Storie de Il Gladiatore

Storie ispirate dal film Il Gladiatore

Lettura sconsigliata ai minori di anni 18

 

 Massimo l’Immortale

BYZANTHIUM

Prima parte

di Lalla Usai

 

“Bisanzio è solo un simbolo insondabile…

segreto e ambiguo come questa vita

Bisanzio è un mito che non mi è consueto

Bisanzio è un sogno che si fa incompleto…”

 (Francesco Guccini, “Bisanzio” in  “Metropolis”)

 

 

PROLOGO

 IL LEBBROSO

 

Anno Domini 504. Lungo la strada che porta a Bisanzio.

 

Tra poco sarebbe sorta la luna e scesa la notte, pensò l’uomo appoggiandosi, stanco, al suo lungo bastone. Bisanzio era ancora lontana, ma lui non doveva raggiungerla, tanto. Si sarebbe cercato un anfratto tra le rocce per trascorrerci la notte al riparo, anche se faceva caldo e il cielo non minacciava pioggia. Ormai era così che andava, da tanto tempo. Da quando, dieci anni prima, sulla sua pelle erano cominciate ad apparire le prime macchie e aveva capito da sé solo cos’erano. Lebbra. Il castigo di Dio. Se n’era andato via, prima che qualcuno lo umiliasse scacciandolo da quella che era stata la sua casa e adesso viveva di ciò che gli gettavano da lontano, per timore di diventare quello che era diventato lui, un mostro al quale la malattia stava mangiando la faccia e le mani. Dieci anni. Potevano passarne altri dieci, prima che il male prendesse il sopravvento e gli portasse via la vita. Il tempo vola, si ritrovò a pensare, mentre una nuvola di polvere lo investiva in pieno: un uomo in sella a un cavallo. Un uomo che aveva fretta di raggiungere la città, dove qualcuno sicuramente lo stava aspettando.

 

 

IL CAVALIERE

 

Non gli disse irosamente di scostarsi e lasciare libera la strada, anzi, fermò il cavallo e si scusò con lui per avergli gettato, senza volerlo fare di proposito, tutta quella polvere addosso. Quindi gli chiese se andava bene, per Bisanzio. Gli parlò in greco, anche se aveva gli occhi chiari, i capelli lunghi e le spalle poderose dei soldati Goti, Alemanni e Burgundi che militavano come mercenari nell’esercito del Basileus[1].

Si è fermato, pensava il lebbroso. Non ha spronato il suo cavallo a correre più veloce quando ha sentito il tintinnio acuto e lugubre della campanella che mi costringono a portare legata alla caviglia perché chi non è maledetto da Dio si scosti, al mio passaggio. Sapeva da quella ciò che sono, eppure…

 

-Vuoi dividere con me la mia cena?

Scese da cavallo, gli si accostò, gli porse del pane e della carne salata senza mostrare ripugnanza per la sua faccia che il male aveva corroso né, tantomeno, pietà. Il lebbroso aveva afferrato quel ben di dio con ciò che restava delle sue mani e cominciò a sbocconcellarlo. Aveva fame, ma quel che il male aveva fatto alla sua bocca gli impediva di divorarlo, come invece faceva l’altro, che pure doveva avere assai meno fame di quanta ne avesse lui. Dimostrava una trentina d’anni. Lui ne aveva cinquanta, quando i primi segni della maledizione divina erano comparsi sopra la sua pelle. Aveva vissuto abbastanza, amato e goduto abbastanza. Era arrivato ad un’età alla quale non tutti arrivavano e forse sarebbe vissuto ancora, perché il suo non era di quei mali che uccidono rapidamente. Pentiti dei tuoi peccati, e forse…

 

Il lebbroso abbassò a terra gli occhi, prima di tornare ad alzarli sul volto del suo interlocutore: aveva la carnagione chiara, le mascelle forti, le guance e il collo ispidi di barba, il profilo perfetto, gli occhi azzurri che scintillavano tra le palpebre pesanti. Un volto impassibile, nel quale non si leggeva ciò che sarebbe stato normale leggerci, trovandosi faccia a faccia con uno come lui. Orrore, per come il male lo aveva mostruosamente sfigurato. Schifo per il lezzo delle sue piaghe, degli stracci sporchi che erano i suoi vestiti e sarebbero stati il suo sudario. Non hai paura che possa contagiarti, incosciente? Non riesci a vedere quel che potrebbe essere della tua bellezza e della tua forza, a qualche anno da questo nostro incontro? Avrebbe voluto gridarglielo, salta sul tuo cavallo, vattene e prega il dio in cui credi che non ti succeda. Indossava una tunica corta rosso scuro sotto il pettorale di cuoio e brache infilate dentro gli stivali. Doveva trattarsi di un soldato. Di un mercenario, probabilmente, come aveva pensato nel primo momento in cui l’aveva visto. Di un barbaro germanico, di quelli che riempivano le bettole e i bordelli di Bisanzio, di quelli che sostituivano, nell’esercito del Basileus i Romani e i Greci che avevano perso strada facendo la smania di battersi e non erano più quelli del tempo andato, gli eroi delle Termopili e di Zama. Anche se parlava bene il greco, indossava abiti bizantini e non si ungeva con il grasso i lunghi capelli castani. Anzi, era profumato di mirra, nardo e sandalo, come i signori. Come lui, tanti anni prima.

 

-Vattene.

-Non ho paura di niente. Nemmeno di te.

Il cavaliere chiuse gli occhi per ripararli dai raggi del sole che si andava abbassando sull’orizzonte. Era armato di spada e aveva arco e faretra appesi alla sella del suo cavallo, come i nomadi della steppa che vivevano aldilà del Tanai.[2] Sotto la sella, il lebbroso notò una pelle di pecora, che spiccava col suo biancore gialliccio contro il mantello nero del cavallo.

-Tutti quanti hanno paura di me.

-Non io.

Negli occhi che lo fissavano trapelava uno sguardo di sfida. Forse non sai che… Che la paura per uno come me non ha senso. Forse non immagini che cosa io sia, lebbroso, perché se lo sapessi…

L’infelice lo guardò montare nuovamente in sella, far voltare il cavallo in direzione della città. L’aria odorava di salsedine e del lezzo nauseabondo dei suoi stracci e delle sue piaghe.

-Ero un mago, tanto tempo fa. Potrei leggere il passato e il futuro in fondo ai tuoi occhi.

-Il mio futuro è arruolarmi nelle guardie dell’Imperatore. Ed è quello che sto andando a fare.

-Per lasciarti alle spalle il tuo passato? E’ molto lungo, cavaliere…

Eh, già, è un passato di oltre trecento anni, pensò Massimo spronando il cavallo.

 

ACACIO DEGLI ORSI

Bisanzio, Anno Domini 505

 

Il grosso animale si raddrizzò ballonzolando sulle zampe posteriori e spalancò le mascelle, mostrando le fauci rosse e gli spessi canini gialli. Aveva un’aria goffa e innocua, dentro la sua gabbia dalle sbarre robuste, si ritrovò a pensare Massimo, ma i lunghi artigli che gli guarnivano le zampe dimostravano esattamente il contrario. Un animale infido e pericoloso anche per l’uomo che, con tutta probabilità, l’aveva sottratto cucciolo a sua madre e allevato cacciandogli in gola latte di capra finché non era cresciuto, per poi ammaestrarlo e farlo ballare allo schiocco della sua frusta davanti al pubblico che gremiva l’Ippodromo, in attesa che i carri scendessero in pista. Quell’uomo, che sfidava la morte per due soldi e un tozzo di pane si chiama Acacio, e veniva dai boschi della Macedonia. Dai boschi e dalla miseria di una contrada di lupi che, ai tempi di Filippo e di Alessandro, aveva conosciuto un effimero momento di gloria, per poi tornare ad essere quella che era sempre stata.

