Storie de Il Gladiatore

Storie ispirate dal film Il Gladiatore

Lettura sconsigliata ai minori di anni 18

 Massimo l’Immortale

CORDE ET ORE[1]

La gloria rende gli eroi immortali

di Lalla Usai

PROLOGO

IL GATTO

 

Campagne di Caen, Normandia, gennaio 1787

 

Un urlo ferino, lacerante, che non si capiva fosse d’uomo, d’animale o di demonio ruppe la solitudine e il silenzio del bocage, dai pascoli deserti fino alla brughiera e più in là fino al bosco di castagni dove, a quell’ora, nessuno avrebbe osato mettere piede. C’erano gli spiriti, si diceva, ed era possibile, nella nebbia, intuire le loro forme evanescenti, sentire la carezza delle loro dita gelide e bagnate. Eppoi, ammesso e non concesso che da quelle parti vivesse qualcuno che negli spiriti non ci credeva, c’erano i lupi. Grossi, feroci. Con lunghe zanne prominenti e occhi di fuoco. L’inverno e la fame li rendevano molto cattivi, e qualcuno che non era una vacca o una pecora aveva finito col farne le spese. Più di una volta. Ragazzi, o donne che si recavano nel bosco per raccattare qualcosa di commestibile e fascine per il focolare. Non erano bei tempi, quelli, per chi aveva poco e stentava a campare, erano in molti a dire che le cose dovevano cambiare, per amore o per forza.

 

Anche se non sarebbero cambiate, perché così è, da che il mondo è mondo, c’è chi è nato per comandare e chi per tirare la carretta, ed era solo una questione di natali. Luigi XVI era come se ci fosse nato per sbaglio, a corte. Era come le sue natiche grasse si fossero posate per sbaglio sul trono di Francia. Fosse dipeso da lui, forse avrebbe scelto di nascere in una solida famiglia borghese e di mantenere con il suo lavoro una moglie senza grilli per la testa e dei figli destinati ad ereditare una bottega o un opificio, non certo un regno. Ma non si può essere essi stessi gli artefici del proprio destino.

 

La cosa urlò di nuovo, e il suo strido acuto di dolore, di rabbia e di paura lacerò la caligine che avvolgeva la brughiera. Maxim strattonò le redini, faticando a mantenere il controllo del proprio cavallo e rischiando d’essere sbalzato di sella. Era un cavaliere molto esperto, non gli era mai capitato niente del genere. La bestia, una bella giumenta baia, doveva essere stata innervosita da quelle grida. Lui, che da anni allevava cavalli, sapeva quanto quelle bestie fossero sensibili e ombrose. Meglio smontare di sella, si disse, accarezzarle il muso di velluto e cercare di calmarla. Meglio procedere a piedi e cercare la strada di casa. Il freddo umido gli penetrava nelle ossa e non vedeva l’ora di cambiarsi e di piazzarsi davanti al camino, con le Satire di Giovenale sulle ginocchia e un bel bicchiere di vino caldo in mano.

 

L’aria era impregnata dell’odore metallico che precede i temporali, e una saetta squarciò il grigio del cielo, seguita dal brontolio cupo del tuono. E dal grido di spavento, rabbia e dolore di quella creatura misteriosa.

 

La giumenta scalpitò e nitrì. Con la mano guantata di camoscio nero, Maxim le accarezzò lentamente il muso. Non è niente, Messaline. Pochi minuti, e saremo a casa. Non è niente. O chissà, forse invece è qualcosa di talmente orribile da gelare fin dentro le budella perfino un uomo coraggioso. Una strega. O uno spirito. O magari un lupo mannaro. Da quelle parti le gente era terribilmente superstiziosa, si disse da sé solo scotendo la testa, prima di infilare il piede nella staffa e montare nuovamente in sella. Doveva sbrigarsi, cercare d’essere a casa prima che il temporale lo sorprendesse in quella landa desolata, priva di qualsiasi riparo.

 

Non era uno spirito né una strega o un lupo mannaro, colui che aveva gridato al cielo di piombo la sua rabbia, la sua paura e il suo dolore. Maxim vide dinanzi alle zampe della sua cavalla un uomo intento a prendere a calci e a bastonate un sacco che si dimenava ai suoi piedi. Era da lì che uscivano quei lamenti. Meno misteriosi adesso: non c’era niente di soprannaturale, in quel che i suoi occhi vedevano, un contadino intabarrato dentro una vecchia giacca con le pezze ai gomiti che cercava, secondo la sbrigativa e crudele usanza locale, di liberarsi d’un povero cucciolo il cui unico torto era quello di stare al mondo.

- Che succede? - aveva domandato, e l’uomo gli aveva risposto finalmente li ho presi, i maledetti gatti della Fouine[2], quella strega. Lassù, la gente era convinta che il demonio stesso si nascondesse nel corpo dei gatti neri che tenevano compagnia alle streghe. E che bastasse un solo sguardo di quelle creature per seccare il grano, ammazzare il bestiame e far abortire le donne incinte.

 

Il contadino alzò gli occhi dal sacco che si dimenava ai suoi piedi e guardò stranito l’uomo che era smontato di sella e s’avvicinava a lunghi passi decisi, con le mani sui fianchi e la faccia dei giorni peggiori.

-Lascia stare quelle povere bestie, dannato bastardo…

Non l’aveva mai visto prima, ma non c’era da stupirsene, quello era un signore e i signori non se la intendevano con i contadini: ben vestito, bello e giovane. Il vento gli spettinava i lunghi capelli castani raccolti sulla nuca con un nastro di velluto e la smorfia rabbiosa che gli alterava i lineamenti scopriva denti bianchi e forti come quelli di un lupo.

-Vattene, prima che ti faccia maledire il momento in cui quella puttana di tua madre ti ha messo al mondo…

Certo, il suo linguaggio non era quello di un gentiluomo. Era svelto di mano e forte come un bue, contrariamente a quelli della sua razza, si era ritrovato a pensare l’uomo asciugandosi col dorso della mano il naso sul quale si era appena abbattuto il pugno pesante dello sconosciuto.

 

Andate a farvi fottere, tu e i maledetti gatti della Fouine. Aveva borbottato il contadino, abbastanza piano da non farsi sentire mentre se ne andava, la testa incassata nelle spalle, il randello stretto in mano e il naso che gocciolava ancora, senza voltarsi a guardarlo mentre si chinava ad aprire il sacco entro il quale, si augurò, avrebbe trovato soltanto una poltiglia di peli, sangue e piccole ossa fracassate. I maledetti gatti della Fouine. Sputò una bestemmia tra i denti e si dileguò nella nebbia.

 

Non si fermò a guardarlo accosciarsi, aprire il sacco ed estrarne tre piccoli corpi inerti e massacrati. Non c’erano nascondigli o ripari, in quella landa desolata, e stava per scatenarsi un violento temporale. Maxim accarezzò le tre morbide pelliccette impregnate di sangue come vecchie spugne, alla ricerca di un segno di vita. I due piccoli erano morti, ma il cuore del grosso maschio batteva ancora. Forse non era arrivato tardi, pensò aprendosi la camicia e infilandoci dentro la povera bestia, perché trovasse conforto al dolore contro il suo corpo caldo. Se quel maledetto contadino avesse potuto vederlo, forse avrebbe pensato che lui era come certe vecchie zitelle che amano più gli animali che non gli esseri umani. Forse avrebbe pensato: questo incosciente non ci crede, nei diavoli e nelle streghe. Forse…

 

LA FOUINE

 

- E’ tuo?

La donna arruffata e senza età accennò di sì con la testa, mentre Maxim tirava fuori il grosso gatto mezzo morto da sotto la camicia. Gli aveva imbrattato i vestiti di sangue e graffiato il petto con gli artigli aguzzi, quando lui, per staccarselo di dosso, doveva aver stretto il povero corpicino martoriato in qualche punto particolarmente dolorante.

- Forse sono arrivato tardi.

La donna alzò le spalle ossute, gli piantò senza parlare gli occhi scuri e acuti nei suoi. Non si capiva quanti anni avesse, potevano essere trenta come sessanta. Quando allungò le mani per afferrare il gatto e sfiorò le sue, Maxim gliele sentì ruvide e calde. Mani forti da guaritrice. La Fouine sapeva curare i mali con le erbe e aiutava le donne del villaggio a partorire. Certo, non erano più i tempi in cui quelle come lei rischiavano di finire bruciate sulla pubblica piazza, ma la nomea di strega non era comoda da portarsi appresso nemmeno nell’età dei Lumi.

 

-Venite dentro.

La voce non era meno ruvida delle mani e lui la seguì nell’abituro dove viveva, un tugurio che puzzava di fumo e piscio di gatto, ma era illuminato a sufficienza dalla luce di una grossa lanterna da carrozze.

-Sedetevi.

Aveva occhi belli, grandi e vivi, il naso aquilino e un dente davanti spezzato. Indossava vecchi abiti di panno scuro, smessi da chissà chi, e la gonna troppo corta le scopriva stinchi ossuti nelle calze slabbrate e grandi piedi infilati dentro zoccoli di legno.

-E’ conciato male.

-Ma vivrà… I gatti hanno sette vite. Vivrà grazie a voi… Signore.

-Maxim Merides. Allevo e vendo cavalli, dalle parti di Caen.

Come se a quella donna potesse importarne qualcosa, di chi era e cosa faceva. Aveva salvato da morte certa il suo grosso gatto nero. Il suo spirito protettore. Contava quello, per lei, e nient’altro.

