Storie de Il Gladiatore |
Storie ispirate dal film Il
Gladiatore |
Lettura sconsigliata ai minori di anni 18 |
Massimo l’Immortale
LA META’ OSCURA DELLA LUNA
Parte prima IL PRIGIONIERO
Descrivere
il passato è la passione che mi spinge a scrivere. Della storia, amo i periodi
oscuri e turbolenti e gli eroi “puri”, coloro che non hanno esitato a mettere in
gioco quanto di più prezioso avessero per una causa in cui hanno creduto. Fosse
pure una causa persa in partenza. Non ho mai amato gli ambiziosi (detesto
Napoleone, tanto per fare un esempio), gli opportunisti e i fanatici, i teoreti
della serie “armiamoci e partite”. Non ho mai amato coloro che hanno rinunciato
alla loro anima, ai loro sogni e ai loro ideali per raggiungere uno scopo. Non
mi piace chi si svende a qualcosa o a qualcuno. I miei eroi? Da Spartaco a Che
Guevara (indipendentemente dalle opinioni politiche), passando per Garibaldi ed
Emiliano Zapata.
Toussaint Louverture, colui che liberò i neri
di Haiti dalle catene della schiavitù, apparteneva a questa razza. Come
Massimo, quello del film e la creatura nata dalla mia fantasia. Diversamente,
credo proprio che non avrei scritto queste storie.
LA VEDOVA
Brest,
febbraio 1803
Erano le sei e il buio della sera aveva
quasi completamente avvolto i vicoli e le stradacce strette e tortuose che si
dipartivano dal porto quando la vedova Berthaud sprangò l’uscio di casa,
aggiunse olio alla lanterna e la accese. Faceva buio presto, d’inverno, si
disse da sé sola, perché non le era rimasto nessuno con cui parlare dacché il
suo secondo marito, che aveva dieci anni in meno di lei, era morto in mare e il
gatto di casa se n’era andato per i fatti suoi e non aveva più fatto ritorno.
Sola. Non aveva avuto figli né dal vecchio Colombier, il pescivendolo, che
morendo le aveva lasciato in eredità quella catapecchia né da Berthaud, il
marinaio, che era giovane e vigoroso e un’onda se l’era portato via mentre
governava il timone di un peschereccio che inseguiva banchi di aringhe in mezzo
all’Atlantico.
Con una mano, si scostò un ciuffo di
capelli dalla fronte. Erano folti, di un bel castano chiaro luminoso, quel genere
di capelli in mezzo ai quali i primi fili bianchi che i quarant’anni portano
inevitabilmente con sé si mimetizzano alla perfezione. Aveva eroicamente
resistito alla tentazione di venderli a un fabbricante di parrucche anche
quando le finanze scarseggiavano, e li portava raccolti in una morbida crocchia
sulla nuca. Le occhiate non esattamente caste degli uomini che incrociavano la
sua strada dicevano che era ancora desiderabile e, se avesse voluto, non le
sarebbe stato difficile accalappiare un altro marito. Se avesse voluto, già. E
ancora non aveva deciso se volerlo o meno. D’inverno il suo letto era freddo…
ma non aveva bisogno di qualcuno che la mantenesse. Non aveva grandi esigenze e
quei quattro soldi che racimolava lavorando di cucito o aiutando le donne del
vicinato a partorire e rimettendo a posto slogature le bastavano. Certo, se
fosse riuscita ad affittare a qualcuno il mezzanino al piano di sopra… Era da
un paio di mesi che andava in cerca di un inquilino ma, fino a quel momento,
non si era presentato nessuno.
L’ombra di un uomo a cavallo passò davanti
alla finestra, facendola sussultare. Nero come la notte tutto quanto, lui, la
bestia che montava, il cane che lo precedeva e chissà se era il suo o uno dei
tanti randagi che vagabondavano da quelle parti in cerca di qualche immondizia
con cui placare i morsi della fame. Si segnò, come se avesse visto un fantasma.
Tutti dicevano che i fantasmi non esistono, eppure sua nonna asseriva di averne
visto uno e gliel’aveva raccontato tante volte. Lei aveva sempre creduto in
quel che diceva sua nonna, una donna risoluta e forte, che aveva lavorato tutta
la vita per mantenere cinque figli e un marito invalido, mica una piagnucolosa
visionaria dalle mani delicate e dalle lacrime facili.
- Mi hanno detto che affittate una stanza.
Si era ricomposta, prima di andare ad
aprire, quando qualcuno aveva bussato alla porta. Era tardi, e non c’era
un’anima in strada. Forse sarebbe stato meglio non aprire, ma Marianne cercò di
fidarsi delle sue intuizioni. Non corri alcun pericolo, le avevano suggerito.
Era lo stesso che, a cavallo, era passato
sotto la finestra di casa sua pochi minuti prima. Un uomo giovane, si ritrovò a
pensare. Giovane e forte. Ma il mezzanino, per accedere al quale bisognava
passare da una scala esterna, non comunicava in alcun modo con il resto della
casa. Non avrebbe avuto alcunché da temere, se non le chiacchiere di qualche
vicina pettegola. E lei delle vicine pettegole e delle loro chiacchiere se
n’era sempre infischiata.
Chiuse lo spioncino, aprì la porta. Con la
lanterna a olio, gli illuminò la faccia, per poterlo guardare negli occhi e
decidere se era il caso di fidarsi o no.Gli occhi di un uomo sono come un libro
aperto, le avevano insegnato, e il fatto che sapesse leggere e scrivere l’aveva
sempre aiutata a crederci. Quelli dello sconosciuto erano azzurri, venati di
verde. Un po’ tristi, forse. Come se avessero visto troppo. Ma non erano occhi
cattivi.
- Entrate, - gli disse. E lui entrò.
Era avvolto in un lungo mantello nero e aveva
una pelle di lupo gettata intorno alle spalle. Zoppicava pesantemente. Portava
i capelli raccolti a coda sulla nuca ma due lunghi cernecchi schiariti dal
sole erano sfuggiti e gli pendevano ai
lati del viso sporco di barba. Aveva tratti regolari, un bel naso dritto, la
bocca piccola, i denti bianchi, la carnagione chiara sotto l’abbronzatura. Un
bell’uomo nei suoi primi trent’anni, vigoroso e forte, nonostante la gamba
malconcia e l’aspetto trasandato. Quando si scostò di dosso il mantello,
Marianne notò la divisa blu e le spalline rosse della marina militare. Doveva
trattarsi di un ufficiale.
- Non dovrei trattenermi molto. Dieci,
quindici giorni al massimo. Il tempo che questo maledetto ginocchio si rimetta
in sesto e poi…
E poi si sarebbe imbarcato di nuovo sulla
sua nave da guerra. Erano tempi brutti, quelli, pensò la vedova Berthaud.
Almeno per gli uomini. Quello le avrebbe pagato l’affitto il tempo di
rimettersi in sesto e poi se ne sarebbe andato. In mare, il suo destino era
quello. Magari a morirci, come il suo povero Michel, che se n’era andato nel
fiore degli anni, spazzato via da un’onda mentre governava il timone del
peschereccio su cui era imbarcato.
- Allora…
- Potete andare a prendere i bagagli,
signore. Speravo che vi sareste fermato almeno qualche mese ma… Meglio un uovo
oggi che una gallina domani. Si dice così, no?
Lo guardò grattarsi perplesso una basetta,
come se non fosse del tutto convinto di ciò che stava facendo. Ho un cavallo,
lì fuori. Una bella bestia di valore, non vorrei che qualcuno me lo rubasse.
Disse. C’è un grosso cane di guardia al mio cavallo, ma… Non si sa mai. E lei
gli rispose che c’era una piccola stalla chiusa, dietro la casa. Il suo primo
marito, il pescivendolo, aveva un carretto e un somaro. Potevano alloggiare lì
dentro, cavallo e cane, visto che al momento la stalla era vuota.
L’aveva fatto entrare in casa e, seduto
alla sua tavola, adesso l’uomo mangiava con appetito la zuppa di pesce che lei
aveva preparato per cena. Una porzione abbondante. Aveva perfino cotto una
torta di mele, il cui profumo si spandeva in tutti gli angoli della piccola
casa. Si era seduta a tavola e gli aveva fatto compagnia, come quando il
vecchio Colombier e il giovane Berthaud erano vivi. E, di fronte alla sua
sedia, aveva sistemato uno sgabello con un cuscino perché potesse appoggiarci
sopra la gamba. Era probabile che gli facesse male, pensava: a seconda dei
movimenti, una rapida smorfia di dolore gli alterava per qualche attimo i
tratti delicati del viso.
IL TERZO UFFICIALE
Doveva avere suppergiù l’età del povero
Michel. Trenta. Forse trentacinque, ma non di più. Il tepore che una stufa a
legna diffondeva nella piccola cucina lo aveva indotto a togliersi il mantello
e lei glielo aveva preso, per collocarlo sopra una sedia. La pelle brizzolata
di lupo era soffice e calda. Sul davanti, nella scollatura, pendeva una catena
d’argento che serviva a tenerlo chiuso. Le spille rotonde che la fermavano
erano ossidate e sembravano parecchio antiche, ma non dovevano avere nessun
valore.
Portava una pelle di lupo gettata intorno
alle spalle, una testa di lupo era incisa sulle fibule che gli tenevano chiuso
il mantello e un lupo sembrava il grosso cane che lo aveva seguito fino lì. I
lupi sono creature del diavolo, aveva pensato Marianne sentendo correre un
brivido lungo la schiena.
- C’è qualche altra cosa che desiderate,
signore?
Lui si portò alle labbra il bicchiere,
sorseggiò il vino rosso e corposo. No, non voglio niente. Ditemi soltanto dov’è
la mia stanza. Aspettate, vi accompagno.
Gli illuminò la strada con la lanterna,
aprì la porta del mezzanino. Non c’è stufa, gli fece notare. E lui si schermì
dicendole che non aveva mai sofferto il freddo. Si sarebbe avvolto ben bene
nelle coperte, e avrebbe dormito come un sasso.
