Storie de Il
Gladiatore
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Storie ispirate dal film Il Gladiatore |
Lettura sconsigliata ai minori di anni 18 |
CANTE JONDO
di Lalla Usai
(E’ una forma musicale-poetica tipica dei gitani
andalusi. Fu usata anche dal musicista Manuel de Falla e dal poeta Federico
Garcia Lorca)
Mentre mi
apprestavo a scrivere questa storia, da brava musicodipendente, ascoltavo un
disco dei Gang, “Le radici e le ali”. Il recitativo con cui si apre l’album,
“Esilio”, sembrava ritagliato addosso al mio personaggio, quello dell’eroe
solitario e immortale, Massimo che ritorna nella natia Spagna, nel contesto
tragico della Guerra Civile. Mi sembra bello riproporlo… Eccolo.
…quando queste parole cadranno ad una ad una sotto i
tacchi di una danza
quando questi denti avranno morso le labbra nomadi del
tempo
quando queste mani apriranno il vento
quando avrò posato a terra l’orecchio per sentire il
tuo cuore nel profondo, per sentirlo correre e cantare
quando avrò volato a piedi nudi con i corvi neri sopra
i vostri campi d’oro e sopra il sonno delle scimmie
quando un’alba di seta avrà liberato l’odio dalle
vostre lenzuola
e incendiato i cancelli sicuri delle vostre case
d’Occidente
quando…
quando avrò parlato ai secoli delle vostre sconfitte
e dei poeti, dei guerrieri, dei profeti chiusi freddi
muti e stanchi
quando avrò scambiato l’odore sacro del pane ammuffito
con una nuova armatura
quando i miracoli rotoleranno tra una folla di tamburi
quando i porti e le oasi i ponti e le strade saranno
soltanto stagioni nel palmo della mia mano
allora ti avrò di nuovo accanto e tornerò a
difenderti, che sia maggio o ottobre
allora e solo allora tornerò a casa.
(Guido e Maurizio Severini, “The Gang”, in LE RADICI E
LE ALI)
“…Un ultimo favore, Esperanza mia carissima. Un mio
amico, il professor Meridas sta scrivendo un libro e ha bisogno di un posto
tranquillo dove poter lavorare in pace. Ho pensato all’hacienda. Non dirmi di
no. Ernest.”
Non gli avrebbe detto
di no. Non si poteva dire di no a Ernest. In nessuna circostanza.
EL LLANTO
(Il Lamento)
Erano passate le
cinque da poco meno di mezz’ora, e l’Uomo stava per aver ragione della Bestia,
come sempre succedeva. Quasi sempre. Gli saltellava attorno leggero come una
libellula, e i raggi del sole facevano scintillare l’abito ricamato d’oro e
d’argento come il paramento di un prete, il traje
de luz[1], i panneggi della muleta di raso rosso
come il fuoco, come il vino di Alicante, come il sangue che sgorgava copioso
dalle ferite che le banderillas
avevano aperto sulla schiena nera e lustra del toro, come il balenare repentino
della lama d’acciaio toledano della espada.
Un’ultima veronica sotto il muso
grondante sangue e schiuma, quindi il matador
avrebbe trafitto il mostro proprio sul collo, nel posto dove le vertebre
cervicali si congiungono e la povera bestia sarebbe crollata sulle ginocchia.
Morta, sconfitta, derisa, in un turbinio di urla e acclamazioni, in un delirio
di folla assetata di brividi e di sangue. Dopodiché le note del paso doble avrebbero introdotto
nell’arena altri banderilleros in
groppa a cavalli bardati in modo tale da non mostrare le ferite, qualora il
toro, pazzo di dolore, ne avesse trafitto qualcuno con le sue corna acuminate
come punte di lancia, e un altro matador
con il traje de luz, la muleta di
raso rossa come il fuoco dell’inferno, il vino di Alicante, il sangue vivo che
sgorga dalle arterie recise, la spada d’acciaio toledano e gli sguardi delle
donne più belle della città a spiare avidi ogni movimento del suo corpo
aggraziato che danzava la morte davanti alle corna del toro. Poveri diavoli,
reclutati ancora ragazzini tra braccianti, mozzi di stalla, zingari disperati.
Poveri diavoli che sapevano benissimo come quel gioco valesse la candela. Se
sei bravo e fortunato, avrai fama, ricchezza e potrai fotterti tutte le donne
che vorrai. Anche la padrona che, quando non eri nessuno e hai osato rivolgerle
la parola per dirle “Ho fame”, ti ha colpito sulla guancia con il suo frustino
da cavalli, e la cicatrice non è andata più via. La sentirai gemere sotto di
te, la sentirai implorare amore quando prima ti chiamava campesiño[2]
puzzolente, e quella sarà la tua dolce vendetta. Sì, quel gioco di morte valeva
la candela. Anche per Manuelito che veniva dalle campagne intorno a Mulhacen, e
da bambino non aveva mai portato scarpe né messo piede in una scuola. E se
sarai sfortunato? Beh, una cornata nella pancia porrà fine ai tuoi giorni, ma i
poeti canteranno le tue gesta e le donne piangeranno seguendo il tuo funerale.
Tanto, si nasce col destino già segnato e non si muore più di una volta.
-Quello del
coraggio è sempre uno spettacolo esaltante, non ti pare, Max?
L’uomo si strinse
nelle spalle, guardando dentro gli occhi chiari come ghiaccio il suo interlocutore.
-Sai come la
penso, Ernest. Trovo che sia ripugnante.
Il sangue, le urla, un uomo che mette in
gioco la sua vita, un povero animale seviziato a morte per divertire una folla
di esaltati e qualche straniero in cerca di emozioni più forti di quelle che
potrebbe darti fottere una donna e sbronzarti di brandy. Non so che ci trovi in
tutto questo, Ernest. E quel che è peggio, non so che diavolo sono venuto a
fare io, qui. Non sono l’unico spagnolo che odia la corrida, lo sai da quando
mi conosci; e tu l’unico americano che la ama.
-La Condesa ha accettato di ospitarti nella
sua tenuta. Così potrai lavorare tranquillo.
-Questa sì che è
una bella notizia.
Non distolse lo
sguardo dal grande toro che moriva e dal matador
che lo provocava danzandogli attorno, luminoso e colorato come una
farfalla, saettante e micidiale come una vipera che qualcuno abbia,
malaccortamente, calpestato. Uccidilo, dai, ha sofferto anche troppo. Non è
bello trastullarsi in quel modo con qualcosa che sta morendo. Porta sfortuna,
Manuelito, campesiño puzzolente che
non sa né leggere né scrivere e che cerca il suo riscatto in un gioco esiziale
come veleno, crudele come l’acciaio di una lama affilata.
-E’ fin dai tempi
antichi che gli uomini si esaltano di fronte allo spettacolo del coraggio… e
del sangue. Me lo insegni tu stesso, professor Meridas.
La tauromachia dei
Cretesi. I sacrifici di sangue degli Aztechi. Le ordalie barbariche. La
plebaglia urlante davanti ai patiboli. Il phersu
etrusco che, occhi bendati e mano destra legata dietro la schiena, menava
randellate alla cieca contro un cane inferocito. E le lotte dei gladiatori
nell’arena: ammazza prima che ti ammazzino, tagliagli la gola, anche se gli eri
amico. Così imparerai che l’amicizia non si conviene a quelli come te.
-L’attrazione per
le sfide è intrinseca alla natura umana, Max. E gli animali feroci, pericolosi…
-Gli animali
uccidono solo per fame o per difendersi. Certe volte, l’uomo è peggio delle
bestie. Guarda: c’è molta più dignità nel toro moribondo che in quel pagliaccio
del suo assassino.
Sei nobile, Maximo
Meridas. O sei effeminato, a non amare le sfide, anche se a guardarti non si
direbbe. E’ bella, la Condesa ed è stata a lungo infelice, lo sai?
Potresti piacerle, se non fossi tanto delicato. Alle donne come lei piacciono
gli uomini veri. Come Manuelito, il campesiño
che fino a pochi mesi fa non sapeva cosa fossero le scarpe e che adesso danza
la morte davanti alle corna affilate del toro.
Ernest Hemingway
amava giocarsela, la vita, bersela come brandy, fumarsela come tabacco,
fottersela come una donna. Era stato volontario sul fronte italiano durante la
Grande Guerra, amava l’Africa e i safari, gli occhi del leone nei suoi e
sopravvive chi balza o spara per primo. E amava la corrida, con il suo contorno
di musiche, danze, sangue e morte. Al contrario di Maximo Meridas, il quale
aveva gli occhi chiari e la muscolatura elastica di un leone che avanza tra le
erbe alte della savana, ma non amava le cose da uomini. E’ uno studioso, lui.
Così giovane, è già ordinario di Storia Romana all’Università di Granada. Ha
tenuto conferenze anche all’estero e conosce il periodo della Decadenza come se
lo avesse vissuto davvero. Come se, in un’altra vita, fosse stato un pidocchio
sulla testa di Marco Aurelio, una cimice che avesse diviso il letto con
Caracalla, un topo che avesse infestato i Palazzi Imperiali.