Alcuni ragazzini, tenendosi a rispettosa distanza dalla bestiaccia, gli facevano le smorfie e gettavano torsoli di frutta oltre le sbarre della gabbia, in attesa che Acacio venisse a prenderselo per il numero che precedeva le corse dei cavalli, con gli Azzurri e i Verdi[3] che, dagli spalti, si urlavano reciproci insulti e, insieme, insultavano lui e il suo vecchio orso pidocchioso, come se fosse colpa loro se i cavalli non si decidevano a scendere in pista.

 

Una piccola cenciosa fissava la scena tenendosi lontana dai monelli e dall’orso: sapeva quanto fosse pericoloso, e non perché glielo avessero detto. Suo padre veniva quasi sempre su dai sotterranei dell’Ippodromo con il corpo segnato dai graffi sanguinanti di quegli unghioni, che a lei e a sua madre toccava poi medicare. Ma la sorellina che le gattonava intorno era troppo piccola per capire. Avevano entrambe un visino pallido e smunto, grandi occhi neri, riccioli scuri e polverosi. Rassomigliavano al padre, Acacio degli Orsi.

 

Massimo afferrò la piccola per la vestina e la sollevò, un attimo prima che potesse avvicinarsi troppo alle sbarre della gabbia e agli artigli dell’orso. Pesava meno di una piuma, ed era lurida di sporcizia.

 

-Dov’è tuo padre, ragazzina?

La bimba, non doveva avere più di sei anni, infilò senza soggezione alcuna la manina in quella enorme dell’uomo ben vestito, alzò su di lui lo sguardo triste. Seguimi, gli disse in un greco balbettante. Ti seguirò… sicuramente in una bettola dove tuo padre è andato ad ubriacarsi, lasciando a te la responsabilità di una  bimbetta che nemmeno ha imparato a camminare? Non me ne fossi accorto per tempo, la bestiaccia chiusa in gabbia avrebbe potuto ammazzarla come una formica e magari lui sotto sotto, non se ne sarebbe dispiaciuto più di tanto, avrebbe avuto una bocca in meno da sfamare dentro la catapecchia puzzolente dove stava. Avrebbe meritato un pugno in faccia, dannato ubriacone.

-Come ti chiami, piccola?

-Teodora. E mia sorellina si chiama Anastasia, ma ancora non lo sa dire. Grazie di tutto… Kyrie.

 

Acacio ingollò tutto d’un fiato il suo boccale di retsina[4], poi guardò l’uomo con aria interrogativa. Teneva per mano la sua figlioletta più grande e in braccio la piccola Anastasia, ed aveva l’aria corrucciata, come se ce l’avesse con qualcuno. Forse proprio con lui, da come lo guardava. Eh, già, era proprio con lui che ce l’aveva, Acacio degli Orsi lo comprese quando lo sconosciuto, con una manata, gli fece volare via il bicchiere.

-Maledetto figlio di puttana…Lo sai che mentre tu te ne stavi qui dentro a gozzovigliare con i tuoi compari, quel dannato animale per un pelo non ammazzava tua figlia?

L’uomo degli orsi non ebbe il coraggio di rispondere per le rime a quello ben vestito, che era entrato nella bettola tenendo per mano la sua figlioletta più grande e in braccio la piccola. Non aveva avuto torto a rovesciargli il boccale di vino e non ne avrebbe avuto se, con un pugno, gli avesse spaccato il naso. Anastasia aveva corso un grave pericolo, e…Lo guardò, gli occhi languidi e ubriachi. Poteva avere grossomodo l’età sua, una trentina d’anni, pensava Massimo. Era basso e magro, ma forte, un fascio di muscoli e nervi. I capelli scuri gli si andavano già incanutendo sulle tempie e, quando apriva la bocca, mostrava brutti denti cavallini intaccati dalla carie. Delle volte, la miseria può più del tempo, quando si tratta d’invecchiare una persona.

 

-Vieni qui, principessina…

Teodora voleva bene a suo padre e non le importava che fosse ubriaco da non reggersi e puzzasse più dei suoi orsi ammaestrati. Gli si sedette in grembo, posò la testolina crespa sul suo petto villoso come la pelliccia di un animale. Suo padre le voleva bene, e la chiamava principessa. Lo sarebbe diventata, un giorno, le diceva sempre, ma la bambina, a sei anni appena compiuti, non era già più così ingenua da crederci. Io domo gli orsi.Tu farai ballare sulla punta di un dito un grande signore, piccola mia…

Ma la realtà, intanto, erano i suoi cenci luridi, l’alito vinoso di Acacio, la sorellina che aveva rischiato di finire sbranata dall’orso, non fosse stato per quel signore elegante, armato di spada e di pugnale. Le sarebbe piaciuto avere un padre così, si ritrovò a pensare. Un padre che aveva i capelli puliti, indossava una tunica di seta, portava anelli d’oro alle orecchie e sapeva di profumo invece che di vino cattivo. Un padre che, di sicuro, non viveva dentro una catapecchia. Questi pensieri sono peccato, si ritrovò a pensare. Il prete, nella messa, dice che bisogna onorare il padre e la madre, anche se… Tirò su col naso.

 

Principessa…

 

-Devi capirmi, Kyrie, non ne ho colpa… Mia moglie non può tener dietro alle bambine, ha partorito una settimana fa… Un’altra figlia femmina: non è capace di darmi un maschio, Kyrie… Hai una famiglia, dei figli anche tu?

 

Gli occhi chiari dello sconosciuto lo fissarono immobili per pochi attimi che dovettero sembrargli eterni. Non aveva voglia di rispondere alle sue domande, giustamente lo disprezzava perché se ne stava in quella lurida bettola a gozzovigliare e a ubriacarsi, intanto sua figlia aveva rischiato di diventare la colazione di un orso e sua moglie non si era ancora ripresa dal parto. Ma che può fare, un uomo, per dimenticare i suoi pensieri? Lui ne aveva tanti, per la testa, e certe notti non lo lasciavano dormire. Era per quello che bevevo, come tutti i miserabili della sua risma. L’ultima nata era piccola e brutta: l’avevano chiamata Comite. Avrebbero avuto altri figli. Sarebbero arrivati anche i maschi, e sarebbero stati pallidi e brutti come lui, come le sorelline, come la miseria. Acacio avrebbe continuato a rincasare più sbronzo d’una spugna, a raccontare loro di principi e di principesse, ma sarebbero diventati grandi troppo in fretta per illudersi con le favole.

 

-Tieni. - lo sconosciuto sbatté un aureo sulla tavola tarlata - e compraci pane per le tue figlie, non vino cattivo per te.

Acacio gli soffiò un “grazie” a denti stretti, dopo aver arraffato la moneta. Era il suo giorno fortunato, quello, pensò. Avrebbe comprato il pane, il latte, dei dolci… Forse anche dei vestiti per le sue principesse.

-E curati quella ferita, prima che s’infetti e possa provocarti guai seri.

In quell’ aureo forse ci stava anche l’onorario per qualche chirurgo da strapazzo, pensò Acacio guardandosi il taglio lacero e infetto che gli artigli dell’orso gli avevano aperto sull’avambraccio un paio di giorni prima. Lo straniero aveva ragione, andava curato: aveva visto gente morire per molto meno.

