quella stessa fine, o anche
peggio.
Forse era giunto il momento di agire. Costasse quel
che costasse. Lei non aveva mai creduto in quelle superstizioni dietro le quali
si era nascosta per proteggersi, e sapeva come andavano in realtà le cose, ma
non era giusto che simili terrori divorassero la vita agli altri. Ogni tanto,
all’accampamento, qualcuno moriva all’improvviso per una malattia grave,
fulminante e misteriosa. Si trattava perlopiù di uomini giovani e forti il cui
comportamento, per qualsiasi motivo, era dispiaciuto al Comandante. Morivano, e
venivano sotterrati in gran segreto, dopo che il sole era calato, in uno
spiazzo abbastanza lontano, dove nessuno s’azzardava a mettere piede. La
maggior parte degli haitiani erano atterriti dalla morte e dai cimiteri.
Nella baia poco lontana da dove lei e il suo amante
bianco consumavano i loro incontri segreti, qualcuno asseriva di aver visto una
grande nave ancorata al largo, e una barca a remi avvicinarsi alla spiaggia e
caricare un piccolo gruppo di uomini in catene. Uomini dagli sguardi spenti,
dai movimenti lenti e stanchi. Morti viventi. Zombi. I gusci vuoti di
coloro che, pochi giorni prima, un repentino attacco di febbre perniciosa aveva
tolto dal mondo nel fiore dell’età, della forza e della salute. I testimoni
involontari di quella mostruosità avevano taciuto, per paura di fare l’identica
fine dei poveretti… Biassou fabbricava gli zombi, quando voleva
liberarsi di coloro dei quali non si fidava più. E dalle sue malefatte, oltre
al vantaggio di rabbonire qualche spirito ribelle, traeva anche un discreto
tornaconto, vendendo gli infelici a certi contrabbandieri che li deportavano
nelle piantagioni di cotone e tabacco del Continente.
Tutti sanno… E tutti tacciono. Aveva pensato
mordendosi le labbra. Sanno, sì. A modo loro. Erano in pochi, in realtà, a
conoscere il segreto di quell’atroce imbroglio. Lei, Obregon… Oltre a quei
criminali di Biassou e dei suoi tirapiedi. Il maleficio, denominato coup
poudré veniva perpetrato soffiando in faccia alla vittima un veleno che
si ricavava dal pesce palla. Caduto in catalessi e apparentemente morto, il
poveretto era seppellito in tutta fretta, come consigliavano il clima torrido e
il pericolo di epidemie. Ma la mattina successiva la fossa era violata e vuota.
E il cadavere vivente, perché le stesse vittime del maleficio erano convinte di
essere divenute tali, rinchiuso nella fetida stiva di una vecchia nave, veniva
condotto a quel destino da cui credeva di essersi liberato: la schiavitù.
- Forse ti riesce difficile crederlo, Massimo.
- Ho vissuto mille vite e ne ho viste di tutti i colori,
Solitude. Non mi è difficile credere anche in questo… E in altro, per quanto
strano possa sembrare. La tirannia favorisce l’ignoranza e questi orrori è
proprio nell’ignoranza che prosperano.
- Louverture…
- C’è un altro mondo, Solitude. Un mondo della cui
esistenza François Dominique Toussaint Louverture era pienamente convinto.
- Sono contenta che lui viva ancora. Ma mi dispiace
che veda, senta e sappia a che cosa siamo ridotti.
- Lui… Lui ha restituito la dignità alla sua gente.
E io… noi… non possiamo…
Solitude si districò dal suo abbraccio, si avviò a
lunghi passi decisi verso la porta. Massimo la chiamò, avrebbe voluto
trattenerla, raccomandarle ancora una volta di non buttare via la sua vita.
Chiuse gli occhi. E rivide se stesso nelle segrete del Colosseo, seminudo,
ferito, incatenato, battuto ma non vinto, muto e immobile di fronte al tiranno.
- Chacha! Sellami il cavallo!
- Non verrà. E’ morto stamattina.