 

Il nome che le avevano dato lo aveva scordato o rimosso. Tutti quanti la chiamavano La Fouine. Da sempre. La Faina. Perché era magra, famelica, insinuante e cattiva, dicevano così. Perché sapeva la magia e di certo era in combutta con qualche diavolo. Non aveva mai conosciuto i suoi genitori, ed era stata una vecchia che era vissuta lì prima di lei, ad allevarla e a iniziarla ai suoi segreti. La Fouine sapeva curare grandi e piccoli malanni con le erbe, aiutava le donne del villaggio a partorire. Sapeva far innamorare e mandare il malocchio. Poteva far seccare il grano e asciugare le mammelle delle vacche con un solo sguardo. Forse la odiavano, ma era certo che la temevano, e non osavano farle niente. Almeno fintantoché quel contadino, lei credeva di sapere chi fosse, non aveva ammazzato due dei suoi gatti e ridotto a malpartito il terzo. Menomale di quel signore che le stava davanti, non fosse stato per lui neppure Gigot ce l’avrebbe fatta. Maxim Merides. Allevava e vendeva cavalli dalle parti di Caen, non molto lontano da lì. Non l’aveva mai visto, infatti non capitava spesso che la strada di una sudicia strega e quella di un giovane signore si incrociassero, com’era successo a loro.

 

Gli occhi di brace della Fouine lo percorsero scrutandolo con attenzione dalla punta degli stivali incrostati di fango agli splendidi capelli castani lunghi e ondulati, che portava raccolti in una morbida coda e gli accarezzavano il collo. Nel corso della sua vita, che era meno lunga quanto potesse sembrare ma non poi così breve, aveva conosciuto molti uomini: a qualcuno s’era data per soddisfare i suoi sensi, a molti per placare la sua fame. Certi erano stati soltanto incontri fugaci, negli occhi di altri aveva percepito odio e paura. Altri ancora le avevano chiesto aiuto: perché il bestiame si era ammalato, perché un nascituro stentava a venir fuori dalle viscere della madre mettendo la sua vita in pericolo, perché soffrivano a causa di un amore non corrisposto… Uno le aveva chiesto l’inosabile e lei l’aveva scacciato via urlando dal suo tugurio: se sei strega, richiama indietro dal mondo dei morti mia moglie, che la febbre si è portata via. Aveva solo trent’anni, e lascia cinque bimbi piccoli… Eh, già, ne aveva conosciuti tanti. Ma nessuno era come Maxim Merides, che allevava e vendeva cavalli dalle parti di Caen.

 

-Non siete come gli altri. Loro vengono a chiedere, non a dare. Voi siete diverso, signore.

Era alto e forte come lo sono i soldati, e aveva un bel viso dall’espressione franca e dai lineamenti regolari. Per la prima volta nel corso della sua vita, di fronte a quegli occhi chiari, acuti e luminosi che la fissavano, La Fouine fu costretta ad abbassare i suoi.

 

I lacci allentati della camicia gli scoprivano il petto graffiato dagli artigli del suo povero Gigot. La donna rabbrividì, al pensiero di quella pelle dorata, di quelle stille di sangue che si rapprendevano tra la peluria sottile, appena un po’ più chiara dei capelli. Quell’uomo era bellissimo, pensò prima di dirgli ridacchiando: vostra moglie potrebbe pensare che avete un’amante molto focosa e prendersela a male. Le era sembrato che l’espressione del suo viso si rabbuiasse, a quella parole dette così, tanto per dire. Sua moglie era una donna davvero fortunata, si disse la strega da sé sola dopo aver versato dell’infuso di arnica sopra una piccola pezza pulita ed essergli andata di nuovo vicino. La sua pelle era calda, e aveva un buon odore naturale, pulito e invitante. Vi riempirei di baci, vi asciugherei quelle gocce di sangue con la lingua e vi farei impazzire dal piacere, se non fossi quella che sono e voi quello che siete… Gli slacciò la camicia, fece per tamponargli i graffi del gatto. Così non s’infetteranno.

IL SEGNO

 

I graffi che s’infettano possono diventare pericolosi e mandare un cristiano all’altro mondo. Ho visto uomini morire per roba del genere, e non è una bella morte. Tremi tutto quanto e le mascelle si serrano con tanta forza che nemmeno cacciandoti un bastone tra i denti riuscirebbero ad aprirti la bocca. Ti contorci come un cane arrabbiato e, alla fine, una convulsione più forte delle altre ti spezza il filo della schiena mandandoti dritto all’altro mondo. E non c’è scienza o magia o miracolo che possa far niente per metterci rimedio.

-Toglietevi la camicia, così non ve la macchierò con questa roba. Tanto il fuoco è acceso e non c’è freddo, qui dentro.

La Fouine aveva chiuso la porta con il paletto e gettato fascine sul fuoco. Non c’era freddo, ci faceva parecchio caldo, anzi, lì dentro, pensava Maxim mentre si sfilava prima la giacca di panno, poi la camicia di lino e posava i due indumenti sulla spalliera di una vecchia sedia mezza sfondata. La donna si morse le labbra, prima di prepararsi a detergergli le ferite. Per la bellezza del suo corpo abbronzato e muscoloso, forse… Sono una donna, si disse da sé sola. Sono una donna, anche se i più mi prendono per un fagotto di stracci, per un guscio che è stato svuotato dal bene e riempito di male, d’inferno e di magia, anche se non credono che possa ancora provare del desiderio. Tutti, anche lui, forse. Quanti anni poteva avere? Non più di trenta, trentacinque. Alcune brutte cicatrici deturpavano la perfezione della sua pelle: quattro solchi paralleli tra il collo e la spalla, una mezzaluna biancastra sul braccio, un marchio a fuoco sulla schiena, come quelli con cui la giustizia soleva segnare per sempre coloro che la fame spingeva a rubare il pane.

 

Era molto più alto di lei e aveva qualcosa d’infantile, innocente nell’espressione  del viso. Ma lo sguardo era quello duro di chi ha visto troppo. Mi piacerebbe riuscire a leggere nei vostri pensieri per capire il perché della vostra tristezza. E per sapere chi siete. Qualche volta le era riuscito, ma non succedeva sempre, né con chiunque. La testa le doleva da spaccarsi, in quei momenti, e i segreti di chi le stava davanti venivano a galla come i cadaveri degli annegati. Eppure le era impossibile leggere qualcosa negli occhi azzurri di Maxim Merides.

 

Niente traspariva della sua vita e dei suoi segreti, in quello sguardo azzurro sornione e sonnolento che dardeggiava tra le palpebre pesanti, tra le lunghe ciglia dorate. Ma la pelle del suo petto era intatta, adesso. I graffi aperti dagli artigli del povero gatto massacrato a calci e bastonate da quel contadino imbestialito erano profondi, eppure non avevano impiegato che pochi minuti a chiudersi del tutto, senza lasciare alcuna traccia.

 

La Fouine lasciò correre le dita ruvide e callose lungo il contorno marcato del suo viso, sulle guance ombreggiate da una barba di due giorni, sulla vena che gli pulsava nel collo, sulle cicatrici che gli segnavano la pelle come altrettanti marchi d’infamia. Aveva con sé un amuleto, una zanna di lupo ingiallita dal tempo, che gli dondolava sul petto appesa a un lacciolo di cuoio. Come se potesse aver bisogno di un portafortuna, uno come lui. Uno che aveva cavalcato i secoli, uno che la morte poteva sfiorare soltanto ma non ghermire. Ma come la morte, forse anche la fortuna poteva sfiorarlo soltanto.

-Graffi come i vostri impiegano qualche giorno a guarire. E voi non avete più niente.

Lo guardò infilarsi la camicia e la giacca; la testa le doleva, come quando si sforzava di leggere nei pensieri della gente e ciò che poteva scorgere erano ombre dalla forma incerta le quali faticavano ad emergere da una nebbia densa e scura, che confondeva tutto.

 

Si sentì stringere dalle sue braccia, percepì il tepore della sua bella bocca sopra la fronte, nel punto in cui pareva concentrarsi tutto il dolore che stava provando. Non gli ripugnavano il suo aspetto e la sua nomea. Gliene fu grata. Non temeva la sua povera magia, colui che non aveva ragione di temere la morte, dopo averla affrontata in un duello all’ultimo sangue, chissà quanto tempo prima. Ma La Fouine si divincolò dal suo abbraccio, gli chiese con un filo di voce di lasciarla andare.

-Hai paura di me?

-Non ho paura di niente. Nemmeno di voi anche… anche se ho capito che cosa siete…L’ho capito da subito. Da quanto tempo…

Da quanto tempo i vostri piedi calcano la polvere del mondo, la terra sotto la quale i vivi hanno seppellito i morti? Quanti anni sono passati dal momento in cui qualcuno ha riportato la vostra anima indietro dall’aldilà per amore, per odio, per tornaconto, per chissà quale altra misteriosa ragione?

-Mille e seicento anni. Più o meno.

Vedo riemergere la vostra prima vita, signore. Quella in cui eravate un uomo importante, un capo di soldati armati, prima di diventare schiavo, prima di essere costretto a battervi alla morte con altri schiavi perché un nemico troppo più potente di voi aveva stabilito che la vostra vita non valeva niente. Un nemico che avete sfidato e ucciso, prima che la sabbia bevesse il vostro sangue.

 

-Quello che vi devo è molto, signore, e non solo per quella povera bestia. Potrebbe capitarvi di aver bisogno di me e allora… Allora pensatemi. Pensatemi fino a sentire male. E io… E io sarò da voi.

 

Chissà se aveva sentito le sue ultime parole, pronunciate mentre lui infilava il piede nella staffa, balzava in sella e si dileguava nella nebbia fredda, umida e greve della sera. Forse avrebbe avuto bisogno della sua magia, un giorno, Massimo Decimo Meridio, contadino, soldato, schiavo, gladiatore e regicida che l’amore di una donna aveva riportato indietro dal mondo dei morti, oltre mille e seicento anni prima. Per sempre.

