Storie de Il Gladiatore

Storie ispirate dal film Il Gladiatore

Lettura sconsigliata ai minori di anni 18

 Massimo l’Immortale

LA META’ OSCURA DELLA LUNA

Parte seconda

ALTER EGO

PROLOGO

 

Brest, fine aprile 1803

 

Aveva cercato Marianne, il giorno stesso in cui era tornato a Brest. Aveva chiesto di lei, in giro, e gli era stato detto che aveva affittato il mezzanino a un giovane studente. Allora non l’avrebbe cercata, si disse da sé solo, non ne valeva la pena tantopiù che gli avevano detto che la sua nave, la corvetta Le Heros sarebbe partita fra tre giorni con un carico di armi. Destinazione Haiti.

Massimo Meridio si tastò piano la mezzaluna di madreperla che portava appesa a un lacciolo di cuoio, accanto al suo amuleto e alla croce del vecchio prigioniero. Quell’uomo, pensò, avrebbe segnato in maniera indelebile la sua vita nei giorni a venire. François Dominique Toussaint Louverture: era morto con il nome della libertà sulle labbra, e i suoi compagni di lotta lo credevano un traditore.

 

HAITI

 

Le Cap Haitien, primi di giugno 1803

 

L’odore che gli aveva solleticato le narici lo aveva sentito tante volte, in tutte le città di mare dove il destino lo aveva portato, da Antiochia a Cadice, da Istanbul a Shangai, da Zanzibar a Nuova Orleans. Era quello stimolante della salsedine mista alle spezie, e quello nauseabondo del pesce guasto misto al sudore dei facchini che scaricavano le merci dalle navi. Era quello del legno, delle derrate d’ogni genere, del catrame e della pece.

Ma a Le Cap Haitien, la terra e il mare avevano anche l’aroma appiccicaticcio dello zucchero e quello amaro dell’indaco. E l’odore greve della morte.

 

Sarebbe stato prudente non scendere a terra, o quantomeno girare armati e scortati. Con i tempi che correvano, chi aveva la pelle bianca avrebbe fatto meglio a non mostrarsi troppo in giro. Gliel’aveva detto lo stesso Toussaint: i suoi intrepidi e crudeli generali, Dessalines e Christophe, avevano giurato di scaraventare ai pescicani i cadaveri dei soldati francesi che avessero osato mettere piede sull’isola, e le loro non erano semplici minacce. Hanno la schiena arata dai segni delle scudisciate, e odiano i bianchi. Loro non sono quello che ero io.

 

Il Terzo Ufficiale, il tenente di vascello Massimo Meridio, guardò il mare sfrangersi sulla chiglia, dall’alto del cassero di poppa, mentre la corvetta Le Heros attraccava in porto. Chiuse gli occhi, per ripararli dall’offesa del sole tropicale, e quel cattivo odore continuava a indugiargli nella gola. Odore di escrementi, di carogne e di rose. Sarebbe stato difficile, si chiese da sé solo, procurarsi un cavallo? Sarebbe stato difficile eludere la sorveglianza di coloro che, più o meno discretamente, avrebbero dovuto vegliare sulla sua sicurezza e andarsene chissà dove, a cercare chissà chi per raccontargli che l’aveva conosciuto, lui, il Generale, che aveva veduto con i suoi occhi com’era stato trattato dai francesi? Sarebbe stato difficile convincere quella gente che Louverture non era un giuda e non s’era venduto la libertà dei suoi fratelli in cambio di una vita ricca e tranquilla in terra di Francia, ma era morto di freddo e di stenti in una prigione in mezzo alle montagne?

 

Massimo Meridio si ricacciò indietro con un movimento nervoso della mano i capelli. Il nastrino di velluto nero che glieli teneva raccolti sulla nuca si era allentato ed era scivolato via, lasciandoglieli sciolti. Gli arrivavano alle spalle e il trascorrere del tempo li aveva curiosamente schiariti. In quell’altra vita, pensò, erano stati molto più scuri, ma forse dipendeva dal fatto che allora li portava corti. Avrebbe dovuto tagliarli, come imponeva la nuova moda e soprattutto la praticità, ma alle donne piaceva quella lunga capigliatura selvaggia, morbidamente ondulata, alla cui base castana si mescolavano pochissimi capelli grigi e molti color mogano, miele, rame e oro… Capelli che nemmeno un cieco avrebbe potuto prendere per quelli di un negro.

Come tutto quanto il resto: gli occhi azzurri, la bocca delicata, la pelle chiara. Poteva imbrattarsi il viso e le mani con della cenere, poteva… Non avrebbe ingannato nessuno. Tanto valeva non provarci neppure. Doveva andare dove lo portava l’istinto, in un qualsiasi posto, sui monti, in mezzo alla foresta, ovunque fosse possibile incontrare qualcuno dei compagni di lotta del vecchio Generale: i capibanda spietati, quelli che dopo ogni assalto andato a buon fine si ubriacavano come spugne; o Dessalines e Christophe che, con le spade sguainate in pugno, avevano giurato morte ai francesi. O forse, perché no, quel Martin. Incidere il suo nome sul ciondolo di madreperla a forma di mezzaluna doveva essere stata l’ultima azione cosciente che il vecchio fosse riuscito a compiere. Martin Gr. E poi? Louverture era morto prima di poter completare l’opera.

 

Non sarebbe stato facile trovarlo, ammesso e non concesso che fosse ancora vivo. In quella succursale dell’inferno dov’era finito, la morte ti stava appiccicata alle calcagna dal momento in cui nascevi e non ti mollava più. Eppure, all’apparenza, Haiti poteva rassomigliare a un piccolo Eden, con le cime delle montagne che si stagliavano contro il cielo azzurro, la vegetazione rigogliosa, l’aria tersa, il mare dai riflessi iridescenti, i bambini dai grandi occhi lucidi e le donne belle come fiori. Un eden impregnato di sangue, gonfio di odio. A pochi metri dalla chiglia della sua nave, Massimo vide galleggiare un cadavere. Era talmente gonfio e sfigurato dai pesci e dalla salsedine che non si capiva neppure se, in vita, quel poveretto fosse stato un bianco o un negro. Emanava un tanfo atroce, e lui faticò a ricacciare indietro il conato di vomito che dallo stomaco gli era salito alla gola. Haiti gli dava il bentornato.

 

MORNE ST.RAPHAEL

 

Il cavallo che aveva affittato gli fece rimpiangere Erebus, che aveva dovuto giocoforza lasciare in Francia. Era un vecchio brocco dal mantello storno[1] e dalle zampe tozze e doveva essere abituato a tirare la carretta, più che a portare in sella un cavaliere, ma era docile come una scolaretta e ubbidiente come un frate. Doveva aver conosciuto una vitaccia, si disse da sé solo. Come tanti, lì ad Haiti. Uomini e animali, bianchi e neri. L’epidemia di febbre gialla che aveva decimato l’esercito francese era finita. A Charles Victor Emmanuel Leclerc, era costata la pelle. Venuto per sterminare qualsiasi negro che avesse portato spalline militari sulla giacca, era tornato in Francia chiuso dentro una cassa e accompagnato da una moglie che, c’era da supporre, non lo avrebbe pianto a lungo. Adesso, il comandante in capo dell’esercito francese ad Haiti era Rochambeau. Forse non si ubriacava come Jeannot e Biassou dopo ogni impresa vittoriosa. Ma non lo si poteva definire migliore di loro solo perché era un bianco civilizzato ed educato. Quando l’epidemia gli aveva decimato l’esercito, aveva deciso di rimpiazzare i soldati morti con grossi cani feroci, addestrati a saltare alla gola e a uccidere. Cani capaci di fiutare controvento l’odore di negro a chilometri e giorni di distanza. Quelli, almeno, non si ammalavano di febbre gialla[2]. Né si chiedevano se ciò che gli era stato imposto di fare fosse o meno giusto. Ammazzavano e basta.

 

Non sapeva dove sarebbe andato. Uscendo dalla città, non aveva incontrato molte persone: soldati di pattuglia, perlopiù, e negri dall’apparenza indaffarata, che si muovevano a testa bassa, quasi a voler impedire che qualcuno potesse leggere segreti inenarrabili dentro i loro liquidi occhi scuri. Segreti che avrebbero raccontato storie di odio e di dolore. Segreti legati forse al ricordo di un uomo in cui avevano voluto credere e che li aveva traditi in cambio d’un pugno d’oro: come i capitribù africani che vendevano ai mercanti di carne umana i fratelli neri.

 

Non sapeva dove sarebbe andato. Si sarebbe diretto verso l’interno, e avrebbe cavalcato fino al tramonto. Poi si sarebbe fermato. Per proseguire, all’alba del giorno dopo finché non avesse incontrato qualcuno.

 

Faceva un caldo d’inferno. Massimo Meridio si tolse la giacca e la mise di traverso sulla sella. Poi si aprì la camicia. Le sue dita incontrarono il dente di lupo, il portafortuna che accompagnava da sempre il corso della sua vita senza fine. Quante volte aveva sentito ululare i lupi alla luna sotto un cielo che sembrava di ferro, e quel pianto gli aveva portato alla mente il ricordo lontano di cose perdute? In quante lingue, il suo nome e quello del lupo erano stati associati, nello scorrere ineluttabile del tempo che tutto riduceva in polvere? “Ich bin Wulf…“ “Lupus ego sum…” Io sono il lupo. Il lupo di Roma. Non c’erano lupi, ad Haiti.

 

Si tastò piano il crocifisso di legno che era appartenuto al Generale. E la mezzaluna con quel nome inciso sopra. Un ricordo più che un portafortuna: contrariamente alla maggior parte dei suoi congeneri, Toussaint Louverture non era superstizioso. Si definiva un buon cristiano, e la superstizione è peccato. Martin doveva essere qualcuno che gli era stato caro. Qualcuno a cui il suo presunto tradimento doveva essere pesato sul cuore come un macigno.

 

La montagna si trovava quasi sul confine di quella parte dell’isola che era appartenuta alla Spagna, fino a pochi anni prima[3]. Era coperta da una fitta vegetazione in mezzo alla quale sicuramente si nascondevano bande di ribelli, quelli che i bianchi chiamavano marons[4]. Si erano rifugiati lì quando Louverture era stato costretto ad arrendersi e continuavano la loro lotta che forse sapevano persa in partenza. Ma la più orribile delle morti è sempre preferibile alle catene. Non conoscevano il loro futuro e l’unica certezza che avevano era che non si sarebbero mai arresi.

 

I tramonti dei tropici erano diversi da quelli del suo mondo. Il buio calava sulla luce quasi come una scure, dopo un crepuscolo che durava solo pochi istanti. Doveva cercarsi un riparo, se non voleva trascorrere la notte all’addiaccio. Non era cosa da poco, in quella landa disabitata.

 

 

 

L’INCAPPUCCIATO

 

Aveva notato una piccola capanna di frasche a breve distanza da dove si trovava. Uno di quei ripari provvisori che i negri chiamavano ajupa. Un buon posto per passarci la notte: gli avevano detto che Haiti pullulava di serpenti velenosi, ma chi lo aveva informato non era al corrente del fatto che lui non aveva niente da temere. Era un segreto, quello. Un segreto di cui nessuno sapeva.

 

Massimo Meridio smontò di sella e si avviò a piedi verso il riparo, tenendo il cavallo per le briglie. Il crepuscolo mitigava il caldo afoso della giornata. Meno male, se non altro sarebbe riuscito a chiudere gli occhi e a riposare per un po’, tantopiù che, da qualche giorno, era tormentato da un feroce mal di testa che quasi non gli dava requie.

 

Non era solo. Quando se ne accorse, inforcare il cavallo e scappare sarebbe stato impossibile. Era improbabile che lo avessero seguito, se ne sarebbe accorto. I due sembravano spuntati dal nulla ed era stato per caso che si erano trovati quasi faccia a faccia con lui. Uno era appiedato, l’altro a cavallo. Un uomo dalla pelle nera e dalla taglia imponente, il primo: alto quasi due metri e largo in proporzione, aveva un grosso cranio rasato a zero che brillava sotto gli ultimi raggi del sole morente. Era a torso nudo, portava uno schioppo a tracolla e una sciabola infilata nella fusciacca. L’altro aveva la testa nascosta da un cappuccio e scrutava i dintorni dall’alto di un bel cavallo baio. Con una bestia del genere, non avrebbe impiegato molto a raggiungerlo, se avesse tentato di scappare, pensò Massimo senza lasciare il suo nascondiglio. Il suo intuito gli diceva che quello a cavallo doveva essere un individuo pericoloso. Più dell’altro. E il suo intuito non l’aveva mai ingannato.