-Finiscilo,
maledetto te. Dagli una morte pietosa, e dimostra così di essere uomo.
Erano passate da
mezz’ora le cinque della sera, quando il toro alzò la testa, in un ultimo
sussulto di dignità, e il traje de luz
si squarciò e si riempì di sangue. Manuelito avrebbe avuto l’ultimo omaggio: il
llanto[3]
dei poeti e le lacrime delle donne. Il toro collassò sul suolo che gli aveva
bevuto tutto il sangue subito dopo, stremato dalle ferite infertegli dai banderilleros a cavallo per stroncare la
sua forza. Il professor Meridas chiuse gli occhi e rabbrividì, anche se era
maggio e faceva già caldo.
LA CONDESA
(La Contessa)
Ernest non aveva
avuto modo d’accompagnarlo personalmente e aveva fatto sì che una lettera per
la Condesa lo precedesse. Trattalo
con riguardo e fai in modo che possa lavorare tranquillo. Per uno spagnolo, è
un tipo piuttosto strano, sembra che nella sua testa ci sia posto soltanto per
Roma antica, i suoi ruderi e i suoi imperatori folli. Credo che stia scrivendo
un libro sugli Antonini, sai, Marco Aurelio, Commodo o come diavolo si
chiamava. In quanto al resto, è gentile e di facile contentatura. D’altronde,
non mi sarei mai permesso d’importi un ospite scorbutico e irriguardoso…
Un’ultima cosa, che ti divertirà: alle corride parteggia sempre per il toro.
Sei sempre lo
stesso, Ernest. Esperanza sorrise e rivide con gli occhi della mente la larga
faccia cotta dal sole, la barba folta, gli occhi come schegge di cielo. Amava
la vita, Ernest, mangiare, bere, fare l’amore. Amava le donne calde e gli
uomini forti, la caccia grossa e le corride. Le era sempre piaciuto, perché al
mondo non c’è donna che non trovi il coraggio attraente. E le spagnole più
delle altre, diceva lui. Non sapeva dirgli di no, qualunque cosa le chiedesse:
anche di ospitare, nella sua tenuta, un deprimente professore di storia romana
che aveva bisogno di tranquillità per raccogliere le idee sul suo nuovo libro.
Un trattato sugli Antonini. Qualcosa di noioso come lui, sicuramente. Antonino
Pio, Marco Aurelio, Commodo: vaghe reminescenze scolastiche le portarono alla
mente un grasso, saggio e bonario signore adorato dai suoi sudditi, un filosofo
tormentato amante della pace ma costretto alla guerra e un giovane tiranno
assetato di sangue che si dilettava a misurarsi nell’arena con i gladiatori. E
professori paludati, con i capelli unti, le lenti spesse e la faccia pallida e
biliosa di chi non vede mai il sole.
-El señor Meridas, Condesa. El Profesor.
Entrò, preceduto
da due valigie spelacchiate: una, quella piccola, doveva contenere i suoi
effetti personali. L’altra, la grande, i suoi libri su Roma antica.
-Si accomodi,
l’aspettavo.
Per chiedergli
vieni con me e raccontami di Marco Aurelio costretto a combattere suo malgrado
e di Commodo, il tiranno sanguinario che amava misurarsi con i gladiatori? O
per parlargli della sua tenuta di Trujillo dove allevava i più bei tori da
corrida di tutta la Spagna, della paura che le metteva la ventilata riforma agraria
che avrebbe frantumato il latifondo e cancellato una volta per tutte i
privilegi anacronistici dell’aristocrazia?
O per lamentarsi di quel lupo solitario calato dalla Sierra, che aveva
ucciso due vitelli?
La facevo… Tutto
diverso, lo sa? Non così giovane, tanto per cominciare. Trent’anni o poco più,
ma solo perché sapeva che era impossibile arrivarci prima, dov’era arrivato.
Capelli scuri, disordinati, che gli si arricciavano sul collo. Capelli in mezzo
a cui le sarebbe piaciuto passarci le dita. Guance tondeggianti da bambino,
ombreggiate da una barbetta d’un paio di giorni: per essere più credibile nel
suo ruolo di cattedratico, o semplicemente perché i suoi studi gli lasciavano
poco tempo da dedicare a se stesso? Occhi allungati, che riflettevano il cielo
e le foglie, sornioni come quelli di una tigre sazia di sangue, palpebre
pesanti frangiate da lunghissime ciglia. Naso dritto, regolare, con le narici
strette e la punta un po’ all’insù. Denti bianchi, taglienti e cattivi, tra le
labbra tenere, mento volitivo spaccato in mezzo da una profonda fossetta. Mal
vestito, con camicia a scacchi, brache di telaccia e scarponi da contadino.
Mani grandi, spalle e braccia forti da guerriero, gambe dritte e solide… Il
professore era l’uomo più incredibilmente bello e virile che le fosse capitato
di incontrare in quarantatré anni che stava al mondo. Sembrava un attore del
cinema. Dio, quanto era giovane: dieci, o giù di lì, in meno di lei. I suoi
occhi più azzurri che verdi la vedevano bella? Non era molto alta, ma ben
proporzionata, con il collo lungo, la vita stretta e un bel seno. I capelli
neri erano raccolti in una crocchia austera, ma li avrebbe sciolti volentieri,
se lui glielo avesse chiesto. Agli uomini piacevano i suoi occhi scuri e
malinconici, le sue labbra carnose, la pelle bruna che denunciava il sangue
“moro” di andalusa. Chissà se era anche lui come tutti quanti gli altri, come
Ernest, come Tomàs…
-Benvenuto,
professore. Da questo momento, casa mia è casa sua.
-Per me stare qui
è davvero tornare a casa… Condesa.
Il suo sguardo
d’acciaio e di cobalto l’aveva avvinta subito, come una maledizione, e la voce
era bassa e vibrante come la corda tesa di un arco. Quell’uomo a tutto faceva
pensare fuorché a uno studioso. A un artista, forse. O a un soldato. A qualcuno
che amava la vita di un amore disperato e così folle da non temere di giocarsela. Come Ernest.
LAS MARIPOSAS
(Le Farfalle)
Non vedo l’ora di
poterti incontrare, Ernest. No, niente, solo per sapere chi mi hai messo in
casa.
Parlava poco
perché aveva tanto da fare, ma se avesse cominciato sarebbe stato un torrente
in piena, ne era sicura. Esperanza lo guardava pestare sui tasti della grossa
macchina da scrivere e gli scivolava dietro le spalle per leggere quel che
stava scrivendo. La storia noiosa di tre cariatidi del tempo antico, un
brav’uomo, un saggio e un criminale. Scriveva in inglese, lingua che lei non
conosceva. Ernest, ricordò, le aveva detto che il lavoro era stato
commissionato dal Dipartimento di Storia Antica di Princeton, un’università
americana. E che il professor Meridas era una delle massime autorità mondiali,
per quanto riguardava le tribolate vicissitudini di Roma imperiale. Anche se a
tutto faceva pensare fuorché a uno studioso. Gli guardò la schiena forte, le
spalle quadrate, i capelli bruni che gli si arricciolavano sul collo. E
immaginò uno di quei gladiatori che, nella grande arena di Roma, erano
costretti a misurarsi contro Commodo il pazzo e le sue armi d’acciaio affilate
come rasoi con una daga senza filo, fusa nel bronzo, che si sarebbe spezzata al
primo urto: la Sacra Maestà Imperiale non poteva rischiare di ferirsi mentre si
divertiva a portare via la vita a qualcuno, a veder scorrere il sangue vile di
uno schiavo, di un prigioniero, di un condannato… Molti tori da combattimento
allevati a “Las Mariposas” venivano chiamati Gladiador.
Schiavi. Prigionieri. Condannati. Anche se qualche volta capitava che
uccidessero, come quello che, due giorni prima, a Siviglia, aveva aperto la
pancia al povero Manuelito Duarte. Anche lui era uscito dall’allevamento di “Las Mariposas”.
Le Farfalle. Che nome romantico.
Meridas continuava
a picchiare sui tasti della macchina, incurante della sua presenza. Meglio, se
le avesse rivolto la parola per chiederle se trovava interessante quello che stava
scrivendo, probabilmente non avrebbe saputo cosa rispondergli e lui avrebbe
capito che, in realtà, non gliene importava proprio nulla. Suo marito, “El Conde”
lui sì che era stato appassionato di storia antica; a lei, come in genere
capitava alle ragazze spagnole di buona famiglia destinate al matrimonio e non
al convento, era stata fornita un’istruzione approssimativa e raffazzonata, il
minimo indispensabile ad amministrare la casa e a non sfigurare in società:
leggere, scrivere, far di conto, strimpellare il pianoforte e conoscere le
buone maniere. Sulla storia, vaghi cenni fondati più su aneddoti che su dati di
fatto. E poi, perché arrovellarsi sul passato quando ci sono già abbastanza
problemi nel presente?