 

LE ORFANE

 

Era una mattina di maggio e le gradinate dell’Ippodromo erano già da ore gremite di una folla urlante ed eccitata, che attendeva con impazienza l’ingresso dei cavalli sulla pista, ansiosa di assistere alla competizione tra gli equipaggi concorrenti: una sfida consueta, ma che aveva sempre un sapore speciale, non era solo un gioco, quello, una prova di abilità, coraggio e sprezzo del pericolo. C’era di mezzo l’onore delle due più importanti fazioni politiche della città, i partiti dei Verdi e degli Azzurri.

 

 Stranamente, Acacio di Macedonia non era sceso nell’arena per far ballare il suo orso, in attesa che le gare cominciassero. La folla strepitava. E strepitò ancora più forte all’annuncio dell’araldo.

 

Acacio degli Orsi era morto. Quella maledetta ferita, si ritrovò a pensare Massimo, gli era andata in cancrena e le febbri l’avevano ammazzato. Aveva trentacinque anni e lasciava tre bambine che qualcuno aveva portato nel bel mezzo della pista, invece dei cavalli che tutti quanti aspettavano.

 

Teodora piangeva silenziosamente, strofinandosi gli occhi con i piccoli pugni neri di sporcizia. Anastasia, seduta su una lercia pelle di pecora, guardava immobile un grasso bruco villoso che le camminava lungo il braccio e Comite era troppo piccola per fare qualcosa di diverso da dormire o frignare. In quel momento, stava frignando, ma così debolmente che nessuno doveva sentirla, in mezzo allo strepito di quella folla che aspettava di veder scendere in pista i cavalli, non certo le tre brutte figlie di Acacio degli Orsi e che non faceva nulla per mascherare il suo disappunto.

-Qualcuno è disposto a prendersele in casa per carità? Il padre è morto stanotte nei sotterranei, e la madre non è in grado di mantenerle. Dio renderà merito a colui che porterà a compimento quest’opera buona…

-Mandatele via! Fate entrare i cavalli nell’arena!

I Verdi erano i più scalmanati. Massimo si alzò in piedi, e fissò immobile la plebaglia urlante, restando in attesa di qualcosa che poteva succedere e non succedere. Tutti quanti, lì dentro, nobili, borghesi e plebei aspettavano l’ingresso in pista dei cavalli e dei loro aurighi bardati con le casacche verdi e azzurre e armati con lunghi frustini.

-Filemone…

Il nome del capo riconosciuto della fazione azzurra, che sedeva accanto a lui senza nascondere il disappunto gli sibilò tra i denti bianchi e belluini come un insulto. E’ tempo che questa indecenza abbia termine, Filemone.

Fu allora che alcuni rappresentanti del Partito Azzurro si levarono e dichiararono che si sarebbero presi cura delle tre bambine. Come un sol uomo, la folla sospirò di sollievo: le tre piccole seccatrici avrebbero presto lasciato sgombra la pista e le gare sarebbero cominciate.

 

IL MANTELLO

 

Anno Domini 515

 

Il vento freddo del Nord, mitigato a malapena dall’influsso del mare batteva la pianura alle spalle della città, soffiava tra i radi alberi che punteggiavano la campagna, ululando come un lupo affamato. Massimo non sentiva freddo, avvolto nel suo ampio mantello foderato di pelliccia. Che cosa sono venuto a fare, si domandò smontando da cavallo. Sei venuto a cercare qualcuno. Qualcuno che hai incontrato dieci anni fa, e che potresti non trovare, anzi, senz’altro non lo troverai più, visto com’era ridotto, un cadavere putrefatto nel quale la vita pulsava ancora, per chissà quale crudele scherzo del destino. Un uomo che sapeva la magia e che i suoi dei avevano maledetto con la lebbra forse proprio perché aveva violato qualche segreto innominabile. Un uomo che forse avrebbe saputo dare una risposta alle sue domande, ammesso e non concesso che fosse ancora vivo.

 

Incontrò altri lebbrosi, lungo la strada che da Bisanzio portava verso l’interno. Avevano tutti quanti la stessa faccia smangiata, gli stessi cenci infetti, la stessa campanella legata alla caviglia. Cerco colui che chiamano il Mago, chiedeva Massimo a coloro che incontrava e questi gli rispondevano vattene, non le vedi quello che siamo? Vuoi riempirti di macchie scure su quella bella faccia che hai e ritrovarti qui, fra quattro, sei mesi, fra un anno, ridotto come e peggio di noi?

 

Il Mago? Damiano Zimisce? La donna rise, con quel che le restava delle labbra e della faccia, indicandogli l’imboccatura di una caverna e sghignazzandogli dietro le spalle un ironico buona fortuna. Era così bello, ma se avesse continuato a bazzicare i lebbrosi, non sarebbe passato molto tempo prima che si ritrovasse con loro e come loro.

 

Non era cambiato più di tanto, in dieci anni. Forse le sue arti gli davano il potere di tenere sotto controllo il morbo che gli divorava la carne, e, attaccato com’era alla vita, preferiva quell’incerto sopravvivere a una morte rapida e pietosa.

-Perché sei venuto a cercarmi?

-Per sapere qualcosa di cui difficilmente potrei venire a conoscenza con i mezzi di cui dispongo.

-Sei un ufficiale della Guardia dell’Imperatore…

-Lo sono. Ma non credere che sia facile. La città è grande e sono passati dieci anni.

Tanti. Troppi perfino per un ufficiale delle Guardie, perfino per un uomo che la morte avrebbe rifiutato sempre e per sempre. Dieci anni erano passati invano per entrambi: per Damiano Zimisce, il Mago che la lebbra divorava a poco a poco, e per Massimo l’Immortale, che veniva dall’altra parte del mondo e da tre secoli di  farse e di tragedie consumate sulla sua pelle.

-Non conoscevo il tuo nome.

-Non importa. Questo morbo maledetto cancella, con i nostri tratti, anche la nostra identità passata. Che cosa sei venuto a chiedermi?

 

-Dieci anni fa… Ecco, qualcuno portò sulla pista dell’Ippodromo tre bambine a cui era appena morto il padre. Tre piccole straccione, le figlie di un domatore d’orsi del circo. La grande, Teodora, avrà avuto sei anni, sì e no. La seconda, Anastasia, stava cominciando a muovere i primi passi. La più piccola, Comite, era ancora in fasce. Tre ben misere creature, la cui vista scatenò le ire del pubblico, che cominciò a urlare reclamando l’ingresso in pista dei fantini e dei loro cavalli. Mi appellai a Filemone, il capo della fazione azzurra, perché ponesse fine a quello sconcio, e qualcuno dei suoi se le portò via. Quel che mi piacerebbe sapere, ecco… è che fine hanno fatto.

 

Un sorriso sghembo spaccò in due la faccia repellente di Zimisce.

-Non avresti avuto la necessità di scomodare un mago per scoprire che ne è stato di tre orfanelle pidocchiose, Comandante. Cercale nelle bettole e nei bordelli, lì non ti sarà difficile trovarle, se sono ancora vive. E’ la buona sorte di quelle come loro, femmine, povere e senza padre. La carità di chi le ha prese con sé per mantenerle avrà preteso da loro qualcosa in cambio: dover sottostare ai desideri del padrone, per esempio… Esibirsi sui tavoli delle bettole in danze lascive, con addosso soltanto qualche filo di perle di vetro… A meno che un malanno non se le sia portate via prima… Perché non le hai prese con te? Stai per dirmi che non hai famiglia e che non potevi? E adesso le cerchi perché qualcosa del genere l’hai immaginata da te solo e la coscienza ti rimorde?