Era alto, dritto, con un paio di grosse
spalle. Il suo corpo brutalmente forte, le sue grandi mani callose da fabbro
ferraio contrastavano con il viso dai tratti dolci e regolari, quasi infantili.
Era un uomo molto bello e molto virile, si ritrovò a pensare Marianne, rabbrividendo
ancora.
- Potrei conoscere il vostro nome,
signore?
- Massimo Meridio, Madame.
- Non siete francese.
- Vengo da quella che una volta si
chiamava Repubblica di Genova. Sono nato a Ventimiglia.
- Ma portate la divisa della marina militare
francese.
- Ero il terzo ufficiale a bordo della
corvetta Le Heros.
Aveva viaggiato molto, le disse. Le raccontò che durante uno scontro con una fregata inglese nel Canale della Manica si era beccato una palla di moschetto che gli aveva fracassato il ginocchio e che era ancora convalescente. Effettivamente zoppicava parecchio, e quel passo irregolare aggiungeva una nota stonata alla sua gagliarda prestanza. Non appena fosse guarito, avrebbe avuto un altro imbarco, se non sulla sua nave sopra un’altra. Il mare è come un’amante capricciosa che si prende tutto di te senza lasciarti niente in cambio, ma ti ubriaca talmente tanto con le sue grazie che alla fine non osi dire di no. Dovesse costarti la vita.
- E’ stato… Tanto tempo fa?
- Quasi due mesi. Il medico di bordo ha
detto che non ci metterò molto a tornare quello di prima.
Allora potrai arrampicarti di nuovo sul
sartiame, sbraitare ordini ai marinai e batterti alla morte con gli inglesi,
tanto questa è la vita che vuoi, pensò la donna reprimendo a stento il
desiderio di carezzargli la fronte, poi la guancia ruvida di barba. Lui le
sorrise e le chiese il suo nome.
- Voi conoscete il mio. Io non so il
vostro.
- Marianne.
- Cucinate bene, Marianne.
Lei arrossì come una ragazzina, quando
quell’uomo segnato dal marchio del lupo come un antico guerriero normanno le
scostò un ciuffo di capelli dalla fronte con la sua grande mano callosa.
- Desiderate qualcosa di particolare…
domani?
- Una tinozza, un pezzo di sapone e
dell’acqua: puzzo come un caprone e ho un disperato bisogno di un bel bagno.
IL SALVACONDOTTO
- C’è sempre una pentola l’acqua che bolle
sulla stufa e una grossa tinozza in un angolo della cucina. Potete lavarvi qui,
e mi eviterete di andare su e giù per quelle scale con i secchi dell’acqua
bollente. Io intanto andrò nel mezzanino a dargli una sistemata. Avrete notato
il disordine, è sempre stato disabitato e… e adesso è pieno di polvere e di
ragnatele. Sono mortificata, signore.
- Avevo talmente tanta di quella
stanchezza addosso che neppure me ne sono accorto, - la scusò lui con un
sorriso, spalmandosi uno strato di marmellata di mele cotogne su una fetta di
pane nero abbrustolito.
- La tinozza è dietro la tenda, l’acqua
calda sopra la stufa. Fate con comodo, io intanto andrò a dare una passata di
scopa in camera vostra. Dove tenete la roba pulita?
Lui si era schermito, facendosi a momenti
rosso come una collegiale. Va’ a quel paese, marinaio. Aveva pensato la donna.
Non ti ci mando ancora una volta su per le scale con quella gamba cionca che ti
ritrovi. Che, credi che non ne abbia viste altre, mutande da uomo? Ho avuto la
bellezza di due mariti, signorino…
Prima che lui potesse replicare, lei era
già sparita. Mentre lui versava l’acqua bollente dentro la tinozza, lei stava
frugando in mezzo alla sua roba .Lo aveva trovato. Magari si era messa anche a
leggerlo. Il salvacondotto. Rabbrividì, accoccolandosi sulle ginocchia e
strofinandosi addosso quel pezzo di sapone che odorava di cedrina, olio
d’oliva, cenere fredda e non voleva saperne di fare schiuma. Il salvacondotto.
Era falso. Perché mai, del resto, il Primo Console avrebbe dovuto affidare un
incarico come quello a un oscuro ufficiale di marina di cui era più che probabile
ignorasse l’esistenza e, per sopramercato, non era neppure francese?
Quando Marianne tornò con la sua roba,
Massimo era già uscito dall’acqua. Si era legato il telo umido intorno ai
fianchi e rabbrividiva di freddo. La donna gli lanciò un’occhiata non troppo
insistente ma adeguata a valutarlo. Aveva spalle enormi e bicipiti massicci, il
petto largo, splendidamente modellato e leggermente villoso. Era pieno di
cicatrici e, svestito, sembrava ancora più grosso.
- La vostra roba, signore.
Lui allungò la mano e gliela prese,
disinvolto come prima non era stato, mentre le sorrideva, guardandola.
- Vi laverò la roba sporca.
- E io vi pagherò per l’incomodo.
- No. Le spese sono comprese nella pigione
che mi avete pagato per…
- Non mi tratterrò molto.
Aveva un bel sorriso, pensò la donna. Un
bel sorriso e qualche leggera efelide dorata sotto gli occhi e sul dorso del
naso. Si ritrovò a pensare che le sarebbe dispiaciuto, quando se ne fosse
andato. Chissà chi era, si domandò pensando al salvacondotto che aveva trovato
in mezzo ai suoi pochi effetti personali. Non aveva resistito alla tentazione
di leggerlo ed era stata attraversata da un brivido, quando aveva visto, in
calce al documento, la firma di Bonaparte, del Primo Console. Si parlava di un
prigioniero rinchiuso in un forte dalle parti di Besançon, lì sopra. Un certo…
François Dominique Breda. Doveva trattarsi di un personaggio importante.
Chissà se è capace di leggere. Pensava
l’uomo infilandosi dalla testa una camicia di lino ingiallita per i troppi
bucati. Certo che sì. Parlava troppo bene per essere un’analfabeta. Chissà se
aveva scovato il salvacondotto. Se l’aveva letto. Se aveva capito che era
falso… Il cuore prese a battergli all’impazzata, al pensiero. Non ci sarebbe
mancata che quella. Un disastro di portata inferiore soltanto all’eventuale
scoperta che in realtà appena un’ora dopo che il chirurgo di bordo gli aveva
estratto dal ginocchio sinistro la palla di moschetto inglese lui già non
zoppicava più. Aveva dovuto simulare, anche allora. Come sempre, per evitare
che una verità difficile da accettare venisse a galla. E poi c’era la missione
da portare avanti... costasse quel che costasse, aveva pensato stringendo tra i
denti il labbro inferiore fino a sentire il gusto del sangue. Se si fosse fatto
credere ancora convalescente lo avrebbero lasciato in pace, e allora... Allora,
forse, sarebbe riuscito a esorcizzare il suo rimorso. Breda. François Dominique
Breda. Il prigioniero del Fort de Joux.
Simulare. C’era abituato.Lo aveva fatto
tante di quelle volte da aver perso il conto. Per salvarsi? No: solo per
nascondere una verità che sembrava una folle menzogna.
La guardò. Era una donna alta, forte,
piacente nonostante qualche ruga, qualche capello bianco e qualche chilo di
troppo. Si portava appresso il fascino della donna di carattere, che le
difficoltà non piegano e non spezzano. Nemmeno, si ritrovò a pensare,
un’illusione che somiglia all’amore e amore non è. Anche se lui... Il fine
giustifica i mezzi, aveva detto qualcuno. Tanto tempo prima.
Chiuse gli occhi, ascoltò il rumore
leggero delle sue pantofole di feltro sul pavimento. Le circostanze dovevano
averla messa al corrente del suo segreto, pensò. Forse era arrivato il momento
di andarsene, anche se faceva freddo, chissà in che stato erano le strade e
Besançon distava così tanto.
L’ "AUREUS"
Non si era fatta illusioni sul suo conto dal primo momento in cui i loro sguardi si erano incrociati e quell’uomo giovane, bello e misterioso, in una gelida sera d’inverno aveva fatto irruzione nel vuoto della sua solitudine.
Sapeva che si sarebbe allontanato in
groppa al suo grande cavallo nero ed era certa che non l’avrebbe mai più
rivisto, anche se lui le aveva giurato il contrario, dopo la loro prima e unica
notte insieme. Ma non sono momenti, quelli, in cui si possa pretendere di
cogliere la verità, nelle parole di un uomo.
- Mi dispiace vedervi zoppicare in quel
modo, signore... - gli aveva detto. - Ma penso che potrei fare qualcosa per
voi. Mia nonna era levatrice e aggiustaossa, e ho fatto miei molti dei suoi
segreti. Qui a Brest erano in tanti a dire che ne sapeva più lei di tutti i
medici e i sapientoni della città messi assieme.
Le era sembrato imbarazzato, ma alla fine
aveva acconsentito; si era sfilato i calzoni, sdraiato sul letto, e aveva
chiuso gli occhi chiari facendo le fusa come un grosso gatto, mentre le mani
esperte di Marianne cercavano nella sua gamba il punto dolorante. Strano, non
c’era niente che non andasse, in quella solida gamba muscolosa. Niente. Nemmeno
la cicatrice ancora fresca di una ferita recente. Non avete nulla, e fingete di
zoppicare. Non riesco a spiegarmi la ragione di un simile
comportamento,signore... Avrebbe voluto chiederglielo, ma non gli disse nulla.
Marianne. Sei bella. Le aveva detto
mentre, senza scollare dai suoi gli occhi azzurri e tristi, si era messo a
carezzarle i capelli. Ho quarantatré anni, signore. Sono una vecchia.
Quella notte d’amore era stata un dono
inatteso della sorte, e pretendere di più dalla fortuna sarebbe stato
indecente, pensò la donna mentre lo guardava allontanarsi. Eppure, non riuscì a
trattenere una lacrima. Era andato via ancor prima di quanto lei avesse
previsto. Doveva raggiungere Besançon. Un posto lontano, in mezzo alle montagne,
per quel poco che ne sapeva.