Le rispose una vecchia dagli occhi cisposi e
dall’aria afflitta. Anche lui sarebbe stato seppellito al tramonto, nello
spiazzo non lontano dalla baia. Anche la sua tomba sarebbe apparsa, all’alba
del giorno dopo, violata e vuota. Anche lui sarebbe finito a raccogliere il
cotone in qualche piantagione sul Continente finché la morte, quella vera, non
fosse giunta a liberarlo.
LA
RESA DEI CONTI
Chacha e sua madre avevano sangue Eboe dentro le
vene. I bianchi non acquistavano volentieri gli schiavi di quella razza,
malgrado fossero, in genere, forti sani e docili. Gli Eboe avevano una curiosa
predisposizione al suicidio dovuta alle loro strane credenze. Erano convinti,
dopo la morte, di poter tornare in Africa. E i coloni mozzavano spesso il naso,
le orecchie o le mani dei suicidi per evitare che altri ne seguissero
l’esempio: nessuno schiavo, infatti, sarebbe mai potuto risorgere con quei
segni di disonore. Il cadavere di Nina era stato bruciato, e Chacha… Non
sarebbe ritornato nel luogo da cui era venuto, adesso che non era più un uomo.
- Biassou?
- Ti Bon Ange…Che vuoi?
L’aveva sempre chiamata così, anche nel segreto dei
suoi pensieri o quando, tra i fumi dell’alcool, sognava di farla sua. Sognava,
e non osava. Era una strega, quella. Una strega che sapeva la magia e vedeva
aldilà delle cose, con quegli occhi che avevano il colore dell’acqua e i
bagliori dell’acciaio.
- Lo sai bene quello che voglio… Mait
Carrefour[22]
- Chacha? Era un mauvais
sujet quello.
Solitude scosse la testa. Un cattivo soggetto
Chacha? Quel povero idiota ubbidiente, servizievole, che non si sarebbe
lamentato neanche se gli avessero ordinato di camminare sui carboni ardenti?
Chacha? E perché non lui, con le sue dannate polverine, lui, che vendeva i suoi
simili, che si ubriacava come una bestia e perdeva il controllo e la dignità?
- Sono venuta a chiederti il conto di tutto, Ghede[23]…
Biassou sorrise. Era venuta a chiedere il conto.
Quale conto? Chacha? Quel pezzo di bue che non capiva niente e doveva
accucciarsi per pisciare?Anche lui le avrebbe presentato il suo, allora. Chi si
credeva di essere, perché sapeva scrivere, aveva la pelle chiara e faceva tutto
quello che le altre donne non fanno? Le donne non sparano, non cavalcano e non
tirano di spada. Le donne…
Si alzò dalla sedia, le si parò di fronte. Era più
basso di lei, ma forte abbastanza da atterrarla, da stapparle i vestiti di
dosso e cacciarglielo dentro finchè non avesse smesso di dibattersi e di urlare
e avesse cominciato a dimenare i fianchi e a gemere per il piacere. Non aveva
niente, quel francese, che lui non avesse, si ritrovò a pensare.
- Mi hanno detto che te la intendi con il
prigioniero.
- Non sono affari che ti riguardano.
- Ah. Non sono affari che mi riguardano. Quello ci
porterà tutti quanti in bocca ai cani di Rochambeau e questi non dovrebbero
essere affari che mi riguardano, dannata puttana…
Solitude scosse la testa. E tu dove ci stai
portando? Nella piantagioni sul Continente, a quella schiavitù dalla quale
Louverture ci aveva liberati? Tra finire di nuovo schiava o sepolta nello
stomaco di quei cani non so davvero che cosa preferirei.
- Lui non è con i francesi. E’ con Louverture. E
Louverture non ammetterebbe quello che stai facendo.