 

-Ho capito. Ne sai meno di quanto ne sappia io. Tanto valeva essere venuto. Per me almeno.

Zimisce lo fissò a lungo, lo vide togliersi il mantello nero orlato con pelli di lupo, percepì il brivido che gli aveva attraversato il corpo, sotto la tunica e i calzoni di panno fine. Gli avevano detto che anche gli Immortali sentono freddo, ma fino a quel momento gli era riuscito difficile crederci. Freddo, fame, dolore. Ma che importanza possono avere, quando non sono messaggeri di una morte sicura o quantomeno probabile?

 

-Tieni. A me non serve.

E Damiano Zimisce, il Mago, affondò il viso sfigurato, i moncherini privi delle dita, nella morbida pelliccia di lupo che ornava il mantello di Massimo, l’Immortale, mentre questi montava in sella al suo stallone berbero e lo lanciava verso la città in un galoppo che tagliava il vento.

 

L’UNICORNO

 

-Ti porterò al Circo, a vedere l’Unicorno. Ma tu devi smetterla di piangere.

Suo padre le aveva parlato degli Unicorni e di altri animali misteriosi, nelle storie che le raccontava. Ma era passato tanto tempo e tante cose erano cambiate, pensò Teodora cacciandosi indietro i capelli che le cadevano sugli occhi. In dieci anni di vita, Comite non aveva mai smesso un momento di piangere. Per la fame e per chissà quali misteriose ragioni, da piccolina. Perché non poteva avere altro che quella vita senza gioie alla quale non riusciva a rassegnarsi, appena era cresciuta abbastanza da capire come andava il mondo.

-Pare che gli Unicorni siano rarissimi, e che toccarli porti fortuna.

-Il pope[5] dice che la superstizione è peccato.

Tante cose sono peccato. Anche quello che mi costringono a fare. Anche quello che ti hanno fatto, sorellina.

 

La vita non sono le favole, lo avevano imparato già dalla loro prima infanzia, Teodora e Comite. Nelle favole di Acacio degli Orsi, gli unicorni erano belle creature dagli occhi dolci, gli zoccoli d’oro e il mantello candido come il latte, ma quelle erano fantasie ad uso e consumo dei bambini e degli sciocchi. Nel grande recinto, l’animale si guardava intorno con aria ebete, gli occhi porcini privi d’espressione, un lungo corno acuminato sul muso spigoloso. Più che d’un mantello, come le altre creature a quattro zampe che popolano la terra, quello pareva rivestito d’una corazza. Una spessa corazza color grigio sporco, come una strada polverosa dopo mesi e mesi di siccità. Enorme, grottesco, oscenamente stupido, con quel labbro pendulo e quel lungo corno che gli spuntava tra gli occhi.

-Non me lo facevo così…

-Intanto l’hai visto, ed è questo ciò che conta.

-Dicono che toccare l’Unicorno porti fortuna…

Da chi l’aveva sentita, quella fandonia, la piccola Comite? Non da suo padre, che era morto quando lei non aveva che un paio di settimane. Da qualche vecchia, forse, o da qualche burlone. A dieci anni, credeva a tutto quel che le dicevano, anche alle promesse dell’uomo che l’aveva stuprata. Ha troppi sogni per la testa ed avrà una vita infelice, perché non sarà mai capace di rassegnarsi al suo destino, pensava Teodora scotendo la testa.

 

L’Unicorno era una mostruosa, gigantesca creatura idiota e puzzava quanto il letame di cento stalle. Un essere pesantemente inchiodato alla terra, e non aveva le ali, come le era stato detto. Ma doveva trattarsi d’ una creatura di magia, forse era vero, se fosse riuscita a toccarlo il suo destino non sarebbe stato quello che le avevano prospettato, e avrebbe dimenticato il dolore, la vergogna di quella prima volta di cui era stata vittima e non protagonista. Com’era successo a Teodora e ad Anastasia. Ma a loro sembrava non importasse più di tanto, dover danzare seminude sui tavoli, di una bettola o di un palazzo quello non contava, dover sottostare a tutti i desideri dei loro padroni. La vita vera non sono i sogni, quando crescerai lo capirai anche tu, Comite. Meglio puttana che sguattera. Almeno mangerai tutti i giorni, avrai dei bei vestiti e non dovrai ammazzarti di fatica per guadagnarti un misero pane. Quelle come noi non possono pretendere di più dalla vita.

 

Comite era minuta e bellina. Aveva lunghi capelli scuri e occhi nocciola, picchiettati di giallo. Era solo una bambina, ma l’uomo che, il giorno prima, l’aveva stuprata, non aveva avuto la pazienza d’aspettare che crescesse.

 

L’Unicorno levò al cielo il lungo muso idiota, poi si chinò a guardarla, smovendo la polvere con lo zoccolo massiccio, come un toro infuriato. Un grido d’orrore era morto in gola a Teodora, quando s’era accorta che la sorellina aveva oltrepassato il recinto e stava proprio di fronte a quell’animale ebete, al suo lungo corno aguzzo come la punta di una lancia. Voglio toccare l’Unicorno. Voglio fortuna e felicità anch’io… Ma da quella bestiaccia le sarebbe venuta soltanto la morte.

 

Comite svenne, quando vide l’enorme, spaventosa creatura caracollarle contro a testa bassa. Teodora chiuse gli occhi, lasciò che un lungo grido stridulo e inarticolato le lacerasse la gola. L’avrebbe squartata con il suo corno, calpestata sotto i suoi zoccoli… Povera, piccola Comite, che, in dieci anni di vita, non aveva mai avuto tempo per giocare eppure  continuava a credere nelle favole.

 

Quando riaprì gli occhi, Teodora notò che sua sorellina giaceva ancora a terra, ma era viva e intatta. Qualcosa aveva distolto da lei l’attenzione del mostro: un uomo che era entrato nel recinto e sventolava sotto il muso della bestiaccia la tunica rosso vino che s’era strappato di dosso.[6] Un uomo alto, prestante con lunghi capelli castani che il vento gli scompigliava e i segni di alcune cicatrici sulle braccia e sulla schiena. Un uomo che, ne era sicura, aveva già incontrato, chissà come e chissà quando.

 

Comite è salva, ma sarà lui a morire, squartato e calpestato, e solo perché si è voluto dimostrare altruista. Il mondo va come va… Non osò guardare ancora, dopo averlo visto rotolare a terra, sfiorato soltanto dal muso cornuto del mostro, davanti al quale aveva osato danzare  la sua danza di morte. Il sudore gli scendeva in rivoli copiosi lungo la schiena e il petto, e sanguinava da un fianco. Era bello come un antico nume pagano, ma soltanto un uomo contro un mostro. Un mostro che si chiamava rinoceronte, le era stato detto, e veniva dalle foreste a sud della Nubia, dove la gente ha la pelle nera e non esistono inverni. Un mostro che non aveva niente a che fare con i graziosi cavalli alati delle fiabe.