 

Si avvicinò silenzioso, ventre a terra, incurante dei rovi che gli graffiavano le mani. Abbastanza da vederli bene, senza tuttavia essere visto, anche se, sicuramente, avevano notato il cavallo e adesso lo stavano cercando. Quello grosso e appiedato portava grandi orecchini di rame infilati ai lobi e aveva le guance e la fronte sfregiate dalle cicatrici. Scarnificazioni tribali, pensò. Doveva trattarsi di un bossal africano. Aveva spalle larghe e bicipiti poderosi, ma il ventre molle che gli debordava dai calzoni e le natiche grasse come quelle di certe donne toglievano imponenza e forza alla sua figura, finendo col renderla quasi patetica. Dell’altro non si capiva granché, un po’ per la distanza e molto per il cappuccio che gli occultava completamente la testa. Esile ed efebico, doveva essere molto giovane: ma che quello più grosso prendesse ordini da lui era evidente dall’attitudine eretta con la quale stava in sella, da cui traspariva una naturale autorevolezza che niente aveva a che vedere con le dimensioni dei suoi muscoli. Un bel momento, smontò da cavallo e s’incamminò nella direzione in cui lui si era nascosto, a lunghe falcate elastiche. A Massimo ricordò un felino selvatico. Un leopardo, agile e leggero e altrettanto forte. E pericoloso. Malgrado quel che gli aveva riservato in dono la sorte, Massimo si mise in guardia. Le vecchie abitudini sono dure a morire, si disse da sé solo.

 

L’incappucciato era piuttosto alto, notò, anche se non quanto l’altro. Aveva le mani infilate dentro guanti neri e gli unici brandelli di pelle scoperta erano quelli intorno alle orbite degli occhi, lasciate libere dai fori del cappuccio. Portava anch’egli una sciabola al fianco e un lungo fucile a tracolla, un vecchio catenaccio arrugginito che indubbiamente sapeva usare con perizia. Tra un po’, forse avrebbe potuto provarlo a sue spese, si ritrovò a pensare. Chissà come ci sarebbero rimasti, quando… Probabilmente se la sarebbero data a gambe e fino alla fine dei loro giorni avrebbero raccontato dell’incontro con un fantasma. I neri erano superstiziosi, gli aveva detto qualcuno.

 

Forse non lo avrebbe fatto se non avesse avuto dagli dei e da una donna innamorata il dono grande e terribile che aveva ricevuto, un mare di anni prima. Avrebbe finto di non veder luccicare tra l’erba, appeso ad una cordicella, un ciondolo uguale a quello di Louverture. Onice nera, però, non madreperla: la metà oscura della luna.

 

- Martin! - gridò emergendo dal suo nascondiglio.

 

Il cuore accelerò i battiti, quando il suo sguardo incontrò quello dell’incappucciato. La sua sensazione, si ritrovò a pensare per un istante lungo un secolo, fu la stessa che dovevano aver provato gli avversari, nella grande arena di Roma, quando i suoi occhi beffardi li avevano fissati attraverso i fori della maschera. E quegli occhi avevano lo stesso colore e la stessa espressione fredda dei suoi.

 

Si lasciò sfuggire un’imprecazione a mezza voce quando l’incappucciato gli sferrò con la rapidità di un fulmine un calcio ai testicoli che lo fece vacillare, strozzandogli in gola un grido di dolore.

 

- Dev’essere venuto per insegnare la strada ai cani di Rochambeau. Chacha, finisci il lavoro e… legalo al cavallo. Lo portiamo all’accampamento.

 

Fece in tempo soltanto a strabuzzare gli occhi, prima che il calcio del fucile di Chacha lo colpisse alla testa, facendolo crollare a terra tramortito. Dopo, fu il buio.

 

INCUBI DAL PASSATO

 

Quando si risvegliò, percepì ancor prima della luce di cento torce, l’umido della notte sulla pelle nuda del petto. Gli avevano tolto la camicia e gli stivali e lasciato soltanto i calzoni. I piedi scalzi calcavano un terriccio molle e fangoso in una sorta di piccolo avvallamento forse naturale, più probabilmente scavato da qualcuno.

 

Non appena aveva riaperto gli occhi, si era accorto di avere le mani legate. Si ritrovò circondato da una cinquantina di facce nere, ma gli occhi che lo squadravano non erano cento, visto che diverse di quelle facce, tutte chi più chi meno segnate da terribili cicatrici, erano guerce. L’uomo che gli si era avvicinato brandendo un grosso coltello senza cessare di sghignazzare era basso, nerboruto e indossava un’uniforme sgargiante e sbrindellata, grondante frange, mostrine e cordoni dorati degni di nota soprattutto per il loro incredibile sudiciume. Gli si avvicinò barcollando e lo fissò con occhi vitrei iniettati di sangue.

- Martin e Chacha hanno trovato uno dei cani bianchi di Rochambeau nella foresta…

La voce brancolava e l’alito gli puzzava di rhum cattivo. Quell’individuo doveva essere ubriaco fino alle ossa, pensò Massimo abbassando la testa.

- Tra un po’ ci divertiremo tutti quanti, c’est vrai, mauvais sujet[5]?

 

Le intenzioni erano chiare molto più delle parole che aveva pronunciato con voce strascicata e ubriaca in gombo, il dialetto degli schiavi. La luce delle torce faceva scintillare gli occhi arrossati, i denti bianchi e le mostrine dorate sulla sudicia giacca dell’uomo. Massimo sapeva che gli avrebbe fatto passare un brutto quarto d’ora e rabbrividì, nonostante fosse quello che era. Sentì le mani callose e sudate palpeggiarli le braccia e il petto, le dita pizzicargli i capezzoli. Non avesse avuto le sue legate dietro la schiena, avrebbe impartito volentieri una bella lezioncina a quel maledetto ubriacone: detestava che qualcuno si prendesse certe avvilenti e non autorizzate libertà con il suo corpo. E faticò anche a reprimere la voglia di sputargli in faccia quando, dopo essersi alzato in punta di piedi, l’altro gli sollevò il mento e gli alitò un “Vediamo come ti sai battere” prima di recidere con un colpo di coltello la fune che gli imprigionava i polsi e di spingerlo al centro dello spiazzo sterrato.

 

- Voglio parlare con Martin, - disse Massimo a voce bassa, massaggiandosi i polsi.

- E se invece ti facessi parlare con Babouin? Non ti andrebbe bene lo stesso?

- Voglio parlare con Martin, ho detto.

 

L’altro non rispose. E quando Massimo sollevò gli occhi da terra vide, come un incubo emerso dal passato, un uomo che impugnava due coltelli caracollare verso di lui.

 

Lo avrebbe aspettato fermo al centro di quell’arena improvvisata, pensò. Avrebbe colto in un attimo il modo in cui si muoveva, in cui allungava le braccia per colpirlo. Avrebbe cercato e trovato, anche se quello era armato e lui no, i suoi punti deboli per tentare di batterlo. Come un mare di tempo prima. Come quando era ancora una questione di vita o di morte.

 

Adesso non lo era, pensò. Non lo era, almeno per lui, anche se i fendenti di quei due lunghi coltelli erano andati a segno un paio di volte. Il suo avversario aveva gambe storte, braccia e torace massicci e muscolosi. Il suo volto era sfregiato da orrende cicatrici. Bruciature, con ogni probabilità. Ma quel che rendeva ancor più repellente quella mostruosa creatura era la mancanza dei padiglioni auricolari, mozzati entrambi rasenti alla testa. L’uomo in uniforme sbrindellata lo aveva chiamato Babouin. Un nome che gli si addiceva a pennello.

 

Massimo sentiva il sangue grondargli lungo il fianco, impregnandogli i pantaloni della divisa e portandogli via la voglia di resistere. Gli strepiti degli spettatori che gli rimbombavano nel cervello erano tutti per il suo avversario, un nero come loro. Se non lo avesse steso, pensò, se si fosse lasciato crollare a terra, il suo segreto sarebbe trapelato… Forse valeva la pena tenerlo nascosto, forse… Strinse i denti, si ingiunse da solo di resistere. Anche solo per orgoglio. Non era armato, ma sapeva che tutto il suo corpo poteva trasformarsi in un’arma micidiale: un calcio assestato violentemente al plesso solare, un colpo alla carotide vibrato di forza con il taglio della mano, l’indice che entrava nell’occhio e finiva nel cervello… Potevano uccidere un uomo. Avevano già ucciso.

 

I larghi, affilati coltelli di Babouin balenavano alla luce delle torce a pochi centimetri dalle sue braccia, dal suo ventre e dalla sua gola. Il mostriciattolo gli sorrideva beffardo mostrandogli i lunghi denti limati in una sorta di ghigno animalesco. Aveva il vantaggio dei coltelli ma era meno agile di lui, pensò Massimo. Zoppicava da una gamba e, guardandolo da vicino, si accorse che aveva un occhio solo, l’orbita sinistra era vuota. Doveva approfittarne. Sferrandogli al polso un calcio che lo fece urlare come un cane malato, Massimo gli disarmò la mano sinistra. Ma lo sforzo richiesto al suo corpo ferito e dolorante lo fece crollare a terra e pochi istanti dopo l’avversario gli fu addosso. Strattonandogli i capelli, cercò di fargli alzare la testa e di scannarlo, ma riuscì soltanto a graffiargli il petto, prima che Massimo se lo scrollasse di dosso e gli facesse cadere, mordendogli la mano che lo impugnava, anche l’altro coltello. Il resto fu facile anche se la ferita al fianco gli faceva male e, mentre se ne stava inginocchiato in una poltiglia di sangue e di mota, sentiva di essere lì lì per crollare a terra svenuto.


TI BON ANGE[6]

 

- I cani di Rochambeau hanno buoni denti, vedo… E adesso raccogli uno di quei coltelli e finiscilo. Questo lache[7] non merita di vivere.

 

Massimo Meridio alzò gli occhi su colui che gli stava di fronte e che, con la punta dello stivale prendeva a calci l’uomo rannicchiato a terra come un fagotto di stracci.

- Non ammazzo uno che non è in condizioni di difendersi.

- Invece adesso tu raccogli il coltello, canaille, e scanni questo mangiapane a sbafo. Lui lo avrebbe fatto, al posto tuo.

- Ho detto che non ammazzo un uomo disarmato.

 

Massimo Meridio tentò, a fatica, di alzarsi in piedi. Si tastò la ferita sul fianco. Era profonda e continuava a sanguinare. Avrebbe continuato chissà ancora per quanto.

- Ammazzalo, o ti sparo.

L’altro gli afferrò i capelli costringendolo ad alzare la testa, e gli puntò alla tempia la canna fredda della sua lunga pistola.

Massimo non si scompose. La testa gli girava. Paura? Forse. Anche se non aveva senso. E’ la morte a ingenerare terrore. No… Altrimenti, quella pistola puntata contro la sua tempia, gli occhi folli dell’uomo ubriaco di tafià[8] e di odio, il corpo inerte di quell’altro, a cui il destino non aveva riservato i suoi stessi privilegi, non gli avrebbero riempito il cuore di un’angoscia densa, fredda, quasi palpabile.

 

- Biassou…

- Ti Bon Ange! Che ci fai qui… anche tu?

- Lascialo stare, Biassou. Non lo vedi che sta morendo?

 

Martin, riuscì a pensare Massimo prima di rovinare pesantemente a terra. O piuttosto Ti Bon Ange. Piccolo Angelo Buono. Anima mia. La donna più incredibilmente bella che avesse mai visto.

 

Al risveglio, fu il volto di lei la prima cosa che vide materializzarsi nella luce dell’alba che inondava la piccola stanza disadorna attraverso un’ampia finestra senza vetri. Era inginocchiata vicino al suo giaciglio. Aveva tratti meticci, zigomi alti e bocca prepotente. La pelle era  color cioccolato al latte, i capelli lunghi e lucidi, di un nero corvino le ruscellavano lungo la schiena, raccolti in una complicata acconciatura fatta d’un numero incredibile di piccole trecce. Ma a catalizzare la sua attenzione furono gli occhi della donna: grandi, tagliati a mandorla, vagamente crudeli. Occhi da animale selvatico, da felino della foresta. Occhi di un blu profondo, che sfumava nel verde quando la luce li colpiva, riducendo le pupille a minuscoli fori. Occhi che, pur diversi nella forma, erano dell’identico colore dei suoi, pensò Massimo. Potremmo essere fratello e sorella, si disse da sé solo. Anche se lei era nera, lui bianco. Anche se lei dimostrava ventiquattro, venticinque anni e lui… lui ne aveva oltre mille e seicento.

