Storie de Il Gladiatore

Storie ispirate dal film Il Gladiatore (Gladiator, 2000)

 

 Si Vis Pacem Para Bellum

(Se vuoi la pace, prepara la guerra)

di Ilaria Dotti

Prima Parte: Aria e Polvere

I

 

"Più veloce, più veloce!" ordinò la donna e il conducente del carro obbedì frustando i cavalli.

Le colline di Trujillo si estendevano a perdita d’occhio tutt’intorno, ma Rea non le vide nemmeno, la sua attenzione concentrata su di un unico obiettivo.

Quando giunsero al punto dove una strada privata si dipartiva da quella principale Rea alzò la mano e subito il carro rallentò fino ad arrestarsi, imitato dai sei cavalieri che costituivano la sua scorta.

Rea fissò la colonna di fumo nero e denso, troppo alta per essere originata da un falò e mormorò, "Siamo arrivati troppo tardi."

 

La comitiva imboccò il viale e lo percorse lentamente. Ben presto gli ordinati vigneti e i lussureggianti campi di grano e orzo lasciarono posto alla terra bruciata e agli scheletri di poveri alberi ancora avvolti dalle fiamme. Qua e la erano visibili le forme contorte e carbonizzate di alcuni cadaveri. Rea si sentì invadere dallo sconforto, mentre lei e i suoi uomini avanzavano tra quello scenario di morte e distruzione. Il fronte dell’incendio era troppo vasto per essere stato causato da un focolaio lasciato incustodito e la posizione di alcuni cadaveri faceva intendere che quelle persone erano già morte prima che le fiamme li avviluppassero.

L’attenzione di Rea fu attratta dalla carcassa di un cavallo. La povera bestia giaceva su di un mucchio di sabbia, in una zona annerita dalle fiamme, ma essa era ancora integra, segno che l’animale vi era stramazzato dopo che il fuoco aveva distrutto quel campo. Il sauro recava tutti i segni di essere morto di sfinimento, il manto ricoperto da sudore secco come se qualcuno lo avesse spinto al limite delle sue forze per raggiungere quella casa...

Un brivido le corse per la schiena nonostante il tremendo calore che la circondava e Rea ordinò ai suoi uomini: "Sparpagliatevi e cercate ovunque: potrebbe esserci qualche superstite."

"Come desideri, domina," risposero i servitori e si allontanarono.

La donna fece cenno al conducente del carro di avanzare fino alla piccola altura dove, circondata da alti pioppi, sorgeva la villa padronale... o almeno quello che ne era rimasto: travi bruciate, un camino, i muri maestri.

Rea chinò la testa e si asciugò le lacrime con un gesto quasi di rabbia. Conosceva bene la gente che abitava in quella villa, anche se non li aveva mai incontrati. Le parole di suo fratello avevano fatto sì che quella famiglia sconosciuta entrasse a far parte della sua vita e ora sia lui sia loro erano morti...

Un grido interruppe le sue riflessioni. "Domina, abbiamo trovato un uomo ancora vivo!"

Rea sollevò di scatto la testa e senza attendere l’aiuto del conducente scese dal carro. Sollevate con le mani i bordi della sua tunica avanzò con rapidità verso il punto da cui era provenuto il grido.

 

Ciò che vide le fece stringere il cuore.

Il corpo dell’uomo giaceva sdraiato a pancia sotto vicino a due mucchi di terra che avevano tutta l’aria di essere due sepolture. L’uomo sembrava voler abbracciare le due montagnole, che Rea notò essere l’una più piccola dell’altra, come se ricoprisse il corpo di un bambino... Due piccoli mazzi di fiori viola erano stati posati amorevolmente sulla sommità dei cumuli.

Rea si avvicinò all’uomo, notando la sua tunica rosso scuro, e si chinò su di lui, posandogli una mano sul collo. Il battito cardiaco era affrettato e la pelle era calda e umida. Spostò la mano a toccargli la fronte e poi disse ad uno dei suoi accompagnatori: "Quest’uomo ha la febbre alta; fai venire qua il carro, dobbiamo portarlo via il più in fretta possibile." Il servo annuì e si allontanò di corsa.

Rea si rivolse ad un altro dei suoi accompagnatori. "Aiutami a voltarlo."

Quando l’uomo svenuto fu girato sulla schiena e Rea lo poté guardare in viso capì subito di chi si trattasse. Non lo aveva mai visto prima, ma sapeva di stare fissando il volto del generale Massimo Decimo Meridio. Le descrizioni di suo fratello e la sua tunica da soldato lo rendevano inconfondibile.