 

LA FIGLIA DIMENTICATA

 

Caen, convento dell’Abbaye Aux Dames, Luglio 1789

 

Charlotte alzò gli occhi dal libro che stava leggendo, lo chiuse e lo posò sulla sedia dalla quale si era alzata per andare ad aprire la finestra. Le monache non avrebbero trovato niente di riprovevole nel suo gesto: faceva caldo e la brezza che soffiava dal giardino avrebbe mitigato la calura opprimente della sua stanza. Il convento era la sua casa da quando, a quattordici anni, con la morte di sua madre, aveva dovuto dire addio alla stagione della spensieratezza. Il padre aveva sistemato i figli maschi in una scuola militare, le ragazze in quel convento, dove avrebbero appreso quel che una buona moglie deve sapere per essere la gioia del suo sposo e la benedizione della casa in cui andrà a vivere. Di lì sarebbe uscita quando il Signor de Corday d’Armont si fosse trovato per le mani il partito adatto al loro illustre blasone e, perché no, alle loro traballanti finanze, e poco importava che fosse o meno di suo gradimento.

 

Sposa. O monaca, in alternativa.

 I tempi sono cambiati, cambierà anche il nostro destino di donne, si era detta tante volte: aveva già ventuno anni e suo padre non si decideva a trovarle marito e a tirarla fuori di lì dentro. Ma non la sollecitava, nelle sue poche, frettolose visite, neppure a prendere il velo. Forse aveva intuito come i tempi potessero essere cambiati, o semplicemente era oppresso da pensieri troppo cupi che gli impedivano di occuparsi dei suoi figli come sarebbe stato il suo dovere di padre. Figlie dimenticate, si definivano le sue sorelle, delle quali lei raccoglieva le confidenze e le lacrime. Che ne sarà di noi, le avevano chiesto tante volte. Erano deboli, come la maggior parte delle donne. Troppo per prendere in mano i loro destini senza lasciarsi guidare da qualcuno. Forse i tempi erano cambiati, ma acqua sotto i ponti doveva passarne parecchia, prima che le donne potessero impadronirsi definitivamente delle loro vite.

 

Figlia dimenticata. Figlia senza affetto, senza una guida, senza una presenza costante nella sua vita. Presto, le monache le avrebbero domandato se intendeva prendere i voti e restare lì per sempre. Avrebbe risposto di no, non aveva la vocazione e la sua stessa devozione era superficiale, credeva più nell’Uomo che in Dio, lei; ma non si poteva parlare così alla superiora e avrebbe dovuto inventarne un’altra, per giustificare quelle idee riprovevoli che le erano nate dentro la testa. Sarebbe tornata a stare con suo padre, avrebbe consumato la sua giovinezza accanto a quell’uomo grigio, cupo, piegato dalle disgrazie. Finché, dall’oggi al domani, non si sarebbe ritrovata vecchia. Senza accorgersene.

 

Il mondo sta cambiando, ed io voglio essere parte di quel mondo. Al ricamo, aveva deciso di preferire la lettura. Romanzieri. Filosofi. Enciclopedisti. Il mondo sarebbe cambiato, e lei voleva esserci, voleva partecipare, voleva veder trionfare la giustizia, cambiare quel mondo iniquo nel quale era nata e cresciuta e che, le era stato insegnato, era l’unico possibile. Un mondo di oppressori e di oppressi. Un mondo nel quale un uomo stringeva in pugno i destini degli altri per diritto di nascita. Un mondo sul quale già da tempo soffiava una brezza che era diventata vento, il 14 Luglio, intorno alla vecchia prigione di Parigi. Vento di tempesta.

 

IL PREZZO DELLA LIBERTA’

 

Caen, 12 Agosto 1789

 

Suo padre non si decideva a cercarle un marito, pensava Charlotte, ma non gliene importava. Era la sete di giustizia che infiammava gli animi, il solo amore della sua vita, e non lasciava posto ad altri. A Parigi la Bastiglia era caduta e con le porte della vecchia fortezza anche le catene della schiavitù sarebbero cadute. Libertà… Uguaglianza… Fraternità… Non più sogni, non più parole proibite da sussurrare piano per non essere sentiti.

 

Il vento caldo che soffiava dal mare puzzava e gridava come la folla esaltata da parole che non aveva mai sentito prima, dalla promessa di una vita nuova in cui non vi sarebbe stato più posto per il dolore, il sopruso e l’ingiustizia. La nuova libertà li eccitava, come cani tenuti a lungo legati alla catena che si ritrovino sciolti all’improvviso e inaspettatamente. Le erano giunte all’orecchio notizie di violenze, da una parte e dall’altra: c’era chi lottava alla morte pur di non perdere i suoi privilegi e chi voleva bere il sangue di coloro che l’avevano angariato, avvilito, sfruttato dacché sul mondo sorgeva il sole e cadeva la pioggia.

 

Hanno ucciso il visconte de Blensunce. Mormoravano piano le suore. Forse non sapevano come, o forse la loro mente rifiutava di pensare che uomini e donne potessero arrivare a tanto. L’avevano ammazzato, mutilato, gli avevano strappato il cuore che un ragazzino si era divertito a prendere a calci e che una megera aveva poi arrostito e mangiato.  Il visconte era nipote della vecchia badessa del convento.

 

Charlotte si morse le labbra a sangue quando sentì i tonfi lugubri del tamburo farsi sempre più vicini, le voci ubriache di vino e di sangue.  Avevano issato in cima a una picca la testa del visconte e infilzato su un forcone un gomitolo sanguinolento delle sue viscere. Si dirigevano verso il convento dove era stata accolta ed educata, dove aveva scoperto nei libri di aspirare ad un governo repubblicano giusto e generoso. Sentì i colpi sulla porta, le grida di odio, le minacce di morte. Cercò di non guardare gli orrori infilzati sulla picca e sul forcone che venivano fatti passare dinanzi alle finestre. Un gruppo di suore corse a rifugiarsi nella cappella e una giovane novizia, incontrandola, le si parò davanti. Aveva gli occhi rossi, i pugni stretti, il volto livido di rabbia e di repulsione. Eravate voi quella che affermava che il popolo di Francia marciava verso la libertà. Ed ecco che, invece, è diventato cannibale.

Non è il popolo, sorella. E’ la marmaglia. I colpevoli sono coloro che la istigano ad uccidere.

 

MADAME DE BRETTEVILLE

 

Poiché aveva concluso il suo corso di studi e la sua educazione ormai poteva ritenersi completata, Charlotte Corday avrebbe potuto lasciare il convento e tornare presso la sua famiglia. Le venne tuttavia offerto di rimanere, in qualità di maestra delle educande, e lei rimase, godendo di maggiore libertà rispetto a prima e ben lieta, soprattutto, di aver accesso alla ricca biblioteca del monastero, che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, era ben fornita anche di opere profane. Fu attraverso queste letture che la giovane Charlotte formò e consolidò il suo credo repubblicano.

Il 13 Febbraio 1790, con il decreto che imponeva la chiusura dei conventi, Charlotte dovette far ritorno alla casa di suo padre, che lascerà pochi mesi dopo, per trasferirsi a Caen, presso un’anziana cugina, Madame de Bretteville.

 

Sarebbe andata a tener compagnia alla vecchia cugina che stava in città e consumava nella solitudine i suoi giorni, aveva detto al padre prima di lasciare la casa dov’era nata e aveva vissuto gli anni della sua spensieratezza, dove lo zio prete Amédée le aveva insegnato a leggere e dove aveva scoperto le opere di quel Pierre Corneille da cui la sua famiglia discendeva, il grande drammaturgo che aveva posto a fulcro delle sue opere il conflitto tra il dovere e i sentimenti. Ma i tempi non erano più quelli: il domani incerto e la povertà avevano inasprito l’animo di suo padre, le sorelle se n’erano andate, i fratelli avevano scelto la via dell’esilio. Al vecchio zio, che aveva rifiutato di prestare il giuramento di fedeltà alla Costituzione, era stato proibito di celebrare la Messa, e viveva prigioniero in casa sua. In città sarebbe stato diverso. O forse no. Ma almeno, sperava, non avrebbe visto intorno a sé solo facce tristi, sguardi vacui, svuotati di speranza. Avrebbe continuato a leggere, a documentarsi, a confidare che la furia delle plebi si sarebbe placata come un temporale estivo e sulla follia sarebbe infine prevalsa la forza della ragione.

 

Le capitava di parlarne, con la vecchia cugina che non usciva più da casa e aveva consumato il suo rosario d’argento, a forza di rigirarne i grani tra le dita. Le cose cambieranno, è inevitabile. Il peggio passerà, come passa il temporale. E la vecchia dama, scotendo la testa, diceva passerà, sì. E allora soltanto potremo valutare i danni. Danni forse irreparabili, mia piccola. Ferite le cui cicatrici non si cancelleranno mai. E quando sarà? Quando voi sarete quella che sono io, una vecchia senza futuro?

 

Ma Charlotte sentiva dentro di sé che non avrebbe mai perduto la speranza in un domani migliore e la fede nell’innata bontà degli uomini. Nemmeno quando avrebbe avuto l’età di Madame de Bretteville, le sue rughe, i suoi capelli grigi. Avrebbe continuato a sperare in un domani migliore, a lottare, se non per lei, per le generazioni future. Guardarsi indietro, ricordare con rammarico un passato nel quale non c’era niente da rimpiangere? Mai, si disse da sé sola chiudendo il libro che aveva appena iniziato a leggere. Mai.