-Ricordo che
l’altro giorno ha detto “per me stare qui è come tornare a casa…”
Lui alzò gli occhi
dal suo lavoro, la guardò e le sorrise.
-E’ che sono nato
a due passi da qui, dietro quelle colline. E manco da tanti anni.
-E’ stato…fuori?
-Ho girato il
mondo.
E finalmente ci
sei tornato, nella tua terra, l’Estremadura di pietre e di fame. Scommetto che
avevi nostalgia, la stessa che ho io della mia Siviglia, della sua musica e dei
suoi colori. Vorrei tornarci, ma non posso: il mio dovere è restare qui a
onorare la memoria di un marito che non amavo, mandando avanti e facendo
prosperare quello che mi ha lasciato, e che adesso è mio. Aveva quasi
trent’anni in più di me, era vedovo, e neppure lo conoscevo. Ma la mia famiglia
d’origine era mezza rovinata e ho fatto il mio dovere di figlia. Gli avrebbe parlato
così, se la riservatezza nei riguardi di uno sconosciuto non l’avesse
trattenuta dal farlo. Ma Ernest sicuramente gli aveva detto tutto di lei. E’
bella, ed è stata a lungo infelice. Sposata senza amore a un vecchio, era
diventata l’amante di Tomàs, figlio di primo letto del marito, che le era
coetaneo. Finchè questi non era morto stupidamente, annegato mentre faceva il
bagno nella Guidiana. Lo stesso fiume dove anche lui, Maximo, aveva imparato a
nuotare, da bambino.
-Le piacerebbe
visitare la casa? E’ piena di cose molto antiche: mio marito le collezionava.
Il professore
aveva tratti morbidi, un po’ infantili e occhi dolci, color azzurro cielo. Si
illuminava tutto, quando sorrideva, anche se, spesso, la sua espressione era
seria, malinconica come per un dolore mai dimenticato, una ferita che nemmeno
il tempo era riuscito a guarire.
Esperanza lo guardò afferrare saldamente in pugno il pesante gladio
romano, rotearlo, simulare qualche affondo, le labbra serrate, gli occhi
puntati su un nemico che solo lui riusciva a vedere.
-Mio marito diceva
sempre che quel coso è terribilmente pesante, professore. In mano a lei, sembra
quasi un’estensione del braccio.
-Sono stato
campione universitario di scherma, e la pratico ancora. Se e quando posso,
s’intende.
Anche Tomàs aveva
praticato la scherma a livelli agonistici, tirava di sciabola. Ma non si
sarebbe mai sognato di maneggiare l’antica daga con quella disinvoltura,
neanche si fosse trattato di un fuscello, anzi, quante volte aveva detto
“Chissà come facevano” prendendola dalla teca, guardandola e soppesandola.
-E’ un reperto…
della zona?
-Sì. E’ stata
trovata in una fossa profonda, non lontano da qui, accanto agli scheletri di
una donna e di un bambino, così malridotti che quegli imbecilli della
Gendarmeria erano convinti potesse essersi trattato di un omicidio e sono
arrivati ad aprire un’inchiesta… Invece erano un reperto di epoca romana anche
loro. Lo vede questo braccialetto? Era ancora al polso della donna, quando
l’hanno disseppellita.
-Avrebbero dovuto…
lasciarli riposare in pace.
Gli occhi si erano
rabbuiati, i denti bianchi avevano morso a sangue la carne tenera del labbro.
Ed Esperanza Navarro Ruiz Solana, la Condesa
trattenne a stento la voglia di stringerselo contro per consolare la sua
tristezza, di accarezzargli i riccioli disordinati per dare un attimo di requie
alla sua inquietudine. Perché la tristezza gli donava. Terribilmente.
Guardandolo e sognando di dargli conforto, le era venuta voglia di farci
l’amore, con quello strano cattedratico che aveva gli occhi tristi, sembrava un
attore del cinema, maneggiava la daga come un legionario romano e, a detta di
Ernest, durante la corrida parteggiava sempre per il toro.
LA CABALGADA
(La cavalcata)
Meridas aveva
accolto con entusiasmo la proposta di una cavalcata in lungo e in largo per la
proprietà, ma aveva dettato una condizione curiosa: scelgo io il cavallo. Ed
Esperanza adesso era desiderosa di vedere che cosa avrebbe scelto:
probabilmente un brocco bolso e grasso, una vecchia giumenta sfiancata delle
gravidanze, perché sicuramente in vita sua non doveva mai essere montato sopra
un cavallo e non voleva rischiare l’osso del collo prima di aver portato a
termine quel suo maledetto libro. Nella piccola valigia dove aveva stipato la
sua roba non c’era niente di adatto per cavalcare, sicché lei si trovò
costretta a prestargli i calzoni e gli stivali di Tomàs. Quasi pianse, quando
l’odore del cuoio e della tela le riportò alla mente il ricordo dell’amante di
un tempo, un ragazzo allegro, ridanciano, che le faceva dimenticare le
tristezze della sua esistenza e non si poneva alcuno scrupolo, mentre
l’accarezzava. In fin dei conti, quella bella brunetta era la sua matrigna… Al
diavolo, non l’aveva scelto lei, di sposarsi con un vecchio. Questo amore
proibito ci porterà disgrazia. Gli diceva sempre. E lui rideva e la baciava.
Finchè un giorno alcuni contadini pescarono il cadavere di Tomàs nelle acque
della Guidiana.
I calzoni e gli
stivali gli andavano a pennello, pensava Esperanza guardandolo avvicinarsi al
recinto dei cavalli: era un bellissimo uomo, molto più di quanto lo fosse mai
stato Tomàs, che era sì attraente ma piuttosto comune. Asciutto, muscoloso,
dritto e fiero; aveva il petto largo, un paio di spalle che le sembrarono
enormi. Chiuse gli occhi, gli immaginò addosso una corazza… Ma non si lasciò
suggestionare dai sogni.
-Quello.
-Il sauro?
-No, quello nero.
-Duende[4]?!
-Perché no? E’ un
bellissimo animale.
Era stato inutile
dirgli che si trattava d’una bestia infida, l’unico cavallo intero della tenuta
e per questo motivo, pericoloso e inaffidabile. Lui le aveva risposto che è
indegno di un vero uomo montare giumente o, peggio, cavalli castrati e che,
nell’antichità, tutti i più grandi condottieri, da Alessandro a Cesare,
montavano nervosi stalloni, mica quei
castroni dal sedere largo, adatti alle donne e ai ragazzini.
-E’ un animale
bizzoso: non vorrei che…
-So trattare con i
cavalli. Mio padre li allevava per l’esercito.
Ah. Strano che lei
non ricordasse alcunché a proposito di un allevamento di cavalli in quei
paraggi. Più strano ancora del fatto che il bizzoso Duende, stretto tra le cosce poderose del professor Meridas, si
fosse trasformato in un agnellino. Strano davvero.
Esperanza gli
sorrise, mentre la brezza le scompigliava i capelli.
-La facevo tutto
diverso, lo sa?
-Davvero? E come
mi faceva?
-Molto più
vecchio, tanto per cominciare. E certamente non così… così… Mi scusi
professore.
Non così
maledettamente bello, spavaldo e seduttivo. Quasi quasi era peggio di Ernest,
anche se lui non poteva soffrire le corride. Aveva la camicia a scacchi aperta
sul collo lungo e robusto, e un dente di lupo appeso a un lacciolo di cuoio che
gli dondolava sul petto. Il portafortuna dei legionari romani anche perché il
lupo, con l’aquila, era uno degli animali simbolo del grande Impero e della sua
terribile potenza. I generali di stanza nelle regioni fredde del Nord portavano
sontuose pelli di lupo intorno alle spalle, e le folte code ricadevano sui loro
lunghi mantelli color porpora.
-A volte ho
l’impressione che lei sarebbe voluto vivere allora.
-Forse. - gli
occhi gli si rabbuiarono, come il cielo al passaggio d’uno stormo di corvi. -
Questo posto si chiamava Tergillium, una volta.
-Quante cose sa… è
come se avesse vissuto una… o forse tante altre vite, professore.
-Mi chiami Maximo.
O Max, come fa Ernest, quel matto.
-C’è un lupo che
scende dalla Sierra. I vaqueros lo hanno sentito ululare, ma
nessuno l’ha mai visto. Ha già ucciso due vitelli… due animali di razza e di
valore.
-Gli animali cercano
di nascondersi quando sentono avvicinarsi la morte. Sono convinti di poterla
imbrogliare così. Ma se avessero potuto scegliere tra non crescere e diventare
la colazione di un lupo o crescere per diventare il sanguinario trastullo di un
branco di pervertiti, credo che quei vitelli avrebbero scelto ciò che gli è
stato dato in sorte dal destino.
-Si dovrà stanare
quel lupo, abbatterlo… Chissà perché è sceso fin qui dalle montagne.
-Mi fa
compassione, povero lupo.