Mentre lo fissava Rea si chiese quale fosse la causa della sua febbre... finché non notò lo strappo della tunica lungo la manica sinistra. Scostò il tessuto con delicatezza ed un’esclamazione inorridita le sfuggì dalle labbra quando vide la brutta ferita localizzata un poco più in alto del tatuaggio SPQR che tutti i legionari recavano vicino alla spalla. La ferita era infetta e sporca di terra e fuliggine, come del resto tutto il suo corpo.

Le mani, in particolare erano in condizioni pietose: gonfie, lacerate, con le unghie spezzate. Era tristemente evidente che il Generale aveva scavato le tombe dei suoi cari a mani nude, prima di crollare svenuto su di esse.

In quel mentre arrivò il carro e il corpo del Generale vi fu caricato con delicatezza sotto lo sguardo attento di Rea. La donna montò a sua volta sul veicolo e si sistemò a fianco al ferito.

"Due di voi rimangano qui e diano degna sepoltura a questa povera gente," disse ai suoi servi. Poi si rivolse al conducente del carro. "Torniamo a casa di corsa."

L’uomo annuì e frustò i cavalli.

 

II

 

La notte era calata da qualche tempo e la grande villa era addormentata.

Rea si avvolse uno scialle sulle spalle e percorse i pochi metri che separavano la sua camera da quella dove era alloggiato l’uomo che lei era certa essere il generale Massimo Decimo Meridio.

Aprì la porta senza fare rumore e si avvicinò al letto.

Il ferito giaceva supino, il suo sonno finalmente tranquillo dopo quattro notti e tre giorni passati ad agitarsi e ad urlare in preda al delirio.

Rea controllò la fasciatura al braccio sinistro e si ritrovò a sorridere: Galeno, suo medico personale e suo amico, era stato bravissimo, non solo a salvare la vita del soldato ma anche e soprattutto a riuscirci senza dover ricorrere all’amputazione del braccio. Galeno era rimasto al fianco del ferito notte e giorno, fino a che quel pomeriggio non le aveva annunciato con un sorriso stanco ma soddisfatto che l’infezione era stata debellata... Dopo di che l’aveva salutata ed era andato a dormire.

Rea si sedette accanto al letto e passò una mano tra i capelli del malato.

"Dimmi, Generale, che cosa ti è successo? Perché sei corso qui dalla Germania con tanta urgenza da uccidere il tuo cavallo nello sforzo? Come facevi a sapere che la tua famiglia era in pericolo?"

L’uomo non rispose, ma del resto lei non si era aspettata che lo facesse. La sua curiosità avrebbe dovuto attendere, anche se si era già fatta un’idea di quello che poteva essere successo tra le fredde foreste del nord....

Rea chinò la testa e in quell’atmosfera tranquilla trovò alla fine il tempo di piangere suo fratello, cosa che non era ancora riuscita a fare: da quando i Pretoriani le avevano dato l’annuncio della sua morte lei non aveva più avuto un attimo di pace, fino a quel momento, in quella camera buia, vicino all’uomo che Marco aveva sempre considerato come un figlio.

 

*****

 

Massimo Decimo Meridio uscì piano piano dall’incoscienza attirato da uno strano suono. La sua mente annebbiata impiegò qualche minuto a rendersi conto che si trattava di qualcuno che stava piangendo vicino a lui. "Chi è? Perché piange?" pensò stancamente. Quindi aprì gli occhi.

Intorno a lui regnava l’oscurità della notte, rotta solo dai raggi lunari che filtravano dalla finestra. Massimo si guardò intorno. Quella stanza gli era sconosciuta... dove si trovava? Che cosa era successo? Un movimento alla sua destra attirò la sua attenzione e lui voltò la testa. Quel piccolo gesto gli costò una fatica spropositata ma gli permise di vedere la persona che gli era accanto.

Si trattava di una donna dai lunghi capelli castani striati di grigio. Massimo aggrottò la fronte e si chiese "Chi è?" Quindi chiuse di nuovo gli occhi e si sforzò di ricordare.

 

*****

Rea sollevò la testa e si asciugò le lacrime dal viso. Non sapeva per quanto tempo avesse pianto, ma ora si sentiva meglio, anche se era esausta.

Si alzò dalla sedia, sistemò meglio il lenzuolo sul petto del ferito e mormorò. "Riprenditi presto, Generale, non vedo l’ora di conoscerti. Mio fratello mi ha parlato molto di te."