 

Non morì, Comite, e neppure l’uomo che l’aveva salvata. Lui scavalcò il recinto con la bambina tra le braccia e il rinoceronte continuò a sollevare la polvere con il suo zoccolo poderoso e a guardarsi attorno con aria stranita, la stessa con cui i molti perdigiorno che avevano assistito allo spettacolo guardavano il capitano delle guardie che aveva salvato la bambina mettendo a repentaglio la sua stessa vita. Un paio di puttane dagli occhi bistrati gli si erano fatte accanto, gli avevano posato sulle spalle e sul petto le mani cariche di anelli d’oro falso. Come sei bello… Vieni via con me e il sudore e la polvere che t’imbrattano tutto quanto te li toglierò via con la lingua…

 

CHI SEI?

 

L’uomo si limitò a sorridere, a reclinare la testa in avanti socchiudendo gli occhi dopo essersi infilato la casacca.  A Teodora ricordò un grosso gatto dai movimenti elastici e leggeri. Era chiaro di carnagione, sotto l’abbronzatura e aveva un volto dai tratti delicati, incorniciato da una barbetta quasi bionda. I capelli gli ruscellavano lungo il collo e sulle spalle in riccioli molli, appena più scuri. Una zanna di animale gli pendeva sul petto, infilata in un lacciolo di cuoio bisunto: anche suo padre si portava addosso un amuleto simile, per quel poco che ricordava la ragazza. Ma quest’altro aveva alti bracciali incrostati di pietre dure ai polsi, un medaglione d’argento appeso a una spessa catena con sbalzata sopra una testa di lupo e anelli d’oro ad entrambe le orecchie; gli abiti che indossava erano di stoffa fine e costosa e denunciavano l’appartenenza ad una classe sociale elevata. Nonostante il suo aspetto fisico potesse indurre a pensarlo, non era un barbaro germanico. I suoi modi, il suo parlare forbito denunciavano buona educazione e una certa cultura. Era pulito e profumato, un abituale frequentatore delle Terme, al contrario di quei puzzolenti zoticoni dai capelli unti, la pelle lentigginosa e bianchiccia, i lunghi mustacchi gialli sempre sporchi di vino e d’avanzi di cibo: i guerrieri Alemanni e Goti che il Basileus aveva ingaggiato come mercenari, che infestavano le bettole e i bordelli della città e che invece di parlare sembrava abbaiassero. Non era un barbaro germanico, ma neanche un greco, la lingua in cui si esprimeva sicuramente non l’aveva appresa ancora molto piccolo da una madre, ma già grandicello da un maestro. Forse veniva dall’Illiria, o dalle Gallie, o dall’Italia. Forse da ancor più lontano. Teodora aveva già visto la sua faccia, ricordava la cicatrice, quattro sottili segni paralleli che faceva capolino dallo scollo della tunica impolverata e sbrindellata. Non nei sogni, e neppure poco tempo prima. Chi sei? Avrebbe voluto chiedergli. Da dove vieni? E qual è il nome che ti hanno dato?

 

La ragazza non doveva avere più di sedici, diciassette anni. Piccolina di statura ma ben proporzionata, indossava una vecchia tunica troppo corta, che le scopriva le caviglie e i piedini calzati da vecchi sandali consunti; gli unici ornamenti che portava erano vezzi di perle di vetro colorato, roba di nessun valore, al collo, ai polsi e alle orecchie, ma aveva gli occhi, che erano grandi e scuri, pesantemente truccati con il bistro. Come le molte baldracche che aspettavano i clienti nei bordelli della città o li adescavano lungo la Mesé. Una baldracca, già, anche lei, nonostante la giovane età e l’aria innocente. Molto graziosa, si portava appresso perfino una cert’aria di distinzione e non sembrava quella che era. C’era qualcosa di familiare, nei capelli neri e ricci, nel volto pallido e fine, tuttavia Massimo non riusciva a capire che cosa potesse essere.

-Andiamo.

Gli disse infilandogli la mano sottile nella sua, e lui la seguì senza fare domande, come… Come era successo dieci anni prima, giorno più giorno meno.

 

-Tanti anni fa, hai salvato la mia sorellina Anastasia che stava per essere ghermita da un orso. Oggi, hai tolto dai guai l’altra mia sorellina, Comite. Sei un uomo, un angelo o un dio, signore?

-Un uomo di nome Massimo. E tu… tu ti chiami…

-Teodora. Mio padre era Acacio degli Orsi. Ti ricordi quel giorno, nei sotterranei dell’Ippodromo?

-Bestie pericolose, gli orsi e i rinoceronti.

-Non sei cambiato.

E lei sì, invece. Era una donna, ormai. Truccata, provocante, profumata con un’essenza dozzinale che sapeva di muschio, di letti sfatti, di sesso consumato in cambio di denaro. La bambina di dieci anni prima era diventata quello che gli aveva detto Damiano Zimisce, il mago con la faccia mangiata dalla lebbra. Una puttana. Non c’era via d’uscita, per quelle come lei, in una città che era, più che capitale di un impero erede d’antichi fasti, reggia e bordello, chiesa e bettola, palazzo e stamberga, ippodromo e convento, greci e romani che si mescolavano ai soldati barbari dai lunghi baffi sudici, che abbaiavano anziché parlare.

 

-Perché non l’hai ucciso?

- Il rinoceronte?

Seduta di fronte a lui al tavolo della bettola, Teodora s’era gettata sul cibo come se non mangiasse da tre giorni, e questo poteva non essere lontano dalla verità. Aveva divorato la carne e il pane, tracannato un boccale di vino e lo guardava con gli occhi lucidi di chi ha bevuto troppo e non c’è abituato.

-E perché avrei dovuto ucciderlo? Innanzitutto, non mi apparteneva, e a nessuno è dato di guastare ciò che non è suo. Eppoi… Non ne ha colpa, se è quello che è. Gli animali non sono cattivi, è la natura, semmai, ad essere crudele. Questo da che il mondo è mondo.

-Parli come un vecchio saggio… Invece sei giovane. E bello.

Teodora si forbì le labbra unte con il palmo della mano e lo guardò senza sorridergli. Le aveva salvato la sorellina, pagato una lauta cena in un posto decente e poi… Ma non le sarebbe dispiaciuto: quanti gliene capitavano, come quello? Bello, gentile… Magari anche ricco. Magari in grado di darle, se non una vita, qualche ora meno schifosa di quelle che trascorreva di solito e sarebbe stata costretta a trascorrere finchè il suo corpo avesse retto agli insulti del tempo.

-Da dove vieni, Massimo?

-Dall’Hispania Baetica, vicino ai confini occidentali del mondo. Adesso è parte del regno dei Visigoti, ma quello che mi scorre nelle vene è sangue romano. Il mio nome completo è Massimo Decimo Meridio.

-E’ per questo che sei qui…

-Già. Per continuare a illudermi che questa sia Roma, che questo sia il faro della civiltà, l’invincibile impero che un tempo dominava la terra e che non sia cambiato niente, da… Da quando il nostro nome faceva tremare il mondo. Adesso, nei Fori pascolano le capre e le basiliche e i templi sono diventati le stalle dei cavalli ostrogoti.

-Parli come se avessi almeno cinquecento anni, Massimo.

-Ne ho trentatré.

Teodora lo guardò sorridere. Aveva un bel viso franco, incorniciato da una lunga criniera ondulata, labbra tenere, denti bianchissimi.

-Trentatré anni… Allora ne avevi ventitré quando salvasti mia sorellina Anastasia dalle grinfie di quell’orso. Sai…Mi eri sembrato un gigante, quella volta. Invece sei semplicemente un uomo, né più né meno degli altri.

-Mi vedevi così perché eri piccola. Quando siamo piccoli, tutto ci sembra grandissimo.