 

- Martin… - Disse con un filo di voce rauca. Gli faceva uno strano effetto chiamare con un nome maschile quella splendida donna, eppure il fatto che anche Biassou l’avesse chiamata così sgombrava il campo da ogni possibile equivoco. Quel Martin che cercava era proprio lei. Le avrebbe parlato, decise puntellandosi sui gomiti e tentando di sollevarsi. Le avrebbe raccontato del suo incontro con Toussaint Louverture. Le avrebbe detto che era morto di freddo e di stenti in una fortezza in mezzo alle montagne e che non aveva tradito nessuno.

 

- Stai giù, o ti si riaprirà la ferita. Eri messo male, credevo che morissi. Ho dovuto ricucirti. Ti resterà una gran brutta cicatrice.

Aveva cercato di sorridergli, sollevando appena un angolo della bella bocca.

- Come ti chiami?

- Massimo.

- Non sei francese.

- No.

- Allora perché avevi addosso quella divisa?

- Non lo so.

 

Massimo sospirò, chiudendo gli occhi. Era la verità, quella che le aveva raccontato. O forse sapeva bene perché aveva scelto di indossare quella divisa, di combattere per un paese che non era il suo. Ma il risveglio dai sogni, il crollo delle sue illusioni, all’improvviso lo fece vergognare di quel che aveva fatto. Rivide Louverture, la sua faccia grigia e le sue rughe profonde. E si morse forte il labbro inferiore fino a sentire il sapore salato del suo stesso sangue. Per non pensare.

 

- Potrei riavere… I miei vestiti?

- Sì. Quando saranno asciugati.

- E il mio cavallo?

- Riavrai anche quello: non siamo ladri, bianco.

- Debbo considerarmi… vostro prigioniero?

- Mio ospite.

 

Lo aveva guardato dritto negli occhi, mentre gli parlava: occhi nei quali il cielo e il mare si mescolavano con i bagliori sinistri dell’acciaio.

 

- Che ne è stato… di Babouin?

- Avresti dovuto ammazzarlo. Per pietà, Massimo. Biassou diventa cattivo quando si ubriaca. Diventa incontrollabile.

 

Martin abbassò sugli occhi le lunghe ciglia nere. Lui avrebbe voluto chiederle e che ci state a fare, con uno così, voi siete diversa, siete… Era alta, snella, con un corpo favoloso, temprato da anni di vita difficile. Vestiva come un uomo, eppure era di una femminilità bruciante, sconvolgente. Indossava brache di cotone rigato e una camicia bianca, le cui maniche arrotolate esponevano i serpenti che aveva tatuati sui polsi e sugli avambracci. Calzava stivali da soldato, alti fino al ginocchio. La mezzaluna d’onice, appesa a un cordino ingrommato, le dondolava sul seno perfetto, il cui profilo si intuiva sotto la camicia informe.

 

- Biassou… E’ il vostro capo?

- Sì. E’ coraggioso e astuto. Grazie a lui, ci siamo tolti dai guai tante volte. I francesi lo temono e hanno messo una taglia sulla sua testa.

 

Anche sulla vostra, si ritrovò a pensare Massimo. Perché sicuramente lo era, coraggiosa e astuta. Le guardò i tatuaggi sui polsi. Molti uomini della banda di Biassou avevano serpenti tatuati sulle braccia e sul petto. Forse, quel segno significava qualcosa, per loro. Come gli anelli d’oro e d’argento che alcuni di essi portavano infilati nei capezzoli. Un segno di virilità e di coraggio. Come nell’antichità, quando a fregiarsi di quegli atroci gioielli erano i pretoriani degli imperatori di Roma[9].

 

Massimo serrò forte le palpebre sugli occhi, quando Martin scostò il lenzuolo dal suo corpo. Li riaprì, e vide la donna ferma accanto a lui con in mano una ciotola che, dall’odore acre, doveva contenere acqua, aceto e qualche erba pestata. Nell’altra mano, teneva una pezzuola pulita.

 

- Che diavolo volete da me?

- Lavarti, bianco. E’ inutile che tu faccia tanto il pudico, ti ho ricucito e ti ho visto tutto quanto. Eppoi… Qui fa caldo. L’odore del sudore e del sangue attira le mosche, e quella ferita ti si riempirà di larve nel giro di poche ore. Hai mai visto una ferita che brulica di vermi, di’?

 

Massimo inghiottì la saliva e la lasciò fare, serrando gli occhi quando sentì la pezzuola umida sul fianco, poi sul basso ventre. Le cuciture sbilenche tiravano e i labbri biancastri non sanguinavano più. Sei uno che guarisce in fretta, gli aveva detto la donna. Ma ti resterà lo stesso una gran brutta cicatrice. Andrà ad aggiungersi alle altre che hai e che…

 

La guardò mordersi le labbra. Forse avrebbe voluto dirgli che le cicatrici sul corpo di un combattente sono il segno manifesto del suo coraggio e che niente, per una donna, è attraente come un uomo coraggioso. Forse avrebbe voluto dirgli che non sarebbe mancata chi gliel’avrebbe baciata, quella cicatrice. Ma non disse nulla e lui la guardò, prima di domandarle che fine avessero fatto il suo portafortuna e la croce e il ciondolo di Louverture.

 

- La zanna te la restituirò. Ti ho già detto che non sono una ladra. Ma la croce e la mezzaluna me le terrò… Perché mi appartengono.

 

Lui continuò a guardarla. Era bellissima, con quella piccola testa altera sul lungo collo flessuoso. I capelli raccolti in fitte treccioline gli portarono alla mente i serpenti di Medusa. Chissà se lo sguardo distante di quei suoi occhi così incredibilmente chiari poteva pietrificare un uomo. Chissà…

 

- Martin…

Sentì le dita sottili della donna stringere piano le sue. Poi la guardò sorridergli. Aveva denti bianchi e squadrati, tra le labbra sensuali.

- Solitude Martin Grinville De La Fère.

 

LO SPRETATO

 

Si svegliò quando la luce dell’alba inondò il buco in cui l’avevano richiuso, ma quale ospite, lo tenevano prigioniero, altro che storie, e le sue orecchie percepirono il cigolio della chiave nella serratura.

Solitude. Pensò Massimo. Di nuovo lei, la sua bella carceriera. Aveva un cognome lungo quanto le sue gambe, neanche fosse stata una duchessa invece che una ex sguattera di piantagione. Era indubbiamente una donna molto bella; ed era anche decisamente strana. Ti guardava dritto in faccia, parlava poco ma chiaro e aveva l’aria di chi sa esattamente quel che vuole; perfino il feroce Biassou, che pure si ubriacava come un carrettiere e non aveva paura di niente diventava un pulcino bagnato, se solo lei gli piantava in faccia i suoi occhi color acquamarina.

 

Ma la luce che inondava la piccola stanza non illuminò la figura elegante della donna.

 

Massimo strinse tra le dita il coccio di bottiglia che era riuscito a raccattare, lo nascose sotto il cuscino. Nessuno doveva accorgersi che la sua ferita si era già chiusa senza lasciare traccia e quel piccolo, tagliente pezzo di vetro gli sarebbe tornato utile allo scopo. Anche se, in fondo, che poteva importargli qualora la verità fosse venuta a galla? I neri erano terribilmente superstiziosi, gli aveva detto qualcuno. Credevano che si potesse tornare indietro dall’aldilà. I neri. Ma l’uomo appena entrato era bianco come lui, senza possibilità di equivoci.

 

Vestiva di scuro, e i suoi abiti erano vecchi e lisi; aveva capelli grigiastri che gli pendevano ai lati del cranio sguarnito, il volto cavallino, di un pallore malsano, su cui spiccavano il naso grosso, le sopracciglia cespugliose e una bocca livida che si apriva su una dentatura incompleta e traballante. Ma nonostante il suo aspetto sgradevole e trascurato non doveva avere più di cinquant’anni. Che ci faceva, un bianco nella banda di Biassou?

 

- Salute a te… Massimo, mi pare. Forse aspettavi la bella Solitude, e invece… Spero di non averti deluso troppo e di poterti tornare utile. Desideri qualcosa?

 

I miei vestiti, i miei stivali, il mio amuleto, il mio cavallo e la libertà di andarmene da qui quando mi pare, rispose lui, sbuffando. Quell’altro lo invitò con cortesia ad avere pazienza ancora qualche giorno, finché la ferita non fosse guarita del tutto e poi… E poi forse si sarebbe dovuto rimettere agli umori instabili del capo per sperare di andarsene da lì. Magari dopo aver chiarito un paio di cosette con Solitude Martin Grinville De La Fère. In ogni caso, gli sarebbe piaciuto coricarsela sotto, quella magnifica femmina fiera color della cannella. Rabbrividì al pensiero che i suoi acuti occhi azzurri e le sue dita sottili e forti gli avessero sfiorato il corpo nudo. Tante donne avevano desiderato il suo grande corpo caldo e vigoroso, in questa vita e nell’altra… Ma forse lei era diversa, forse non gli avrebbe perdonato il fatto di essere bianco. Forse se la faceva con quel gigante dall’aria ebete che la seguiva sempre come un grosso cane, o con Biassou… O magari con quell’omiciattolo dalla testa tignosa che puzzava quanto un gregge di capre ma che aveva l’innegabile vantaggio di stare dalla loro parte, ad onta del colore della sua pelle.

 

- Mi chiamo Carlos Obregon.

 

Parlava un buon francese, corretto e un po’ forbito, non il vernacolo inintelligibile dei negri. E Massimo aveva capito che era spagnolo ancor prima di sentirgli pronunciare il suo nome. Doveva trattarsi, in ogni caso, di una persona istruita. Chi sei e che ci fai qui? Gli chiese, anche se conosceva già la risposta. Sono venuto a controllare la tua ferita. Ma forse avresti voluto che fossero le mani di Solitude a toccarti, anche questa volta.

 

- Chi è Solitude Martin Grinville De La Fère?

 

Gli occhi dello spagnolo ammiccarono maliziosi. Ti piace? Gli chiese. Quella piace a tutti. Ma… E’ pericolosa, amico. E’ piena di veleno, come una vipera. Quando è scappata dal suo padrone, ha fatto fuori quattro uomini. Da sola. E aveva quindici anni appena.

 

- Ti ho solo chiesto di dirmi chi è Solitude Martin Grinville De La Fère.

 

La faccia di Obregon tornò seria. Anche se, in verità, sono venuto soltanto per dare un’occhiata alla tua ferita, ti parlerò di lei… E di tante altre cose. Ma preferirei non farlo in francese. Qui anche i muri hanno orecchie.

 

- Potrei parlare la tua lingua: la conosco bene.

- Ma la conoscono bene anche parecchi degli uomini di Biassou: aldilà del Morne St.Raphael era territorio spagnolo, prima che Louverture lo liberasse.

 

Lo sguardo scuro di Obregon bruciò la pelle di Massimo, mentre le sopracciglia cespugliose si aggrottavano nel dubbio se formulargli o meno la domanda. Quello era un soldato. Quando l’avevano preso nella foresta, aveva addosso l’uniforme della Marina da Guerra francese. Non era ciò che era stato lui, tanto tempo prima. Era quasi impossibile che…

 

- Maiorum sermonem loqueris?

- Maiorum sermonem loquor[10].

 

Gli disse di essere stato un prete, molti anni prima. Era stato suo padre a volerlo tale, senza chiedergli nessun parere. Quello era il suo destino, dal momento stesso in cui la madre l’aveva messo al mondo. Era stato costretto a chinare la testa e a ubbidire. Di malavoglia.

 

- Non sono stato un buon prete. Nemmeno un buon cristiano, se vogliamo vederla da questo punto di vista. Mi piaceva mangiare, bere. Mi piacevano le donne. Ero un epicureo. Ma il destino che mi era stato cucito addosso dagli altri non mi apparteneva. E tu… sei stato l’artefice del tuo destino, Massimo?

 

Il ferito si era seduto sul giaciglio, puntellandosi con i gomiti, e il lenzuolo gli era scivolato lungo il corpo nudo. Sì. Gli aveva risposto. Quel che faccio è ciò che ho sempre fatto e che ho scelto personalmente di fare. I miei genitori e mio fratello morirono nell’incendio della fattoria dove vivevamo quando avevo solo otto anni. Mi sono salvato perché in quel momento ero nel bosco a cercare fascine. E’ stata una mia vecchia zia a crescermi. O meglio, a farmi trovare tutti i giorni un piatto di minestra e un tozzo di pane sul tavolo e tutte le notti un letto asciutto su cui dormire al riparo dalle intemperie. Ma aveva sessant’anni passati e non era in grado di tenere dietro a un ragazzino.