 

LOUISON[3]

 

Non era passato molto tempo dacché i deputati dell’Assemblea avevano riso del dottor Guillotin e della sua geniale invenzione, e sembrava fossero trascorsi secoli. Qui sotto ci passerà di tutto, aveva latrato il tribuno Marat quando, il 25 Aprile 1791, sul far della notte, la ghigliottina montata nella Place de Grève, aveva mietuto la sua prima vittima, un ladro. Ne salteranno, di teste! Profittatori. Aristocratici. Mercanti. Preti. Deputati. Le esecuzioni sarebbero diventate uno spettacolo tanto consueto quanto edificante, e ogni città, ogni paese avrebbero avuto la loro ghigliottina, montata nel bel mezzo della piazza principale, perché fosse fatta pubblica giustizia dei nemici del Popolo e della Rivoluzione. Era stato perfino appioppato un nomignolo gentile, all’infernale marchingegno: Louison.

 

Le rivoluzioni devono necessariamente essere nutrite di sangue. Dieci. Cento. Mille. Diecimila teste. Il terrore avrebbe annientato i nemici, fatto trionfare il nuovo che avanzava. Non la ragione, non il dialogo. Il sangue. Duecentosettantatremila teste, aveva chiesto Marat. Per il bene della Francia e del suo popolo. Duecentosettantatremila teste, o quello in cui speriamo si scioglierà come neve al sole senza neppure poterlo veder balenare sotto i nostri occhi un attimo soltanto. Le nostre speranze si nutrono di sangue, non di parole. Morte. Massacri. Vendetta. Sarebbero state le picche dei sanculotti, le urla delle megere appostate sotto i patiboli a portare il cambiamento. Senza sangue, senza violenza, senza paura questo non sarebbe stato possibile, checchè ne pensassero Danton  e tutti quelli che, come lui, sognavano di cambiare il mondo senza sporcarsi le mani, riempiendosi la bocca di chiacchiere che il popolo non era certamente disposto ad ascoltare..

 

Il 27 Gennaio 1793 cadde la testa dell’ex sovrano. L’abulico, grasso, inetto Luigi XVI era stato capace di morire con dignità. E non trascorse molto tempo, dacché coloro che avevano chiesto per lui la clemenza e l’esilio ne seguirono la sorte.

 

Due mesi dopo, anche Caen ebbe la sua ghigliottina e, il 5 Aprile 1793, in Place Saint Sauveur, si procedette alla prima esecuzione: quella di André Chabert, reo di tradimento.

 

CHABERT

 

Lascerò più serenamente questo mondo, se saprò che ci sarete.

 

Non faceva freddo, quel giorno, eppure Maxim aveva faticato a reprimere un brivido, guardando il suo amico salire i gradini del patibolo trascinando la gamba storpiata dalla paralisi infantile. Non so, si era detto, se ci credevate sul serio a quel che avete scritto nella lettera che mi avete fatto recapitare due giorni fa, quando avete saputo che per voi era finita. Non ve ne andrete serenamente neppure se mi vedrete, amico, se saprete che io sarò lì, sotto il patibolo, a raccogliere gli ultimi istanti della vostra esistenza, a promettervi con il pensiero che mi occuperò di Marc… Povero bambino. Non ha neppure dieci anni, e la vita non gli ha risparmiato nessun dolore.

 

Maxim aveva cominciato a frequentare André Chabert cinque anni prima. Cinquantenne, avvocato di grido, lo aveva patrocinato brillantemente nel corso di un contenzioso riguardante la proprietà di un terreno. Era un uomo introverso, malinconico, che aveva perso da pochi mesi la moglie. Strano destino, il suo: si era sposato con una ragazza di natali assai modesti quando ormai pensava che sarebbe morto scapolo; era diventato padre all’età in cui di solito si diventa nonni e la moglie, nonostante avesse vent’anni in meno di lui, l’aveva preceduto nella tomba uccisa dal tifo. I soli affetti che gli restavano, erano un’arcigna sorella nubile, che si era trasferita a casa sua per badare al bambino e Marc, la luce dei suoi occhi, la sua sola ragione di vita.

 

L’avvocato Chabert era un affascinante conversatore dotato di vasta erudizione, e profondo conoscitore della storia antica: parlava il latino altrettanto bene del francese e si era meravigliato sentendo fare altrettanto al bel giovanotto dai modi spicci e dalla muscolatura gagliarda che aveva appena terminato di patrocinare. Allevava cavalli e non aveva certo l’aspetto dell’intellettuale, eppure poteva vantare una mente brillante e una cultura di tutto rispetto. Gli piacevano i bambini e si era subito affezionato al piccolo Marc. Meglio così, non era giusto che crescesse circondato unicamente da vecchie persone tristi e che la malinconia gli mangiasse la vita a cinque anni soltanto. Il nuovo, giovane “zio” giocava e rideva con lui. Gli aveva regalato un minuscolo pony inglese e aveva promesso che, di lì a qualche anno, gli avrebbe insegnato a montare un cavallo “vero”.  Delle volte capitava che si intristisse, quando lo guardava, come se Marc gli ricordasse qualcuno che aveva amato e perduto. Ma si ricomponeva subito, e scacciava come fosse stata una vergogna innominabile la malinconia dai suoi occhi.

 

Era stato il primo a sapere che l’avvocato Chabert aveva deciso di dedicarsi alla politica, candidandosi all’Assemblea Legislativa.

Lo faccio perché credo nell’innata bontà dell’Uomo. Aveva detto. Perché aspiro ad una società in cui ogni atto sia illuminato dalla luce della Ragione. Perché voglio consegnare a mio figlio un mondo più giusto. E perché… Perché avete paura che questi siano solo sogni, Chabert. Perché sapete che l’Uomo non è buono, che il mondo non è giusto e che la tenebra dell’odio e della follia spesso e volentieri offusca completamente la luce della Ragione. Perché in ogni epoca l’inferno ha sputato i suoi demoni sopra la terra, e così sarà per sempre. Non chiedetemi come faccio a saperlo, perché mi prendereste per pazzo, se vi dicessi tutto di me… Se vi raccontassi che sopravvivrò a tutto questo, e che continuerò ad essere ciò che ero e che sono anche quando questi mostri non saranno più nemmeno ossa.

 

Dopo l’esecuzione del re, Chabert era tornato. Non me ne andrò più, gli aveva detto. Avevate ragione, le mie non erano che le fantasie patetiche di un sognatore. Starò qui, con mio figlio. E aspetterò che tutto passi, perché passerà, ne sono sicuro.

 

Marat. Era lui, il mostro generato dal sonno della ragione, lui che reclamava il sangue di cui si sarebbe nutrito l’ideale rivoluzionario. La Patria, diceva, non sarà al sicuro finché l’ultimo dei traditori conserverà in corpo un solo alito di vita. La Patria? Ma quale Patria, se lui era un apolide, figlio di padre sardo e di madre svizzera, uno che, nel corso della sua vita, era stato costretto diverse volte a prendere la via dell’esilio, e non a causa delle sue idee ma dei suoi debiti? E in quanto ai traditori… Quando l’Assemblea aveva voltato per la morte del re, non erano stati in pochi ad opporsi. Pagherebbe colpe che sono sue soltanto in parte, si erano giustificati. La condanna capitale farebbe di quell’omiciattolo indolente e inetto un eroe agli occhi di molti. La destituzione e l’esilio sono pene sufficienti a scontare le colpe di cui si è macchiato… Ma la testa del re era caduta e coloro che avevano chiesto per lui la clemenza e l’esilio adesso tremavano. Perché qualcuno chiamava con il nome di tradimento quello che era stato soltanto un tentativo abortito di mostrare un po’ di pietà.

 

Non si è mai sporcato le mani di sangue, se si eccettua quello degli animali che ha vivisezionato nel corso dei suoi crudeli esperimenti, quando diceva di studiare medicina. Ma con i suoi scritti e con le sue parole, il Mostro ha aizzato i bassi istinti della marmaglia e condiziona la vita politica dell’intera nazione. Chi non è con lui è contro di lui. A Parigi… E non solo lì. Adesso non si muore più soltanto nella capitale, in nome del Popolo e della Nazione. Adesso si muore dappertutto.

 

Nel giro di due giorni, Chabert era stato arrestato, processato e condannato. Il Tribunale non concedeva appelli e la sentenza sarebbe stata inevitabilmente eseguita. Gli aveva scritto e fatto recapitare una lettera dalla prigione, nella quale lo esortava a non esporsi ad inutili pericoli e a prendersi cura di Marc, come se fosse stato figlio suo. Poveretto. Non sapeva che lui aveva avuto, un mare di tempo prima, un figlio che portava quello stesso nome e che, per ordine di un altro di quei mostri che l’inferno vomita sopra la terra, era stato ammazzato come un cane. Non immaginava quel che avrebbe dovuto dire al piccolo, quando questi sarebbe cresciuto e non lo avrebbe visto invecchiare. E neppure che, se non avesse deciso per tempo di scomparire dalla sua vita, sarebbe stato lui a veder avvizzire come l’erba stenta dell’inverno e poi morire quel pupillo che aveva conosciuto bambino.

 

Guardatevi dall’esporvi a pericoli inutili, amico mio… L’essere in intimità con un traditore è anch’esso da ritenersi tradimento…

Voi non sapete che, se dovesse calare sul mio collo, la lama della ghigliottina andrebbe in pezzi, perché niente può niente contro di me, dacché l’amore di una donna e il sortilegio di una strega mi hanno riportato indietro dal mondo dei morti.

Giuratemi che lo farete… Per voi… E per Marc. Perché adesso anche voi avete un figlio, Maxim Merides.

 

Gli avevano tagliato i capelli, strappato via il colletto della camicia, perché la lama non trovasse intoppi e la morte fosse istantanea. La postura eretta, lo sguardo fermo del condannato esprimevano dignità e coraggio. Quelli che non trasparivano dall’atteggiamento della folla che urlava morte al nemico, che rideva sguaiatamente mentre il boia mostrava al popolo la testa mozzata del traditore.