Non si era adombrato, quando Marianne si
era lasciata sfuggire quella domanda che le bruciava sulle labbra da quando
aveva visto il salvacondotto. Aveva giurato a se stessa che non gli avrebbe
chiesto niente. Invece non era riuscita a trattenersi, come se l’intimità
occasionale con quello sconosciuto autorizzasse la confidenza tra loro. Che lui
fosse fisicamente molto forte, era altrettanto certo del fatto che insieme non
avessero un domani, che si fossero cercati perché l’inverno era freddo, perché
avevano bisogno di darsi reciproco conforto e per chissà quali altre misteriose
ragioni. L’avrebbe picchiata, se si fosse adirato a causa della sua
indiscrezione. Avrebbe alzato le sue mani su di lei. Come aveva fatto Michel. Tante
volte.
Massimo doveva essere terribilmente forte.
Più del povero Michel annegato in mare, si era ritrovata a pensare
accarezzandogli i muscoli torniti che gli esplodevano sotto la pelle come a un
grande cavallo da tiro. E non tutti gli uomini erano in grado di controllare la
propria forza. Chissà, forse le cicatrici che gli segnavano la pelle non erano
quel che restava di vecchie ferite di guerra, ma il ricordo di risse da osteria
finite a coltellate. L’uomo che si era portata a letto poteva anche essere un
assassino. Era marchiato sulla schiena come un animale: la donna ricordò di
aver sentito dire che, in certi paesi, era così che la giustizia segnava per
sempre i criminali.
Marianne tremò, stretta tra le sue braccia
robuste, il viso premuto sul collo, contro la seta dei suoi capelli sciolti.
Faceva freddo, ma il corpo nudo e solido di lui era caldo come pane appena
sfornato, come lo sguardo, velato dalla penombra, dei suoi occhi azzurri, dolci
e malinconici. Non erano gli occhi di un assassino, quelli. E neppure di un
ladro, o semplicemente di qualcuno che, quando perdeva la pazienza con una
donna, era capace di colpirla. Chi sei, e che ci fai qui, con me? Avrebbe
voluto domandargli, pur nella certezza che lui non le avrebbe risposto e si
sarebbe limitato a un sorriso fugace, a labbra chiuse. Se ne sarebbe andato,
l’indomani stesso. Nonostante il freddo. Nonostante sapesse che avrebbe trovato
la neve, sul suo cammino. La neve. E i lupi. Ma lui non aveva paura.
Poche ore ancora, e con il sorgere del
nuovo giorno sarebbe sparito dalla sua vita per sempre. Le sarebbe piaciuto un
figlio suo, pensò. Non era uscito via da lei prima che il suo piacere toccasse
il culmine e le aveva versato dentro ogni goccia del suo seme. Ma nessuno dei
suoi due mariti l’aveva resa madre. Doveva essere sterile, l’aveva sempre
pensato. E poi era vecchia, anche se aveva ancora le sue regole mensili e
conosceva donne che erano rimaste incinte malgrado fossero più grandi di lei.
Massimo... Domani mi sentirò molto più
sola, senza di te. Non avrebbe potuto trattenerlo, pensava guardandolo dormire,
ascoltandolo russare piano. Aveva una missione da compiere. C’era un
prigioniero rinchiuso in un forte in mezzo alle montagne.
- Massimo... Chi è François Dominique
Breda?
No, non si era adombrato. L’aveva
guardata, e i suoi occhi erano quelli di sempre, teneri, e tristi, e pieni di
domande senza risposta.
- E’ il mio rimorso, Marianne.
Il suo rimorso. Il rancore contro se
stesso che chissà da quanto tempo si covava dentro. Forse il lungo viaggio che
lo aspettava poteva essere l’ultima occasione per esorcizzare quel demone che
gli rodeva l’anima.
Lo aveva guardato allontanarsi in groppa
al suo grande cavallo, seguito dal cane nero. Avrebbe potuto incontrare i lupi,
sulle montagne. I lupi e i briganti. E lei avrebbe pregato Dio tutti i giorni e
tutte le notti perché giungesse a destinazione sano e salvo.
Alla fine della strada, l’orizzonte aveva
inghiottito cavallo e cavaliere. Il sogno era finito, pensò Marianne
asciugandosi una lacrima con il dorso della mano, prima di impugnare la
ramazza.
Qualcosa di luccicante tintinnò sul
pavimento di pietra. Marianne si chinò a raccattarla e si trovò in mano una
moneta. Una vecchia moneta dai bordi irregolari, come non ne aveva viste mai.
Una moneta d’oro. La guardò. Su una faccia era a malapena leggibile la scritta
SPQR. Sull’altra era sbalzata la testa di un uomo barbuto. Doveva averla persa
lui. L’avrebbe conservata, pensò, e gliel’avrebbe restituita quando Massimo
sarebbe tornato. Se fosse tornato.
LA LOCANDA
Besançon,
1803, ultimi giorni di febbraio
L’uomo guardò il piatto che una vecchia
arruffata, sdentata, baffuta e verrucosa gli aveva piazzato davanti, sopra la
tovaglia bisunta che copriva un tavolino male in arnese. Conteneva una
brodaglia nerastra nella quale galleggiavano pezzi di verdura e patate cotte
chissà da quanto, tanto viscide da sembrare di cera. Non era molto appetitosa,
ma lui aveva fame sicché stoicamente la ingollò tutta, bevendoci sopra per
buttarla giù un bicchiere di vino che sembrava fatto con dell’uva marcia. Non
c’era da stupirsi se gli unici clienti della bettola erano lui e due individui
malmessi i cui rutti rimbombavano all’interno del piccolo locale che puzzava
d’umido e di muffa.
L’oste, un omiciattolo calvo, che aveva
una gamba di legno e una finestra al posto dei denti davanti, gli si era
avvicinato e, preso uno sgabello, seduto a fianco con l’intento di avviare una
qualsiasi conversazione con quel forestiero grosso,s tanco e scontroso che
indossava una divisa con cuciti sopra gradi di ufficiale e non sembrava
particolarmente amichevole, men che meno loquace.
- Venite da lontano?
- Da Brest.
L’uomo emise un lungo fischio. Brest era
lontana. E quello che gli stava davanti era un ufficiale della marina militare.
Che cosa ci faceva, un marinaio in mezzo alle montagne?
- Il viaggio dev’essere stato lungo.
Sette giorni, aveva risposto lui. In
battello, finché aveva potuto. Poi a cavallo. Aveva percorso strade che si
inoltravano in mezzo ai boschi e, all’ombra degli alberi, dove i raggi del sole
non arrivavano, c’erano pozze scivolose di ghiaccio. Due giorni li aveva
trascorsi chiuso nel capanno abbandonato di un boscaiolo, mentre fuori veniva
giù la neve. Il calore dei suoi animali lo aveva aiutato a combattere il gelo
della notte,e aveva dormito con il muso del suo cane sul petto e la puzza del
pelo bagnato dentro le narici.
- I lupi? Li avete visti, i lupi?
Sì. Ho intravisto le loro sagome agili
seguirmi tra gli alberi, il luccicare dei loro occhi gialli che mi spiavano nel
buio. Ma io non ho paura. Quando, la notte, dormivo in qualche capanno
abbandonato rannicchiato tra le coperte e con il cane che mi scaldava, non
provavo angoscia sentendoli ululare alla luna. Pensavo... Alla libertà, ecco.
Alla libertà che qualcuno aveva perduto. Al prigioniero rinchiuso dentro il
Fort de Joux. A François
Dominique Breda.
- Disponete di qualche stanza libera?
- E anche di una stalla per il vostro
cavallo e il vostro cane. A buon prezzo,signore.
Un buco, sicuramente, da dividere con i
topi e le cimici. E non gli piaceva la faccia dell’oste. In tanti anni, aveva
imparato a riconoscere al fiuto le intenzioni degli altri, e spesso erano state
proprio le sue intuizioni a toglierlo dai guai. Se aveva velleità strane sul
suo conto che gli frullavano in testa, meglio toglierle via subito, come si fa
con i denti che dondolano.
- I banditi, - buttò là senza un’apparente
ragione. - Sulle montagne hanno tentato di rapinarmi. E’ gente disposta ad
ammazzare per portarti via gli stivali, quella. Ma il mio cavallo si lascia
montare da me soltanto, il cane è addestrato a saltare alla gola per uccidere e
in quanto a me... Non mi lascio portar via né il cavallo né gli stivali.
Gli occhi chiari dell’uomo lampeggiarono
d’un bagliore assassino e il vecchio oste immaginò un corpo con la gola
squarciata che sfamava i corvi nel gelo della campagna, e un bandito che si
aggirava per le montagne con tre dita di meno.
- Potrei procurarvi... una puttana con cui
dividere il letto, se vi interessa.
L’uomo aveva piegato le labbra all’ingiù,
alzando le grosse spalle. Si chiamava Massimo Meridio. Tenente di vascello
Massimo Meridio, terzo ufficiale a bordo della corvetta "Le Heròs".
Veniva da quella che si chiamava Repubblica di Genova prima che Napoleone la
cancellasse dalle carte geografiche.
- Il Fort de Joux... E’ molto lontano da
qui?
IL FORTE
Ne aveva visti tanti, e non poteva
immaginarlo diverso. Quello sembrava più piccolo degli altri, o forse era solo
l’effetto della giornata uggiosa e della distanza. Abbarbicato a un migliaio di
metri di altezza tra le montagne del Giura, un po’ caserma, un po’ galera.
D’inverno, quando la neve rendeva impraticabile la strada, la noia doveva
mangiarsi le giornate dei suoi occupanti. Ne aveva visti un paio, alla bettola
di Doinel, qualche giorno avanti. Approfittando della libera uscita e di una
giornata non particolarmente infame, erano scesi in città per andare a puttane.