 

- Capisco.

Già. Ma quel che non capiva era il fatto che quel rozzo soldataccio parlasse il latino con incredibile disinvoltura, meglio di lui che l’aveva studiato per anni. Il resto, era come aveva immaginato. A quattordici anni si era arruolato nella marina da guerra e poi… Poi non aveva fatto altro.

 

- Da dove vieni?

- Da un paese vicino a Ventimiglia.

 

- La chiamavano Repubblica di Genova, una volta. E adesso quel brigante di Napoleone se l’è pappata. Si sta pappando mezzo mondo, ma debbo essergli grato di aver fatto piazza pulita dell’Inquisizione in Spagna e nei suoi territori d’Oltremare. E’ uno che ha rischiato di finire arrostito sulla pubblica piazza come nemico di Dio a dirtelo. Mi ero messo con una donna meticcia e avevo avuto dei figli da lei, nonostante i voti. Ma, quel che è peggio, non credevo in niente malgrado mi avessero ordinato prete. Quel che facevo… era per ipocrisia, Massimo. E per salvare la pelle. Morire bruciati vivi è una gran brutta morte.

 

- Perché prendi ordini da Biassou?

- Io non prendo ordini da nessuno.

- Mettiamola diversamente, allora: Biassou odia i bianchi, eppure…

- Forse. Ma rispetta il coraggio e teme la magia.

- Vorresti farmi credere che sei un mago?

 

Lo spretato rise, mettendo in mostra la chiostra nera e incompleta dei denti.

- No. Sono semplicemente un dokté-feuilles[11]. Fu la mia donna a insegnarmi i segreti delle erbe. Anche quel cataplasma che hai sulla ferita e che ti aiuterà a guarire l’ho preparato io.

- Ma Biassou è convinto che tu lo sia.

- Già. E francamente mi fa comodo che lo creda. Te l’ho detto, lui rispetta il coraggio… e teme la magia. Per il resto, è più inaffidabile d’un cane malato di rabbia.

- Hai reso l’idea. Sei il suo medico, immagino.

- In questa situazione, chiunque abbia qualche conoscenza di medicina è il benvenuto. Anche Solitude conosce le erbe e i veleni. E’ lei che ti ha ricucito la ferita.

- Allora debbo intuire che questo luogo dove mi trovo è una specie… di ospedale?

- Più o meno. E’ l’unico edificio in muratura di tutto l’accampamento. Probabilmente era il casino di caccia di qualche grand blanc[12] e non si capisce come mai non l’abbiano bruciato.

 

- Avevi promesso…

- Che ti avrei parlato di lei? Tanto per iniziare, comincia a pensare che non è roba per te, quella.

- Ma neanche per te.

- Per nessuno. Neanche per Biassou. Lo sai perché si è fatta tatuare i serpenti sulle braccia? Per gridare al mondo che appartiene a Damballa. Al dio. Nessuno di questi negri oserebbe toccarla, se lei non lo volesse. E lei non vuole. Contaci. Anche se… Anche se non credi nelle superstizioni dei negri. E sei un gran bel giovanotto, Massimo. Forse potresti perfino piacerle.

 

Eh già. Pensò saettandogli un lungo sguardo. Aveva gli occhi teneri e un bellissimo corpo, massiccio e muscoloso. Il suo volto era incorniciato da una lunga capigliatura ondulata, schiarita dal sole e le guance piene sporcate da un’ombra di barba. La bocca, piccola e ben disegnata, si apriva su una chiostra di denti regolari e bianchissimi. Ma Solitude non lo avrebbe voluto, né lui né un altro. Nel cuore di Solitude c’era posto solo per i suoi demoni.

 

- Nelle vene di quella donna scorre sangue Fulah. Erano un popolo fiero, convinto che il fatto di credere nel verbo del Profeta li tenesse al riparo dal rischio di finire schiavi[13]. Almeno fintantoché il commercio dei neri non è finito nelle mani degli europei, perché allora la musica è cambiata. Anche per loro.

 

Massimo inghiottì con un groppo di saliva gli insulti che avrebbe voluto vomitargli addosso: non esiste al mondo essere umano disposto a tollerarla, la schiavitù: nero, bianco, giallo, cristiano, maomettano o pagano che egli sia.

 

- I Fulah sono schiavi ribelli e vendicativi. Come i Mandinka. Gli Eboe sono invece inclini al suicidio. Pensano, morendo, di ritornare alla loro terra. I più remissivi sono gli Arada del Dahomey e i Congo. Almeno, così si dice. Lei è mezza bianca. Suo padre era bianco.

 

Una smorfia sarcastica torse in un ghigno la bocca di Obregon. Non mi piace, pensava Massimo. Ma avrebbe avuto ancora tante cose da chiedergli. Strinse il coccio di vetro tra le dita, lo fece correre, sotto la garza allentata, sotto il cataplasma di grasso ed erbe pestate, sulla ferita già chiusa. Voleva che sanguinasse, quando l’uomo gliel’avrebbe scoperta per controllarla e rinnovare la medicazione. Diversamente, il suo segreto sarebbe venuto a galla. E non era il caso.

 

- Suo padre era bianco, dici. Che cos’ha di speciale un nero con del sangue bianco nelle vene?

- Maschio o femmina, è di solito una gran bella creatura. Ma il sangue bianco può renderlo inaffidabile. E lei è tutto questo, Massimo… Come ti ho già detto, quando è fuggita, ha ammazzato quattro uomini. Da sola. E di questi quattro uomini, uno era suo padre, l’altro suo fratello.

- Tu non hai mai ucciso, Obregon?

E a te non fa orrore chi spezza la vita di coloro che hanno nelle vene il tuo stesso sangue, Massimo? Che razza di uomo sei? E che razza di…

 

Obregon vide i graffi sulle dita dell’uomo che stringevano il coccio di vetro tagliente come un rasoio. Vide la ferita scoperta e sanguinante, e glielo domandò ancora, che razza di uomo sei, Massimo Meridio?

 

- Voglio parlare con lei. - Disse Massimo, mentre lo spretato gli ripuliva la ferita. Aveva capito tutto quanto, vedendo con i suoi occhi il sangue stagnare, i labbri chiudersi senza lasciare alcuna traccia sopra la pelle. Aveva capito da quale recesso del passato venisse quel marinaio senza istruzione che parlava il latino meglio di lui. Perché mi hai detto d’essere l’artefice del tuo destino, Massimo? Ciò che sei non l’hai deciso tu, di questo ne sono sicuro.

 

Massimo non disse nulla. Chiuse gli occhi, abbandonò sul cuscino la testa. Quell’uomo aveva scoperto il suo segreto. Far qualcuno parte dei propri segreti è lo stesso che consegnarsi prigioniero nelle sue mani, pensò. E aspettò, senza parlare, che Obregon se ne andasse.

 

REVENANT[14]

 

- Massimo?

 

Socchiuse gli occhi al suono della sua voce. Era lei, ed era venuta a riportargli i vestiti. Lavati, rammendati, perfino stirati. Tuttavia non doveva essere opera delle sue mani, quella. Aveva notato altre donne, all’accampamento: le compagne, le figlie, le madri dei combattenti. Ma lei non era ciò che erano loro. Era Solitude Martin Grinville De La Fère, che sapeva maneggiare la spada meglio di un uomo e avrebbe potuto staccare le ali ad una mosca in volo, con un colpo della sua pistola.

 

Senza scostarsi il lenzuolo di dosso, si infilò le mutande ed i calzoni. Solitude rise. Non ho mai conosciuto un uomo pudico come te, gli disse.

 

Quando si ritenne sufficientemente coperto da non offendere il pudore della donna, Massimo si alzò dal suo giaciglio e le andò vicino. Era alta quasi quanto lui e, snella com’era, lo sembrava ancora di più: gli ricordò una giovane palma. Lui si era sempre sentito paragonare a una quercia.

 

- Poco ci è mancato che il coltello di Babouin ti cacciasse fuori le budella e dopo due giorni soltanto sei in piedi di fronte a me. - Con gli occhi chiari gli percorse senza soggezione il torso nudo, soffermandosi sul ventre. Non c’era nessuna cicatrice fresca, dove avrebbe dovuto esserci, solo muscoli sodi e una pelle abbronzata coperta da una fitta peluria scolorita dal sole. - Comincio a credere che Obregon mi abbia detto la verità, a proposito di una certa faccenda sul tuo conto.

 

Un brivido gli passò sotto la pelle, a quelle parole. Obregon le aveva detto tutto quel che aveva scoperto di lui. Che non poteva morire e le sue ferite si chiudevano senza lasciare il segno. Che era un revenant. Uno tornato indietro dall’aldilà. Per sempre.

 

- Chi sei, Massimo?

 

Lo guardava dritto negli occhi. Erano dell’identico colore dei suoi, azzurri sfumati di verde, e non tradivano paura alcuna. Eppure, lui sapeva delle tenebrose superstizioni alle quali quella gente credeva. Anche di morti fatti tornare dall’aldilà e asserviti ai vivi: loro li chiamavano zombi. Chi sei tu, Solitude Martin Grinville De La Fère, avrebbe voluto controbattere lui.

 

- Uno che calca la polvere del mondo da oltre mille e seicento anni, ragazza. Dovresti aver paura di me.

Adesso le dava del tu, come a una vecchia amica, come lei aveva fatto da subito. Paura? Di te? E perché dovrei? Ho visto uomini morire ammazzati nelle maniere più bestiali che la turpitudine umana possa concepire, ho conosciuto la schiavitù, ho ucciso chi aveva il mio stesso sangue dentro le vene per riprendermi quello che mi spettava di diritto, ho sentito tutte le notti, quando vegliavo con le dita contratte sull’impugnatura del mio coltello il siffleur montagne[15] che cantava e mi diceva, attenta, la morte ti cammina vicino… Dovrei aver paura di te?

 

Lui la guardava, studiandola con occhi attenti. Era incredibilmente bella. Forse, azzardò, la femmina più bella che avesse incrociato la sua strada, in oltre mille e seicento anni che stava al mondo: pelle scura, occhi azzurri, lineamenti delicati, il naso sottile, leggermente aquilino dei suoi antenati arabi, il corpo snello e forte che avrebbe voluto prendere lì stesso, in quel preciso istante… Si vergognò dei suoi pensieri, e inghiottì il groppo di tensione che gli serrava la gola, quando lei gli mise intorno al collo il cordino con il dente di lupo e lo annodò, sfiorandogli il collo e la nuca sotto i capelli. E pensò che alle donne piacevano, i suoi capelli morbidi, folti e lunghi.

 

- Anche questo viene dalla tua prima esistenza?

 

Si era seduta sul suo giaciglio, e non gli scollava gli occhi di dosso. Chissà se avrebbe capito, pensò Massimo. Sicuramente lei non era come Obregon lo spretato, non aveva abbastanza istruzione da sapere come andavano le cose mille e seicento anni prima, in quella grande città, la capitale del più potente impero che mai fosse esistito. Sono stato soldato e schiavo, le disse.

 

- Le cicatrici che ti segnano il corpo sono il ricordo della tua prima vita.

Sì, rispose lui. Di quando, alla testa dei miei soldati, combattevo contro i nemici del mio signore e di quando, schiavo, mettevo la mia vita a repentaglio per il sollazzo di un branco di pervertiti che si divertivano a guardare due uomini ammazzarsi.

 

- Allora il mondo non è poi così cambiato, in mille e seicento anni. Anche Biassou voleva questo da te e da Babouin. E i bianchi, in certe piantagioni, si divertivano a mettere gli schiavi uno contro l’altro, come fossero stati galli, o cani. O… gladiatori.

 

No, il mondo non è cambiato, in mille e seicento anni. La guardò, e ripensò al suo primo combattimento nella grande arena di Roma. Rivide il carro da guerra dirigersi verso lui e i suoi compagni, le falci dei mozzi straziare i loro corpi, in un inferno di sangue e di urla. C’era un arciere sul carro. Una donna. Una bella donna nera che rassomigliava a Solitude. Ricordò i bagliori della corazza dorata che riproduceva impudicamente la sagoma del suo corpo, i seni alti, i capezzoli eretti… Ricordò di averla desiderata, e di essersi vergognato dei suoi pensieri. Ricordò di averle piantato la spada nel ventre fino all’elsa. Mors tua, vita mea.

 

IL CIONDOLO E LA CROCE

 

Massimo si toccò il dente di lupo che gli pendeva sul petto. Che fine hanno fatto la croce e il ciondolo di Louverture? Chiese alla donna. Mi sembra di averti detto che quelli sono miei, Massimo. Che mi appartengono. Di diritto.