Biassou aveva la bocca piegata da una smorfia amara
e gli occhi arrossati dalla tafià. Era grottesco e ripugnante, pensò
Solitude districandosi dal suo abbraccio. Era tutto quello che il suo ex
padrone, un colono rozzo e crudele, aveva fatto di lui. Ed era forte come un
toro, malgrado fosse sbronzo. Forte e violento. Con un braccio riuscì a
bloccarla e con la mano libera a stracciarle la casacca. Non è giusto, le disse
con voce impastata mentre le brancicava i seni, che sia un bianco a godersi le
più belle tette di Haiti.
Massimo non aveva fatto in tempo a insegnarle
abbastanza, pensò la donna. Si era sempre rammaricata di non essere tanto forte
da riuscire a fronteggiare fisicamente l’assalto di un uomo. Era finita a
terra, e il corpo muscoloso di Biassou le gravava sopra. Non avrebbe implorato
pietà da lui, pensò mentre questi le mordeva il capezzolo, e non per farla
godere come un amante, solo per farle male.
Solitude strinse i denti, mentre lui le stracciava
di dosso i calzoni. Non gli avrebbe dato la soddisfazione di guardarla
implorare pietà, tremare di paura. Anche se sapeva che, con ogni probabilità,
Biassou non si sarebbe accontentato di fare di lei uno zombi: l’avrebbe
uccisa. Dopo aver abusato di lei in tutti i modi. Dopo averla gettata in pasto
ai suoi scherani quando ormai si fosse ridotta a un nulla rotto, gemente,
livido e insanguinato.
Teneva sempre uno stiletto nascosto nel gambale. Da
quando, a quindici anni, era scappata dalla Grande Maison del
marchese De La Fère. Lo stesso stiletto che era costato la vita a Benoit, il
suo fratellastro. E che sarebbe costato la vita a quel mostro di Biassou.
Riuscì a sfilarlo… Ma Biassou era un combattente d’esperienza e non si lasciò
sorprendere. Le torse il polso, la disarmò. Si impadronì del pugnale e glielo
puntò contro. Lei riuscì a rotolare via ma non a evitare il fendente, che le
aprì un’ampia ferita sul costato, sotto il seno sinistro. Le avrebbe trafitto
il cuore, pensò, se la croce e il ciondolo di Louverture non avessero deviato
la punta della lama.
Sicuramente quella ferita non era mortale, ma poteva
diventarlo se l’emorragia le avesse tolto le forze, si ritrovò a pensare in
quel lampo d’istante in cui vide la lama calare di nuovo. Questa volta, lei fu
più veloce del colpo di Biassou. Ma ci sarebbero stati altri colpi, e intanto
le forze venivano meno con il fluire inarrestabile del sangue. Non era passato
molto tempo dacché Massimo le aveva parlato della sua prima vita e di un
vecchio saggio che veniva dal Paese della Seta, che gli aveva insegnato a
trasformare il suo corpo in un’arma micidiale. Colpisci con violenza il collo
di un uomo con il taglio della mano e gli romperai i vasi che portano il sangue
al cervello. Morirà all’istante…
Solitude guardò il corpo di Biassou contorcersi per
un attimo negli spasimi dell’agonia. Si alzò, barcollò fino all’imboccatura
della baracca, gli occhi folli, gli abiti stracciati impregnati di sangue. Vi
ho liberati tutti quanti dalla paura, bisbigliò a se stessa, prima di
schiantarsi a terra come una giovane palma abbattuta dall’uragano.
EPILOGO
Quando emerse dal torpore, vide il viso di Massimo chino
su di lei e comprese che non era morta. Sei stata male, ho avuto paura per te…
Le disse stringendole la mano. Ma adesso è finita. Tu sei salva. Chacha è
salvo. E in quanto ai complici di Biassou… Ho dato ordine che venissero passati
per le armi.
Le dita fredde e sottili di Solitude strinsero le
sue. Non so, gli disse con un filo di voce, quanto resterai. Il destino ti
porterà lontano, questo è certo. A quelli come te il mondo non basta. Ma
finchè…
- Finchè la vostra libertà e la vostra vita saranno in
pericolo, resterò qui a difendervi. C’era un uomo, che ho conosciuto poco tempo
fa, al quale devo qualcosa. Si chiamava François Dominique
Toussaint Louverture. Il suo sogno si chiamava libertà… e non è giusto che rimanga un sogno.