Dopo di che si voltò e fece per andarsene ma una debole voce l’arrestò all’istante.

"Fratello?"

Rea ruotò su se stessa e tornò affianco del letto. I suoi occhi incontrarono quelli del ferito e lei sorrise. "Bentornato tra noi Generale!"

 

"Generale? Ah, sì è vero sono un generale." Massimo pensò, mentre la donna si chinava su di lui, dandogli la possibilità di osservarla meglio. Doveva avere almeno una cinquantina d’anni ma il suo viso conservava ancora delle tracce della bellezza che doveva essere stata da giovane. I suoi lineamenti erano fini, aristocratici e i suoi occhi dovevano essere chiari, anche se era difficile dirlo nell’oscurità della stanza.

"Come ti senti?" chiese lei.

Massimo rispose con sincerità, "Confuso. Dove sono? Chi sei tu?" la sua voce si era fatta più forte, ma mancava del timbro deciso che normalmente la contraddistingueva.

"Ti trovi in Hispania, Generale Massimo, e io sono Rea Aurelia Vera, sorella dell’imperatore Marco Aurelio." Rea sperava che le sue parole avrebbero aiutato Massimo a debellare la sua confusione ma il risultato fu diverso.

Il Generale aggrottò la fronte e disse "Marco Aurelio? Chi è? E che cosa ci faccio in Hispania? Dovrei essere in Germania, a combattere i barbari... Come sono arrivato qua? Che cosa mi è successo?" La sua voce si era fatta ansiosa e lui guardò Rea mentre i suoi occhi si riempivano di terrore. "Perché non riesco a ricordare?"

Rea strinse i denti. Che cosa stava succedendo? Cercò di tranquillizzarlo come meglio poteva. "Sei stato ferito ad un braccio e hai avuto la febbre alta per molti giorni. Probabilmente è per questo che non riesci a ricordare, la tua mente è ancora sconvolta dal delirio." Rea si interruppe e vide che le sue parole avevano avuto l’effetto sperato: il viso del Generale si era rilassato e lui annuì rassicurato. Quella donna aveva ragione. Doveva aver ragione.

"Sono così stanco," mormorò, "e la testa mi duole molto."

Rea sorrise e prese una coppa dal comodino. "Questo ti aiuterà," disse e aiutò Massimo a bere il decotto che Galeno aveva lasciato pronto nel caso il Generale avesse ripreso i sensi.

Massimo vuotò il contenuto della coppa e poi riadagiò la testa sul cuscino.

La pozione ebbe un rapido effetto e nel giro di pochi minuti si riaddormentò.

Rea rimase a fissarlo, preoccupata per la sua amnesia, chiedendosi se il prolungato delirio non avesse danneggiato la sua mente. La donna alzò gli occhi al cielo e mormorò una preghiera agli dei affinché guarissero Massimo. Il sogno di suo fratello e il destino di Roma erano nelle sue mani.

 

III

 

"Dimmi Galeno, com’è possibile che un uomo possa ricordare il suo nome e niente altro?" domandò Rea mentre insieme al medico osservava Massimo passeggiare per il giardino della villa. Erano passati quattro giorni dal suo risveglio e Galeno gli aveva consigliato di stare all’aria aperta il più possibile, per godere dei benefici effetti del sole.

"La mente dell’uomo cela più misteri dei profondi abissi, Rea," le rispose il suo amico, un uomo alto e distinto con un marcato accento greco. "Però, se vuoi la mia opinione, io credo che l’amnesia del Generale sia auto-indotta."

"Cosa?" esclamò stupita la nobildonna.

"Oh, lui non lo sta facendo di proposito, è la sua mente, la parte più nascosta della sua anima che non vuole ricordare."

"Ma perché?"

"Non è difficile formulare un’ipotesi. Tu stessa mi hai detto di averlo trovato svenuto vicino alle tombe di sua moglie e suo figlio... Io credo che lui non voglia ricordare questi eventi perché non vuole affrontare il dolore che ad essi si accompagna. La sua disperazione deve essere così grande che il suo cervello si rifiuta di accettarla, e così ha approfittato della malattia per cancellare la tragedia dalla sua memoria."

Rea annuì, la cosa aveva senso. "Per quanto tempo potrà durare questa situazione?"

Galeno scosse la testa. "E’ difficile fare delle previsioni in questi casi ma secondo me non durerà ancora per molto. Ricordi così brutti non possono essere cancellati e presto riaffioreranno. Le sue continue emicranie e i suoi incubi notturni ne sono la prova. Presto o tardi un suono, una parola, un profumo o qualche oggetto familiare faranno scattare in lui qualcosa e allora tutto gli tornerà in mente."