 

La voce e il volto si erano induriti, mentre pronunciava quella parole con un tono che non ammetteva repliche.

 

- Una cosa che mi piacerebbe sapere è come hai fatto a prenderglieli.

 

- E’ molto semplice derubare un morto, Solitude.

 

Ai neri non è dato d’impallidire, ma se un gesto o una parola, una verità o una bugia sconvolgono i loro pensieri e le loro certezze, hanno mille altri modi per dimostrarlo. Solitude aveva visto l’inferno. Si vantava di non temere niente e di avere il pieno controllo delle sue emozioni. Eppure, Massimo vide una lacrima attraversarle lenta la guancia, per poi andare a fermarsi alla commessura delle sue labbra..

 

- Non devi pensare che fosse la verità, quella in cui ti hanno convinta a credere. Non vi aveva venduti in cambio di un mucchio d’oro e di una vita comoda e senza problemi in Francia. Quando l’ho conosciuto, marciva in una fortezza tra le montagne, consumato dall’etisia. Ai suoi carcerieri era stato proibito di rivolgergli la parola e ingiunto di risparmiargli cibo e coperte, per affrettarne la fine. Io sono penetrato nella sua prigione con l’inganno, per oltre un mese ho raccolto le sue confidenze, ho ascoltato la sua storia… Ero il terzo ufficiale a bordo della nave che l’ha portato in Francia e… e non riuscivo a perdonarmelo. Incontrarlo, parlargli, condividere il suo dolore è stato per me come esorcizzare un rimorso che mi rodeva l’anima.

 

- Io amavo quell’uomo.

Forse lo aveva amato per davvero. Senza speranza. Louverture aveva moglie e figli, e non era il genere d’uomo che vien meno alle promesse stipulate. Anche se Susanne, sua moglie, era una donna grassa, ordinaria, sciatta, più vecchia di lui di qualche anno e gli aveva portato in dote un figlio senza padre. Anche se Solitude Martin Grinville De La Fère, che gli si sarebbe data senza chiedere niente in cambio, poteva essergli figlia e sembrava una dea.

 

- Il suo ultimo pensiero è stato per te. Il nome che stava tentando d’incidere sulla mezzaluna di madreperla quando la morte l’ha colto è il tuo… Solitude.

 

Grazie, gli disse lei asciugandosi gli occhi col dorso della mano e sforzando un sorriso. Non fosse stato per te, anch’io mi sarei tenuta dentro la convinzione che fosse un traditore della sua gente, uno come tanti. L’oro corrompe, Massimo. L’oro fa marcire le anime degli uomini. Forse non sai che… che i nostri capi hanno venduto certi di noi schiavi agli spagnoli. Biassou dice che erano cattivi soggetti e bisognava liberarsi di loro. E che se questo andava fatto, tanto valeva guadagnarci qualcosa che poteva essere speso per la causa. Ma Toussaint Louverture non avrebbe mai fatto niente del genere. Era un galantuomo, lui.

 

Già. Un galantuomo. Massimo chiuse gli occhi, rivide la sua faccia scavata dal dolore, dalla malattia e dalla disillusione. E ricordò le sue parole: “Sarei stato l’uomo più infelice della terra, se non vi avessi conosciuto.”

 

LA MARQUISE[16]

 

Quella mattina, mentre guardava fuori dalla finestra, l’aveva vista esercitarsi con la spada. Si batteva bene, e sopperiva alla mancanza di tecnica con l’agilità di una pantera. I neri sono tutti molto scattanti, si era ritrovato a pensare Massimo. Perfino quelli corpulenti o in età avanzata. Gliel’avrebbe detto, quando l’avesse rivista. Sai, Solitude, forse non sarei tanto tranquillo se dovessi incrociare la lama con te. A prescindere dalle mie grosse braccia, e da quello che ero e che sono.

 

Invece le aveva domandato se credeva nella magia. E si era meravigliato quando l’aveva vista scuotere la testa in segno di diniego. No, non ci credo. Però mi fa comodo per mettere paura agli altri e costringerli a girare alla larga da me. Sono una donna, e sono più piccola e più debole della maggior parte degli uomini. Ma quello che non può la forza lo può l’astuzia, di solito. Non è così, Massimo? Sicuro, puoi ben dirlo, Solitude.

 

Come qualche giorno prima, pensò Solitude, quando era stato appena catturato e Biassou l’aveva messo contro Babouin. Lui a mani nude, quell’altro armato con due lunghi e affilati coutelas[17] che di solito venivano usati per il taglio della canna. Babouin aveva già ammazzato o storpiato decine di uomini con quei coltelli, ma lui era riuscito a batterlo e a umiliarlo.

 

- Ho ancora davanti agli occhi il modo in cui ti sei battuto. Voglio conoscere il tuo segreto, Massimo. Voglio farlo mio per diventare invincibile. Come te.

- Oh, ma io non sono affatto invincibile… Anzi, direi che la peggior figura di tutta la mia lunga esistenza è proprio davanti a te che l’ho fatta.

L’uomo rise, ricordandosi il modo in cui si era lasciato catturare dalla donna e dal tipo corpulento. Non era stato troppo scaltro, quella volta, pensò, ma l’essersi reso conto solo all’ultimo momento di aver a che fare con una donna l’aveva spiazzato lasciando il tempo a lei di colpirlo con una pedata nelle coglie che l’aveva tramortito. Era un osso duro, Solitude. Non c’era da stupirsi se perfino il sanguinario Biassou la temeva.

 

- No, Massimo. Era il modo in cui muovevi le mani e i piedi per colpirlo, il modo in cui hai trasformato tutto il tuo corpo in un’arma… Il modo con cui guardavi il tuo avversario, facendogli capire che non aveva speranze, malgrado quei coltelli che Biassou gli aveva messo in mano. Era come… Come se non vedessi un uomo, ma Ogun Feraille, il dio della guerra.

 

- Hai un notevole spirito di osservazione…

- …per essere una donna?

- Non intendevo offenderti.

- Ma non mi sono offesa. Conosco abbastanza gli uomini da sapere che hanno la lingua più veloce del cervello.

- Adesso potrei essere io a ritenermi offeso dalle tue parole.

- Piantala, e parlami del tuo segreto.

- A un patto.

- Parlami del tuo segreto, ho detto.

 

- Risale alla mia prima vita. Ero appena finito schiavo ed ero stato comprato da un individuo che organizzava combattimenti di gladiatori in una scalcagnata arena africana a margini meridionali dell’impero. Un ex gladiatore anche lui, mezzo greco e mezzo cartaginese… Elio Proximo. Come molti ex atleti, con l’età si era appesantito e le articolazioni gli facevano male, quando cambiava il tempo. Con i primi soldi che gli avevo fatto guadagnare, s’era comprato uno schiavo esperto di medicina per curargli i dolori. Un ometto anziano con la pelle giallastra e gli occhi a fessura. Veniva da molto lontano: dal Paese della Seta. Dalla Cina. Non gli avresti dato il valore di mezzo asse bucato, ed era anche molto vecchio, ma credo di non aver mai conosciuto un uomo più sapiente. Si chiamava Sung. E’ stato lui a insegnarmi a prevedere le mosse del mio avversario con una semplice occhiata, a trasformare il mio corpo in un’arma mortale con la sola forza della volontà. Non mi sarebbe neppure stato necessario essere grosso e forte come sono, per riuscirci, mi aveva garantito. Ed era proprio così.

- Insegnami.

- A una condizione. Che tu mi dica chi sei realmente, Solitude Martin Grinville De La Fère.

 

- Sono l’ultima della mia razza, Massimo. L’ultima. Ed è per questo che il titolo di marchesa spetta a me di diritto, anche se sono nera. Anche se sono stata schiava.

 

IL RACCONTO DI SOLITUDE (Parte Prima)

 

Solitude si sedette al suo fianco, le gambe incrociate, le mani sulle ginocchia. Di tanto in tanto alzava gli occhi da terra per piantarli nei suoi. Occhi che avevano il colore del mare e i bagliori dell’acciaio. Parlava un buon francese, non il vernacolo inintelligibile degli schiavi. E aveva dimostrato di conoscere i fatti e i personaggi di cui Massimo le diceva quando le parlava della sua prima vita. Era sicuro che quella donna avesse un’istruzione che andava ben aldilà del semplice saper leggere e scrivere.

 

- Sono l’ultima della mia stirpe maledetta. Dopo di me non ci sarà un altro marchese De La Fère. E il mondo non piangerà per questo.

 

Aveva gambe e braccia esili, ma sembrava temprata nell’acciaio. Come la donna nera e bella che, dall’alto del carro da guerra, saettava sui gladiatori i suoi dardi dalla punta ricurva come un amo, che avrebbero aperto orribili ferite nei corpi di coloro che avessero cercato di strapparseli via dalle carni. Come colei che per un attimo aveva desiderato e in un attimo ucciso. Augurandosi che non facesse in tempo ad accorgersene. E a soffrire.

 

- Il titolo è molto antico, risale ai tempi di Re Luigi Il Santo e della Settima Crociata. Ma quando mio nonno venne qui vent’anni prima che in Francia scoppiasse la rivoluzione, aveva una cattiva fama e neanche il becco di un quattrino, dopo che s’era bevuto, giocato e scialacquato con le puttane l’eredità di suo padre e la dote di sua moglie. Questo paese offriva… molte opportunità a chi era intraprendente e capace… E abbastanza duro da chiudere gli occhi e turarsi le orecchie di fronte a tutto.

La proprietà era meno grande di altre. Due campi coltivati a indaco, per gettare fumo negli occhi a chi sa che i beccamorti, i ruffiani e i raccoglitori di letame fanno schifo ma guai se non ci fossero. Nel resto del latifondo, coltivava il granturco e i fagioli, allevava i porci, le vacche e le galline che servivano per dar da mangiare alla sua famiglia, ai sorveglianti… e agli schiavi. Si era messo a trafficare e addirittura ad allevare schiavi come se fossero cavalli e in pochi anni era diventato uno tra gli uomini più ricchi di Haiti. Specialmente dopo aver capito ciò che i clienti volevano: i mulatti, quelli dalla pelle chiara, che parlavano il francese e non era necessario insegnargli tutto quanto, come ai bossales[18] che venivano dall’Africa e erano cresciuti in mezzo alla foresta. E non aveva mai esitato a mettere a disposizione il suo seme, per generare figli chiari che poi avrebbe venduto nelle isole e sul Continente.

Aveva avuto quattro figli, figli legittimi intendo dire, ma tre se li era portati via la febbre gialla. Il quarto, il sopravvissuto, quello a cui lasciò tutto, era mio padre. Il Marchese Guillaume Martin Grinville De La Fére. Era bello, mio padre: alto, biondo, robusto. Un po’ ti somigliava. Un diavolo con la spada e con le donne. Quando sua moglie morì dando alla luce il loro primo e unico figlio, non volle risposarsi. Non aveva mai amato quella donna che aveva sposato unicamente per i soldi della sua dote, e preferì restare solo, nonostante non avesse che ventotto anni. Tanto, se voleva metterlo in corpo a qualcuna c’erano le negre. C’era mia madre.

 

Si chiamava Youma, ed era una Fulah della Mauritania. Aveva quattordici anni quando la portarono via, ed era talmente bella che il comandante della nave su cui era stata imbarcata aveva proibito ai marinai di toccarla. Chi avesse osato farlo, sarebbe stato scaraventato ai pescicani. Lui sapeva che la verginità di una schiava destinata al sollazzo dei bianchi e non al lavoro nelle piantagioni vale denaro sonante. Quando mio padre se la prese era intatta, le vecchie streghe della sua tribù non avevano fatto neppure in tempo a storpiarla[19] prima che i bianchi la portassero via.

 

Le vendeva tutti i figli che concepirono e quando le vendette l’ultimo lei impazzì e si uccise gettandosi in un pozzo. Glieli tolse tutti, meno me, e questo non sono mai riuscita a spiegarmelo. Forse era stato suo figlio, a chiedergli di non farlo. Benoit, il mio fratellastro. L’erede della casata e dei beni. Ero diventata la sua compagna di giochi, anche se ero donna, nera e di cinque anni più giovane. Alloggiavo nella casa padronale, mi vestivano come una piccola dama, assistevo con lui alle lezioni del precettore… E imparavo. Ero svelta a imparare. Dai bianchi, dai neri, perfino dagli animali di casa. A quattordici anni, cavalcavo, sparavo e tiravo di scherma meglio di parecchi uomini. E non avevo paura di niente.