Uno era un ragazzino non più che diciottenne, l’altro poteva essergli padre e
si portava appresso una capigliatura rada e forforosa, lunghi baffi spioventi e
l’aria stanca. Entrambi indossavano uniformi blu spiegazzate con mostrine rosse
e bandoliere di pelle che chissà quanto tempo prima dovevano essere state
bianche. Origliando con finta indifferenza i loro discorsi da ubriachi, Massimo
era riuscito a carpire l’unica informazione che gli interessava. Amiot*[1]. Era così che si chiamava il governatore
del forte.
Se non altro, avrebbe saputo come chiedere
di lui e come rivolgerglisi senza suscitare troppi sospetti da subito, pensò
accarezzandosi il mento. Quella mattina si era rasato la faccia e lavato in una
tinozza di acqua quasi fredda che quella sanguisuga di Doinel s’era fatto
pagare neanche fosse stata vino di Borgogna. Aveva indossato una camicia pulita
e pettinato i capelli all’indietro con l’aiuto di qualche goccia d’olio di
Macassar. Doveva presentarsi con un aspetto decente e credibile al Governatore
del forte. Amiot. Cerca di tenerlo a mente, Massimo. E di pensare, strada
facendo, alle bugie che sarai costretto a raccontare per convincerlo a
lasciarti solo con il prigioniero.
- Voi non siete francese.
- La Francia ormai è diventata la patria
di tutti coloro che hanno fatto della libertà e dell’uguaglianza il loro credo,
Governatore… No, non sono francese. Vengo da Ventimiglia. Ma che io non sia
francese non ha impedito al Primo Console di affidarmi l’incarico delicato di
cui vi dicevo poc’anzi.
Maledetti negri. Aveva bofonchiato tra i
denti il Governatore Amiot senza far caso o ignorando di proposito il
sorrisetto ironico con cui il suo interlocutore aveva accompagnato le parole
appena pronunciate. Aveva la stessa aria grigia e trascurata dei suoi soldati e
Massimo immaginò che dovesse trattarsi d’un veterano delle campagne napoleoniche
reso inservibile da qualche menomazione e spedito lassù per continuare, in un
modo o nell’altro, a tornare utile alla Patria o meglio a quel piccolo,
pallido, bilioso ed ambizioso generale corso che in lei adesso si identificava.
- E così quelle maledette scimmie sono di
nuovo in subbuglio.
- La verità è che non hanno mai smesso di
esserlo… nonostante l’arresto e la deportazione del loro capo. Anzi, sembra che
Dessalines* e Christophe* abbiano giurato con le spade in pugno di scaraventare
ai pescicani i soldati francesi che si azzardassero a mettere piede ad Haiti e
di concimare i campi con i cadaveri di tutti quei creoli[2] che non hanno potuto o voluto lasciare
l’isola.
- Sono animali. Non sarebbero neri, se non
lo fossero.
- Il Primo Console vuole risolvere la
questione una volta per tutte e mi ha incaricato di interrogare il prigioniero.
Per carpirgli ogni informazione possibile a riguardo. Mi ha dato facoltà di
ricorrere ad ogni mezzo per poter ottenere tale scopo. Dovreste fermarvi qui un
mese, mi ha detto, e scrollarlo come un sacco.
- Non oso dubitare che lo fareste,
all’occorrenza... Comandante.
Un lampo di crudeltà aveva illuminato lo
sguardo assente del Governatore quando, sollevati gli occhi dal salvacondotto,
li puntò in faccia al lupo di mare che avrebbe dovuto trasformarsi in
inquisitore, torchiare il vecchio rottame rinchiuso nel cachot[3] del forte e fargli cacciar fuori dalla
strozza tutto quello che sapeva, con le buone o con le cattive. C’erano la
firma e il sigillo di Bonaparte, in calce al documento. E lo straniero che
chissà quale singolare caso della vita aveva costretto a infilarsi in una
divisa della Marina da Guerra francese, sembrava uno che ci sapeva fare.
Sguardo freddo, spalle grosse e pugni pesanti. Bonaparte aveva fiuto nello scegliersi
i collaboratori. Diversamente, non sarebbe andato così lontano.
Non succedeva mai niente, lì dentro. Le
giornate erano tutte uguali, esattamente come prima che Breda fosse rinchiuso
nella cella da cui con tutta probabilità sarebbe venuto fuori solo con i piedi
in avanti. E non ci sarebbe voluto molto, aveva sentenziato. L’uomo sembrava
più vecchio della sua età, ed era decisamente malridotto. Sì, non sarebbe
durato a lungo. Un grattacapo in meno, se il diavolo se lo fosse pigliato.
- Ledoyen! Accompagna il Comandante nei
suoi alloggi!
Lui. Il ragazzino che aveva visto un paio
di giorni prima alla bettola di Doinel, con due pinte di vino cattivo in corpo
e una puttana scheletrita che poteva avere l’età di sua madre accoccolata sulle
ginocchia.
IL GENERALE
- Lasciaci soli.
- Ma, signore... ho ordini precisi...
- Temi che quel vecchio rottame mi salti
addosso e mi tiri il collo? E se anche così fosse dovresti essere tu a
difendermi? Lasciami lavorare in pace, moccioso.E non farti trovare tra i piedi
per almeno due ore, intesi?
- Il signor Governatore ha detto che...
- E io me ne fotto di quello che ha detto
il signor Governatore.
Un breve alterco, quindi il prigioniero
aveva sentito gemere il catenaccio, scricchiolare i cardini della porta, come quando
venivano a portargli da mangiare e a svuotargli il bugliolo. Poteva essere che
così fosse, non era facile mantenere la cognizione del tempo, in quelle
condizioni. Ma l’uomo inquadrato nel vano della porta non era colui che doveva
provvedere a quelle miserabili incombenze senza mai rivolgergli la parola.
Eppure, l’aveva già visto... Quando? Un lampo improvviso illuminò il caotico
affastellarsi dei suoi ricordi: due braccia forti che lo sorreggevano
impedendogli di inciampare, occhi freddi come l’aria di quelle montagne fissi
sul marinaio che l’aveva chiamato "brutta scimmia". Vi garantisco che
provvederò personalmente a scorticare la schiena a nerbate a chi si permetterà
di mancar di rispetto al Generale, aveva ringhiato con la sua voce grave e
minacciosa. E nessuno, a bordo della corvetta Le Heros aveva osato
contravvenire agli ordini del terzo ufficiale.
Non l’aveva visto a quattr’occhi altre
volte e, oltre a quegli episodi quasi insignificanti, di lui ricordava
vagamente un bel viso dai tratti delicati e un po’ infantili in contrasto con
un corpo massiccio e muscoloso, e due occhi chiari,dall’espressione franca. E
adesso era lì, fermo davanti alla porta che gli si era chiusa alle spalle
sollevando una nuvola di polvere. Non è come sembra, Generale, gli aveva detto,
senza schiodare gli occhi dai suoi. Erano mesi che non vedeva un’anima, e
adesso... Non è come sembra. Io sono con voi, Generale.
Non è come sembra. Che cosa intendeva dire
con quelle parole il Terzo Ufficiale, colui che l’aveva sostenuto quando stava
per inciampare e lo aveva difeso dallo scherno dei marinai? Era passato tanto
tempo, da quel giorno. Mesi lunghi come anni rinchiuso dentro quel buco fetente
d’umidità, di muffa, di escrementi di topo, di orina e di sudore. La sua orina.
Il suo sudore. Le sue miserie.
Io sono con voi. Aveva detto così. Se
fossi con me, non porteresti addosso quella divisa, giovanotto, avrebbe voluto
rispondergli. Ma non disse nulla, come se tutti quei mesi durante i quali non
gli era stata data la possibilità di comunicare ad anima viva gli soffocassero
le parole in gola.
- Che cosa siete venuto a fare?
- A conoscere le ragioni che hanno spinto
la mia gente a perpetrare lo spreco di un uomo come voi… generale Louverture.
Lo aveva guardato dritto negli occhi e
aveva pronunciato con voce chiara e ferma il suo nome di battaglia. Un nome che
ormai echeggiava lontano solo nei suoi sogni e nei suoi ricordi, un nome legato
a un passato che niente avrebbe potuto richiamare indietro, nemmeno il terzo
ufficiale della goletta su cui era stato imbarcato per essere portato, con
l’inganno e col tradimento, a morire di stenti come l’ultimo dei miserabili,
nel freddo di quelle montagne, tra quelle mura che stillavano umidità, senza il
conforto di una voce amica o anche solo di un foglio bianco a cui affidare i
propri pensieri. Morire così, consumato dalla tubercolosi, dimenticato dal
mondo non è lo stesso che morire combattendo o gridando le proprie ragioni
prima che il plotone di esecuzione faccia fuoco. I tiranni hanno paura degli eroi
vivi e terrore di quelli morti con le armi in pugno o giustiziati a causa delle
loro idee. Napoleone lo sapeva. Che fosse maledetto. Era per quel motivo che lo
aveva confinato lì, vietando ai suoi carcerieri qualsiasi contatto con lui che
non fosse strettamente indispensabile, impedendogli di leggere, scrivere,
vedere sua moglie e i suoi figli, arrivando perfino a ordinare di lesinargli
vestiti pesanti, coperte, cibi nutrienti e le cure mediche di cui aveva
bisogno, perché il diavolo si spicciasse a portarselo via una volta per tutte.
Il prigioniero scosse la testa. L’uomo che
gli stava davanti, il Terzo Ufficiale, si era inchinato dopo aver pronunciato
il suo nome di battaglia battendosi il pugno chiuso sul petto. In gioventù
aveva letto i diari di guerra di Giulio Cesare e sapeva che con quel gesto, in
quei tempi lontani, si salutavano gli eroi. I vivi. I morti. E i morituri come
lui.
FANTRAS BATON[4]
Louverture avrebbe voluto dire qualcosa, ma
un violento colpo di tosse gli ricacciò in gola le parole. Sputò per terra un
abbondante fiotto di sangue senza chiedergli scusa, ripulendosi quindi la bocca
con il dorso della mano. Quel tubercolotico arrivato all’ultimo stadio della
sua malattia aveva soltanto una vaga somiglianza con il Generale che era salito
qualche mese prima sulla goletta e il cui straordinario carisma faceva
dimenticare il suo aspetto meschino, la statura bassa, la mascella prominente
che gli imbruttiva i tratti del viso.