Rea annuì ancora. "Speriamo che succeda presto. Roma ha bisogno di lui."

Galeno le lanciò un’occhiata curiosa ma lei non aggiunse altro.

 

*****

 

Massimo stava camminando per il giardino, cercando di rilassarsi e di scacciare il mal di testa che da giorni era il suo inseparabile compagno. Il Generale si sentiva stanco e confuso e con le passeggiate cercava invano di trovare un po’ di pace. La sua amnesia lo teneva in uno stato di continua preoccupazione. Galeno lo aveva rassicurato dicendogli che si trattava di una cosa temporanea ma a Massimo la cosa non piaceva lo stesso e lui passava ore a sforzarsi di ricordare.

Mentre stava ammirando la bella fontana che si trovava nel cortile, un odore dolciastro, molto particolare, raggiunse le sue narici portato dal vento e lui si fermò ad annusare meglio l’aria.

Quell’odore era familiare... era profumo di gelsomino. Massimo sorrise: il gelsomino gli faceva sempre pensare a casa sua. Casa sua? Il Generale lanciò un’occhiata alla grande villa grigia e seppe con certezza che quella non era casa sua. La sua villa era più piccola, più semplice, in pietra rosa...

L’immagine si formò chiara nella sua mente per essere però subito sostituita da altre: muri diroccati ed anneriti dal fumo... travi incenerite... cadaveri carbonizzati dalle forme contorte... due corpi inchiodati a delle croci... Selene... Marco...

I ricordi piombarono su di lui come l’onda di un fiume in piena e Massimo si sentì sopraffare dal dolore mentre tutto gli tornava alla mente: l’ultima conversazione con Marco Aurelio, la morte dell’imperatore, il tradimento di Quinto, la sua corsa forsennata attraverso la Germania e la Gallia, la scoperta della sua famiglia trucidata...

Massimo crollò in ginocchio, urlando al mondo e agli dei la sua disperazione. Le lacrime presero a scorrere copiose sul suo viso e il nodo alla gola si fece così stretto che respirare divenne quasi impossibile.

Una piccola folla, Rea e Galeno inclusi, si radunò subito attorno a lui, richiamata dal suo urlo animale e Massimo si sentì soffocare. Via, doveva andare via da lì... doveva tornare a casa. Si alzò in piedi, si guardò attorno con occhi spiritati e poi corse alle scuderie. Infilò la testiera al primo cavallo che vide, gli saltò in groppa e lo lanciò subito al galoppo.

Doveva andare a casa... a casa.

 

Rea e Galeno guardarono con occhi preoccupati Massimo allontanarsi e sparire tra gli alberi. Appariva chiaro ad entrambi che il Generale avesse riacquistato la memoria. I due amici si scambiarono uno sguardo.

"Che cosa possiamo fare? Che cosa dobbiamo fare?" domandò Rea al medico.

"Credi che stia andando a casa sua?"

"Penso di sì, in quale altro posto potrebbe andare?"

"Allora sarebbe meglio che qualcuno andasse a controllare che non commetta qualche atto irreparabile."

Rea annuì e disse: "Andrò io."

"Rea..." iniziò Galeno.

"Non cercare di fermarmi: mio fratello amava quell’uomo come un figlio e io non permetterò che gli accada qualcosa." E così dicendo si diresse rapidamente verso le scuderie.

 

IV

 

Massimo si aggirò tra le rovine di quella che era stata la sua casa barcollando come un ubriaco.

La sua mente sconvolta notò che mani pietose avevano raccolto e seppellito i corpi dei suoi servi, sottraendoli ai denti dei predatori. Raggiunse il grosso pioppo sotto cui aveva seppellito Selene e Marco e si inginocchiò, accarezzando dolcemente i due cumuli di terra. I suoi occhi erano asciutti - non aveva più lacrime da versare - e il suo cuore era sprofondato in un abisso di dolore. L’unica cosa che voleva era raggiungere sua moglie e suo figlio e trovare con loro la pace che era certo non avrebbe mai più trovato in questa vita.

 

Un rumore improvviso ruppe l’innaturale silenzio che lo circondava. Massimo girò la testa e vide la donna che lo aveva aiutato. Era alle sue spalle, e lo fissava gravemente.

"Che cosa fai qui?" le chiese con una voce che non riconobbe come la sua.