-Avrei voluto… un padre che somigliasse a te, invece di quello che mi era stato dato in sorte dal destino.

Non dire così, Teodora.Tuo padre era un brav’uomo e se non ti ha dato quel che volevi era solo perché non poteva. Lo pensò, ma non osò dirglielo.

-Ventitré non sono un po’ pochi, per avere una figlia di… sei anni?.

-Forse ti vedevo vecchio, oltre che grande come un gigante. Invece sei…

Un uomo come tutti quanti. No. Un uomo diverso dagli altri. Speciale. Molto più bello. Più possente. Aveva splendidi occhi, che scintillavano alla luce delle torce come cristalli e grossi muscoli che gli tendevano la tunica sbrindellata e polverosa. Al fianco, gli pendeva una daga che non aveva usato con il rinoceronte, perché gli animali sono innocenti della loro crudeltà inconsapevole, come i bambini e gli idioti. O forse semplicemente perché anche una lama d’acciaio temprato si sarebbe spezzata, contro quella corazza.

 

-Sei un soldato.

-E’ la sola cosa che so fare. Dall’età di quattordici anni faccio quello e quello soltanto.

-Sei… Un uomo ricco?

-No, anche se, come ufficiale della Guardia del Basileus, vivo in mezzo al lusso. In realtà, sono uno che campa di ciò che guadagna ed è stato abituato ad accontentarsi di poco.

Teodora ricambiò il suo sorriso. Non ti credo, avrebbe voluto dirgli. Mi hai pagato la cena, e non solo. La tua tunica è strappata e impolverata, ma è di seta. Hai dell’oro e dell’argento addosso e l’elsa della tua daga è lavorata di fino.

-Conosci… l’Imperatore?

-Anastasio? Non è nient’altro che un vecchio bigotto e spilorcio che vive isolato dal mondo e si circonda di preti e di castrati. Se lo conoscessi, resteresti terribilmente delusa. Facciamo male a idealizzare chi sta in alto, è sempre e soltanto per un capriccio del caso, se certa gente è nata in un palazzo e stringe in pugno i destini degli altri. Ma non dirlo in giro, piccola: i pettegolezzi sull’Imperatore si chiamano delitti di lesa maestà e possono costare molto cari.

-Non ti cambieresti… con lui?

Massimo scosse la testa.

-S’è fatto tardi. Andiamo, t’accompagno a casa.

 

IL BORDELLO

 

Una casupola fatiscente addossata alle mura era la sua abitazione. Dentro, alcune torce e un braciere affumicavano più che illuminare uno stanzone sguarnito, arredato con qualche panca e un tavolaccio. Su una delle panche, se ne stava seduta una donna di mezza età dagli occhi socchiusi e dalle dimensioni pachidermiche, che tanfava di sudore e di profumo da quattro soldi. Mia madre, sussurrò Teodora a mezza voce, indicandola a Massimo con un cenno della testa. Lui fece finta di crederle per non metterla in imbarazzo. Conosceva Eudossia. Non era la madre di nessuno, quella, solo la mezzana d’una decina di baldracche che con le loro arti intrattenevano la numerosa soldataglia di stanza in città e qualche forestiero di bocca buona.

 

Teodora si vergognava di mostrarsi per ciò che era, pensò Massimo guardandosi intorno. Eudossia, la mezzana, non era sua madre e non sarebbe stato difficile immaginarlo nemmeno in circostanze diverse da quella. Era bianca, bionda, enorme e col naso pieno di venuzze rosse da bevitrice. Non molto lontano da lei, una negra mezza nuda si faceva aria con un flabello di foglie di palma e, vedendolo, gli indirizzò un sorrisetto lascivo. Bell’uomo. Non ne capitavano molti come lui, lì dentro. La piccola Teodora aveva fatto buona caccia.

 

La seguì oltre la porta di una stanzetta che sarebbe stato meglio definire cubicolo, il cui unico arredamento era costituito da un letto puzzolente di sudore, di sesso e di sperma. La guardò versarsi dell’acqua in una ciotola di legno, inghiottirla dopo essersi sciacquata la bocca.

-Allora?

Il suo sguardo bistrato aveva perso ogni traccia di candore. Adesso non avrebbe più spacciato per sua madre la donna grassa che, in realtà, era la mezzana del bordello dove lavorava.

-Vuoi che danzi per te? Nuda?

Lui la fissò a lungo, intensamente con quei suoi grandi, bellissimi occhi chiari, incorniciati dallo spolverio d’oro delle lunghe ciglia.

-Lascia perdere.

-Non sono più la bambina che ero la prima volta che ci siamo visti, Massimo. E’ passato molto tempo da allora e… Sono cambiata. Ho quasi diciassette anni: se fossi una ragazza perbene, avrei già un marito… magari anche un figlio. Hai moglie, Massimo?

Lui negò con un cenno della testa, senza scollarle gli occhi dagli occhi.

-Smettila, Teodora.

La ragazza gli gettò le braccia intorno al collo; gli si strofinò contro, lasciva come una gatta di strada, quindi, dopo essersi sollevata sulla punta dei piedi, gli soffiò nell’orecchio:

-Sei bellissimo. L’uomo più incredibilmente bello con cui abbia mai avuto a che fare. Sembri un angelo caduto dal cielo.

-Teodora, io…

La ragazza aveva i denti aguzzi e lo sguardo selvaggio, proprio come una gatta di grondaia. Sei il primo che mi segue e poi fa il difficile. Eppure sei un soldato, non un monaco votato alla castità, e ai soldati piace spassarsela tra le gambe delle donne. Non sentissi contro di me come ti scoppiano le brache, potrei pensare che tu sia un eunuco… Questa città ne pullula e di solito sono pezzi grossi… personaggi importanti… Ma gli eunuchi hanno le carni flaccide, non i tuoi muscoli sodi. Hanno le guance glabre, non la tua bella barba morbida…

-Ti ho detto smettila, ragazza.

-Ti vergogni dei tuoi istinti, soldato?

Massimo ringhiò, come un cane feroce alla catena, togliendosi di dosso le mani di Teodora e afferrandole entrambi i polsi con una sola delle sue.

-E’ per te che mi vergogno, non per me.

-Guardami, Massimo.

Un sorrisetto sarcastico gli sollevava appena gli angoli della bocca delicata. La verità è che vorrei sentirle sopra ogni brandello della mia pelle, le tue labbra calde, umide e salate, pensò Teodora inghiottendo l’aria, mentre lui lasciava andare le sue mani.

-Non potevo nasconderti ancora per molto quello che sono.

-Già… Quello che avrei preferito non fossi diventata, quando…

-Quando all’Ippodromo hai chiesto agli spettatori se ci fosse qualcuno disposto a prendersi cura di tre orfane?

Oh, se si erano presi cura, di lei! Tanto da insegnarle tutto quello che una donna deve sapere per compiacere un uomo, e lei non era che una bambina.

-Ho fame e sete. E il mio corpo è tutto quel che possiedo, figlio di puttana.

Lui le afferrò i capelli con la sua grande mano, la strattonò costringendola a piegare all’indietro la testa.

-Mia madre lasciala stare, hai capito? - Le sibilò fra i denti con la sua voce grave e minacciosa. E gli occhi scuri di Teodora si riempirono di lacrime di rabbia e di dolore.