Fantras Baton.
Qualcosa come Manico di Scopa. Era il soprannome che gli avevano messo quando,
ragazzino, sfacchinava nei campi di canna della Breda Plantation. Il suo
padrone, Le Comte de Noé e l’amministratore della tenuta Baillon de Libertat
dovevano avere preso a benvolerlo, se lo avevano tolto dalle sudice baracche
dei braccianti e gli avevano perfino premesso di frequentare un prete gesuita e
d’imparare da lui a leggere e scrivere. E siccome il ragazzo era sveglio, si
era guadagnato il droit de savane[5] e un incarico, quello di cocchiere della
casa, che lo proiettava ai vertici della gerarchia sociale degli schiavi. Poi,
a trentatré anni la libertà, finalmente. Sarebbe potuto essere uno dei tanti,
avrebbe potuto vivere di quel che il suo modesto appezzamento di terreno gli
dava e che bastava a mantenere la moglie che si era preso e i figli nati dalla
loro unione. Invece…
- Voglio conoscere la vostra storia,
Generale Louverture.
Una smorfia sarcastica aveva inghiottito i
lineamenti irregolari e sgraziati del prigioniero. Che cosa voleva da lui
quello sconosciuto nel cui parlare traspariva un’inflessione straniera e nello
sguardo un miscuglio insolito di grande ammirazione e profonda pietà? E come
aveva fatto a violare la sua condanna alla solitudine, a ottenere il permesso
di potergli parlare?
- Volete conoscere la storia di uno
schiavo? O quella di un’illusione durata troppo poco? O volete sapere come ci
si sente mentre si aspetta di crepare? Tutte esperienze che il colore della
vostra pelle vi ha risparmiato, giovanotto.
Questa volta fu l’altro a sorridere
sarcastico, a pensare di me sai meno di quanto io non sappia di te, François
Dominique Toussaint Breda. Generale Louverture. Colui che scardina vecchie
porte e apre nuovi mondi.
COLUI CHE APRE NUOVI MONDI
- Mi piacevano i cavalli, da ragazzo. Come
tutti quanti gli animali. Come il vostro cane e il vostro cavallo. Che nome gli
avete messo?
Finalmente aveva sorriso, guardando dalla
feritoia, suo unico contatto con il mondo esterno, il cane che sembrava un lupo
sdraiato sul selciato del cortile con il muso fra le zampe e il collare irto di
punte che scintillava al sole, e il cavallo nero che un giovane stalliere
faticava a tenere per le briglie.
- Il cane si chiama Bellator. Il cavallo Erebus[6]. Si lascia montare da me soltanto.
- Mi piacerebbe appurare se sono ancora quello
che ero. Nessun cavallo, per quanto riottoso fosse, riusciva a oppormi
resistenza. Ma non sono più quei tempi.
- Quei tempi potrebbero tornare.
- Non per me. La morte mi sta appiccicata alle
calcagna e non mi rimane molto da vivere, questo lo so e non posso negarlo. Ma
vorrei che fosse vero per la mia gente. Vorrei che per loro il tempo delle
catene fosse finito sul serio. Per sempre.
- Non volete parlarmi di voi? O non vi fidate
di me perché ero su quella maledetta nave?
Toussaint Louverture tossì ancora, faticando a
riguadagnare il controllo del suo respiro. Tremava dal freddo, e Massimo si
tolse il suo pesante mantello di panno per drappeggiarglielo intorno alle
spalle.
- Siete gentile… O lo fate soltanto per
guadagnarvi la mia fiducia?
- Non posso tollerare quello che hanno fatto
di voi. Tutto qui.
- Io credo nella giustizia divina. Chi ha da
pagare pagherà prima o poi. O forse… Forse ho anch’io i miei peccati da
scontare. Ma ditemi il vostro nome, signore.
- Massimo Meridio. Tenente di vascello Massimo
Meridio.
- Non siete francese.
Il giovane scosse la testa, facendo rimbalzare
un lungo ricciolo che gli era ricaduto sulla fronte.
- No.
- Ma ci credevate come ci avevamo creduto noi,
alle loro promesse. Altrimenti non portereste questa divisa.
- Libertà. Uguaglianza. Fraternità… Sì, ci
credevo. E adesso la libertà ce l’ha fottuta un tirannello ambizioso, la
fraternità è annegata nel sangue e in quanto all’uguaglianza… Quella non è mai esistita.
La sua voce grave si era spenta in un soffio,
e Louverture aveva annuito con un cenno lento e solenne del capo. Scommetto,
gli disse quindi, che mai prima di adesso vi eravate ritrovato faccia a faccia
con un negro. Con uno che è stato schiavo.
Massimo ci pensò un poco, prima di
rispondergli. Avrebbe accettato la sua verità, tutta intera? Probabilmente no.
Nella terra da cui Toussaint Louverture proveniva si credeva che i morti
potessero essere richiamati in vita da stregoni particolarmente potenti. Questo
lui lo sapeva. Ma sapeva anche che il prigioniero era un fervente cristiano e
detestava la magia africana, il vudù come lo chiamavano loro.
- Ho fatto l’amore con donne dalla pelle
scura. Com’è capitato a tanti. Se una donna mi attira, il colore della sua
pelle è l’ultima cosa che guardo. E poi… Ho avuto un amico, tanti anni fa. Mi
aveva salvato la vita. Era un uomo bello, coraggioso, leale, mite e gentile.
Una delle persone migliori che abbia mai incontrato. Si chiamava Juba.
- Era un bossal[7]. Un africano. Tanti africani che ho
conosciuto portavano quel nome.
- E’ anche per lui se sono qui, adesso. Perché
quando lo incontrerò nell’aldilà non oserò guardarlo in faccia, se prima…
- Se prima non vi perdonerò per quello che non
avete fatto, giovanotto?
Gli occhi arrossati del prigioniero erano solo
stanchi, non più anche guardinghi. Mi piacerebbe proprio sapere come avete
ottenuto il permesso di venir qui a parlare con me, quando all’inserviente che
mi porta da mangiare e mi svuota il bugliolo hanno proibito perfino di
salutarmi. E’ più semplice di quanto possiate credere. Ho falsificato la firma
e i sigilli di Bonaparte e approfittato di una licenza che mi era stata
concessa per rimettermi in sesto dopo che, nel corso di uno scontro con una
nave inglese, un fuciliere della Marina mi ha cacciato un colpo di moschetto
nel ginocchio; tutto qui. Massimo gli aveva sorriso e il prigioniero si era
ritrovato a domandarsi se quel giovane ufficiale bianco fosse più coraggioso,
spavaldo o incosciente.
- Quello che state facendo è molto pericoloso…
e anche perfettamente inutile, signore.
Massimo ridacchiò, prima di mettersi a urlare
con voce tonante “Vuoi deciderti a collaborare, brutta scimmia?!” battendo i
pugni sul tavolaccio per poi riprendere, chiedendo al prigioniero con un
bisbiglio, quando i passi degli stivali ferrati del soldato di guardia si
spensero in fondo al corridoio. - Vorrei conoscere la vostra storia, Generale.
E’ per questo che sono qui.
IL RACCONTO DI LOUVERTURE (parte prima)
- Non sono stato il primo. - Aveva detto Toussaint Louverture con la voce resa rauca e sibilante dalla malattia che lo divorava. Ogni tanto, un accesso violento di tosse lo costringeva a interrompersi per ripigliare fiato, e Massimo gli diceva non ho fretta, Generale, verrò anche domani ad ascoltarvi parlare. Domani, e poi domani, e poi… Finché avrò ascoltato tutto quanto. Sarà solo allora che me ne andrò.
- Quando ancora pensavo che niente potesse
cambiare il nostro destino, qualcuno ci aveva provato. Vincent Ogé*, si chiamava
così. Era un uomo decente, lui, e non chiedeva niente che non potesse essere
concesso, ma i francesi lo hanno preso e condannato a morire con ignominia,
invece di stare ad ascoltare le sue ragioni, che erano anche le nostre. E
allora… E allora è stata la volta che il mondo è scoppiato, amico mio.
- Come qui.
- Esatto. Come qui. L’errore che hanno fatto i francesi era credere che noi non fossimo abbastanza intelligenti, abbastanza umani, abbastanza… bianchi da comprendere il significato e l’importanza della parola libertà. Quella per cui litigavano, s’insultavano e si picchiavano anche di fronte a noi, tanto eravamo quelli che non capivano niente… Certi portavano una coccarda bianca cucita sul bavero della giacca. Erano i grandi proprietari terrieri, e stavano dalla parte del Re. Altri, artigiani e bottegai di città, medici e avvocati, portavano una coccarda rossa e dicevano di stare dalla parte del popolo e della rivoluzione. Parlavano di libertà, di uguaglianza. E in breve quelle parole, che non erano per noi, fecero della mia terra quello che le fiamme fanno di un edificio battuto da tutti i venti.
Cominciò tutto nell’estate del 1791. Era
la fine di agosto e l’Hungan[8] Boukman* aveva riunito centinaia di
schiavi mezzo ai boschi della montagna Morne Rouge per la calenda. La cerimonia del sangue.
- C’eravate anche voi?
- No. Io sono un buon cristiano, e detesto
quelle superstizioni. E poi… Forse allora neppure ci pensavo. Ero libero, avevo
il mio fazzoletto di terra, mia moglie e i miei figli. Ero egoista, forse. O
non volevo legare il mio nome a quello di Boukman. Comunque, quella notte,
tutti i diavoli dell’inferno si scatenarono e davanti a un porco che l’Hungan
aveva sgozzato con le sue stesse mani, alla luce dei fulmini e delle torce,
sulla Montagna battuta dalla tempesta, migliaia di schiavi giurarono che si
sarebbero conquistati la loro libertà, costasse quel che costasse. Quando
scesero a valle, ubriachi di sangue, di rhum e di parole, sorpresero i loro
padroni nel sonno e li scannarono. Le fiamme che solcavano il cielo quella
notte furono il segnale della rivolta dei cinquecentomila schiavi di Haiti che
rivendicavano la libertà dai trentamila bianchi che li tenevano in catene.