Maxim chiuse gli occhi, inghiottì il groppo di bile e di vomito che gli serrava la gola e ritornò indietro nei secoli con il pensiero, a quando era un capo di uomini armati e, tra le brume del Nord, guidava il suo esercito contro i barbari Germani. Rivide la testa del tribuno che aveva mandato come latore di un’ambasciata al capo dei nemici rotolargli sui piedi, ripensò che, anche allora, aveva sentito la sua bocca riempirsi del sapore acre della bile e aveva faticato a ricacciare indietro il conato di vomito che dallo stomaco gli era salito alla gola.

 

Ci rivedremo un domani, quando il tempo sarà passato e allora sarà per sempre, mormorò Maxim tra i denti allontanandosi. Lo disse nella lingua in cui aveva imparato a parlare, in quel latino rotondo e solenne del quale si era servito tante volte per discutere con André Chabert. Con te, la società ha perso un galantuomo, tuo figlio un padre, io un amico. Ma, com’è vero il mondo, coloro che hanno la tua morte sulla coscienza pagheranno. Non lo disse e lo pensò soltanto, nella lingua antica dei suoi padri, mentre le lacrime che la sua condizione gli impediva di versare gli bruciavano gli occhi e la gola, e i pugni si serravano stretti, al limite del dolore, in fondo alle tasche della giacca da cavallerizzo.

 

PAURA

 

Tutta la città aveva paura. Madame de Bretteville non osava più uscire da casa sua, ma Charlotte continuava a farlo, malgrado i rimbrotti della vecchia cugina che la ospitava presso di sé. Mi sentirei responsabile, se vi capitasse qualcosa di brutto. Le diceva. E lei rispondeva, che razza di libertà sarebbe, se non potessi più nemmeno uscire in strada? Che cosa sta succedendo? Ci avevano promesso giustizia, invece…

 

Le sue orecchie percepirono il brusio della folla inferocita quando era tardi per tornare indietro. Fatti più piccola che puoi, cerca di passare inosservata e non ti succederà nulla, anche perché non è te che cercano.

Si erano accalcati in fondo alla piazza, dalla parte della prigione: forestieri provenienti dalle campagne circostanti, numerosi, violenti. Marmaglia ubriaca di odio, vomitata dai tuguri alla periferia della città. Volevano Georges Bayeux, il sindaco. Il traditore. Colui che aveva rifiutato di consegnare a Parigi gli ottanta detenuti politici rinchiusi nelle prigioni della sua città ed era stato, per questo, arrestato egli stesso.

 

Si diceva che sua moglie, incinta, si fosse recata a Parigi per tentare di salvarlo. Ed eccola lì, davanti alla prigione, Madame Bayeux, con il figlioletto maggiore tra le braccia, il ventre gonfio e l’ordine di scarcerazione in pugno.

 

La folla attese paziente che il sindaco uscisse di prigione, abbracciasse commosso il suo bambino e cominciasse ad avviarsi. Era tutto finito, pensava. Invece… Invece gli strapparono il bambino dalle braccia e lo massacrarono sul posto, a calci e pugni, per poi darsi ad una fuga precipitosa.

 

Charlotte andava dove la portavano i suoi passi, nella piazza ormai deserta di folla. L’uomo giaceva a terra, orribilmente sfigurato. Non c’era più nulla che potesse fare, per lui. Nulla.

Un refolo di vento spinse ai suoi piedi un foglio che lei si chinò a raccogliere, vincendo la nausea, vincendo la ripugnanza e la pietà che la vista di tutto quel sangue le ispiravano. Lo lesse. Era il testo della circolare di Marat, datata 3 Settembre 1792: La Comune di Parigi… Mettere a morte… Terrore… Traditori nascosti… Tradimento… Orlo dell’abisso… Sgozzare le nostre donne e i nostri figli…

 

La giovane strinse i denti, ricacciò indietro a fatica la nausea e le lacrime. Mormorò, abbastanza piano da non farsi sentire: ”Marat… Il cannibale assetato di morte… Parigi non è la Francia: eppure è Parigi che versa il suo sangue!”

 

Ma forse l’uomo l’aveva sentita. Le aveva sorriso, e l’istinto aveva suggerito a Charlotte che poteva fidarsi di lui, malgrado non sapesse chi fosse, non l’avesse mai visto prima e i tempi fossero quelli che erano. Finirà, le aveva detto, guardandola con i suoi occhi azzurri dall’espressione franca, mentre si domandava chi potesse essere quella bella creatura dai riccioli color miele e lo sguardo trasparente che sembrava uscita da un quadro di Largillière e se ne stava inginocchiata accanto a un cadavere mormorando, invece che preghiere in suffragio di quella povera anima, parole di maledizione che pesavano come macigni.

 

COMPAGNI DI VIAGGIO

 

Il 23 Aprile, Charlotte domandò e ottenne un visto per Parigi: sarebbe partita, appena possibile. A costo di fuggire dalla casa di Madame de Bretteville come una ladra e di non tornare mai più. Si sarebbe procurata la possibilità di uccidere Marat, il Mostro, contro il quale nessuno sembrava potere niente e tutte le bugie necessarie a coprire il vero scopo di questo suo viaggio: un nuovo nipotino da conoscere, una vecchia zia molto malata… Ci avrebbe pensato. Il tempo non le mancava.

 

Alla stazione di posta, sperò che nessuno la notasse. Si era vestita con la semplice eleganza di sempre, chiunque l’avrebbe potuta scambiare per una giovane moglie borghese che andava a raggiungere il marito a Parigi. Il suo bagaglio era costituito solamente da una vecchia borsa di tela e di cuoio.

Era il 9 Luglio, e faceva un caldo d’inferno, contro il quale il ventaglio di seta poteva veramente molto poco. Guardando gli altri passeggeri che aspettavano con lei la diligenza per Parigi, Charlotte si rammaricò di non aver portato con sé qualcosa di simile a una fede da infilare nel dito onde tutelarsi dalle sgradite attenzioni di qualche bellimbusto. Stava augurandosi che non le accadesse niente quando uno dei suoi compagni di viaggio, un popolano dal collo taurino, la pancia grossa e la faccia paonazza da avvinazzato, le si avvicinò, l’afferrò per un braccio e le sfiatò nell’orecchio una zaffata puzzolente di aglio e una raffica di oscenità.

 

-Lasciatemi, o sarò costretta a chiedere aiuto.

Il bruto rise, sfiorandosi oscenamente la patta dei calzoni. Sbraita quanto vuoi, bellezza, tanto non troverai un cane che ti difenda. Quei tempi sono finiti, bella mia…

Il viaggio da Caen a Parigi non durava meno di quaranta ore e sopportare una compagnia simile per così tanto tempo era chiedere troppo alla sua pazienza, senza contare i rischi che correva. Anche le bestie come questo rispettano le donne sposate, pensò. Mio marito sarà qui a momenti… A chi vuoi darla a bere, bionda? Di certo non a me… Bah, tanto non sei nemmeno sposata, non hai la fede al dito…

 

L’orribile mano di quell’osceno bifolco stava sicuramente per mettersi a palparle il fondoschiena. Era di quelli che non rispettano niente, fosse vita, fosse onore. Forse era tra coloro che avevano sbudellato il visconte di Blensunce e massacrato a calci e pugni il sindaco Bayeux. Sicuramente apparteneva alla stirpe di bestie in mezzo a cui Marat il Mostro cercava avvallo e complicità per i suoi crimini. Se si fosse azzardato a toccarla, lei avrebbe urlato, pensò Charlotte, e non sarebbe servito a niente. Si sorprese a pregare. Era da tanto che non lo faceva. Da talmente tanto di quel tempo che non meritava che Dio o un angelo o un santo l’aiutassero in un simile frangente. Invece…

 

I suoi occhi incontrarono uno sguardo chiaro, acuto e franco. Finalmente, mormorò con un filo di voce. Finalmente siete qui… marito mio. Lui le indirizzò un sorriso complice, prima di aprire le braccia ed accoglierla, come se fosse stata davvero sua moglie. E al bifolco che l’aveva importunata e che, con altri due della sua specie, avrebbe dovuto raggiungere Parigi servendosi di quella stessa diligenza, probabilmente anche mangiando e dormendo nelle stesse stazioni di posta, non restò che farsi da parte con la coda tra le gambe: la muscolatura imponente, l’atteggiamento fiero e l’aria risoluta dello sconosciuto raccomandavano la massima prudenza.

 

-Non vi sareste dovuta mettere in viaggio da sola, Madame. Sono brutti tempi, questi.

Era stato per non sciropparsi le prediche della povera cugina de Bretteville che aveva lasciato la sua casa quasi di nascosto, inventando qualche bugia nella quale la brava donna aveva creduto o quantomeno fatto finta di credere. E adesso la predica gliela faceva colui che l’aveva tolta dai guai, mentre entrambi aspettavano seduti a un tavolino della stazione delle diligenze, davanti a una caraffa di limonata fresca.

-A Parigi devo raggiungere una vecchia zia molto malata. Non avrei potuto aspettare tempi meno brutti, per essere sicura di vederla viva un’ultima volta.

-Allora vi conviene continuare il gioco con cui avete imbrogliato quella canaglia, anche perché, se scoprisse che lo avete raggirato, per voi potrebbero essere guai seri.

-Dovrò continuare… a fingermi vostra moglie fino al nostro arrivo a Parigi?

-Ve lo consiglio vivamente.

 

L’aveva riconosciuto. E aveva deciso di fidarsi di lui, come in quel giorno terribile durante il quale la folla inferocita aveva massacrato il povero Bayeux sotto i suoi occhi.

- Se dobbiamo fingere di essere marito e moglie, forse sarà il caso che ci presentiamo. Io mi chiamo Maxim Merides... - La voce grave dell’uomo era ridotta a un bisbiglio, perché solo la sua interlocutrice potesse sentirlo. - E voi?

- Charlotte. Charlotte Corday.