-Gli animali le
fanno sempre compassione?
Le sorrise,
annuendo. Un sorriso capace di fondere il ghiaccio. Ed Esperanza pensò che le
sarebbe piaciuto sentire su di sé il suo corpo caldo e forte, il sapore dei
suoi baci.
-Ci sono molti
cani nell’hacienda?
-I vaqueros usano i pastori catalani per
aiutarli a governare le bestie. Per la guardia alla proprietà abbiamo otto perros manchegos[5].
-Li ho visti. Tre
sono femmine. Il lupo scende per qualcuna di loro.
Ha voglia di
scherzare, prof… Max? Le cagne non cercano i lupi. No, non scherzo, Condesa… Esperanza. Quale di queste
bestie, dovendo scegliere tra un mastino grasso e flaccido e un gagliardo lupo
selvaggio sceglierebbe il primo? Gli animali hanno molto più buonsenso di quel
che comunemente si creda.
-In qualche
cucciolata le sarà capitato di vedere cagnolini con gli occhi gialli o verdi: i
bastardi dei lupi solitari che calano dalla Sierra
quando hanno fame. O quando cercano una femmina. A volte crescendo
diventano animali imprevedibili, pericolosi, refrattari all’ubbidienza. Ma più
spesso si votano al loro padrone con tanta dedizione da lasciarsi morire di
fame se questi gli venisse a mancare. O da giocarsi la vita, per difenderlo. Da
ragazzo, ho avuto uno di questi cani. Lo ricordo corrermi appresso quando
cavalcavo. O sguazzare con me nella Guidiana. Si chiamava Hercules.
La Guidiana. Il
fiume maledetto che le aveva portato via il suo unico, grande amore. Esperanza
lanciò il cavallo in un galoppo furioso contro l’orizzonte, perché la brezza
della corsa le sferzasse la faccia e le impedisse di piangere.
EL NOVILLO
(Il Torello)
L’animale era
giovane e, con i suoi duecento chili di peso, non aveva certamente raggiunto il
suo completo e definitivo sviluppo, ma prometteva bene e, a sette mesi,
manifestava già appieno quelle che dovevano essere le caratteristiche peculiari
del toro miura da combattimento: mantello nero come una notte senza luna e
senza stelle, corna non ancora del tutto cresciute ma già sufficientemente
minacciose, carattere pessimo e atavica avversione per i cavalli; muggì e
caricò senza esitare quando il castrone grigio della Condesa attraversò il suo spazio visuale.
-Pepe! Maledetto
te!- Urlò Esperanza cercando di richiamare l’attenzione del vaquero mentre il suo cavallo si era
lanciato in una corsa disperata attraverso i campi inseguito dal torello
impazzito. Ma Pepe non era abbastanza vicino da sentire il suo grido d’aiuto e
se ne rimase imbambolato a guardare el
Profesor far scartare e voltare quel demonio di Duende, il peggior cavallo che mai fosse vissuto a Las Mariposas, e lui stava al mondo da
abbastanza tempo per rendersene conto, neanche fosse stato l’animale addestrato
di un banderillero; ma il bello
doveva ancora venire: già, perché il tipo, uno che veniva dalla città e si era
logorato fin da ragazzino il cervello sui libri, aveva disorientato il torello
afferrandolo per la coda e strattonandolo fino a fargli perdere l’equilibrio.
Quel colpo, conosciuto tra i mandriani come coleada
era pericoloso e richiedeva, anche con un manzo di duecento chili, una forza fisica
incredibile, quasi brutale, una capacità di controllo totale del proprio
cavallo e uno sprezzo completo, temerario e incosciente del pericolo.
La Condesa era finita disarcionata quando
il suo castrone grigio aveva tentato di saltare un cespuglio di rovi, ma si era
subito rialzata.
-Max… Clavel[6]…
-Max sta bene. Clavel ha qualche graffio negli stinchi
ma niente di grave. E lei?
Aveva la faccia
cupa e sicuramente avrebbe sbottato un “Si può sapere che diavolo le è preso,
poteva stare più attenta, abbiamo rischiato di farci ammazzare tutti quanti” ma
si limitò a saettarle un’occhiata da incenerire. Tomàs, in una circostanza
analoga, si era messo a ridere, ma quello non era Tomàs. E non era neanche un
cattedratico interessato solo alla storia romana e al maledetto libro che stava
scrivendo. Era un dio, e aveva dentro lo spirito del lupo.
LASTIMA
(Compassione)
-Lasci stare Clavel, Condesa. E’ contuso e nervoso. Duende
è abbastanza forte da portarci in groppa tutti e due. Che c’è, non si fida
ancora di lui?
Le aveva messo il
pollice sotto il mento, costringendola a sollevare il viso e a guardargli gli
occhi, anche se non era facile, dato che gli arrivava a malapena alla spalla.
Non si fidava di Duende. Non si era
mai fidata di quella bestia maligna. Ma si fidava di Max, del suo sangue
freddo, della sua sicurezza, della sua forza tranquilla. Era una sensazione
confortante, sentirsi sotto la protezione di quell’uomo.
-Mi chiami con il
mio nome. Per favore.
-Mi riesce
difficile.
-Perché… perché sono
più vecchia di lei?
-Solo perché sono
suo ospite. E perché la conosco poco. Per il resto… Lei è giovane e bella…
Esperanza.
L’aiutò a montare
in sella, montò anche lui, e fu giocoforza stringersi l’una all’altro. Le
braccia, le gambe, i muscoli tesi che si allargavano sul petto di Max erano
confortevoli come una culla, il battito lento del cuore, il ritmo regolare del
respiro le infondevano sicurezza.
-Ha detto di
conoscermi poco. Ernest non le ha mai parlato di me?
-Di solito
parliamo d’altro, io e lui. Di politica, per esempio. O della corrida: lui
l’adora, io la odio.
-Mi ha detto che
parteggia per il toro.
-Il toro non ha
scelto di combattere, gli è stato imposto. E il torero, di solito, è un povero
diavolo che rischia la vita per conquistare prestigio e ricchezza: se nella
società spagnola ci fossero meno ingiustizie, forse…
-Non mi dica che è
comunista.
-Non sono niente.
Ma il mondo, così com’è, è brutto. Forse lei non se ne accorge perché ha sempre
avuto un’esistenza dorata.
-Allora Ernest non
le ha detto niente di me.
-E io le dico una
cosa soltanto: quando sarà cresciuto, non mandi a morte quel torello. Poteva
ammazzarci tutti quanti, ma si è dimostrato coraggioso. Il coraggio merita
sempre rispetto.
-E’ così… così
compassionevole anche con gli esseri umani, Max?
-Mi è stato
insegnato da mio padre e dai casi della vita: guai a non esserlo. Un’altra
cosa, Esperanza. L’ultima.
-Sentiamo.
-Il braccialetto
di rame che è stato trovato al polso di quello… di quello… scheletro
dissepolto. Non ha nessun valore venale…
-Vuole che glielo
regali?
-E’ qualcosa che
ha a che vedere con la mia famiglia. Un mio antenato è stato un grande
generale, ai tempi del Cesare Marco Aurelio. Si chiamava come me: Maximus.
Quando l’Imperatore morì in circostanze oscure, cadde in disgrazia presso il
suo successore, Commodo. Lui divenne schiavo, sua moglie e il suo figlioletto
finirono massacrati…
-Che terribile
tragedia.
-Può ben dirlo.
Una… terribile tragedia.
La brezza della
sera mitigava la calura primaverile ma già intensa del giorno. Esperanza si
rannicchiò contro il corpo solido di Max, provando un appagamento sottile e
struggente a quel contatto. Tomàs era morto quasi otto anni prima, pensò, e da
allora non aveva più fatto l’amore con un uomo. Nemmeno con suo marito, El Conde, che era malato di cuore e ai
piaceri della carne, come a quelli della tavola, aveva dovuto rinunciare
giocoforza da un bel pezzo. E nemmeno con Ernest, per quanto l’avesse
corteggiata e per quanto a lei non dispiacesse affatto. Si voltò di scatto verso
l’uomo, gli piantò gli occhi negli occhi e gli sibilò che non c’era stato
niente, assolutamente niente che potesse dirsi oro, nella sua esistenza. Lui
rise piano. Una risata profonda, di gola, che, invece d’indignarla, finì di
scaldarle i sensi.
-Anche la stagnola
dei cioccolatini luccica come l’oro ma non vale niente.
Max non era solo un mistero. Non era solo un
dio che avesse dentro lo spirito del lupo. Non era solo il suo sguardo azzurro
ardente e il suo sorriso da bambino. Aveva anche quella voce, cupa e
tesa come la corda di un arco: la stessa voce, ne era sicura, con cui il
Generale aveva gridato ordini, comandato cariche, minacciato i nemici, onorato
i suoi dei e il suo Imperatore, sussurrato parole d’amore a sua moglie,
coccolato il suo bambino.