Le labbra pendule del vecchio Generale
tremavano, e un filo di bava sanguinolenta schiumava alla loro commessura. Dirò
al Governatore del forte di mandarvi un medico, fece Massimo, e Louverture si
schermì con un gesto della mano.
- Ho i giorni contati, giovanotto, e non
c’è medico che possa metterci rimedio. Vi inguaiereste per niente, e… e non
riuscireste a conoscere la mia storia fino in fondo.
Gli occhi scuri scintillavano
febbricitanti e la fronte era imperlata di minuscole gocce di sudore.
- Adesso vi lascio. Si è fatto tardi,
siete stanco e… A domani, Generale Louverture .
- A domani, - lo salutò l’altro sollevando quasi con fatica la lunga mano ossuta.
IL RACCONTO DI LOUVERTURE (parte
seconda)
Dopo una notte insonne passata a rigirarsi nel
letto, Massimo Meridio non aveva rispettato la promessa fatta al vecchio, e ne
aveva parlato al Governatore del Forte.
-Q uell’uomo sta male, ha bisogno di un
medico.
-Q uell’uomo è un nero e la medicina dei
bianchi con lui non servirebbe a nulla. Se è destino che guarisca, guarirà da
solo. Se no…
A lui non avrebbe detto niente, pensava
mentre il giovane Ledoyen faceva girare la chiave nella toppa. Collabora? Gli
aveva chiesto. E Massimo, senza guardarlo in faccia aveva controbattuto con un “è
più testardo di un mulo” che doveva bastare e avanzare.
Quell’uomo è un nero.E’ diverso da noi. La medicina dei bianchi con lui non servirebbe a niente. Eppure, la rozza medicina del nero Juba aveva salvato lui, bianco, dalla morte per setticemia, un mare di anni prima. Eppure, quando glielo aveva chiesto usando le buone e anche le cattive, il migliore medico di Roma aveva messo a posto la zampa fratturata del suo cane. La verità era un’altra. Louverture dava fastidio. Il Primo Console lo voleva morto.Ma la fortuna è una ruota che gira. E se esisteva un Dio, Napoleone non l’avrebbe passata liscia. Avrebbe pagato con la stessa moneta, tra, un anno, tra dieci, non importava quando, pensò stringendo il pugno in fondo alla tasca della giacca. Purché pagasse.
Quando lo vide entrare nella cella, il
volto del vecchio si illuminò per un attimo. Stava un po’ meglio, la pelle
bruno rossastra della faccia era asciutta, gli occhi non così lucidi e
lacrimosi come il giorno prima.
- Vi aspettavo.
- E io non vedevo l’ora di ascoltare le
vostre parole, Generale.
- Sono così importante per voi?
Massimo assentì con un cenno della testa,
sorridendogli, e il vecchio pensò che gli piaceva proprio il Terzo Ufficiale,
quel giovanotto spavaldo che per incontrarlo aveva falsificato la firma e i
sigilli di Bonaparte. Se i bianchi fossero stati tutti quanti come lui, Haiti
non sarebbe andata a fuoco come un braciere e si sarebbe potuti vivere insieme
in pace. Ma la realtà e i sogni non sono la stessa cosa.
- Dov’eravamo rimasti?
- Alla cerimonia del sangue e al massacro
dei piantatori bianchi, Generale.
- Ah. La repressione non si fece attendere
e l’abbondanza di cadaveri era tale da sfamare tutti gli avvoltoi, i corvi e
gli urubù[9] dell’isola. Cadaveri bianchi e cadaveri
neri, cadaveri di morti ammazzati nelle maniere più fantasiose che la
perversione umana possa concepire… La pietà era morta, si preparavano per tutti
giorni difficili.
Per sottrarsi alla caccia dei soldati
francesi, molti schiavi fuggiaschi si erano rifugiati in mezzo alla foresta. Fu
allora che cominciarono a nascere le prime bande, a imporsi i primi capi. Jean
François*. Macaya*. Jeannot*. Biassou*. Si portavano appresso il coraggio di
chi non ha niente da perdere, erano temerari, abilissimi nel condurre con
astuzia assalti e saccheggi. Erano spietati. E dopo ogni impresa, si
ubriacavano come bestie.
Avevano avuto una vita difficile, ed erano
impastati di rabbia e di odio. Voi non sapete che cosa significhi essere
schiavo.
Massimo Meridio sentì una lunga spada di ghiaccio
trafiggerlo da parte a parte. Invece lo so. Dirglielo sarebbe stato forse la
cosa migliore, ma il vecchio combattente non avrebbe accettato la sua verità.
So cosa significa perdere la propria libertà, pensò. So cosa significa
preferire la peggiore delle morti alle catene. Forse vi dirò tutto quanto, un
giorno e allora capirete perché ho falsificato la firma di Bonaparte e
intrapreso un lungo viaggio nel cuore dell’inverno solo per potervi parlare,
generale Louverture. Ammesso e non concesso che vi sia facile credere a quello
che dovrei dirvi di me… Ammesso e non concesso che non mi prendiate per pazzo.
- Alcuni di loro venivano dall’Africa e
avevano attraversato l’Oceano incatenati e stipati come animali nelle stive
puzzolenti delle navi negriere. Altri erano nati qui e, se gli era stato
risparmiato quel martirio, non gli erano state risparmiate le baracche lunghe
otto metri e larghe quattro dove si viveva nella più completa promiscuità, né
il lavoro nelle piantagioni che cominciava all’alba e finiva a notte fonda, il
cibo cattivo e le angherie dei sorveglianti. Quelli erano bestie. Erano la
feccia della società bianca. Stupravano le più belle tra le nostre donne e
qualche volta anche i ragazzi. Durante la raccolta, imbavagliavano gli schiavi
per impedirgli di mordere la canna. Chi si fermava sfinito, veniva frustato.
Gli indisciplinati erano puniti con fantasia: bastonati, torturati con tizzoni
ardenti, castrati, marchiati, mutilati del naso e delle orecchie… Gli
incorreggibili venivano arsi vivi o gettati in mare con una pietra al collo, o
seppelliti fino alle spalle con la testa coperta di melassa e lasciati divorare
dalle formiche. Alcuni proprietari facevano combattere fino alla morte i loro
schiavi, come se fossero stati galli, o cani, o… gladiatori.
Massimo chiuse gli occhi, inghiottì a
fatica il nodo che gli serrava la gola. Pochi minuti ancora, pensò, e Ledoyen
avrebbe bussato alla porta della cella. A domani, disse al vecchio alzando la
mano. Era pallido, e aveva voglia di vomitare. Ma sarebbe tornato: una, cento,
mille volte, finché il racconto di Toussaint Louverture non fosse finito,
finché il vecchio combattente non lo avesse perdonato per essere venuto al
mondo con la pelle del colore sbagliato.
IL RACCONTO DI LOUVERTURE (parte terza)
Il vecchio tremava, per il freddo contro il
quale poco potevano gli abiti leggeri che indossava e per l’emozione violenta
del ricordo. Massimo gli drappeggiò intorno alle spalle il suo pesante
mantello, dicendogli che glielo avrebbe lasciato. Lui scosse la testa.
- Non lo permetterebbero. E non vi
lascerebbero più parlare con me. Mi toglierebbero l’unica gioia di questi miei
ultimi giorni. Se non vi avessi conosciuto sarei… sarei il più infelice degli
uomini.
Una lunga lacrima attraversò il volto grinzoso
e scavato del generale, mentre afferrava le mani dell’altro, e le stringeva
forte.
- Esitai, prima di gettarmi nella mischia.
Esitai a lungo, giovanotto. Chiamatelo egoismo, chiamatelo come volete. Ero
libero, avevo moglie, figli, avevo di che sfamarmi. Quando hai la pancia piena
e il letto caldo, finisce che non te ne importa più niente degli altri. Anch’io
ero stato schiavo, e se non è padrone della sua vita, un uomo è meno di niente.
Ma non ero stato maltrattato, e non avevo dentro di me tutto l’odio che divorava
gli altri. Eppure, sapevo che le catene della schiavitù sarebbero tornate a
mordere la nostra carne, se non avessimo imparato a costruire qualcosa, invece
che accontentarci di distruggere. Allora finalmente decisi: il mio posto era a
fianco dei miei fratelli.
Non impiegai molto a rendermi conto
dell’inettitudine di chi li guidava, il cui programma era soltanto incendiare,
distruggere e ammazzare, facendo leva sull’odio che quei poveretti covavano
dentro. E quando ebbi radunato intorno a me un buon numero di combattenti,
cominciai ad allenarli alla disciplina e alla tattica della guerriglia, perché
solo così un esercito di disperati può augurarsi di tener testa ad un esercito
vero.
Mi avevano battezzato François Dominique
Toussaint. Breda era il cognome che mi era stato dato quando venni affrancato,
ed era quello della piantagione in cui ero vissuto fino ad allora. Mi diedi il
nome di battaglia di Louverture: sarei stato Colui che Apre Nuovi Mondi
scardinando vecchie porte, colui che avrebbe restituito alla sua gente la
dignità e la forza di costruirsi un avvenire, oltre alla libertà senza la quale
non sei nessuno.
Lo capirono anche i capibanda che accettarono
di prendere ordini da me: Jean François, il selvaggio Macaya, il sanguinario
Biassou… E due giovani che avrebbero avuto la forza, l’intelligenza e le
capacità per farsi strada anche in un esercito vero, Dessalines e Christophe.
Erano calde, le mani del vecchio generale.
Scottavano, nonostante il freddo della giornata. Riposatevi, gli disse Massimo,
ma lui scosse la testa e continuò a parlare.
- Avevano mandato dalla Francia un esercito di
seimila uomini “per rimettere ordine nella colonia”. L’Inghilterra e la Spagna,
che occupava la metà orientale dell’isola, entrarono in guerra contro i
francesi. Io mi unii a loro e venni nominato generale dell’esercito spagnolo.