- Ci stiamo recando a Parigi per affari. Siamo marito e moglie da cinque giorni… Charlotte.

 

La giovane sorrise, senza togliere gli occhi di dosso al suo interlocutore. Non le sarebbe affatto dispiaciuto che fosse stato suo marito per davvero, un uomo così. Si era dimostrato gentile a prendersi cura di lei, e il suo sguardo era sincero. E poi era un uomo molto bello, con quegli occhi azzurri, i lunghi capelli sfumati d’oro e di rame, i tratti morbidi e il corpo muscoloso. Indossava stivali alti, calzoni di pelle scamosciata, una camicia di percalle sotto un panciotto di cuoio. Niente giacca né cappello, e le sue guance non erano rasate di fresco com’era consuetudine fra i gentiluomini, ma non potevano esserci dubbi che tale fosse, non per nascita, probabilmente, ma di certo per nobiltà d’animo, rettitudine e sincerità di sentimenti. Si portava appresso un’aria risoluta, rassicurante e protettiva e, come qualche settimana prima, l’istinto suggerì a Charlotte che avrebbe fatto bene a fidarsi di lui.

 

Chissà chi era, che faceva nella vita, pensava Charlotte mentre lui le stringeva la mano tra le sue. Recitava bene, e sicuramente nessuno degli altri passeggeri avrebbe potuto essere sfiorato dal sospetto che quei due fossero qualcosa di diverso da una giovane coppia di freschi sposi. Maxim Merides… Una goccia di sudore gli scendeva lungo la vena del collo, ma il caldo della giornata era davvero infernale. Chissà se i grandi occhi chiari dell’uomo erano stati capaci di leggere i suoi segreti, di scoprire che la giovane, bella donna che gli stava accanto sullo scomodo sedile della diligenza non intendeva andare a trovare una vecchia zia, come gli aveva detto, ma si stava recando ad un appuntamento col destino.

 

Charlotte lo guardava in silenzio, cercando d’immedesimarsi nel ruolo della sposina adorante. Non era arduo farlo, con la mano nella mano di un uomo simile, anche se fingere le era sempre riuscito difficile. I loro sguardi si incrociarono, e lui le sorrise. Le guance della giovane si soffusero di rossore, quando i suoi occhi si abbassarono timidamente scorgendo la pelle abbronzata del petto tra i lacci allentati delle camicia, le gambe muscolose accavallate… Non aveva una grande esperienza delle cose di mondo, ma in collegio, tra ragazze, certi discorsi sussurrati a mezza voce quando le suore credevano che le educande dormissero erano consuetudine. E poi c’era stata quella storia con suo cugino, a sedici anni, durante una delle poche vacanze che aveva trascorso a casa. Si era lasciata baciare e sfiorare il seno, ma era stata capace di tirarsi indietro prima che il gioco le sfuggisse di mano. E quel gioco non le era affatto dispiaciuto.

Il sole stava tramontando, presto la diligenza avrebbe raggiunto la stazione di posta dove avrebbero cenato e passato la notte. Nella stessa stanza, pensò Charlotte, se il gioco di fingersi marito e moglie era opportuno che continuasse. Nella stessa stanza…

 

SENZA DOMANI

 

Avrebbe dormito poco, si era detta da sé sola. Faceva caldo, e i pensieri che le frullavano in testa le avrebbero impedito di chiudere gli occhi anche soltanto per pochi minuti. Lui le aveva ceduto senza esitazione il letto, dicendole che, se il sonno fosse venuto, non avrebbe avuto problemi a sdraiarsi per terra, tanto c’era abituato.

 

Non sapeva quasi niente dell’uomo con il quale le circostanze l’avevano costretta a dividere quella stanza: conosceva il suo nome, che poteva peraltro anche essere fittizio, e quel che i suoi occhi vedevano, un magnifico giovane di una trentina d’anni, pulito ma abbigliato in maniera quasi trasandata, con un’ombra di barba che spuntava sulle guance pallide e i capelli ramati che gli ruscellarono giù per le spalle possenti, quando sciolse il laccio di cuoio che glieli raccoglieva sulla nuca. Le venne da pensare a un principe barbaro, a qualcuno degli eroi di cui l’avo Pierre Corneille aveva raccontato le gesta e i tormenti nelle sue tragedie. Al Cid, forse, il suo preferito, giovane, bello, romantico, con il cuore spaccato a metà tra il bisogno d’amore e la sete di vendetta.

 

-Che fate, per vivere?

-Allevo, domo e vendo cavalli.

-Ma non siete di Caen.

-No. Ho comprato soltanto una masseria e un terreno poco fuori città, anni or sono, e mi ci sono trasferito.

Quando i tempi non erano quelli che erano e lei trascorreva in collegio la fanciullezza pregando, studiando e preparandosi a diventare una brava moglie per l’uomo che suo padre le avrebbe destinato. Quando pensava che, forse, avrebbe avuto una vita lunga, serena e un po’ noiosa, dei figli, dei nipoti…Quando non aveva preso coscienza del mondo e delle sue ingiustizie, e non sapeva ancora che avrebbe desiderato cambiarlo. Quando aveva respirato l’odore della salsedine e quello della terra smossa, il profumo dei fiori, l’aroma penetrante dell’incenso durante le funzioni religiose ma non conosceva ancora il lezzo del sangue rappreso.

 

-E voi, chi siete?

Uno degli ultimi residui di un mondo che deve cambiare, Maxim. Posso chiamarvi per nome, vero?

Aveva un viso triangolare, incorniciato da una massa disordinata di riccioli color miele e grandi occhi chiari dove tutto avrebbe letto fuorché sgomento. La mia famiglia è antica, signore. Antica e mezza rovinata… Ho uno zio prete refrattario[4] che non può uscire da casa,  un padre quasi completamente svanito, due fratelli in esilio… Io sono rimasta perché credo ancora che il mondo possa essere cambiato. Nonostante i morti ammazzati. Nonostante Marat. Nonostante tutto.

 

-Conoscete le opere di Pierre Corneille?

-Qualcuna.

-Era un mio antenato.

-I protagonisti delle sue tragedie avevano l’anima lacerata dal conflitto tra il dovere e i sentimenti.

-Come il Cid. Ho amato questo personaggio.

Perché non l’avete conosciuto. Lo pensò, ma non lo disse, sicuro che, diversamente, lei lo avrebbe preso per pazzo. Rodrigo Diaz De Bivar era molto diverso da come ce l’hanno sempre dipinto. In realtà, era soltanto un feroce assassino, e l’onore nemmeno sapeva dove stesse di casa. Chissà, tra qualche secolo, uno scrittore potrebbe comporre un’opera immortale sulle pretese gesta eroiche di un mostro come Marat.

 

-Anche voi avete il cuore lacerato tra il dovere e i sentimenti?

I sorrisi di Maxim erano tanto rari e fugaci quanto incantevoli. L’ho avuto, avrebbe potuto dirle. E onorare i miei impegni mi è costato un prezzo che forse voi nemmeno immaginate…Charlotte.

-Sono un allevatore di cavalli, non un principe o un condottiero. Ma adesso coricatevi e cercate di dormire. Domani ci aspetta una giornata molto faticosa.

 

Ma Charlotte non riusciva a chiudere gli occhi, pensando all’uomo che il buio le nascondeva e che giaceva ai piedi del suo letto sul piancito di legno. Accese la candela infilata nella bugia, lo guardò cercare o fingere di dormire… Si era tolto il panciotto e la camicia, e la giovane faticò a ricacciare indietro il sospiro che le era sfuggito dalle labbra, accarezzando con lo sguardo la perfezione delle sue ampie spalle e del suo torso statuario.

-Maxim… - gli sussurrò piano. - Non è giusto che dormiate per terra, quando questo letto è così grande…

Lui si era alzato in piedi, scrollato la polvere di dosso e le aveva sorriso. Sono certa che non mi farete niente, se non lo vorrò.

 

Lo guardò sdraiarsi al suo fianco e voltarle l’ampia schiena abbronzata. Era pieno di cicatrici, e una di queste rassomigliava a quei marchi a fuoco con cui si segnavano indelebilmente i ladri. Eppure, avrebbe scommesso quanto di più caro aveva al mondo che Maxim non poteva essere quello: era troppo cristallino, troppo retto, troppo onesto. O, forse, si trattava semplicemente d’un magnifico attore, capace di calarsi con perfetta naturalezza nei panni di qualcuno che non era lui, di mentire spudoratamente con lo sguardo, oltre che con le labbra.

-Come mai avete tutti questi segni?

-E’ successo in Africa, un bel po’ di tempo fa.

La luce debole della candela gli aveva illuminato gli occhi azzurri spalancati nel buio. Occhi che avevano visto tanto e non avevano mai imparato a mentire. Occhi dolci e feroci, occhi d’angelo e di tigre. Era possibile che, in chissà quali circostanze, quell’uomo fosse caduto nelle mani dei pirati barbareschi che infestavano il Mediterraneo e lo strazio delle sue carni fosse opera di quei criminali.

 

-E’ tardi. Cerchiamo di dormire, o domani… Domani saremo degli stracci.

Si era nuovamente voltato dandole la schiena e appena chiusi gli occhi, aveva sentito la carezza leggera di due mani delicate scorrergli sopra la pelle. I sogni non giungono prima che arrivi il sonno. Non giungono prima che le candele vengano spente. Quello non era un sogno, pensò mentre le dita di lei gli percorrevano i muscoli delle spalle, il solco della spina dorsale, le profonde fossette alla base della sua schiena: un tocco gentile ed eccitante, che era per lei scoperta e meraviglia, qualcosa di mai provato. Maxim si voltò, sentì le mani calde della giovane accarezzargli il viso, toccargli la fronte, le guance ruvide di barba, la punta del naso delicato, la piccola fessura che gli fendeva il mento proprio nel mezzo.