-Mi sono sposata a
vent’anni con un vedovo che ne aveva cinquanta. E che non amavo. E’ stato mio
padre a convincermi e sapeva che l’avrei fatto, per amore o per forza. Eravamo
mezzi rovinati, lui era molto ricco e sapevamo che ci avrebbe aiutati. Ho fatto
quello che qualunque brava figlia avrebbe fatto.
-Amava… qualcun
altro?
-Quando mi sono
sposata, no. Grazie a Dio no. E’ stato un bene, se avessi avuto qualcuno nel
cuore sarebbe stato tutto quanto molto più difficile. Tomàs l’ho conosciuto dopo.
Era il figlio di primo letto di mio marito e avevamo la stessa età. Un bel
ragazzo, ufficiale di cavalleria. Era d’istanza nelle Asturie e ci vedevamo
soltanto d’estate, quando veniva in licenza. Forse aveva un’altra, questo non
lo so. Ma io lo amavo, e mi bastava.
-Ne parla al
passato.
-E’ morto. Otto
anni fa. E’ annegato mentre faceva il bagno nella Guidiana. Ho visto come mi ha
guardata, dopo che è successo l’incidente del novillo. Poteva finire male, ed è stata tutta quanta colpa mia, ma
quando… quando ha nominato quel fiume maledetto, sono scappata perché non
volevo che mi vedesse piangere.
Esperanza percepì
la stretta del braccio robusto di Max intorno alla vita, la carezza dei capelli
morbidi e ricci, il calore delle labbra che le lambivano il collo.
-Ernest mi aveva
detto soltanto che eri bella. E che avevi avuto una vita infelice…
Continuò a
baciarla e a sussurrarle parole dolci nell’orecchio, mentre con una mano
reggeva le briglie e con l’altra le toglieva le forcine dall’acconciatura e le accarezzava
la testa.
-Non tagliarli,
Esperanza. Non farlo mai: nell’antichità, si tagliavano i capelli alle donne
solo per sfregio, per punizione, per mortificare la loro femminilità…
Come fanno le
suore, che si rasano per dimostrare che hanno rinunciato al mondo. All’amore.
Oh, Max, credevo di averci rinunciato anch’io, otto anni fa. Per sempre. Ma
forse era soltanto perché non avrei mai immaginato d’incontrare un uomo come
te, sulla mia strada. E sono ben felice che sia successo adesso, prima che sia
tardi, che io diventi una vecchia… O che il mondo scoppi.
Tra le sue gambe
c’era un cavallo bizzoso, contro la sua schiena il corpo caldo di un uomo
giovane e splendido. E il crepuscolo profumava di menta e di gelsomini. Lui la
fece voltare, le catturò le labbra con la sua bocca avida e vorace.
-Quello che stai
facendo… è per compassione?
-E’ solo perché
sei bella e non hai idea di quanto ti desideri.
-Stanotte ti
aspetterò sveglia, Max. E non chiuderò a chiave la porta della mia stanza.
PERRA Y LOBO
(Cagna e lupo)
Non preoccuparti
se qualcuno può sentirti, Max. Adesso, la mia vita è soltanto mia, finalmente.
Lo aspettò
sveglia, seduta davanti alla toilette. Si spazzolò i capelli, perché lui li
sentisse morbidi e setosi come una pelliccia sotto le sue dita. Non tagliarli,
Esperanza. Non farlo mai. Invece era stata a un passo dal farlo, dopo la morte
di Tomàs. Come se con il mondo avesse chiuso tutti i conti, alla maniera delle
suore.
Li sollevò e li
lasciò ricadere. A quarantatre anni non ne aveva uno bianco. Proprio come sua
madre. Avrebbe potuto barare con l’età, con quell’uomo giovane e bello, e lui
non si sarebbe accorto di niente. Non avendo messo al mondo figli e non avendo
l’abitudine di dimenticare i suoi problemi sgranocchiando dolcetti, era rimasta
snella come una ragazzina. Lo avrebbe ingannato, il tempo che sarebbe rimasto.
Ancora dieci, quindici giorni al massimo, poi chissà… Non uccidere il lupo che
scende a valle per incontrare la cagna che protegge la tua casa, le aveva
detto. Forse non ha ammazzato lui quei vitelli. E’ spinto dal desiderio di
accoppiarsi, non dalla fame. Quando lo avrà soddisfatto non si farà più vivo…
Proprio come te, quando uscirai dalla mia vita e non farò niente per fermarti.
Perché sono vecchia. E perché il mondo che tu sogni è quello che io odio, che
mi fa orrore e paura. Dovremmo essere nemici, io e te, come il lupo che scende
dalla Sierra e la cagna che fa la guardia alla mia casa.
Max arrivò quando
nel buio della notte echeggiò il grido del lupo, quindi il latrato della sua
amante e nemica. L’aiutò a sfilarsi di dosso la camicia da notte del corredo e
la strinse contro il suo corpo gagliardo. Non spegnere la luce, Esperanza,
guardami e lascia che ti guardi. Anche Tomàs pretendeva sempre di vederla nuda,
mentre facevano l’amore. Anche a Tomàs piaceva giocare con i suoi seni,
accarezzarle e succhiarle i capezzoli, finchè il piacere non l’attraversava
tutta quanta, come una scarica elettrica, e allora lo implorava, gli diceva
prendimi con un filo di voce arrocchita. Ma l’uomo che stava con lei non era
Tomàs. Lui era morto, un contadino aveva pescato nella Guidiana il suo corpo
livido e gonfio d’acqua. Max era vivo, invece, e sembrava un dio che avesse
dentro lo spirito del lupo, come il generale romano da cui s’era vantato di discendere.
Era grosso e forte e bello come una scultura antica, era bravo a dosare la
passione e la tenerezza. Più bravo di Tomàs.
Senza graffiarlo,
Esperanza gli fece scorrere le unghie sulla pelle levigata, tesa sopra i
muscoli scolpiti della schiena, delle braccia e del petto. Lo baciò
dappertutto, gustando il suo sapore, l’odore muschiato e inebriante della sua
carne. Gemette di piacere, quando le entrò dentro. E un po’ anche di dolore,
perché erano ormai otto anni che Tomàs era morto e lei credeva d’aver chiuso
con certe faccende. Era stato quasi come da ragazza, quando un uomo l’aveva
presa per la prima volta: un uomo vecchio, un uomo che non aveva mai amato.
Allora era stato disgustoso.
Vorrei che fosse
per sempre, aveva pensato, lasciando scorrere le mani sulla pelle di Max. Una
pelle perfetta che aveva dappertutto una singolare leggera doratura ed era
ombreggiata, sul petto e sul ventre, da un vello leggero, appena un po’ più
chiaro dei capelli, che s’infittiva sulle braccia, sulle gambe e sul pube. Vorrei
che fosse per sempre, ma sapeva che non sarebbe stato così. Prendi il sole
nudo, Max? Lui aveva riso e le aveva chiesto che cosa glielo facesse pensare.
Beh, sei abbronzato dappertutto… E perché hai tutte queste cicatrici? Nella
parte alta del braccio, sulle gambe, sulla schiena… Una sembra un marchio a
fuoco di quelli che si usano con il bestiame. Anche se potrebbe sembrarti
strano, sono sempre stato uno scavezzacollo, da ragazzino ero il primo a
ficcarmi nelle risse e l’ultimo a venirne fuori. Come se non bastasse, la mia
soglia di sopportazione del dolore è molto alta.
-Al posto di
quest’abrasione, qui c’era un tatuaggio, - le disse sfiorandosi il grosso
deltoide deturpato da due brutte cicatrici. - L’avevo fatto fare a Marsiglia:
una ragazzata di cui mi sono pentito subito. L’ho raschiato via con la lama di
un coltello e il rimedio alla fine si è rivelato peggiore del male, la
cicatrice che mi è rimasta è molto più brutta del tatuaggio. In quanto a quello
che mi hai visto sulla schiena, beh… Avevo quattordici anni e volevo provare
quanto fossi coraggioso. Me l’ha fatto mio cugino, con un ferro per marchiare i
cavalli. Altro che coraggio, ho urlato da rendere l’anima, sono dovuto rimanere
quindici giorni a petto nudo perché non potevo nemmeno infilare una camicia e
in aggiunta mio padre si è sfilato la cinghia e me le ha date di santa ragione.
Esperanza lo
ascoltò ridere piano, rannicchiata contro il suo petto muscoloso. Perché mi
racconti delle bugie, Max? Pensò. Ma pensò anche che la notte era giovane e
avrebbe mantenuto altre splendide promesse.
PILAR
Pilar la zingara
veniva a “Las Mariposas” un paio di
volte a settimana, per lavare le lenzuola al torrente, stenderle al sole,
piegarle e stirarle una volta asciutte. Arrivava in groppa a un vecchio asino
sul cui dorso si allargavano le sue gonne colorate e il sole faceva scintillare
i grandi cerchi che portava alle orecchie e gli incisivi rivestiti d’oro nella
bocca grinzosa.