"Sono venuta a controllare che tu non commetta qualcosa d’irreparabile," rispose lei con voce pacata.

"Non vuoi che mi uccida, eh? Non avrei bisogno di farlo, se tu mi avessi lasciato dove mi hai trovato. L’infezione avrebbe fatto il suo corso e tutto sarebbe finito in poco tempo."

"Forse. O forse no. I mercanti di schiavi nord africani si aggirano spesso da queste parti e se ti avessero trovato loro, chi può dire che cosa sarebbe stato di te?"

Massimo scrollò le spalle. Che cosa gliene importava di quello che avrebbe potuto succedergli? Lui era morto nel momento in cui aveva scoperto i suoi cari bruciati e crocifissi. Tutto il resto, la casa, la sua fama, la sua vita, non erano altro che aria e polvere, nulla di più.

Il Generale voltò la testa, "Ti ringrazio per ciò che hai fatto per me ma ora lasciami solo."

"Solo se mi prometti che non commetterai qualche sciocchezza," rispose Rea decisa.

Massimo si alzò di scatto, invaso dalla rabbia. "Ma che t’importa di me?" urlò.

"Mio fratello ti amava e io non permetterò che ti succeda qualcosa, non me lo perdonerei mai."

"Tuo fratello?"

"Marco Aurelio, non ricordi? Ne abbiamo parlato subito dopo il tuo risveglio." La voce di Rea era calma, suadente.

Massimo annuì, ricordando. Marco Aurelio gli aveva parlato spesso di sua sorella, durante le loro innumerevoli conversazioni durante le lunghe notti germaniche. Al pensiero dell’imperatore Massimo si sentì invadere dalla colpa... Non era riuscito a salvarlo, come non era riuscito a salvare la sua famiglia.

"Come fai a sapere che è morto?"

"Una squadra di Pretoriani è venuta ad avvisarmi..." Rea si morse le labbra, indecisa se continuare o no, poi proseguì. "Io temo che fossero gli stessi uomini mandati a compiere questo scempio."

Massimo annuì ancora e poi chiese: "Tu sapevi che questa è... era la mia casa?"

"Sì, Marco Aurelio me la indicò l’ultima volta che venne a trovarmi, circa un anno fa. Quando i pretoriani mi hanno annunciato la sua morte e mi hanno recato i saluti del nuovo imperatore ho capito che c’era qualcosa che non andava e conoscendo Commodo, mi sono precipitata qui... Purtroppo era troppo tardi."

Massimo la guardò e domandò, incuriosito suo malgrado: "Perché sei venuta qui? Perché sapevi che c’era qualcosa che non andava?"

"Perché io sapevo che Marco non voleva che Commodo gli succedesse - aveva in mente un altro uomo come erede." Rea si interruppe un istante e guardò la sua reazione. "Il fatto che invece mio nipote fosse sul trono e che una squadra di venti pretoriani fosse da queste parti era la prova evidente che qualcosa era andata storta nei progetti di mio fratello."

Massimo la guardò, mentre l’indifferenza tornava ad avvolgerlo come un manto. Quella donna sapeva, ma che importanza poteva avere?

"Lasciami solo," le intimò ancora una volta e si allontanò.

 

Massimo camminò fino al frutteto, che le fiamme avevano miracolosamente risparmiato. Lì, fissata al ramo di un melo, vide l’altalena che aveva costruito per suo figlio l’ultima volta che era stato a casa. Era molto semplice, due funi fissate ad un asse di legno ma per Marco era stato un dono speciale perché suo padre gli aveva permesso di aiutarlo mentre la costruiva. Massimo sorrise, ricordando la gioia del suo bambino quando era salito sull’altalena per la prima volta, e sfiorò una delle corde con mano amorevole. Sarebbe stato così facile staccarla dall’asse, farne un cappio, avvolgersela intorno al collo e farla finita con il mondo e con il suo dolore. Ma Massimo sapeva che non l’avrebbe fatto, che non poteva farlo. Qualcosa in lui glielo impediva. Non era mai stato un codardo e non avrebbe incominciato ad esserlo proprio adesso.

Onore.

Dovere.

Sua moglie, suo figlio, Marco Aurelio stesso erano morti per onore e per dovere... Non poteva permettere che il loro sacrificio fosse stato vano. Non poteva permettere che Commodo continuasse a regnare e condannasse altre persone al dolore e alla disperazione a cui aveva condannato lui. No, non poteva permetterlo e non glielo avrebbe permesso. Il soldato dentro di lui rialzò la testa. Era stanco, amareggiato, ferito e disperato ma non era battuto. Avrebbe lottato fino alla fine, con tutte le sue forze.