-Se non sono troppo indiscreto, potreste dirmi quanti anni avete, Charlotte?

-Venticinque.

Che strano, gliene avrebbe dati a malapena diciotto. Sembrava un folletto, una ninfa dei boschi, con quei lineamenti minuti, gli occhi grandi di un verde trasparente, i riccioli vaporosi quasi biondi. Ma forse gli stava mentendo, per chissà quale misteriosa ragione. Se davvero aveva venticinque anni, perché non era sposata? Perché aveva affrontato quel viaggio da sola, con i tempi che correvano? Non ce l’avete un marito, Charlotte? Un marito vero intendo. No, gli aveva risposto lei sfiorandogli con l’indice le labbra, che aveva piccole e piene. E’ obbligatorio averlo? No, solo è strano che voi non lo abbiate… Charlotte, bella come siete.

 

-Non vi direi delle bugie, perché non avrebbe senso. Ho venticinque anni davvero, anche se sembro una bambina. E non ho un marito perché mio padre non si è mai preoccupato di procurarmene uno e perché le circostanze della vita hanno fatto il resto. Ma se sono, o vi sembro infelice, non è certo questa la causa. Eppoi… Potrei anch’io chiedervi come mai un uomo con tutte le vostre belle qualità non ha una moglie, Maxim.

-Sono vedovo. E’ passato tanto tempo dacché mia moglie è morta.

 

Maxim non disse altro, e lei scelse di rispettare il suo silenzio. Credeva che rivangare un passato di certo recente, perché quell’uomo non doveva avere più di una trentina d’anni, potesse essere terribilmente doloroso. Non avrebbe mai immaginato che se lui taceva era perché non poteva raccontarle una storia che era impossibile credere fosse la verità. Sono stato sposato, Charlotte. Due volte. La mia prima moglie è stata ammazzata dagli scherani dell’imperatore Commodo, la seconda è morta martire nell’arena di Emerita Augusta regnante il Cesare Diocleziano. Colui che vi sta vicino calca la polvere del mondo da mille e seicento anni, dopo essere stato riportato indietro dall’aldilà… Per sempre. Non le disse nulla. Nemmeno che, tra i pochi effetti personali che si era portato appresso, teneva nascosta una pistola con il colpo in canna. Una pistola con la quale avrebbe mandato all’inferno Jean Paul Marat, il Cannibale.

 

Charlotte si rannicchiò tra le sue braccia, come se quello sconosciuto fosse il suo sposo per davvero. Con la mano sottile, gli sfiorò il collo, quindi scese ad accarezzargli i muscoli rilevati e tesi del petto. Non aveva mai pensato che il corpo di un uomo potesse essere così bello. E così eccitante, si disse da sé sola, baciandogli e lambendogli delicatamente il capezzolo sinistro, proprio sopra il cuore. E sentì che il respiro gli diventava un rantolo, la voce un sospiro rauco, mentre le afferrava i polsi e le chiedeva perché mi metti in condizioni di disonorarti, Charlotte?

-Perché sento che non avrò un domani.

Lui non le domandò spiegazioni, mentre la spogliava e la stringeva a sé facendole sentire quanto la desiderasse, mentre la baciava con tenerezza e con passione e poi le stuzzicava i seni con le dita e con le labbra. Piccoli, deliziosi seni dai capezzoli eretti, minuti e sensibili…

-Posso ancora fermarmi, se lo desideri.

Non farlo. E gli artigliò la schiena, mentre lui la penetrava con decisione e le versava dentro il suo seme, dopo averla eccitata toccandola e baciandola dappertutto. Non fermarti, Maxim. Non adesso. Se non avrò un domani, voglio oggi la felicità che solo tu puoi darmi. Perché…

 

Perché, giunta a Parigi, avrebbe acquistato un coltello appuntito e tagliente quindi, in un modo o nell’altro, lo avrebbe cacciato in corpo fino al manico a Jean Paul Marat, il Cannibale Assassino. Dopodiché, inevitabilmente, avrebbe perduto ogni controllo sul suo destino.

 

L’ANGELO CON IL COLTELLO

 

Quando la diligenza raggiunse Parigi, Charlotte sapeva bene che non si sarebbero più rivisti. Si sforzò di ricacciare indietro le lacrime e si meravigliò, quando lui le prese la mano fra le sue e, guardandola dritta negli occhi le sussurrò con la sua voce dolce e grave, Domina mea, vale[5]. In latino. Nella lingua in cui i preti dicevano messa. Avrebbe voluto domandargli spiegazioni, ma quella mano grande e forte non stringeva più la sua ed era come se il niente avesse inghiottito i suoi occhi limpidi, i suoi lunghi capelli, la sua figura dritta di soldato. Quello stesso niente che, di lì a poco, avrebbe inghiottito anche lei.

 

Aveva preso alloggio in un modesto alberghetto della Rue des Vieux Augustins, l’Hotel de la Providence. Un posto sufficientemente economico e sufficientemente discreto. La sua prima notte in città l’aveva trascorsa rigirandosi nel letto e, la mattina successiva, alle sette era già in strada. Si recò al vicino Palais Royal[6] alla ricerca della bottega di un coltellinaio, e dovette attendere un’ora, prima che i negozi aprissero.

 

Bodin, arcata 177. L’uomo la guardò, domandandosi cosa se ne facesse, una come lei, di un coltello per trinciare il pollame. Era giovane, esile, ben vestita, con piccole mani curate. Sembrava che il caldo afoso della giornata estiva, che aveva trasformato Parigi in una bara di piombo, non scalfisse minimamente la sua freschezza. Lo sguardo chiaro gli parve malinconico, sotto l’ala del cappellino elegante. Un coltello per trinciare il pollame. Che cosa se ne faceva, una signora come quella? Non c’era, in casa sua, una serva che si occupasse di certe incombenze? Per venti soldi, le vendette un comune coltello da cucina con il manico nero, la ghiera argentata e una guaina di cuoio per proteggere il filo della lama.

 

In Place de la Victoire, Charlotte prese una carrozza a nolo. Doveva recarsi al numero 30 di Rue des Cordeliers. Da Marat. Prima possibile.

 

Sarebbe voluta salire da lui, ma la portinaia glielo impedì. E’ malato, le disse spingendola sgarbatamente. Non riceve nessuno. Non insistere, cittadina.

 

Charlotte non lasciò che lo scoramento la facesse desistere dai suoi propositi. Tornata al suo albergo, buttò giù una frettolosa colazione, scrisse due righe di commiato al suo mondo. Ai suoi cari. A Maxim. Chissà dov’era. Chissà se mai avrebbe potuto leggerle. Quindi si cambiò d’abito, fece chiamare un parrucchiere perché le acconciasse e le incipriasse i capelli, come se si stesse preparando per partecipare ad un ballo. A un ballo, già. Un ballo al quale il suo cavaliere sarebbe stato la morte, pensò stringendo il labbro tra i piccoli denti candidi e nascondendo sotto il fichù[7] di seta rosa una lettera che parlava di complotti inesistenti e un coltello con la ghiera argentata e il manico nero.

 

Questa volta non sarebbero riusciti a fermarla. Ho le prove di un complotto, disse alla vecchia portiera. Simone, la compagna di Marat, una popolana bionda, dai tratti grossolani, cercò in tutti i modi di non farla entrare in casa. Come se avesse intuito tutto quanto.

-Che c’è?

Domandò una voce stridula ma inequivocabilmente maschile da dentro.

-La solita pazza, Paul. Sta blaterando di un complotto… Dice di venire da Caen.

Caen. Il luogo dove si erano rifugiati i proscritti!

-Falla passare.

 

L’uomo e la donna si scambiarono un’occhiata soltanto, dentro la stanza arroventata in mezzo alla quale troneggiava un grande semicupio da cui si esalavano i vapori mefitici dello zolfo e il puzzo delle piaghe purulente. Marat stava seduto lì dentro, con il busto nudo e scheletrito che emergeva dall’acqua, la pelle chiazzata, i capelli raccolti in un sudicio asciugamano drappeggiato a mo’ di turbante intorno alla faccia dai tratti scimmieschi. Davanti a lui, su una tavoletta di legno, erano appoggiati diversi fogli, alcune penne e il calamaio. Ridotto in condizioni precarie dal caldo torrido di quell’estate e da un grave eczema, il tribuno trovava sollievo solamente standosene immerso nell’acqua.

 

-Parlavate di un complotto, cittadina… Ma prendete una sedia, avvicinatevi: e raccontatemi tutto ciò che sapete, fin nei minimi dettagli.

Adesso era un po’ sopra di lui, e sentiva l’odore fetido che saliva dalla vasca, vedeva i tendini sporgere sul collo dell’uomo, le croste sulla pelle giallastra e chiazzata… La ripugnanza che provava l’avrebbe aiutata ad uccidere, ne era sicura.

 

-Voi venite da Caen, cittadina?

-Ero lì, fino a tre giorni fa.

-Com’è la situazione, laggiù?

-Stanno cercando di organizzarsi. E i Girondini…

-Farò arrestare e ghigliottinare tutti i deputati della Convenzione esiliati. Ditemi i loro nomi.

 

Solo nel momento in cui Marat vide quell’angelo brandire il coltello e calare su di lui la lama acuminata comprese che la sua ora era giunta. Chinò la testa e l’ultima cosa che scorse prima che il grande freddo lo cogliesse fu l’acqua putrida e scura della vasca che si tingeva di rosso.