Fine
Lalla, 29 aprile 2003
[1] Mantello equino grigio chiaro punteggiato
di piccole macchie nere.
[2] E’ storicamente provato che il generale
Rochambeau, succeduto a Leclerc morto di febbre gialla, si servisse di cani
feroci per stanare e spesso anche uccidere i neri.
[3] Si fa riferimento alla parte orientale
dell’isola di Hispaniola, Santo Domingo, colonia della Spagna poi conquistata
da Toussaint Louverture.
[4] Dallo spagnolo cimarron, ribelle. Erano chiamati così gli schiavi
fuggiaschi che si davano alla macchia e, dopo la cattura di Louverture, quei
suoi seguaci che non si erano arresi e perseveravano nella lotta armata.
[5] Non è vero, canaglia?
[6] Piccolo Angelo Buono. E’ il termine con
cui gli adepti del culto vudù designano l’aspetto più individuale dell’anima.
Molti termini che si trovano in questo racconto sono scritti in gombo, il dialetto dei neri di Haiti e anche se
potrebbero sembrare tali (oltretutto non conosco questa lingua) non sono
storpiature del francese dovute alla mia ignoranza. Voglio ricordare a questo proposito
di aver desunto la terminologia gombo dai glossari di due bei romanzi: ”Drum”di
Kyle Onstott e, soprattutto, “Quando le anime si sollevano”di Madison Smartt
Bell. Li ringrazio, anche se non li conosco personalmente e mi pare che il
primo sia pure defunto.
[7] Vigliacco.
[8] Rhum scadente.
[9] E’ storicamente provato che la moda dei
tatuaggi e dei piercing non è affatto un’invenzione recente.
[10] Parli la lingua dei padri? Parlo la
lingua dei padri.
[11] Guaritore
[12] Grandi proprietari terrieri.
[13] Il Corano fa espresso divieto ai suoi
seguaci di tenere in schiavitù un correligionario. E’ per questo motivo che la
religione islamica è così diffusa nella regione del golfo di Guinea. Ma quando
il traffico dei neri passò dalle mani degli arabi a quelle di inglesi, portoghesi
e olandesi l’essere musulmane non mise quelle popolazioni al riparo dal rischio
di finire in schiavitù.
[14] Colui che ritorna
[15] Rapace notturno simile alla civetta.
[16] Marchesa.
[17] Machete.
[18] Schiavo nero deportato dall’Africa.
[19] Tra i Fulah, come tra molti altri
popoli africani, è ancora diffusa l’orribile pratica dell’infibulazione
femminile, che viene effettuata nelle bambine o, come rito iniziatico, nelle
adolescenti, prima del matrimonio. Questa pratica, che consiste nell’asportazione,
totale o parziale dei genitali esterni e spesso anche nella loro cucitura,
avrebbe lo scopo di preservare la castità delle donne eliminando la fonte del
piacere durante l’atto sessuale.
[20] Gruppo paramilitare adibito a dare la
caccia agli schiavi fuggiaschi.
[21] E’ detto così il maleficio grazie al
quale, secondo il cerimoniale vudù, sarebbe possibile trasformare un essere
umano in uno zombi, un morto vivente. Il veleno del pesce palla essiccato
induceva la vittima in uno stato di catalessi della durata di qualche ora, al
termine della quale veniva fatto ad essa credere di essere stata riportata
indietro dall’aldilà da qualcuno a cui,
da quel momento, avrebbe dovuto ubbidienza cieca. Era uno dei sistemi
usati dai molti tiranni e dittatori, compresi i più recenti, i famigerati
Duvalier padre e figlio, che si sono contesi il potere sull’isola, per indurre
all’ubbidienza con il terrore i loro sottoposti.
[22] Demone malvagio che
custodisce i cimiteri.
[23] Lo stesso di Mait Carrefour.