 

Alla piantagione c’era una donna che si occupava di me. Nina. Una di quelle che noi chiamiamo dokté feuilles. E’stata lei a insegnarmi i segreti delle erbe e dei veleni, a far nascere i bambini, a rimettere a posto le ossa rotte e a cucire le ferite. Era la madre di Chacha, quel tipo grande e grosso che mi segue sempre come un’ombra. Chacha era strano. Dicevano che conoscesse il linguaggio degli animali e parecchie delle cose che so le ho imparate da lui, anche se tutti, ai quartieri, affermavano che era mezzo scimunito. Ma il padrone non lo vendeva, perché era forte come un bue, l’uomo più forte che abbia mai conosciuto. Una volta, da solo, ha disincagliato un grosso carro che si era impantanato nel fango. Un’altra, ha ridotto alla ragione un toro infuriato afferrandolo per le corna e facendolo crollare a terra.

 

Nina mi diceva che la magia mi avrebbe protetta. Nessun uomo oserebbe toccare una donna che appartiene al dio, se lei non vuole. Damballa, il dio-serpente. Io non ho mai creduto nella magia, ma sapevo che Nina aveva ragione. Nessun uomo mi avrebbe toccata. Nessun nero.

 

 

IL RACCONTO DI SOLITUDE (Parte Seconda)

 

Solitude si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro nella piccola stanza. Taceva, ed evitava di guardarlo in faccia. Non sarebbe stato facile, si disse, raccontargli quanto era stato duro il risveglio dai sogni, e poi perché avrebbe dovuto farlo?

 

- Solitude…

 

Lui le aveva detto di essere tornato indietro dal mondo dei morti mille e seicento anni prima. Le aveva detto di quando era stato capo di uomini armati, poi schiavo e gladiatore. Era stato elusivo, quindi niente lo autorizzava ad essere curioso. Eppure…

 

- Avevo quindici anni quando Benoit De La Fère, che fino al giorno prima mi aveva chiamata sorellina, che mi aveva insegnato ad andare a cavallo e a maneggiare la spada, che passava ore e ore a chiacchierare con me, tentò di mettermi le mani addosso. Lo colpii con uno schiaffo in faccia, che lui mi restituì. Quando mi difesi cercando di ricordargli che io e lui avevamo lo stesso sangue nelle vene, mi disse che non ne era poi tanto sicuro, visto che le negre sono delle puttane che vanno con tutti, e che quello schiaffo glielo avrei pagato con gli interessi.

 

Una piccola smorfia piegò verso il basso gli angoli della bocca di Massimo Meridio. E’ così che va il mondo, Solitude. Le disse. In mille e seicento anni, non è cambiato niente.

 

- Sapevo che sarei scappata. E lo sapevano anche loro. Per i bianchi di Haiti erano cominciati i tempi difficili, e quello avrebbe potuto aiutarmi. Maneggiavo la spada e la pistola, andavo a cavallo, i cani della maréchaussée[20], i mastini e i limieri che Guillaume De La Fère usava per dare la caccia agli schiavi fuggiaschi mangiavano il cibo dalle mie mani. Non avevo niente da temere. Almeno, era così che credevo.

 

- Obregon mi ha detto che quando sei scappata hai fatto fuori quattro uomini. Mi ha raccontato tutto quanto.

 

Solitude gli indirizzò un breve sorriso a labbra chiuse, prima di assentire. E a lui tornarono alla mente le parole dello spretato.

 

“Aveva rubato un machete e nascosto un lungo pugnale sotto la gonna. Sapeva che, all’occorrenza, li avrebbe usati senza esitare. Per uccidere. O per darsi la morte, visto che non aveva nessuna intenzione di cadere viva nelle mani di Guillaume De La Fère. Nulla avrebbe mai cancellato dalla sua mente le urla degli schiavi fuggiaschi seviziati dopo la loro cattura. Appena pochi giorni prima, a uno di loro erano stati recisi i tendini di un calcagno e il suo complice, che era recidivo, era morto sotto i colpi della sferza. Aveva portato via dalla stalla il vecchio ronzino che tirava la carretta quando si andava in città a far provviste: conosceva le carezze e i gesti con cui è possibile blandire gli animali… E conosceva anche le parole con cui il Marchese comandava l’attacco ai suoi mastini addestrati a saltare alla gola e a uccidere. Due dei suoi inseguitori furono sbranati dai loro stessi cani. Il terzo fu trascinato via dal suo cavallo imbizzarrito, quando cadde e gli rimase il piede preso nella staffa. E il quarto…”

 

- Chi era il quarto uomo, Solitude? E che ne è stato di lui?

- Perché me lo chiedi, visto che lo sai? Come saprai che sono stata io a far imbizzarrire il cavallo di mio padre… altrettanto sai che quello era Benoit. Mio fratello. E sai anche com’è morto.

- Voglio sentirlo da te.

 

Solitude gli voltò le spalle.

- E tu, quanti ne hai fatti fuori, quando sei scappato, prima che gli uomini dell’usurpatore ti giustiziassero? Quanti ne hai uccisi per compiacere il tuo pubblico e il tuo padrone? Uomini che conoscevi, con i quali hai diviso la gloria, la paura, la rabbia e il dolore… con i quali hai mangiato, bevuto, parlato… Obregon mi ha detto che eri un grande generale, prima di diventare schiavo. Mi ha detto che le tue disgrazie sono cominciate quando il tuo signore è morto ammazzato da qualcuno che voleva prendere il suo posto e al quale hai negato il giuramento di fedeltà. Mi ha detto che tua moglie e tuo figlio sono morti per questo… E che ancora non te lo perdoni. Tu non eri con loro quando li hanno sterminati. E io non ero con loro quando… quando…

 

Quando il tuo gesto di ribellione è stato pagato da coloro a cui volevi bene, Solitude? Quando ti sei pentita di non averlo compiaciuto, il giovane padrone che fino alla sera prima ti aveva chiamata sorellina e di punto in bianco s’era messo a trattarti come l’ultima delle puttane?

 

- A me sarebbe bastato afferrare una mano bagnata di sangue, baciarla… E avrei avuto una vita normale. Forse avrei perso il rispetto di me stesso, ma sarei invecchiato accanto a mia moglie, avrei visto crescere i figli dei miei figli. Invece…

 

Solitude aveva ripreso a misurare a lunghi passi nervosi la piccola stanza, come una lupa prigioniera. Gli disse che avevano preso Chacha e sua madre, prima di andare a cercarla. Che li avevano battuti per costringerli a parlare. Ma dalle loro bocche erano uscite soltanto urla di dolore, poi lamenti flebili, e dopo ancora rantoli d’agonia. Alla cinquantesima sferzata, Nina era crollata morta. Ma suo figlio era forte, aveva la pelle dura…

 

- E a me sarebbe bastato lasciarmi prendere come una puttana da uno che aveva dentro le vene il mio stesso sangue perché… Lo sapevi, tu, che Chacha non è un uomo come tutti gli altri? Che per fargli dire quello che non avrebbe saputo o potuto, e nemmeno voluto, mio padre lo aveva fatto castrare, prima di darmi la caccia con i cani? Lo sapevi che il corpo di Nina è stato bruciato e che l’unica cosa che resta di lei è una macchia di sangue nel cortile della casa grande? E’ stato Benoit a dirmelo, pochi minuti prima che lo colpissi. Forse né lui né mio padre si aspettavano di morire per mano di una ragazza di quindici anni.

 

La morte ha gli occhi biechi e il viso truce. Ha il colore delle tenebre e il puzzo del sangue. Lui l’aveva guardata in faccia tante volte, troppe per pensare di non riconoscerla, qualsiasi maschera avesse scelto per travestirsi. Può essere pietosa, quando porta via con la vita anche la sofferenza e il disonore, ma non è un fiore, una farfalla, la fiamma di una candela che danza con grazia nel vento. Massimo Meridio allargò le braccia, la strinse a sé. Almeno, a te restano le lacrime, le disse asciugandole le guance con le dita callose.

 

LA PROMESSA

 

Adesso non era come qualche giorno prima. Massimo non gemeva, ferito, nudo e indifeso, senza che i suoi occhi vedessero chi lo stava toccando e gli aveva ricucito la ferita, prima di sapere che a quell’uomo il destino avrebbe negato la morte fino alla fine dei secoli.

Era bello, si ritrovò a pensare la donna, lo sguardo dolce, e come affamato d’amore, la pelle color miele piacevolmente tiepida, sotto la camicia di lino sbottonata. Tiepida, e coperta da una sottile peluria chiara. La stringeva a sé con braccia possenti come quelle di un dio invincibile, e il respiro convulso di lei si perdeva nella seta dei suoi capelli. Prima ancora che lo facesse, Solitude sapeva che l’avrebbe baciata. Gli uomini sono tutti uguali, pensò. E lei non gli avrebbe opposto resistenza. Era così forte… Ma non solo. La sua bocca, piccola e ben disegnata, era soffice, anche se i peli che la incorniciavano erano ispidi, e graffiavano. Era eccitante immaginare la carezza bruciante di quelle labbra rosee e sinuose in ogni recesso del suo corpo, anche in quelli più segreti, dove nessuno l’aveva mai toccata. Immaginare. Perché in realtà non gli avrebbe permesso niente.

 

- Lasciami stare. Io…

 

Lo respinse, dibattendosi tra le sue braccia, premendogli le mani contro il petto. Io sono di un altro, e intendo rimanergli fedele. Per sempre.

 

Quasi urlò, quando lui le afferrò entrambi i polsi con una mano sola, mentre con l’altra le prendeva il mento e la costringeva a guardarlo.

 

- Intendi rimanere fedele… a un morto?

 

Non si domandò come facesse a sapere di lei e di Toussaint Louverture. Forse sapeva anche che lui l’aveva respinta, quando Solitude aveva cercato di rivelargli il suo amore. Con gentilezza, ma con decisione. Ho moglie e figli, le aveva detto. Tu non sei che una bambina, e confondi l’amore con la gratitudine.

 

- Sei vissuta al suo fianco per alcuni anni, io per poco più di un mese, ma credo di averlo conosciuto abbastanza da poterlo giudicare. Beh, ho avuto da subito l’impressione di un uomo retto, fieramente leale… Di un uomo molto severo con se stesso. Spietato, oserei dire. So che non beveva alcolici e non mangiava carne, che si concedeva solo poche ore di riposo per notte e che era un lavoratore instancabile. Gli uomini della sua specie non tradiscono, né per tornaconto… né per amore.

 

- Lo sai bene… Perché sei così anche tu?

- Lo ero. Nell’altra vita. Ma l’amore e l’odio non durano oltre la morte. Ed è duro mantener fede a certi principi per mille e seicento anni.

- E’ stata una donna a riportarti indietro dall’aldilà… Una donna innamorata.

 

Lui annuì, prima di chiederle, e tu, sei mai stata innamorata di qualcuno, anche se già conosceva la risposta. Sì: di un uomo che mi aveva accolta presso di sé salvandomi quando ero una fuggiasca con quattro morti sulla coscienza, di un uomo che aveva messo la sua vita in pericolo per liberare il mio amico Chacha, di un uomo che mi ha insegnato a credere in certi valori… Anche se lui non mi amava. Non avrebbe potuto. Aveva moglie, figli e cinquant’anni suonati. Ricordo che, un giorno, gli presi la mano fra le mie e gliela carezzai a lungo. Soffriva di artrite, quando il tempo cambiava le ossa gli facevano male, ma lui stringeva i denti e non si lamentava. Mai. Gliela tenni stretta a lungo fra le mie, poi me la posai sul seno. Lui la tolse via subito, come se avesse toccato il fuoco. Non c’è stato un momento soltanto in cui ho creduto che potesse essere un traditore della causa e della sua gente. Nemmeno prima che tu mi raccontassi tutto quanto.

 

- Solitude, adesso lui… è in pace.

 

Ma noi no, pensò la donna. Ogni giorno, l’alba avrebbe potuto far comparire dall’altro versante delle colline i francesi con i cani feroci e i fucili tirati a lucido. E non c’era più un uomo come Louverture a guidare la lotta di liberazione: c’erano capibanda avidi, scaltri e violenti, schiavi dei loro vizi e spesso anche apertamente rivali tra di loro. Fameliche canaglie capaci di vendere i loro stessi compagni di lotta. Biassou l’aveva fatto. Lui rispetta il coraggio e teme la magia, le aveva detto Louverture poco prima di lasciare Haiti per andare incontro al suo destino. Tienilo d’occhio, Solitude. E se… se dovessi accorgerti che ha tradito gli ideali in cui crediamo, lascia che sia il tuo cuore a consigliarti come agire.