 

Era ormai il tramonto e, una volta scesa la notte, sarebbe stato più facile per lui passare inosservato, non essere notato dalla folla che, da mane a sera, si accalcava sotto l’abitazione del Tribuno per cogliere qualche notizia sulla sua salute, per sperare di poter sentire due parole dalla sua viva voce. Tra poco, gli unici incontri che avrebbe potuto fare erano quelli con i gatti randagi e un paio di vecchie puttane scalcagnate, in cerca di clienti di bocca buona e scarse finanze. La giacca gli teneva caldo, ma non c’era altro sistema per nascondere la pistola. Una volta arrivato al numero 30 della Rue des Cordeliers, sarebbe stato un gioco da ragazzi vincere la resistenza delle megere che montavano la guardia dinanzi all’appartamento di Marat: forse, i suoi begli occhi azzurri avrebbero reso inutile dover ricorrere alle cattive maniere, è risaputo, quale che sia l’età che si portano dietro, le donne sono sempre delle gran sentimentali… Le donne. Charlotte. Era vergine, quando gli si era data, con la determinazione e la disperazione di chi sa che quella è l’ultima cosa che gli sarà consentito fare nel corso della sua vita… Maxim ripensò ai suoi tratti infantili e ai suoi modi decisi e sentì il gelo d’un presentimento di tragedia stringergli il cuore in una morsa. Corneille… Il dovere… I sentimenti… La donna inginocchiata accanto al cadavere mutilato del sindaco Bayeux… Marat, il Cannibale Assassino…

 

Strano che alle otto e mezza di sera ci fosse ancora tutta quella gente, davanti al 30 di Rue des Cordeliers. Gente stranamente silenziosa. Hanno ammazzato l’Amico del Popolo, rispose qualcuno ad una domanda da lui formulata solamente con uno sguardo interrogativo. A coltellate. E’ stata una donna. Una maledetta puttana…

 

OMBRE E POLVERE

 

Charlotte Corday d’Armont era salita sul patibolo il 17 Luglio 1793, a quattro giorni dal suo arresto, concludendo tra i tuoni e le saette di un violento temporale estivo, la sua breve esistenza.

 

Non sono riuscito a salvare neanche lei… Pensò Maxim tracannando l’ennesimo bicchiere di cognac. Non ho potuto fare niente, neanche vederla, parlarle, raccogliere i suoi ultimi istanti… Perché non me ne hai parlato, maledizione? Perché non mi hai detto il vero scopo del tuo viaggio a Parigi e ti sei inventata quella storia della zia vecchia e malata, e io me la sono bevuta come un imbecille… Come ho fatto a non accorgermi di niente, a non interpretare i tuoi gesti, i tuoi sguardi e i tuoi silenzi, io che pure, in mille e seicento anni di vita, ho imparato a leggere nei pensieri degli altri, a fiutare l’odore del pericolo come un animale selvatico?

 

Adesso quel che restava di Charlotte giaceva in una fossa comune che sarebbe stata riempita di calce viva, magari dopo essere stata saccheggiata dagli studenti di medicina sempre a caccia di cadaveri per i loro maledetti esperimenti… Charlotte aveva sacrificato la sua vita preziosa solo perché lui non era riuscito ad arrivare prima di lei al 30 di Rue des Cordeliers, a farsi largo a spintoni in mezzo alle cagne che montavano la guardia davanti alla tana di Marat e a scaricare la palla della sua pistola in corpo a quell’immondo assassino…

 

Perché non mi hai detto niente, maledizione? Era ubriaco fin dentro le ossa, ma se l’alcol gli bruciava le budella e gli ottundeva la coscienza, tuttavia non era riuscito ad uccidere il dolore. Avresti dovuto parlare, e allora ti avrei detto tutto di me, ti avrei detto piantalo qui, nel mio petto, il coltello che hai comprato per uccidere Marat, e vedrai se quello che dico è il farneticare di un povero pazzo o una verità che rassomiglia alla follia… Corneille, il tuo avo, avrebbe potuto scrivere sul mio conto l’ennesima storia che parla del conflitto tra dovere e sentimenti… Quel dovere che mi aveva spinto a trascurare la mia famiglia per onorare un giuramento di fedeltà. Che aveva fatto sì che io non fossi con loro a difenderli, quando gli scherani dell’usurpatore Lucio Aurelio Antonino Commodo massacrarono mia moglie e il mio bambino… Che fossi riuscito, con una stilettata che mi aveva perforato il polmone e la morte che incombeva su di me come un avvoltoio, a rubare i pochi istanti di vita che mi servivano per portare a termine un’opera di giustizia e liberare il mondo da un mostro… Avresti dovuto parlare, Charlotte. Una volta visto con i tuoi occhi quello che l’amore di una donna aveva fatto di me, non avresti intralciato i miei piani. Perché non appena la lama della ghigliottina si fosse abbattuta sul mio collo, sarebbe andata in mille pezzi, come un calice di cristallo caduto giù dal vassoio. La gente avrebbe visto un segno del Cielo in tutto questo, e i massacri sarebbero finiti…

 

Ma non era andata così. Charlotte adesso era ombra. Presto sarebbe stata polvere. E i massacri sarebbero continuati, chissà ancora per quanto.

 

Maxim allungò un braccio e lasciò andare l’altro lungo il corpo, posò sul sudicio tavolino la testa che gli doleva da spaccarsi, per trovare un po’ di sollievo. Il calore di un piccolo corpo morbido e peloso catturò la sua attenzione. Un grosso gatto nero lo fissava con i suoi occhi sfacciati, che lucevano come due monete nuove. Aveva un lungo corpo magro, un orecchio sbrindellato, il muso martoriato dalle cicatrici ed emetteva un miagolio curiosamente flebile in rapporto alla sua mole.

 

-Gigot vi deve la vita, signore.

 

Poteva essere un ricordo scaturito all’improvviso dai recessi del suo passato, un fantasma. La Fouine. La donna selvatica e solitaria del bocage, che aveva incontrato in quei tempi recenti e lontani in cui il mondo non era ancora scoppiato.

 

-Andiamo, vi accompagno a casa.

 

Doveva essere stata lei a togliergli gli stivali, ad aiutarlo a sdraiarsi sul letto. Doveva essere stata lei a scostargli i capelli dalla fronte sudata. Le ricordava bene, lui, quelle sue mani ruvide, forti e calde, da guaritrice.

 

-Maxim…

Si mordeva le labbra come una bambina timida, mentre lo guardava e allungava verso di lui la piccola mano sottile.

-Prendila, Maxim.

Era fredda come se fosse stato inverno, fredda e pallida dentro le sue. La fronte e le guance avevano la trasparenza azzurrastra dell’aria e i capelli erano corti come quelli di un piccolo mendicante pidocchioso[8]. Sei tornata, Charlotte? Sei qui per davvero, o sei solo un sogno scaturito dai fumi dell’alcol? Aveva un segno rosso che le circondava il collo come un nastro, e lo sguardo distante di chi non è più di questo mondo.

-Sei tornata, Charlotte? Per restare? Perché adesso sei quello che sono io?

Lo stomaco gli bruciava come se l’avessero costretto a inghiottire carboni ardenti, il sangue gli batteva in tutto il corpo all’impazzata, il respiro veniva fuori così affannoso che, non fosse stato quello che era, l’uomo avrebbe pensato che il suo cuore stesse per tradirlo. E lei era lì, in piedi accanto al letto, e lo guardava con i suoi grandi occhi tristi, ed era vera, se avesse vomitato e smaltito la sbornia lei ci sarebbe stata ancora, minuta, pallida, tremante, con quella piccola testa sconciata dalle guardie della prigione e il segno rosso della lama affilata sul collo esile… Qualcuno l’aveva riportata indietro dall’aldilà, riservandole il suo stesso destino. Qualcuno…

 

Adesso dormi, gli aveva sussurrato. Dormi, Maxim. Ripeté sfiorandogli con l’indice la palpebra abbassata. Lui si addormentò, cullato dal suono della sua voce. Era venuta per restare o soltanto per chiedergli perdono? Era vera, era come lui, o soltanto un’ombra?  Il risveglio avrebbe dato risposta alle sue domande, perciò era inutile lottare contro il sonno. Avrebbe dovuto attendere l’indomani per scoprire se solo la gloria avrebbe reso immortale il suo ricordo o se Charlotte era tornata davvero. Per sempre.

FINE

Lalla,10 novembre 2002

 

Piccola nota esplicativa: come in altri miei racconti, anche in questo sono contenuti fatti e personaggi realmente esistiti, oltre a quelli inventati. Il visconte di Blensunce e il sindaco Bayeux furono realmente linciati dalla folla inferocita e, documentandomi su alcuni testi, ho cercato di ricostruire con quanta più verosimiglianza possibile le ore che precedettero l’assassinio di Marat. Charlotte Corday d’Armont aveva davvero una cugina anziana di nome Madame de Bretteville presso cui si era trasferita, uno zio prete chiamato Amédée e discendeva dal famoso drammaturgo Pierre Corneille. Non so invece chi fu il primo degli abitanti di Caen a sperimentare la lama della ghigliottina:  il personaggio del notaio Chabert è di mia invenzione.

 

 

 

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[1]Con il cuore e con la bocca”. Era il motto della famiglia Corday d’Armont.

 

[2] Faina.

 

[3] Luisella.

[4] Erano definiti così quei sacerdoti che, in ottemperanza ai dettami della Santa Sede, avevano rifiutato di prestare il giuramento di fedeltà alla Costituzione Civile del Clero e venivano pertanto considerati dalle autorità dei veri e propri traditori.

[5] Addio, mia signora.

 

[6] Contrariamente a quanto si potrebbe credere, si designava così l’ampio parco che circondava la residenza parigina del duca Louis Philippe d’Orleans. Sotto i suoi portici vi erano le sedi di numerose attività commerciali ed era per eccellenza il luogo deputato agli incontri galanti.

[7]Piccolo scialle di seta usato per nascondere la scollatura degli abiti femminili.

 

[8] Per impedire che la lama trovasse intoppi, ai condannati venivano tagliati i capelli.