Le vittorie dei miei uomini e l’occupazione delle coste da parte della flotta
inglese portarono in breve tempo l’esercito francese al disastro.
Frattanto, quassù le cose erano cambiate. Il
re era stato destituito e giustiziato, il governo giacobino e repubblicano
aveva proclamato l’abolizione della schiavitù nelle colonie. Il decreto venne
portato ad Haiti dal commissario politico Sonthonax*. Un brav’uomo. Le autorità
spagnole ed inglesi alle quali mi ero rivolto, mi diedero risposte evasive
sull’abolizione della schiavitù, mentre la Francia aveva cambiato pelle. Non mi
interessava il gioco delle alleanze, solo la libertà della mia gente. E a chi
mi tacciava di tradimento, dissi: ”Traditore è chi vuol mettermi le catene ai
polsi.”
Fu un periodo felice, quello. Le ostilità si
erano chiuse, la schiavitù era stata cancellata, le autorità francesi ci
avevano riconosciuto una certa autonomia. Molti bianchi ritornarono, e
riprendemmo a collaborare. Da uguali, questa volta, non da schiavi e padroni. I
campi devastati dalla guerra furono fatti nuovamente fruttare e iniziammo
proficue relazioni commerciali con gli Stati Uniti e con l’Inghilterra. E
questo non piacque alle autorità francesi.
Il vecchio chinò la testa,incurvò le spalle
ossute. Non disse che tutto quello era accaduto per merito suo, quando la
guerra aveva lasciato il posto alla pace e lui, depositate le armi, aveva preso
in mano le redini del potere: per fare del suo paese, finalmente liberato dalla
schiavitù una terra di uomini.
IL RACCONTO DI LOUVERTURE (parte quarta)
Aveva piovuto tutto il giorno, e nel cielo
volavano le cornacchie. Era ormai aprile, ma la primavera non aveva portato il
bel tempo e sulle montagne faceva ancora freddo.
Massimo aveva notato che le condizioni di
salute del vecchio prigioniero declinavano rapidamente e, per la seconda volta,
ne aveva parlato con il Governatore del forte. Mandategli un medico.Gli aveva
detto. Quell’uomo sta morendo.
-Vi state affezionando un po’ troppo a quel
negro, Comandante.
Aveva risposto Amiot con un’alzata di spalle.
E Massimo aveva taciuto e abbassato lo sguardo, rassegnato all’idea che non
doveva insistere con quelle richieste, se voleva continuare a vederlo.
Nei giorni precedenti, Louverture gli aveva
raccontato dell’amicizia che era nata tra lui e il Commissario di Governo
Léger-Félicité Sonthonax, delle sue speranze, della frenesia che metteva nel
lavoro perché si realizzassero. Gli aveva detto delle sue notti insonni e delle
sue giornate che avrebbe voluto andassero oltre le ventiquattro ore, per poter
realizzare quel che si era proposto nel minor tempo possibile. Voleva cambiare
il mondo, e ci stava riuscendo. I neri lo amavano perché aveva spezzato le loro
catene, i bianchi lo rispettavano per il suo equilibrio e la sua
moderazione.Aveva dimostrato al mondo che un uomo di colore può essere un abile
stratega, un politico intelligente e avveduto, un integerrimo galantuomo. Che
può avere degli ideali e lottare nel loro nome, proprio come tutti.
- Avrei dato dieci anni della mia vita per
avere la certezza che i miei non sarebbero rimasti soltanto sogni, - gli aveva
detto, prima che Ledoyen si mettesse a bussare alla porta.
I giorni successivi Louverture aveva chiacchierato
con lui di tante cose, ma non aveva continuato con il racconto della sua
storia. Voglio godermi la vostra compagnia senza intristirvi con questa favola
dal finale amaro, gli aveva detto, e Massimo si era guardato bene
dall’insistere. Avevano finito con il parlare di cani, di cavalli e di donne e,
di nascosto, lui aveva rifilato al vecchio una fetta di torta di mele.
- Vi ringrazio, ma non fatelo più. Quelli non
lo tollerano.
- Non si permetterebbero di perquisirmi prima
che entri da voi. Domani vi porterò del vino e un pezzo di arrosto: avete
bisogno di rimettervi in forze.
- Rimettermi in forze… Non vi accorgete che
sto morendo? E poi… Non bevo vino e non mangio carne, ragazzo mio.
Un accesso furibondo di tosse gli ricacciò in
gola il respiro e le parole. Massimo temette che il vecchio stesse davvero per
morire. E si domandò se si sarebbero degnati almeno di mandargli un prete,
visto che si era sempre proclamato un cattolico devoto. O forse era troppo nero
per morire in grazia di Dio?
La fibra di quel vecchio doveva essere forte
come acciaio temprato. Si riprese, e,di lì a qualche giorno, poté continuare a
raccontargli la sua storia.
- La situazione in Francia cambiò e a chi
aveva preso il potere seccava rinunciare ai cinquecento milioni di franchi
tornesi che il sudore e il sangue degli schiavi garantivano ogni anno.
Napoleone volle a tutti i costi ripristinare la schiavitù e non stette a
sentire ragione alcuna. Gli scrissi, e si rifiutò di rispondere. Gli scrissi
ancora: continuò a non rispondere. Alla fine, mandò un esercito di quarantamila
uomini a ristabilire quello che chiamava ordine costituito. A strappare, come
diceva lui, le spalline militari dalle giacche dei negri. Lo comandava suo
cognato Charles Leclerc*.
- Il marito di sua sorella Pauline. Quella
puttana. L’ho incontrata ad un ricevimento, poco prima che partissimo. Guardava
ogni uomo attraente, bianco o nero, che le capitasse a tiro come se volesse
divorarlo. Il suo vestito aveva una scollatura talmente profonda che se si
chinava appena potevo vederle i capezzoli.
- Naturalmente non avete distolto lo sguardo
com’era vostro dovere di gentiluomo, giovanotto…
- Ma io non sono un gentiluomo.
Avevano riso entrambi, prima che il vecchio
generale riprendesse il suo racconto. I suoi uomini avevano resistito
eroicamente, ma non era facile tenere testa ad un esercito di quarantamila
soldati. Toussaint Louverture e i suoi furono costretti ad arrendersi.
- Chiesi soltanto una condizione al generale
Leclerc: non la mia incolumità, ma che non fosse ripristinata la schiavitù. E
lui mi diede la sua parola d’onore di soldato.
Conosco il resto della storia per averne fatto
parte anch’io, pensò Massimo Meridio, il terzo ufficiale a bordo della corvetta
Le Heros, la nave su cui Toussaint Louverture era stato imbarcato per
essere condotto al suo destino.
CHI SIETE?
- Forse i miei erano soltanto sogni… Massimo.
Era la prima volta che il vecchio lo chiamava
per nome, guardandolo fisso con quei suoi occhi globosi e iniettati di sangue.
La pelle color mogano, incisa da rughe profonde, stava prendendo la tinta della
cenere. Brutto segno, pensò Massimo. Ne aveva visti morire tanti, lui, troppi
per potersi sbagliare.
Non si vive solo
di sogni. Ma senza sogni non si può vivere.
- Dite così perché siete troppo giovane per
sapere davvero come va il mondo.
- Il mondo va come va… Lo sapevate che la
febbre gialla ha decimato l’esercito francese e spedito all’inferno lo stesso
Leclerc? Lo sapevate che Dessalines e Christophe stanno continuando la
resistenza armata nell’unico modo possibile, ritirandosi verso le montagne e
facendo dietro di sé terra bruciata? Lo sapevate… O forse ve l’hanno nascosto?
- L’unica cosa che non mi hanno nascosto è che
laggiù adesso mi considerano un traditore. Hanno sparso la voce che ho venduto
la libertà dei miei simili in cambio d’un mucchio di denaro e che mi sto
godendo la vita in Francia. Che li ho venduti ai bianchi, come facevano i
capitribù africani in cambio di specchietti, perline e stoffacce… Mi hanno
portato via l’onore e la rispettabilità prima di portarmi via la vita…
Un profondo singhiozzo squassò il petto scarno
del prigioniero. So come ci si sente, disse Massimo, e lo strinse in un
abbraccio dal quale l’altro si districò con una violenza e un’energia
impensabili in quel suo corpo ridotto allo stremo delle forze.
- La malattia che mi sta uccidendo è
contagiosa, giovanotto.
- Prima o poi vi spiegherò le ragioni per cui
non ho paura.
Il vecchio non doveva averlo sentito. Restò
qualche istante in silenzio, quindi tirò fuori dalla camicia una cordicella a
cui erano appesi una croce di legno e un ciondolo di madreperla a forma di
mezzaluna. Anche chi mi diede questo tanto tempo fa… Chi mi diede questo e
possiede l’altra metà della luna, quella oscura… adesso crede che io sia un
traditore.
- Loro hanno vinto solo una mano del gioco. E
hanno vinto truccando le carte, Generale. Voi sapete che non è possibile
continuare a vincere barando, prima o poi il trucco salta fuori.
- Preferisco non immaginare come finirà. Anche
se in realtà lo so benissimo, amico. Dessalines e Christophe hanno fegato e
cervello, ma non sono quello che ero io. I loro padroni li hanno maltrattati,
quando erano schiavi, adesso vogliono vendetta. Non sono migliori di quelle
bestie di Macaya e di Biassou. Dessalines si porta ancora sulla schiena il
ricordo delle nerbate che gli somministrava il padrone alla minima mancanza.
Lui odia i bianchi e ha giurato di sterminarli, dal primo all’ultimo. Dall’odio
non nasce niente di buono.
- Lo so, Generale. Lo so. Il cane tenuto alla
catena e picchiato è quello che salterà alla gola di chi gli dava da mangiare,
quando si ritroverà libero.