 

Hai fame e sete, e il corpo è la sola cosa che possiedi per barattarlo con il cibo e con l’acqua. Un bel corpo snello ma procace, che doveva aver stuzzicato e appagato gli appetiti di chissà quanti uomini, pensava Massimo facendole scorrere le mani lungo la pelle setosa delle gambe, afferrandole le natiche e spingendola contro di sé, per mostrarle quanto la desiderasse. Teodora non era la bambina di dieci anni prima e lui la desiderava, inutile negarlo a se stesso. Ma non se la sarebbe presa come un animale, come tutti gli altri che aveva conosciuto, rozzi soldati barbari dai mustacchi gialli sporchi di cibo, vecchi bavosi e lascivi, mercanti forestieri di bocca buona e di scarse finanze. Si può fare l’amore anche per consolarsi, pensò accarezzandole i capelli. Per trovare un po’ di conforto in qualcuno. Il conforto di cui entrambi avevano un bisogno disperato.

 

-Bella…

Ed era come se nessuno, prima di lui, le avesse baciato la bocca, mormorato quelle frasi audaci con la sua voce calda, fatto sgusciare i seni dalla scollatura della tunica per accarezzarglieli e baciarglieli e succhiarglieli come a una sposa la prima notte delle nozze, invece che a una puttana che è stata di tutti. Come per farle sentire il piacere e quello soltanto, e dimenticare il dolore della prima volta. Resta con me tutta la notte, e ricambierò il godimento che mi hai dato con la stessa moneta, Massimo.

 

SOGNI

 

-Ti capita di sognare, qualche volta, Massimo?

-Sogno poco. E quelle poche volte che sogno, i miei sono incubi. Quindi, almeno per me, è meglio dormire il sonno senza sogni degli animali.

La bocca di Teodora gli sfiorò, leggera, la guancia, il collo e il petto. Molti bevono, per uccidere i brutti sogni che tormentano le loro notti, lo so, questo, perché lo faceva anche mio padre. Bevi anche tu, Massimo? No. Mi ripugna ottundere la mia coscienza. Solo i medici che dovevano curarmi le ferite sono riusciti a farmi ubriacare, ma era per non sentire il dolore, mentre mi estraevano punte di frecce dal corpo e poi mi ricucivano.

 

-Sei pieno di cicatrici.

Ma non era il primo soldato con cui finiva a letto, quello. E chi porta le armi, per scelta o per mestiere, ha sempre i segni delle battaglie combattute impressi sul corpo. La mano di Teodora gli sfiorò con dita leggere la mezzaluna bianca che gli deturpava il braccio, quindi il  segno  impresso col ferro rovente sulla sua schiena. Quell’uomo era marchiato a fuoco, come uno schiavo. Chi sei? Gli chiese. Che cosa c’è, oltre il tuo bel viso, il tuo corpo gagliardo, il modo in cui mi hai baciata, accarezzata e mi sei entrato dentro, facendomi impazzire dal piacere? Parlami di te… E’ il passato che ritorna nei tuoi incubi, Massimo? La risposta di lui fu un mezzo sorriso che la invitava a non andare avanti, perché di lui avrebbe potuto raccontarle soltanto bugie che sembravano la verità e una verità che sapeva di menzogna. E di follia.

 

-E tu, sogni?

Teodora sorrise, strofinandogli la guancia sul petto. Certo che sogno. Enormi eunuchi neri che mi sventolano con i loro flabelli di piume di struzzo, e io sono vestita, ingioiellata e profumata come una principessa. Altre volte, invece, sogno di avere ai miei piedi, in catene, tutti coloro che mi hanno picchiata, affamata, messo le mani addosso. Tendono le braccia verso di me, qualcuno cerca di baciare le mie mani e i miei piedi, come se fossi…

La Basilissa? L’Imperatrice? Tuo padre deve averti raccontato troppe favole e tu non sei stata capace di dimenticarle. Non hai capito niente di me, uomo. Volere è potere, e questo l’ho imparato da sola, senza che nessuno me lo insegnasse. Ognuno è artefice del suo destino.

Già, ognuno è artefice del suo destino: tre secoli prima, uno schiavo aveva fatto traballare il trono su cui un tiranno sedeva indegnamente. E quello schiavo era lui. Forse, in un’altra vita, la piccola prostituta sarebbe diventata una principessa… E non solo nei suoi sogni.

 

-Ti porterò via da qui. Ti salverò, Teodora.

-Come hai salvato le mie sorelline?

-Anastasia da un orso, Comite da un rinoceronte… E te da una grossa vacca e da un branco di mandrilli.

Sembrava un bambino, quando rideva di gusto, come in quel momento. Salverai anche me, ma come, si domandò Teodora sfiorandogli un capezzolo con la lingua e invitandolo a un altro abbandono. Hai forse intenzione di chiedermi… di sposarti? Stavolta fu lei a ridere, prima di continuare ad esplorare il suo corpo con le dita e con la lingua. Nessun uomo dotato anche solo d’un briciolo di sale in zucca domanderebbe una cosa del genere a una puttana.

-Conosco qualcuno che potrebbe aiutarti… - Ma la voce gli morì in gola, quando sentì  le labbra della donna sfiorargli il sesso. Parla dopo, adesso lasciati andare, Massimo. Ma… Non avevi una ferita sul fianco, questa mattina? E come mai non ce l’hai più?

 

Massimo aveva voltato la testa dall’altra parte per non guardarla negli occhi e leggerci dentro mille domande. Ma ciò che le interessava sapere in quel momento era altro, per fortuna. Chi è? Che cosa pretenderà da me in cambio? Quello che hanno preteso tutti gli altri, anche… Anche te?

-Si chiama Eumolpo ed è un guitto da strapazzo, ma alla gente piace. Cerca una ragazza che abbia abbastanza facciatosta da esibirsi in pubblico, e…

-E io sarei quella adatta.

-Le attrici non godono di molta considerazione, ma è meglio prodursi in smorfie e lazzi davanti a un pubblico che paga per divertirsi, piuttosto che farsi sbattere da mille uomini diversi… Almeno, io la penso così.

-Mi chiederà di andare a letto con lui. E di certo non è bello come te.

 

Lo guardò in silenzio infilarsi le brache e la tunica, lo ascoltò prometterle che l’avrebbe cercata ancora e i suoi occhi erano sinceri. Eumolpo non ti chiederà niente, Teodora. Le donne non gli piacciono. E’ uno che preferisce i ragazzi, quello.

 

La grassa Eudossia, che se ne stava seduta vicino alla porta e russava come un mantice, si svegliò di botto al rumore dei suoi stivali sul piancito di legno e gli tese la mano sudaticcia.

“Hai tenuto compagnia a Teodora tutta la notte, mio bel soldato…”

…E certe cose si pagano, ma questa è l’ultima volta, vecchia scrofa lardosa, pensò Massimo mentre i suoi ultimi spiccioli passavano dalle sue mani a quelle della mezzana.

 

UNA NUOVA VITA

 

Tutto questo te lo devo perché non sono stato in grado di proteggerti, quando avrei dovuto farlo. Le diceva mentre l’abbracciava e si abbandonava con lei all’amore. Era sua e di nessun altro, quella ragazzina gli era entrata nel sangue, e… Sarebbe stato difficile dirglielo, ma glielo avrebbe detto, un giorno. Doveva farlo, per dovere di onestà. Non so quanto i tuoi dei ti daranno da vivere, non so se diventerai vecchia, Teodora. Perché tu sei quello che sono tutti gli altri e io non più… Da oltre trecento anni.