 

Gli ideali… Quali ideali? Allevata in mezzo agli agi come una donna libera e ricca, aveva sempre chiuso gli occhi di fronte alla realtà, almeno finché questa non le era rovinata addosso all’improvviso con la violenza devastante di una frana. E quando era scappata, quando aveva liquidato quattro uomini, lo aveva fatto per se stessa, non per gli altri. Certo, Nina si era lasciata uccidere per coprire la sua fuga, Chacha era finito storpiato… Ma la donna era vecchia e malata, l’uomo solo un povero idiota coi muscoli grossi e il cervello di un bambino di otto anni. Lo avrei fatto, io, al loro posto? Si era domandata tante volte quando, la notte, non riusciva a prender sonno. E le sue domande non avevano ancora trovato una risposta plausibile.

 

Scosse la testa, ingoiò le lacrime. Non aveva mai fatto l’amore con un uomo, si ritrovò a pensare, e aveva quasi venticinque anni. Colui che la teneva tra le braccia non l’avrebbe respinta com’era capitato con Toussaint Louverture. Perché anche Massimo Meridio stava morendo dalla voglia. Perché lui aveva trovato il coraggio di reciderlo già da molto tempo, il legame che lo teneva unito ad una che con ogni probabilità non era più nemmeno ossa.

 

ABBANDONO

 

- Anche se non c’è più, lui sarà sempre con te, Solitude.

Adesso si era messo a parlare come un prete. A dirle, per consolarla, cose che non erano vere, e lei questo lo sapeva, perché anche se con la ragione ti sforzi di farlo, l’oblio alla fine travolge tutto quanto, e chi ti era caro è come se non sia mai esistito.

Le parlava così, e si vedeva che avrebbe voluto fare dell’altro, per consolarla, forse, o semplicemente per dar sfogo ai suoi istinti in un corpo di donna. Nel corpo di una donna che tanti avevano voluto, e nessuno avuto.

 

Gli prese la mano. Era grande, rozza, coperta di graffi e di calli, con le unghie corte e smangiate. La mano di un uomo giovane e forte. Di un contadino. La mano che aveva accarezzato teneramente le spighe che crescevano nei suoi campi, un mare di tempo prima, in un paese e in un tempo tanto lontani che riusciva impossibile immaginarli. La mano che aveva carezzato il mantello del suo cavallo, la pelliccia del suo cane, la fronte gelida del suo vecchio signore morto… La mano che aveva scavato la fossa a sua moglie e al suo bambino, quando li aveva trovati dopo una cavalcata estenuante, ed era troppo tardi.

 

Quella mano aveva sfiorato il corpo di colei che aveva amato, e dato piacere a tante donne… Alla principessa, colei che aveva chiamato la sua anima indietro dall’aldilà, e poi… Il tempo per lui si era fermato. Doveva avere poco più di trent’anni quando era stato ucciso: li avrebbe avuti per sempre. Il privilegio della vita senza fine e della giovinezza eterna erano anche la maledizione della sua eterna solitudine.

 

Solitude guidò la mano di Massimo lungo la sua guancia, lasciò che le dita le accarezzassero le labbra, che le entrassero nella bocca, sfiorandola piano, e gliele succhiò, come avrebbe fatto un agnello neonato con le dita del pastore. Rabbrividì, quando quelle dita bagnate dalla sua stessa saliva le sfiorarono il collo. Poi guidò la mano di lui a posarsi sul seno sinistro. Come aveva fatto con Louverture, alcuni anni prima.

 

Sentì il palmo, quindi i polpastrelli premere, solleticare, stuzzicare la punta sporgente del seno, sotto il cotone della camicia. Gemette per il piacere e l’attesa. Gemette d’eccitazione al pensiero di quello che lui le avrebbe fatto, dopo. Il capezzolo era teso e duro da farle quasi male. Non si sarebbe accontentato di quello, l’avrebbe succhiata, leccata e morsa… Nella promiscuità in mezzo alla quale viveva, le era capitato di guardare un uomo e una donna darsi reciproco piacere. Le era capitato di domandarsi quando sarebbe venuto il suo momento.

 

Lui la baciò. Era la prima volta che la lingua di un uomo si insinuava dentro la sua bocca, esplorandola e stuzzicandola, quasi una premessa di quel che sarebbe accaduto dopo.

 

Non so se succede così anche a un uomo, si ritrovò a pensare mentre le labbra di lui le correvano, umide e ingorde, lungo il collo e sulla delicata sporgenza della clavicola e mentre le mani, frenetiche, scostavano i lembi della camicia dai suoi seni. Il suo mondo era circoscritto alla fame, all’urgenza di quel desiderio implacabile che le schiantava le forze, riducendola debole e passiva come un gattino neonato. Avrebbero potuto farle qualsiasi cosa, pensò in quel momento. Anche ucciderla, e lei non avrebbe reagito. Ma forse quel che valeva per lei non valeva per lui. Aveva una bella pelle, pensò Solitude accarezzandolo e baciandolo. Le piaceva la sensazione della morbida peluria che gli copriva il petto contro le labbra. La piacevano le cicatrici che aveva sul torace, sul collo, sulla schiena e sulle cosce. Erano un segno tangibile del coraggio con cui aveva affrontato i pericoli, quando ancora poteva morire.

 

- Louverture era un pazzo.Adesso lo so. Solo un pazzo avrebbe potuto rifiutarti… Solitude. - disse Massimo affondando la testa tra i seni della donna, strofinando le labbra morbide e i peli ispidi della barba contro i suoi capezzoli orgogliosamente eretti. Sei bellissima, le disse leccando, succhiando, mordendo, divorando, come se lei fosse stata pane e lui un uomo che moriva dalla fame. Mi piace il tuo buon sapore confortante di femmina. E bellissima lo era davvero, con quel suo statuario corpo africano che aveva il colore e la lucentezza del legno di ciliegio levigato. Aveva mammelle, alte e sode, sorprendentemente grandi, ampie areole scure e quei capezzoli duri e sporgenti che avrebbero appagato la fame dei suoi figli, quando ne avrebbe avuti… e adesso stavano appagando la sua lussuria.

 

La mano calda e ruvida di Massimo le percorse la gamba, dalla caviglia alla sommità delle cosce. Lei gemette quando la sentì sfiorare il rilievo leggero del monte di Venere, insinuarsi ad accarezzarle il sesso, la cui fenditura s’intravedeva in trasparenza, tra il pelo ricciuto, non troppo folto. Era umida e calda. Era pronta.

 

Solitude era come lui se la sarebbe aspettata: calda e sensuale, il varco umido e accogliente in cui annegare tutte le sue malinconie, come gli accadeva da mille e seicento anni a quella parte. Sospirò, pensando agli infiniti inganni della sua vita senza fine, al compiacimento con cui lei gli aveva accarezzato la coscia e guidato il pene dentro di sé. Come avrebbe osato pensare che era vergine, quando spinse forte, e la vide stringere i denti per non urlare il suo dolore?

 

- Perdonami, Solitude.

- Che cosa avresti da farti perdonare? Lo sapevo che sarebbe andata così, mi era già stato detto.

 

Anche non sarà dolore soltanto. Sarà piacere che ti si scioglierà tra le gambe denso e bollente, sarà… Lui aveva abbassato la testa, e con la lingua lambiva via il sangue e gli umori di lei misti al suo sperma. Sai, gli aveva detto lei quando, appagati, giacevano l’uno tra le braccia dell’altra, mi piacerebbe un figlio tuo… Massimo aveva trattenuto il respiro, sentendo la carezza leggera delle sue dita e delle sue labbra sul petto, sul ventre, sul sesso svuotato del suo turgore, della sua energia e del suo seme. Non osò dirle nulla, si augurò soltanto che Obregon le avesse detto tutto quello che sapeva, su coloro che tornavano indietro dall’aldilà.. Che le avesse detto che non potevano mettere al mondo figli, perché era stato loro misericordiosamente negato il dolore di sopravvivere a chi avevano generato.

 

 

COUP POUDRE’[21]

 

Li aveva visti uscire dall’acqua, madidi e nudi, e non doveva essere la prima volta, quella. Si sentì invadere dal languore, e la mano corse alla patta dei calzoni. Il prigioniero, il bianco… il revenant era arrivato dove gli altri avevano osato soltanto sognare. Anche Biassou.

 

Però era bello, pensò Obregon, con quel grande corpo muscoloso che sembrava scolpito nel marmo. Era degno di lei. Massimo Decimo Meridio, generale delle legioni sotto Marco Aurelio, schiavo e gladiatore sotto il suo figlio e successore, il turpe, sanguinario Lucio Aurelio Antonino Commodo, folle e parricida.

 

“Solitude… Devo parlarti.”

 

La donna sentì la mano dello spretato artigliarle il braccio, stringere forte. Che cosa vuoi? Gli chiese. In realtà avrebbe potuto farne a meno, lo sapeva. Lui non è uno di noi. Quando l’avete trovato nella foresta, aveva addosso la divisa del nemico. Solitude, lui è…

 

- Lasciamo stare. E smettila di spiarmi.

- Solitude, ti rendi conto che se Biassou sapesse…

- Biassou farebbe bene a vergognarsi per com’è ridotto. Eppoi ho intenzione di chiedergli conto di quel che sta facendo.

- Non hai le prove, Solitude… E prima o poi questi non saranno più sufficienti a proteggerti .

 

Obregon additò i serpenti tatuati sul polso sinistro della donna. Biassou, pensò, era astuto e anche coraggioso, ma la superstizione lo rendeva vigliacco. Quella meticcia dai gelidi occhi chiari apparteneva a Damballa, il dio serpente. Era stato Toussaint Louverture a mettergliela alle calcagna, visto che non si era mai fidato di lui. Tutti all’accampamento sapevano che Biassou e il suo tirapiedi, il capitano Riau, fabbricavano zombi. Tutti sapevano. E tacevano, per paura di far quella stessa fine, o anche peggio.

 

Forse era giunto il momento di agire. Costasse quel che costasse. Lei non aveva mai creduto in quelle superstizioni dietro le quali si era nascosta per proteggersi, e sapeva come andavano in realtà le cose, ma non era giusto che simili terrori divorassero la vita agli altri. Ogni tanto, all’accampamento, qualcuno moriva all’improvviso per una malattia grave, fulminante e misteriosa. Si trattava perlopiù di uomini giovani e forti il cui comportamento, per qualsiasi motivo, era dispiaciuto al Comandante. Morivano, e venivano sotterrati in gran segreto, dopo che il sole era calato, in uno spiazzo abbastanza lontano, dove nessuno s’azzardava a mettere piede. La maggior parte degli haitiani erano atterriti dalla morte e dai cimiteri.

 

Nella baia poco lontana da dove lei e il suo amante bianco consumavano i loro incontri segreti, qualcuno asseriva di aver visto una grande nave ancorata al largo, e una barca a remi avvicinarsi alla spiaggia e caricare un piccolo gruppo di uomini in catene. Uomini dagli sguardi spenti, dai movimenti lenti e stanchi. Morti viventi. Zombi. I gusci vuoti di coloro che, pochi giorni prima, un repentino attacco di febbre perniciosa aveva tolto dal mondo nel fiore dell’età, della forza e della salute. I testimoni involontari di quella mostruosità avevano taciuto, per paura di fare l’identica fine dei poveretti… Biassou fabbricava gli zombi, quando voleva liberarsi di coloro dei quali non si fidava più. E dalle sue malefatte, oltre al vantaggio di rabbonire qualche spirito ribelle, traeva anche un discreto tornaconto, vendendo gli infelici a certi contrabbandieri che li deportavano nelle piantagioni di cotone e tabacco del Continente.

 

Tutti sanno… E tutti tacciono. Aveva pensato mordendosi le labbra. Sanno, sì. A modo loro. Erano in pochi, in realtà, a conoscere il segreto di quell’atroce imbroglio. Lei, Obregon… Oltre a quei criminali di Biassou e dei suoi tirapiedi. Il maleficio, denominato coup poudré veniva perpetrato soffiando in faccia alla vittima un veleno che si ricavava dal pesce palla. Caduto in catalessi e apparentemente morto, il poveretto era seppellito in tutta fretta, come consigliavano il clima torrido e il pericolo di epidemie. Ma la mattina successiva la fossa era violata e vuota. E il cadavere vivente, perché le stesse vittime del maleficio erano convinte di essere divenute tali, rinchiuso nella fetida stiva di una vecchia nave, veniva condotto a quel destino da cui credeva di essersi liberato: la schiavitù.

 

- Forse ti riesce difficile crederlo, Massimo.