Erano tanti anni
che veniva, dai tempi in cui Esperanza aveva appena sposato El Conde per salvare dalla povertà e dal
disonore la sua famiglia. A conti fatti, doveva avere una sessantina d’anni, ma
ne dimostrava anche di più: la pelle color mattone della sua faccia era una
ragnatela di rughe e le mancavano parecchi denti, ma i piccoli occhi neri e
arguti pungevano come spilli. Era difficile fidarsi degli zingari, mettere in
discussione la loro reputazione di ladri e bugiardi, ma El Conde si era sempre fidato di Pilar e anche Esperanza. In casa
non aveva mai toccato niente. Inoltre sapeva preparare mille intrugli a base di
erbe contro i piccoli malanni per i quali non era il caso di scomodare il
dottore e sapeva leggere il futuro della gente nei tarocchi e nei segni che
ciascuno porta impressi sul palmo della mano.
Era difficile nascondere
qualcosa a Pilar la gitana. Stanotte non hai dormito sola, Ama[7].
Stanotte c’era un uomo nel tuo letto, è come se l’odore della sua pelle fosse
rimasto ancora su queste lenzuola. Esperanza non ammise e non negò, sarebbe
stato inutile. La zingara si vantava di avere i sensi acuti come gli animali,
di percepire suoni e odori, di vedere cose che la gente comune neppure potrebbe
immaginare. Poteva essere e non essere, quella donna, che pure si professava
devotissima alla Virgen Morena[8] e a san Giacomo Apostolo, era
terribilmente superstiziosa. Ma non era stupida.
-Lui è… El Profesor?
E chi se no? Di
certo, la padrona non avrebbe mai tentato di dimenticare il povero Señor Tomàs, El Capitan, tra le braccia di qualche vaquero che tanfava di sudore stantio e di stalla, non sapeva né
leggere né scrivere e a trent’anni ne dimostrava sessanta; e non aveva mai
provato a dimenticarlo neppure con l’Americano. Diversamente, lei se ne sarebbe
accorta. El Profesor aveva un corpo
gagliardo, occhi azzurri dolcissimi, il sorriso tenero di bambino. Era un uomo
molto bello e, non fosse stata la vecchia che era, ma lei stessa a vent’anni,
quando danzava il flamenco per i ricchi stranieri che cercavano emozioni nelle bodegas dei quartieri antichi di Siviglia
e si muoveva con la grazia di una fiamma, era sicura che le avrebbe provate
tutte pur di farsi notare da uno come lui.
E’ bello e forte.
La sua è una forza tranquilla, ed è confortante sapere che ti protegge, Ama. E’ anche dolce e gentile, glielo leggo
negli occhi. Ma c’è qualcosa di terribile scritto nel palmo della sua mano.
Non disse niente,
perché sapeva che la Condesa non le
avrebbe creduto. Ma le voleva bene, e avrebbe cercato di metterla in guardia.. E’
troppo giovane, una donna ha bisogno di un uomo più maturo di lei al suo
fianco. Lo so, Pilar. Se ne andrà, la sua vita è altrove. So anche questo.
L’altra notte, un vaquero ha sparato, quando ha sentito il lupo ululare. Ma
nessuno ha trovato il lupo morto. E’ scappato e non tornerà, quello che
cercava, che fosse la carne calda di sangue d’un vitello o il bollore di una
cagna, l’ha avuto. Come quell’uomo.
Non me ne importa
niente di niente, Pilar, per quel poco che è durata mi ha reso felice. E poi,
chi ti dice che non potrebbe restare?
-Tante volte le
cose non sono quello che sembrano, Ama.
La vecchia zingara
scosse la testa. Non aveva mai visto niente di simile, prima di prendere tra le
sue la grande mano del Profesor per
leggerne i segreti. La linea della vita era profonda come un taglio e breve
come la luce del sole nelle giornate d’inverno. Ma appena sotto di essa ce
n’era un’altra sottile, indistinta, tortuosa e lunghissima, che sembrava
destinata a proseguire ben oltre il palmo della sua bella mano. Quell’uomo era
tornato dal Regno delle Ombre grazie alla magia. Per sempre.
Quando gli elementi più radicali che sostenevano la
coalizione governativa voluta dal popolo mediante libere elezioni diedero
inizio alla rivoluzione violenta che anche in Spagna avrebbe portato al potere
la dittatura del proletariato, la ricca borghesia conservatrice appoggiò le
iniziative golpiste della Falange e del suo leader, il generale Francisco
Franco, che aveva promesso, una volta preso il potere, il ritorno all’ordine. La
scintilla che provocò lo scoppio della Guerra Civile fu, nell’estate del 1936,
l’assassinio del monarchico moderato Calvo Sotelo. Molti volontari, provenienti
da tutto il mondo, si arruolarono tra le fila dell’esercito repubblicano,
mentre i governi di Italia e Germania offrirono concreti aiuti, in uomini e
armi (determinanti ai fini della vittoria
furono i carri armati e gli aerei tedeschi) alla Falange di Franco.
Nell’ottobre del 1937, come parte dell’Estremadura,
Trujillo era finita sotto il controllo falangista. La tenuta di Las Mariposas
era stata requisita e ospitava un contingente italo tedesco.
CUERVOS
(Corvi)
I corvi avevano
volato basso sull’orizzonte, prima che il vento freddo soffiasse sulla
campagna, lamentandosi come un cane affamato. Era novembre e faceva già molto
freddo, sulle montagne.
-Attaccheremo fra
tre giorni.
“Las Mariposas” era stata requisita dai
nazionalisti ed Esperanza era prigioniera in casa sua, pensava Max. Se avessero
sabotato quella casa con gli esplosivi prima di darle il tempo di mettersi in
salvo, con gli alti ufficiali tedeschi e italiani ospitati lì dentro, sarebbe
morta anche lei.
-Perché fra tre
giorni e non domani, compagno comandante?
-Non discutere gli
ordini del tuo capo, Pepe.
Non li avrebbe
discussi, perché rispettava la sua abilità e il suo coraggio. Il Comandante Max
non era come lui, aveva studiato e sapeva come andava il mondo. Non era un
compagno, non era uno del popolo, perché se lo fosse stato, se avesse patito la
fame, non gli sarebbe stata tanto a cuore la salvezza di quella puttana che
stava a Las Mariposas; una puttana,
già, che aveva tradito il marito con il suo stesso figlio, che senz’altro s’era
portata a letto quel gran pezzo d’uomo del Comandante, e che se la passava da
regina sfruttando chi si sudava il suo pane sgobbando come un mulo. La
odieresti a morte, se fossi quello che sono io. Magari l’avresti salvata quando
il suo cavallo era stato caricato da quel torello impazzito; te la saresti
portata a letto, lo sanno tutti che te la sei fatta, ma la odieresti,
Comandante, e non te ne importerebbe niente se morisse anche lei, oltre al
generale tedesco, al colonnello italiano e a tutti i maledetti franchisti che
stanno lì dentro.
-Io dico che non
sei come noi, e che forse faresti bene ad andartene.
Maximo Meridas. El Profesor. Era un abile stratega, un
capo con fior di coglioni e senza di lui quei contadini armati solo della loro
rabbia non sarebbero durati a lungo. Ma aveva anche la testa di legno e il
cuore molle. Lui la chiamava compassione, ma in guerra era solo una pericolosa
zavorra. E poi…
-Tu farai
esattamente come dico io, Pepe Suarez…
Quando ti piantava
quegli occhi in faccia, quando sibilava parole di fuoco con la sua voce grave e
poi sputava via il tuo nome come fosse stato una bestemmia, El Profesor metteva paura, e Pepe chinò
la testa. Fa’ quello che vuoi. Vai a farti ammazzare per quella… Vai a farti
ammazzare, come è successo al lupo che scendeva giù dalla Sierra per
accoppiarsi con una delle cagne da guardia dell’hacienda; gli hanno sparato due giorni dopo che te ne sei andato.
Bum! E addio… Addio lupo… Addio Profesor…
E te la sarai meritata.
Lo guardò
nascondere una pistola a tamburo sotto il giaccone di panno pesante e un
coltello dalla lama a doppio taglio nello stivale da cavallerizzo. Lo avessero
beccato i franchisti, mentre si dirigeva verso “Las Mariposas” in groppa al suo cavallo, sarebbe finito seduta
stante davanti al plotone d’esecuzione, anche se il suo arsenale era costituito
solamente da un coltello per scannare i maiali e un vecchio catenaccio. Ma lui
voleva salvare quella puttana della Condesa
e di ciò che rischiava non gliene importava niente. Del resto, era lo
stesso che, due anni prima, aveva visto lanciarsi in un galoppo sfrenato in
groppa al cavallo più inaffidabile che avesse calpestato la terra con i suoi
zoccoli, afferrare un torello imbizzarrito per la coda e frenare l’impeto della
sua carica. Il limite tra coraggio e incoscienza doveva averlo varcato tante
volte, in pace e in guerra. E poi, chi diavolo era? Diceva di essere nato da
quelle parti eppure Pepe, che a Trujillo era nato e cresciuto sul serio, era
convinto di non averlo mai visto prima che la Condesa se lo mettesse in casa. Diamine, in caso contrario se lo
sarebbe ricordato: la sua non era una faccia anonima, di quelle che si
dimenticano subito. Era una faccia che, vista una volta, non te la dimentichi
più.