 

Massimo lasciò scorrere la sua mano grande e ruvida sulla pelle setosa di Teodora. Non è più come adesso, grazie a te, gli aveva sussurrato, ricambiando i suoi baci e le sue carezze. Eumolpo le aveva insegnato l’arte del mimo, della parodia, di saper strappare al pubblico il sorriso con l’ironia e la risata con la satira grossolana. Mi sta insegna anche a leggere e a scrivere, non è difficile, ho già imparato… gli aveva confidato, ed avrebbe imparato in fretta davvero, non c’era alcun dubbio, perché quella ragazza era intelligente, apprendere non le costava fatica.  La società del tempo disprezzava le attrici esattamente come disprezzava le donne di strada, ma ben presto il suo nome sarebbe diventato famoso, non meno dei suoi occhi neri e del suo volto delicato. E un’inquietudine sottile, al pensiero, si impadronì, anima e corpo, di Massimo l’Immortale.

 

LA PERLA

 

Le metterò questo intorno al collo, e le dirò di me tutto quel che è giusto, che sappia, e sia come sia, pensava Massimo mentre usciva dalla bottega dell’orafo sul cui banco aveva lasciato una piccola fortuna in cambio d’una perla nera appesa a una catena d’oro.

 

Ho avuto il tempo e l’occasione per dirglielo, e avrei dovuto farlo. La prima volta, al bordello, aveva notato come la ferita che il corno del rinoceronte gli aveva aperto sul fianco appena poche ore prima non solo non sanguinava più,  anzi, era addirittura sparita. Si trattava d’una ferita da poco, ma nemmeno un graffio si rimargina dall’oggi al domani, e Teodora non era stupida. Non era riuscita a mascherare del tutto il suo stupore nemmeno quando lui le aveva detto di avere trentatré anni. La prima volta che si erano incontrati, dieci anni prima, era identico ad allora, come se il tempo per lui non fosse passato. Forse, pensava Massimo, Teodora non gli aveva detto niente solo perché non le era stato possibile tornare indietro con la memoria ai suoi sei anni, altrimenti si sarebbe resa conto che chi aveva salvato la sua sorellina dalle grinfie dell’orso non poteva essere un ragazzo ventenne… Ma non importa, si disse da sé solo, meglio che sia andata così. Forse si sarebbe spaventata, se lui le avesse detto tutto, e non avrebbe accettato nulla da un mostro simile, nemmeno che l’aiutasse a venir fuori da quel bordello schifoso e dalle grinfie della donnaccia che la sfruttava. Ma adesso, se voleva la sua stima, non poteva più nasconderle niente. Erano passati due anni, ormai, era tempo che la verità venisse a galla. Costasse quel che costasse.

 

-Viene dai mari caldi delle lontane Indie.

Già, le perle non si scavano a colpi di piccone dal cuore della terra. Nascono nel mare, dentro brutte conchiglie dal guscio scabro e, per recuperarle, uomini e donne si gettano in mare nudi, trattenendo il fiato e rischiando di morire ogni volta, uccisi dalla fatica o dalle zanne dei pescicani. Quelle così scure, poi, sono rare e valgono una piccola fortuna.

 

La perla nera spiccava con le sue iridescenze metalliche contro la sua pelle bianca, tra l’incavo dei  seni.

-Dovrei dirti qualcosa.

-Anch’io. Ma dopo, non adesso.

Forse voleva dirgli grazie, una volta tanto. Era difficile che Teodora usasse quella parola, come se tutto le fosse dovuto. Tutto è dovuto a chi ha avuto una vita difficile e vuole uscirne fuori a qualsiasi costo. Ma quello non era il momento, no davvero. Le accarezzò con il polpastrello del pollice un capezzolo, si chinò su di lei per baciarglielo. Gli piacevano i suoi capezzoli turgidi e scuri. Gli piaceva sentirla gemere quando le leccava le areole e poi glieli succhiava.

 

-Dovevi dirmi qualcosa, Teodora.

-Anche tu a me. Ma sicuramente quello che debbo dirti io è più importante.

 

La giovane aggrottò le sopracciglia, come se ciò che aveva da dirgli le costasse fatica. Forse era perché lui continuava a carezzarla, e non avrebbe mai trovato il coraggio di fare quel che si era prefissa se le dita di quell’uomo non avessero smesso di giocare, leggere forti ed esperte, con la parte più intima del suo essere, continuando ad attizzare una fiamma che non voleva saperne di spegnersi.

 

-Questa è l’ultima volta, Massimo.

Lui rimase senza parole. Era quello ciò che doveva dirle? Glielo disse, infatti, senza eufemismi ed ipocrisie, senza temere di infliggergli sofferenza. Ho conosciuto un uomo. Si chiama Acebalo, ed è un ricco mercante di Tiro. E’ pazzo di me, e mi regalerebbe la luna. Si trasferirà presto in Egitto e mi ha chiesto di seguirlo. Io lo seguirò: nel corso della mia vita, ho sofferto troppo la fame, il freddo e la miseria per lasciarmi sfuggire un’occasione del genere. Devi capirmi, Massimo…

 

Eppure, avevi giurato di volermi bene, e i giuramenti non si infrangono. Ragioni con la mentalità di un soldato, Massimo. Io con quella di un’accattona. Chi è povero non può permettersi il lusso di essere onesto, né con se stesso, né con gli altri. Ricordi quel che ti dissi, un paio di anni fa, quando mi rimproverasti perché mi prostituivo? Ho fame e sete, e il corpo è tutto ciò che possiedo e che posso barattare con il cibo e con l’acqua…

 

Massimo sospirò, mentre, dopo essersi alzato dal letto di Teodora, si infilava i vestiti. Sei giovane e bello, ne troverai un’altra, anzi, mille altre. E quell’Acebalo dal nome ridicolo? La sua rabbia lo immaginò vecchio, grosso e flaccido, peloso come un animale e con l’enorme naso adunco caratteristico dei suoi conterranei. Ma a Teodora non chiese chi è o com’è. Se ne andò e quando lei gli domandò cos’avesse da dirgli, rispose semplicemente niente d’importante senza neppure voltarsi indietro a guardarla un’ultima volta.

 

FINE Prima Parte

Lalla, 8 maggio 2002

 

N.d.A: Le vicissitudini da me attribuite a Teodora, futura moglie di Giustiniano e futura Imperatrice d’Oriente, sono in buona parte frutto della mia fantasia. E’ comunque vero che questa donna era di origini molto modeste, figlia di un domatore di orsi che lasciò presto orfane le tre piccolissime figlie; che finì serva a casa di patrizi bizantini alle cui voglie dovette sottostare ancora bambina. Che fu, prima di incontrare il ricco mercante Acebalo, danzatrice, prostituta e attrice di pantomimo.

Nel mio racconto, per ragioni di coerenza narrativa, ho raffigurato più piccole di lei le due sorelle Anastasia e Comite. Pare invece che una delle due, non ricordo quale,  fosse di qualche anno maggiore.

 

 

 

 

 

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[1] Basileus= l’Imperatore d’Oriente

[2] Tanai=l’attuale Don

[3] Gli Azzurri e i Verdi erano le due “tifoserie”che si scatenavano all’Ippodromo di Bisanzio durante le corse dei cavalli. Nelle loro fila si celavano noti agitatori politici.

[4] Retsina = vino aromatizzato.

[5] pope=prete

[6] Nel film era prevista una scena nella quale, in un’arena africana, Massimo lotta contro un rinoceronte. Tale scena non è stata poi girata per la sua pericolosità, suppongo. In essa, Massimo usa la sua tunica per “distrarre” la belva, come un matador con la muleta.