- Ho vissuto mille vite e ne ho viste di tutti i colori, Solitude. Non mi è difficile credere anche in questo… E in altro, per quanto strano possa sembrare. La tirannia favorisce l’ignoranza e questi orrori è proprio nell’ignoranza che prosperano.

- Louverture…

- C’è un altro mondo, Solitude. Un mondo della cui esistenza François Dominique Toussaint Louverture era pienamente convinto.

- Sono contenta che lui viva ancora. Ma mi dispiace che veda, senta e sappia a che cosa siamo ridotti.

- Lui… Lui ha restituito la dignità alla sua gente. E io… noi… non possiamo…

 

Solitude si districò dal suo abbraccio, si avviò a lunghi passi decisi verso la porta. Massimo la chiamò, avrebbe voluto trattenerla, raccomandarle ancora una volta di non buttare via la sua vita. Chiuse gli occhi. E rivide se stesso nelle segrete del Colosseo, seminudo, ferito, incatenato, battuto ma non vinto, muto e immobile di fronte al tiranno.

 

- Chacha! Sellami il cavallo!

 

- Non verrà. E’ morto stamattina.

Le rispose una vecchia dagli occhi cisposi e dall’aria afflitta. Anche lui sarebbe stato seppellito al tramonto, nello spiazzo non lontano dalla baia. Anche la sua tomba sarebbe apparsa, all’alba del giorno dopo, violata e vuota. Anche lui sarebbe finito a raccogliere il cotone in qualche piantagione sul Continente finché la morte, quella vera, non fosse giunta a liberarlo.

 

 

 

 

 

LA RESA DEI CONTI

 

Chacha e sua madre avevano sangue Eboe dentro le vene. I bianchi non acquistavano volentieri gli schiavi di quella razza, malgrado fossero, in genere, forti sani e docili. Gli Eboe avevano una curiosa predisposizione al suicidio dovuta alle loro strane credenze. Erano convinti, dopo la morte, di poter tornare in Africa. E i coloni mozzavano spesso il naso, le orecchie o le mani dei suicidi per evitare che altri ne seguissero l’esempio: nessuno schiavo, infatti, sarebbe mai potuto risorgere con quei segni di disonore. Il cadavere di Nina era stato bruciato, e Chacha… Non sarebbe ritornato nel luogo da cui era venuto, adesso che non era più un uomo.

 

- Biassou?

- Ti Bon Ange…Che vuoi?

 

L’aveva sempre chiamata così, anche nel segreto dei suoi pensieri o quando, tra i fumi dell’alcool, sognava di farla sua. Sognava, e non osava. Era una strega, quella. Una strega che sapeva la magia e vedeva aldilà delle cose, con quegli occhi che avevano il colore dell’acqua e i bagliori dell’acciaio.

 

- Lo sai bene quello che voglio… Mait Carrefour[22]

- Chacha? Era un mauvais sujet quello.

 

Solitude scosse la testa. Un cattivo soggetto Chacha? Quel povero idiota ubbidiente, servizievole, che non si sarebbe lamentato neanche se gli avessero ordinato di camminare sui carboni ardenti? Chacha? E perché non lui, con le sue dannate polverine, lui, che vendeva i suoi simili, che si ubriacava come una bestia e perdeva il controllo e la dignità?

 

- Sono venuta a chiederti il conto di tutto, Ghede[23]

 

Biassou sorrise. Era venuta a chiedere il conto. Quale conto? Chacha? Quel pezzo di bue che non capiva niente e doveva accucciarsi per pisciare?Anche lui le avrebbe presentato il suo, allora. Chi si credeva di essere, perché sapeva scrivere, aveva la pelle chiara e faceva tutto quello che le altre donne non fanno? Le donne non sparano, non cavalcano e non tirano di spada. Le donne…

 

Si alzò dalla sedia, le si parò di fronte. Era più basso di lei, ma forte abbastanza da atterrarla, da stapparle i vestiti di dosso e cacciarglielo dentro finchè non avesse smesso di dibattersi e di urlare e avesse cominciato a dimenare i fianchi e a gemere per il piacere. Non aveva niente, quel francese, che lui non avesse, si ritrovò a pensare.

 

- Mi hanno detto che te la intendi con il prigioniero.

- Non sono affari che ti riguardano.

- Ah. Non sono affari che mi riguardano. Quello ci porterà tutti quanti in bocca ai cani di Rochambeau e questi non dovrebbero essere affari che mi riguardano, dannata puttana…

Solitude scosse la testa. E tu dove ci stai portando? Nella piantagioni sul Continente, a quella schiavitù dalla quale Louverture ci aveva liberati? Tra finire di nuovo schiava o sepolta nello stomaco di quei cani non so davvero che cosa preferirei.

 

- Lui non è con i francesi. E’ con Louverture. E Louverture non ammetterebbe quello che stai facendo.

 

Biassou aveva la bocca piegata da una smorfia amara e gli occhi arrossati dalla tafià. Era grottesco e ripugnante, pensò Solitude districandosi dal suo abbraccio. Era tutto quello che il suo ex padrone, un colono rozzo e crudele, aveva fatto di lui. Ed era forte come un toro, malgrado fosse sbronzo. Forte e violento. Con un braccio riuscì a bloccarla e con la mano libera a stracciarle la casacca. Non è giusto, le disse con voce impastata mentre le brancicava i seni, che sia un bianco a godersi le più belle tette di Haiti.

 

Massimo non aveva fatto in tempo a insegnarle abbastanza, pensò la donna. Si era sempre rammaricata di non essere tanto forte da riuscire a fronteggiare fisicamente l’assalto di un uomo. Era finita a terra, e il corpo muscoloso di Biassou le gravava sopra. Non avrebbe implorato pietà da lui, pensò mentre questi le mordeva il capezzolo, e non per farla godere come un amante, solo per farle male.

 

Solitude strinse i denti, mentre lui le stracciava di dosso i calzoni. Non gli avrebbe dato la soddisfazione di guardarla implorare pietà, tremare di paura. Anche se sapeva che, con ogni probabilità, Biassou non si sarebbe accontentato di fare di lei uno zombi: l’avrebbe uccisa. Dopo aver abusato di lei in tutti i modi. Dopo averla gettata in pasto ai suoi scherani quando ormai si fosse ridotta a un nulla rotto, gemente, livido e insanguinato.

 

Teneva sempre uno stiletto nascosto nel gambale. Da quando, a quindici anni, era scappata dalla Grande Maison del marchese De La Fère. Lo stesso stiletto che era costato la vita a Benoit, il suo fratellastro. E che sarebbe costato la vita a quel mostro di Biassou. Riuscì a sfilarlo… Ma Biassou era un combattente d’esperienza e non si lasciò sorprendere. Le torse il polso, la disarmò. Si impadronì del pugnale e glielo puntò contro. Lei riuscì a rotolare via ma non a evitare il fendente, che le aprì un’ampia ferita sul costato, sotto il seno sinistro. Le avrebbe trafitto il cuore, pensò, se la croce e il ciondolo di Louverture non avessero deviato la punta della lama.

 

Sicuramente quella ferita non era mortale, ma poteva diventarlo se l’emorragia le avesse tolto le forze, si ritrovò a pensare in quel lampo d’istante in cui vide la lama calare di nuovo. Questa volta, lei fu più veloce del colpo di Biassou. Ma ci sarebbero stati altri colpi, e intanto le forze venivano meno con il fluire inarrestabile del sangue. Non era passato molto tempo dacché Massimo le aveva parlato della sua prima vita e di un vecchio saggio che veniva dal Paese della Seta, che gli aveva insegnato a trasformare il suo corpo in un’arma micidiale. Colpisci con violenza il collo di un uomo con il taglio della mano e gli romperai i vasi che portano il sangue al cervello. Morirà all’istante…

 

Solitude guardò il corpo di Biassou contorcersi per un attimo negli spasimi dell’agonia. Si alzò, barcollò fino all’imboccatura della baracca, gli occhi folli, gli abiti stracciati impregnati di sangue. Vi ho liberati tutti quanti dalla paura, bisbigliò a se stessa, prima di schiantarsi a terra come una giovane palma abbattuta dall’uragano.

 

EPILOGO

 

Quando emerse dal torpore, vide il viso di Massimo chino su di lei e comprese che non era morta. Sei stata male, ho avuto paura per te… Le disse stringendole la mano. Ma adesso è finita. Tu sei salva. Chacha è salvo. E in quanto ai complici di Biassou… Ho dato ordine che venissero passati per le armi.

 

Le dita fredde e sottili di Solitude strinsero le sue. Non so, gli disse con un filo di voce, quanto resterai. Il destino ti porterà lontano, questo è certo. A quelli come te il mondo non basta. Ma finchè…

 

- Finchè la vostra libertà e la vostra vita saranno in pericolo, resterò qui a difendervi. C’era un uomo, che ho conosciuto poco tempo fa, al quale devo qualcosa. Si chiamava François Dominique Toussaint Louverture. Il suo sogno si chiamava libertà… e non è giusto che rimanga un sogno.

 

Fine

Lalla, 29 aprile 2003

 

 

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Diario di Giulia

 



[1] Mantello equino grigio chiaro punteggiato di piccole macchie nere.

[2] E’ storicamente provato che il generale Rochambeau, succeduto a Leclerc morto di febbre gialla, si servisse di cani feroci per stanare e spesso anche uccidere i neri.

[3] Si fa riferimento alla parte orientale dell’isola di Hispaniola, Santo Domingo, colonia della Spagna poi conquistata da Toussaint Louverture.

[4] Dallo spagnolo cimarron, ribelle. Erano chiamati così gli schiavi fuggiaschi che si davano alla macchia e, dopo la cattura di Louverture, quei suoi seguaci che non si erano arresi e perseveravano nella lotta armata.

[5] Non è vero, canaglia?

[6] Piccolo Angelo Buono. E’ il termine con cui gli adepti del culto vudù designano l’aspetto più individuale dell’anima. Molti termini che si trovano in questo racconto sono scritti in gombo, il dialetto dei neri di Haiti e anche se potrebbero sembrare tali (oltretutto non conosco questa lingua) non sono storpiature del francese dovute alla mia ignoranza. Voglio ricordare a questo proposito di aver desunto la terminologia gombo dai glossari di due bei romanzi: ”Drum”di Kyle Onstott e, soprattutto, “Quando le anime si sollevano”di Madison Smartt Bell. Li ringrazio, anche se non li conosco personalmente e mi pare che il primo sia pure defunto.

[7] Vigliacco.

[8] Rhum scadente.

[9] E’ storicamente provato che la moda dei tatuaggi e dei piercing non è affatto un’invenzione recente.

[10] Parli la lingua dei padri? Parlo la lingua dei padri.

[11] Guaritore

[12] Grandi proprietari terrieri.

[13] Il Corano fa espresso divieto ai suoi seguaci di tenere in schiavitù un correligionario. E’ per questo motivo che la religione islamica è così diffusa nella regione del golfo di Guinea. Ma quando il traffico dei neri passò dalle mani degli arabi a quelle di inglesi, portoghesi e olandesi l’essere musulmane non mise quelle popolazioni al riparo dal rischio di finire in schiavitù.

[14] Colui che ritorna

[15] Rapace notturno simile alla civetta.

[16] Marchesa.

[17] Machete.

[18] Schiavo nero deportato dall’Africa.

[19] Tra i Fulah, come tra molti altri popoli africani, è ancora diffusa l’orribile pratica dell’infibulazione femminile, che viene effettuata nelle bambine o, come rito iniziatico, nelle adolescenti, prima del matrimonio. Questa pratica, che consiste nell’asportazione, totale o parziale dei genitali esterni e spesso anche nella loro cucitura, avrebbe lo scopo di preservare la castità delle donne eliminando la fonte del piacere durante l’atto sessuale.

[20] Gruppo paramilitare adibito a dare la caccia agli schiavi fuggiaschi.

[21] E’ detto così il maleficio grazie al quale, secondo il cerimoniale vudù, sarebbe possibile trasformare un essere umano in uno zombi, un morto vivente. Il veleno del pesce palla essiccato induceva la vittima in uno stato di catalessi della durata di qualche ora, al termine della quale veniva fatto ad essa credere di essere stata riportata indietro dall’aldilà da qualcuno a cui,  da quel momento, avrebbe dovuto ubbidienza cieca. Era uno dei sistemi usati dai molti tiranni e dittatori, compresi i più recenti, i famigerati Duvalier padre e figlio, che si sono contesi il potere sull’isola, per indurre all’ubbidienza con il terrore i loro sottoposti.

[22] Demone malvagio che custodisce i cimiteri.

[23] Lo stesso di Mait Carrefour.