Massimo s’inchinò a raccogliere qualcosa che
era scivolato dalla mano tremante del vecchio. Un chiodo arrugginito, l’unico
suo tesoro. Quando si rizzò nuovamente in piedi, il colletto della camicia gli
si era aperto. Il prigioniero notò la lunga zanna di animale appesa a un
lacciolo di cuoio. Notò i quattro sottili segni paralleli sul collo. Aveva già
visto parecchie volte quel genere di cicatrici sul corpo dei bossales africani che, nella loro terra,
erano stati guerrieri e cacciatori di belve: il ricordo dell’incontro con un
leone o con un leopardo. Il segno del coraggio temerario, impresso per sempre
nelle carni.
- Chi siete? - gli domandò strabuzzando gli
occhi.
Massimo chiuse i suoi, inghiottì a fatica il
groppo di tensione che gli aveva chiuso la gola. Si tolse la giacca. Chi sono?
Il mio nome è Massimo Decimo Meridio e i miei piedi calpestano la polvere del
mondo da oltre mille e seicento anni. Pensò alle parole con cui glielo avrebbe
detto, a quanto sarebbe stato difficile fargli accettare quella verità che
sembrava una folle menzogna. Sono stato generale delle legioni del Nord sotto
il regno del Cesare Marco Aurelio Antonino, schiavo e gladiatore sotto quello
del suo successore, il turpe Lucio Aurelio Antonino Commodo. Sono morto
ammazzato da lui all’età di trentatré anni, nella grande arena di Roma, ma
prima di cadere ero riuscito a tagliargli la gola. Aveva fatto trucidare mia
moglie e mio figlio. S’era macchiato di parricidio per ambizione e sete di
potere… La vita senza fine è un dono di Annia Lucilla Galeria, principessa
imperiale, innamorata di me senza speranza.
I pensieri che non osavano diventare parole
gli turbinavano nel cervello come farfalle impazzite. Con un gesto brusco, si
sfilò la camicia, poi voltò la schiena al vecchio. Ecco quello che sono, riuscì
a dirgli. Aveva un marchio a fuoco, sotto la scapola sinistra. Un marchio a
fuoco, come le bestie, come i neri riottosi. Eppure era un bianco, senza
possibilità di equivoci.
- Chi siete?
- Quello che siete voi, generale Louverture.
Io…
Avrebbe parlato. Avrebbe chiuso gli occhi, e
lasciato che le parole fluissero liberamente. Ma picchiarono alla porta.
Ledoyen. Era venuto a dirgli che il tempo era scaduto, anche quel giorno.
IL TESTAMENTO
Fort de Joux, 7 aprile 1803
Massimo Meridio chiuse gli occhi in faccia al
sole, mentre il garzone di stalla gli sellava il cavallo e il cane gli
saltellava attorno, quasi comprendesse che la loro prigionia lì dentro era
finita e che li aspettava un lungo viaggio. Un viaggio durante il quale avrebbe
annusato l’odore dell’erba fresca, dei piccoli animali che si risvegliavano dal
letargo, e, se avesse avuto fortuna, perfino quello dell’estro di qualche giovane
lupa. Era bello, viaggiare. Molto più di quanto non lo fosse starsene rintanati
lì dentro a respirare il puzzo del chiuso e della muffa. E la terra soffice,
l’erba umida di rugiada erano decisamente migliori, sotto i piedi, delle pietre
aguzze e scivolose del cortile interno dov’era rimasto confinato per quasi due
mesi, durante i quali il padrone aveva avuto poco tempo per mettersi a giocare
con lui.
Sette aprile. Il giorno in cui era venuto al
mondo, un mare di tempo prima. Aveva senso, in quelle condizioni, ricordare il
giorno del suo compleanno? Sua madre, finché era vissuta, gli preparava un
pranzo speciale, con i dolci che gli piacevano tanto, in quella particolare
ricorrenza. E sua moglie gli faceva dei piccoli regali, che di solito spediva
in quell’accampamento lontano dove lo avevano mandato a difendere i confini
dell’Impero minacciati dalle orde dei barbari, perché erano state poche, in
otto anni di matrimonio, le occasioni di trascorrere insieme quel giorno tanto
importante. Sette aprile dell’Anno di Grazia 147. Lui c’era ancora. Sua madre e
sua moglie, probabilmente, non erano più nemmeno ossa.
Non era riuscito a raccontare la sua storia al
prigioniero, perché l’uomo che andava a svuotargli il bugliolo l’aveva trovato
esanime proprio quella mattina. La morte lo aveva colto mentre se ne stava
seduto davanti al tavolaccio e non doveva essere passato molto tempo, da quel
momento, la testa riversa all’indietro contro la spalliera della sedia, le
braccia ciondoloni lungo i fianchi, un grosso chiodo arrugginito e una croce di
legno appesa a un cordino nella polvere della cella, proprio accanto ai suoi
piedi: dovevano essergli scivolati di mano negli ultimi spasimi della sua breve
agonia solitaria. François Dominique Toussaint Louverture se n’era andato,
ucciso dall’aria fredda delle montagne e dalla crudeltà degli uomini.
L’avevano seppellito in fretta e furia, entro
le mura di quel forte grigio e tetro dove, dieci mesi prima, era stato mandato a
morire. A morire piano piano, di stenti, di consunzione e di solitudine nel
gelo delle montagne, poco vestito, mal nutrito, abbandonato a se stesso… Perché
era meglio non giustiziarlo. Perché forse tanto si sarebbe ucciso. Ma François
Dominique Toussaint Louverture era troppo coraggioso per arrendersi alla
crudeltà del destino ed era rimasto disperatamente abbarbicato alla vita,
perché, fino a quando non si fosse spento, quel barlume di esistenza fosse
monito, rimprovero e rimorso.
Massimo non chiese dove lo avessero sepolto.
Avrebbe voluto raccogliere le sue ultime parole, invece… Invece non era
presente, come non lo era stato quando un incendio aveva ucciso i suoi
genitori, quando gli scherani del tiranno avevano assassinato sua moglie e suo
figlio, quando il suo signore aveva chiuso gli occhi sul mondo, assassinato
anche lui.
La peculiarità di non poter esternare con le
lacrime il suo dolore diede credibilità alla messinscena. Voglio vedere la sua
cella, aveva detto al Governatore Amiot, ed era stato accontentato. Era stato
il giovane Ledoyen ad accompagnarlo.
Avrei voluto poterti seppellire ai piedi di un
grande albero, Generale. Come faccio con i miei animali. Per pensare che
continui a vivere nell’erba, in una foglia, nello stormire del vento e nel gracidare
delle rane, pensò mentre si chinava a raccattare da terra la croce di legno, la
mezzaluna di madreperla e il chiodo arrugginito. Quel chiodo con cui aveva
inciso sul ciondolo un nome e sul tavolaccio, il suo testamento.
Martin Gr. La morte doveva averlo colto prima
che facesse in tempo a completare quella scritta: il nome di chi, ad Haiti,
portava appesa al collo la metà oscura della luna e lo credeva un traditore.
- Il Governatore ci aveva proibito di
fornirgli l’occorrente per scrivere.
- Ma a quanto pare si è arrangiato lo stesso.
Massimo sfiorò con la punta delle dita la
superficie scheggiata e sconnessa del tavolaccio.Quindi lesse a voce alta:
Ci sono cose più preziose
della vita. E ci sono cose più orribili della morte.
Ledoyen sghignazzò.
- Sicché era anche filosofo, quel brutto
scimmione nero.
Ma evidentemente il Terzo Ufficiale non
apprezzò il suo motto di spirito, perché lo gettò a terra con un violento
manrovescio sibilandogli con la sua voce grave e minacciosa:
- Impara ad onorare i morti, bastardo figlio
di puttana.
Sette aprile. Il cielo era terso, fuori dal
forte. L’aria profumata di menta e aghi di pino. Il cane gli trotterellava
davanti, abbandonando di tanto in tanto il sentiero per seguire qualche traccia
odorosa, e il cavallo procedeva al passo, sulla strada scoscesa. Poche ore, e
sarebbe stato a Besançon. Avrebbe chiesto a Doinel, o se non a lui a un altro,
una camera e una puttana. E un bottiglione di quel vino cattivo a buon mercato,
per ubriacarsi e per dimenticare.
François Dominique Toussaint Louverture fu davvero
trovato morto nella sua cella del Fort de Joux il 7 aprile 1803, ,in questo
caso non ho forzato la mano alla Storia. Per una curiosa nemesi del destino,
Napoleone, il suo carnefice, morì nell’esilio di Sant’Elena condannato dagli
inglesi ad un isolamento meno crudele ma altrettanto penoso, in un luogo dal
clima torrido e malsano che non si confaceva alle abitudini di un europeo e
quindi ne avrebbe accelerato la fine. Pare anche che gli abbiano lesinato le
cure mediche di cui necessitava e che sia stato forse avvelenato lentamente
propinandogli piccole dosi di arsenico. Vittima e aguzzino si ritrovarono così
accomunati, alla fine della loro avventurosa esistenza, da una analoga sorte.
Fine
Lalla, 6 marzo 2003
[1] In questo e nei capitoli successivi, ho
contrassegnato con l’asterisco i nomi dei personaggi realmente esistiti.
[2] Cittadino francese nato nelle colonie.
[3] Cella
[4] In alcune opere, come per esempio la biografia
di Paolina Bonaparte o certi romanzi, Toussaint Louverture viene descritto come
un bell’uomo piuttosto avanti con gli anni ma alto, forte e vigoroso. Il suo
biografo Pierre Pluchon ce lo descrive invece piccolo magro e brutto, anche se
dotato di grande forza ed eccezionale carisma. Anche Madison Smartt Bell, che
durante la rivolta degli schiavi di Haiti ha ambientato il suo romanzo “Quando
le anime si sollevano” ha fatto altrettanto. E io mi sono attenuta a
quest’ultima versione, che è sicuramente quella più vicina alla realtà dei
fatti.
[5] Salvacondotto
che permetteva ad alcuni schiavi particolarmente fidati di allontanarsi dalla
proprietà anche da soli.
[6] Rispettivamente: Guerriero e Inferno
[7] Schiavo deportato dall’Africa.
[8] Sciamano.
[9] Uccello che si
nutre di carogne.