IHR SEID HUNDE!
(Siete dei cani!)
Il Comandante,
lasciato il suo cavallo, scivolò lungo la parete ovest della Casa Grande, mimetizzato
con le ombre della notte. Le finestre del salone erano illuminate da una luce
morbida e calda, e le voci che le sue orecchie percepivano ora in un bisbiglio
e qualche risata, ora in parole chiare e scandite con voce abbastanza forte,
dovevano essere quella del generale tedesco e del colonnello italiano, che
parlavano tra di loro, a tratti in una lingua, a tratti nell’altra. Il primo
parlava discretamente la lingua dell’altro, che invece parlava il tedesco in
maniera pessima. Max le usava entrambe con disinvoltura, conoscerle era stato
molto importante per i suoi studi di storia antica, e capiva perfettamente ciò
che stavano dicendo. Non parlavano di guerra, ma di cose frivole, di cose
grevi, di donne, di sesso e di scopate. Il tedesco aveva una voce stridula e
ubriaca. E c’erano anche delle ragazze che ridevano con loro. Voci acute e
tintinnanti come campanelli, voci arrocchite dalle sigarette e impastate
dall’alcol. Qualcuno doveva aver organizzato un festino, lì dentro: cibo buono
e abbondante, fiumi di vino e ragazze compiacenti. L’ombra di una di loro,
mezza discinta e con i capelli sciolti, si profilò contro la finestra, stretta
nelle braccia di un tenente della Luftwaffe[9].
Esperanza… No,
nessuna delle voci femminili che aveva sentito ridere e bisbigliare lì dentro somigliava alla sua.
Esperanza doveva essersi chiusa in camera da letto, con la sola compagnia del
mal di testa e dei ricordi. Come sempre, da quando Tomàs era morto e lui se
n’era andato. Certo, pensò, non sarebbe stato facile tirarla fuori dai guai.
Ricordò di averle sentito nominare una sorella sposata a Bajadoz. Lì sarebbe
stata al sicuro, ma come arrivarci? Certamente sia l’automobile, che il
furgone, che i cavalli della tenuta erano stati requisiti, ma per il momento,
la priorità era riuscire a portarla fuori di lì e in quanto al resto, il Cielo
lo avrebbe aiutato, in un modo o nell’altro.
E lo aiutò, quando
Pilar la gitana, colei che aveva violato il suo segreto, gli scivolò a
fianco, silenziosa e quatta come una
volpe. Chiamala, Pilar. Portala fuori. Ho bisogno di parlarle…
Un tintinnio di
cristalli rotti infranse il silenzio freddo della notte: qualcuno della servitù
doveva aver rovesciato a terra bicchieri e bottiglie, forse erano ubriachi
anche loro. “Ihr seid Hunde”[10],
imprecò l’alto ufficiale tedesco con la sua voce irata e stridula. E il mondo
del Comandante precipitò, come in una vertigine, in un turbinio di fiocchi di
neve, in tronchi svettanti come colonne, in un inferno di sangue e di morte
dove si affrontavano i legionari romani e l’orda dei barbari.
HISPANICUS
-Pilar mi ha
assicurato che ti ci porteranno i suoi con i loro carrozzoni, a Bajadoz. Lì
starai al sicuro.
Esperanza lo
guardò come a volergli dire non c’è un posto sicuro, in questo inferno, e
chissà quando finirà. Ma perché hai voluto togliermi dai guai mettendo a
repentaglio la tua vita? Hai cercato di farmelo capire tante volte che stavi
dall’altra parte… Lupo e cagna, nemico e nemica.
-Non preoccuparti
di me e dei pericoli che corre la mia vita. Non ne vale la pena, Esperanza.
Il tempo era
passato, seminando di fuoco e sangue i ricordi della donna. Le rughe agli
angoli degli occhi erano più numerose e più profonde e c’era qualche filo
bianco in mezzo ai suoi capelli. Max invece… Il vecchio Max con i capelli corti
e il sorriso gentile aveva lasciato il posto a una specie di brigante barbuto e
arruffato, infagottato in un vecchio giaccone sotto il quale non era
improbabile che nascondesse un’arma. Un bandito, un comunista, un nemico. Ma
come non fidarsi di un uomo con quello sguardo? Esperanza sapeva che, se glielo
avesse chiesto, lo avrebbe seguito in capo al mondo.
-Passeranno qui
domani. Di prima mattina.
-Non voglio andare
a Bajadoz. Voglio stare con te.
-E’ pericoloso,
Esperanza.
-Lo è anche per
te. O non mi vuoi tra i piedi perché sono vecchia?
…E perché allevo
tori da corrida destinati a farsi ammazzare per il sollazzo di un pubblico
sadico… O perché sono la nemica, quella che non vuole il progresso e la
rivoluzione, quella che ha orrore di ciò che avete fatto, chiese devastate,
gente uccisa solo perché non era quello che siete voi?
-Non ti ha mai
detto niente di me quella vecchia zingara?
-Con Pilar non
parlo degli uomini che mi porto a letto.
-Non ti ha messa
in guardia contro di me?
Max sorrise, senza
alzare lo sguardo dal palmo della sua mano livida di freddo.
-Nell’antichità,
le donne della Tessaglia erano famose per i loro poteri di streghe e
avvelenatrici. A Roma erano in molti a rivolgersi a queste megere se c’era
qualcuno da far ammalare di mal d’amore… o da uccidere. Veneravano Ecate, la
regina dei demoni, a lei sacrificavano gatti neri ai crocicchi delle strade,
nelle notti senza luna. Si diceva che alcune di loro conoscessero il segreto
per riportare indietro dall’Aldilà le anime dei morti…
Quando alzò la
testa e la guardò, il raggio della lampada a cherosene gli colpì gli occhi,
facendoli scintillare come frammenti di vetro. Non mi dirai che un uomo come
te, colto e istruito, crede a queste superstizioni… Avrebbe voluto dirglielo, e
non gli disse nulla.
-In ciò che sai
sul mio conto… Di vero non c’è quasi niente, Esperanza. Ma se ti dicessi la
verità mi prenderesti per pazzo.
La verità… L’unica
che conosco, ora come ora è sangue e morte. Non credo possa esserci niente di
peggio… amore mio.
Lui se la strinse
al petto, le asciugò le lacrime che scendevano copiose dagli occhi con il dorso
della mano. Odorava di sudore, di fumo di legna e di lana bagnata. Odorava di
sporco, come un bandito, un latitante che si nasconde e non ha tempo per sé.
-Ricordi quando mi
hai chiesto come avevo fatto a procurarmi tutte quelle cicatrici che ho sul
corpo?
Max si strofinò le
mani una contro l’altra. Al polso, portava il sottile braccialetto di rame che
era stato trovato addosso allo scheletro disseppellito a Trujillo.
-E ricordi quanto
ho insistito per farmi regalare questo braccialetto?
Non fosse stato
una semplice banda di rame senza saldatura all’estremità, sicuramente non
sarebbe riuscito a infilarlo. Era strano, quel frivolo ornamento da due soldi intorno
al suo polso poderoso.
-Ti ricordi… della
disinvoltura con cui mi hai visto impugnare il gladio romano?
Beh, ho pensato
che, per un professore di storia antica, eri fuori del comune, davvero. Tutto
diverso da come ti avrei immaginato. L’ho pensato dal primo momento che ti ho
visto, e poi…
-Ricordi quando ti
ho detto che… che discendo da un generale romano? Beh, non discendo da nessun
generale. Io sono quel generale. Maximus Decimus Meridius.
Esperanza chiuse
gli occhi, inghiottì il groppo che le serrava la gola. Quanti anni hai, gli
domandò. Trentatré: quelli che avevo quando mi hanno ammazzato. E che avrò per
sempre.
La donna sospirò,
rannicchiandosi ancora di più contro il suo corpo. Le stava dicendo la verità,
ne era sicura, perché quell’uomo non sapeva mentire: anche se era una verità
difficile da accettare, contraria a qualsiasi logica: l’aveva visto mangiare,
bere, l’aveva sentito ridere, gli aveva visto gli occhi azzurri velarsi di
tristezza. Non ti ho visto piangere, pensò, ma gli uomini non piangono quasi
mai… O forse è perché… Perché sei quello che sei? Eppure, quello con cui aveva
fatto l’amore non era un fantasma, era una creatura di carne e di sangue… Dio,
sto per impazzire. O in realtà è lui il pazzo.
-Quegli scheletri…
erano mia moglie e mio figlio.
Le avevano sempre
detto che i pazzi è meglio assecondarli, ma non c’era follia, in quei frammenti
di sguardi illuminati dalla luce gialla della lampada a cherosene. C’era la
solita tristezza di sempre, e rassomigliava alla rassegnazione.
-Li hai amati
molto.
-L’amore e l’odio
non durano oltre la morte.
Sospirò come se un
peso gli opprimesse il petto, ed Esperanza lo strinse più forte, gli passò la
mano sui lunghi riccioli polverosi.
-Quasi tutte le
cicatrici che mi hai visto sono ferite di guerra. Due invece sono i marchi del
disonore.
Raccontami di te,
se sfogarti in qualche modo ti può aiutare a star meglio; tanto qui siamo al
sicuro, no? Questo rudere mezzo diroccato era una “villa” romana, la residenza
in campagna di un personaggio illustre… La tua, forse? Quella dove tua moglie
ti aspettava e tuo figlio giocava? Quella dove, un giorno, invece di te che
aspettavano sono arrivati gli sgherri dell’imperatore, massacrando tutti
quanti… Io sono scampato al massacro, ma sono finito schiavo. E poi gladiatore,
a giocarmi la pelle nell’arena, come i tori che allevi. Forse è per questo che
non posso soffrire la corrida. E il marchio che mi hai visto sulla schiena,
beh… Quello era il sigillo del mio padrone, di chi mi aveva comprato perché ero
forte, abile con le armi e in grado di fargli intascare denaro sonante. Il
mondo andava così, allora. Eppure tu eri qualcuno che contava, Max… Ero un
soldato di origine modesta, uno che veniva dalla gavetta. Ma avevo delle
qualità che i miei superiori apprezzavano e che, presto, anche l’imperatore
Marco Aurelio riconobbe. A ventotto anni ero generale, e forse… Forse
l’Imperatore mi avrebbe chiamato a succedergli. Era dai tempi di Nerva che, per
evitare di spianare la strada a un tiranno, i Cesari si sceglievano il successore,
adottando un uomo degno e capace. Commodo, il figlio di Marco Aurelio, e chissà
se era davvero figlio suo, un ragazzo crudele, grossolano, imbelle e vigliacco
mi odiava per questo. E poi… E poi c’era Lucilla, sua sorella. Da ragazzi
c’eravamo amati. Una di quelle storie senza futuro che lasciano il tempo che
trovano e che si sarebbero dissolte in qualche lacrima di rimpianto, invece…
E’ difficile non
amare un uomo come te. E’ impossibile dimenticarlo. Io credo che non ti
dimenticherò. Mai.
-Nella grande
arena di Roma, il pubblico mi aveva soprannominato Hispanicus. Quando combattevo, portavo una maschera, perché nessuno
potesse riconoscermi e vedere com’ero caduto in basso. Per lo stesso motivo,
con la lama di un coltello affilato avevo raschiato via il tatuaggio sul
braccio, il marchio dei legionari…
VALOR Y MIEDO, FUERZA Y HONOR
(Coraggio e paura, forza e onore)
-Pilar la zingara
sapeva tutto. Non ti ha detto niente? Non ti ha messo in guardia?
-Avrebbe dovuto
farlo?
Max chiuse gli
occhi, scosse la testa.
-Solo perché tu
non facessi l’errore di innamorarti di me: ti saresti condannata da sola
all’infelicità, come… come la donna che mi ha regalato la maledizione della
vita eterna.
Quello non era un
mostro, qualcuno dei non morti che terrorizzavano gli spettatori in certi
filmacci dozzinali. Aveva i timori, i sentimenti, gli entusiasmi di qualsiasi
essere umano. Gli piaceva mangiare, bere e fare l’amore. Lo indignavano quelle
che lui considerava ingiustizie, dalla miseria e l’ignoranza in cui i braccianti
nascevano, crescevano e morivano senza nessuna speranza di riscatto alla
crudeltà disgustosa della corrida. Sei comunista, gli aveva chiesto una volta
Esperanza, e lui le aveva risposto non sono niente. Adesso, a fianco dei
comunisti che volevano rivoluzionare la società, aveva scelto di combattere.
Eppure, saputala in pericolo, aveva deciso di andare a salvarla, anche se lei
odiava gli ideali in nome dei quali lui aveva scelto di lottare. Ma, in fondo,
che cosa rischiava? Avrebbe forse sofferto, se lo avessero ferito? Tanto non
sarebbe morto, e contava quello.
-La donna che ti
ha riportato indietro dall’aldilà…
Lucilla. Non
l’aveva mai dimenticato, anche se le era stato ingiunto di farlo. E quando era
crollato morto nell’arena dopo aver ucciso il tiranno, in tutta quanta la
faccenda aveva visto solo una mostruosa crudeltà del destino. Qualcuno le aveva
detto che il profeta dei cristiani aveva conferito ai suoi seguaci il potere di
operare miracoli. Ma il pontefice cristiano aveva respinto le sue suppliche e
le sue minacce. E allora si era rivolta a una strega. Ti condannerai da sola a
soffrire pene che non possono neanche essere immaginate, principessa. Fai
quello che devi fare, e non pensarci. Pensa solo che ti coprirò d’oro e ti sarò
riconoscente per il tempo che vivrò.
Visse a lungo, e
si maledì, perché lui non invecchiava, ed era sempre giovane e bello, mentre
lei… Lei era diventata secca e grinzosa come una mummia, eppure continuava a
desiderarlo, come a sedici anni, quando l’aveva conosciuto, come a trenta,
quando era stata sua, dopo che la strega aveva operato il sortilegio.
-Capisci perché
speravo che Pilar la zingara ti avesse messa in guardia? E capisci perché devi
andartene a Bajadoz, salvarti e dimenticarmi?
Max, non so se crederti.
Se ti guardo dentro gli occhi, allora capisco che non mi stai mentendo, anche
se quello che racconti è assurdo tutto quanto, dalla prima all’ultima parola.
Devi credermi, Esperanza… Se sei quello che sei, perché non mi hai lasciata
morire? Cani e lupi non possono andare d’accordo. E poi… Sei quello che sei,
Max, invulnerabile e immortale, che te ne importa dei nazionalisti, dei
repubblicani, di questa guerra maledetta e assurda? Vieni via con me,
andiamocene in un posto sicuro, lontano da tutto e da tutti… Io non sono la tua
principessa, e ti lascerò andare, quando gli specchi mi diranno che avrai
ragione a non volermi più…
La luce gialla
della lampada gli fece balenare lo scintillio azzurro degli occhi, il biancore
di neve del sorriso.
-Avevo quattordici
anni, quando mi arruolai nella VII Legio,
la Felix. Mi fecero giurare che avrei
fatto del mio meglio, in ogni circostanza. Ho combattuto con coraggio, senza
dimenticare la lealtà e la compassione. Questo da soldato, da ufficiale e da
generale. Perché senza lealtà e compassione, il coraggio è solo forza bruta, e
diventa facilmente crudeltà, sete di sangue. Sarei stato leale e
compassionevole anche se il destino mi avesse permesso di sedere sul trono e
credo di esserlo stato perfino…beh, perfino quando mi hanno costretto ad
ammazzare per il sollazzo della plebaglia. Non ho mai odiato coloro che la
sorte mi metteva contro: solo quel mostro di Commodo. Per quello che aveva
fatto ai miei cari. Per come aveva calpestato l’eredità e la memoria di suo
padre. Per come avviliva chi aveva la disgrazia di essergli suddito. Quando ha
preteso che lo sfidassi nell’arena, ho stretto i denti, anche se stavo morendo:
la cicatrice che ho nella schiena è il segno della stilettata che mi ha
inflitto a tradimento perché sapeva bene che, diversamente, con me non avrebbe
avuto nessuna possibilità… Proprio come fanno i banderilleros con il toro.
-Cercavi vendetta?
-Giustizia. Allora
come adesso. La rabbia di questi uomini è motivata, per troppo tempo sono stati
oppressi e angariati: ma se li lasciassi a se stessi, si abbandonerebbero a
eccessi d’ogni genere… E non voglio:
per lealtà, per compassione… Perché la vendetta e la giustizia non sono la
stessa cosa.
Ancora se la
strinse forte e la sentì tremare; ancora le asciugò le lacrime con il dorso
della mano.
-Adesso dormi,
Esperanza. Domani gli zingari di Pilar verranno a prenderti e ti porteranno a
Bajadoz…
Lalla Usai
21 settembre 2001
Questo racconto è dedicato a tutti coloro che sono
morti di fame, di guerre e d’ingiustizia, dai tempi in cui l’Uomo scese dagli
alberi e conquistò la posizione eretta fino a questi ultimi, tragici giorni.
[1] Vestito di luce.
[2] Bracciante.
[3] Lamento.
[4] Piccolo Demonio.
[5] Si
tratta di cani grossi e forti, di tipo mastino, adibiti alla custodia delle
abitazioni, dei depositi di materiale militare e degli animali.
[6] Garofano.
[7] Padrona.
[8] La Madonna Nera che si venera a Granata.
[9] L’aeronautica militare tedesca.
[10] Siete dei cani.