"Io servirò sempre Roma." Quelle parole presero a riecheggiargli nella mente mentre con passo deciso si diresse verso il luogo dove aveva lasciato il cavallo.

 

Rea era lì ad attenderlo insieme al conducente del suo carro. Lo vide avvicinarsi, il passo cadenzato, il portamento fiero, lo sguardo indurito.

"Andiamo via." le disse, le ordinò. "Qui non c’è più niente per me." E si allontanò senza più voltarsi indietro.

Rea annuì e lo seguì.

 

V

 

Quella sera dopo cena Massimo e Rea si chiusero nella biblioteca, ordinando ai servi di non disturbarli per nessuna ragione.

Dopo alcuni attimi di silenzio in cui si fissarono negli occhi come per valutarsi a vicenda Rea esordì: "Come è morto mio fratello?"

"Commodo lo ha ucciso. Probabilmente lo ha soffocato,"  rispose Massimo, la voce priva di emozione, il volto una maschera inespressiva.

Rea sospirò. "Sospettavo che fosse successa una cosa del genere. Perché ha fatto uccidere la tua famiglia?"

"Perché ho rifiutato di giurargli fedeltà." Ancora una volta la sua voce risultò fredda e impersonale.

"Oggi pomeriggio, quando ho accennato al fatto che Marco Aurelio avesse scelto un altro uomo come erede, non ho visto alcuna sorpresa sul tuo volto. Posso dedurne, Generale, che mio fratello ti avesse detto che tu eri quell’uomo?"

Massimo annuì. "Me lo disse il giorno in cui morì."

"E tu cosa gli rispondesti?"

"Che avevo bisogno di tempo per decidere."

"Ma non hai avuto il modo di comunicargli la tua decisione, non è vero?"

"Esatto."

"E quale sarebbe stata la tua decisione?"

Massimo strinse gli occhi. "Avrei fatto ciò che Cesare mi aveva chiesto di fare."

"E ora che Cesare è morto?"

"Lotterò affinché le sue ultime volontà siano esaudite. E’ il mio dovere."

Rea annuì, approvando le sue parole anche se dentro di sé sentiva che c’era qualcosa che non andava nel comportamento del Generale. Nelle sue lettere Marco Aurelio le aveva sempre descritto Massimo come un uomo dalle profonde emozioni e dai forti sentimenti. Un uomo che non aveva paura di mostrare ciò che provava. Ma quella descrizione non si adattava all’uomo seduto di fronte a lei: nei suoi occhi e nel suo viso non c’era alcuna traccia di quei sentimenti. Ma forse, considerata la tragedia che aveva appena subito, quel comportamento, quell’assenza di emozioni era prevedibile e naturale.

Rea tornò al presente "E come pensi di riuscirci Generale?"

"Non lo so ancora, ma so che servirò sempre Roma, in un modo o nell’altro. Marco Aurelio mi disse che Commodo non poteva regnare, che non doveva regnare... E non regnerà." Gli occhi del Generale fiammeggiarono pieni di rabbia.

"Bene, io ti aiuterò."

Massimo la guardò. "Mi aiuterai anche se questo comporterà la morte di tuo nipote? Perché io lo ucciderò, fosse l’ultima cosa che faccio."

Rea annuì decisa. "Anch’io, come te e mio fratello ho sempre servito Roma. L’ho servita sposando un uomo che non amavo affinché il trono di Marco fosse più sicuro e la servirò liberandola da un tiranno. Anche se si tratta di un membro della mia famiglia." Detto questo la donna si alzò e si avvicinò ad uno scrittoio dove era posato un piccolo porta gioielli. Rea tirò fuori una chiave che teneva legata al collo come un ciondolo e aprì il cofanetto, estraendone una lettera sigillata. Poi tornò a sedersi e continuò. "Quando Marco venne a trovarmi per l’ultima volta, aveva già deciso che Commodo non avrebbe dovuto succedergli e che tu eri l’uomo destinato a prendere il suo posto. Come ben sai mio fratello era un uomo previdente e nell’eventualità che potesse succedergli qualcosa, prima di partire per tornare in Germania, mi lasciò in custodia questa lettera con l’incarico di consegnartela."

E senza aggiungere altro gliela mise il mano.

Massimo ruppe i sigilli e spiegò due fogli di papiro, vergati con la calligrafia chiara e precisa dell’imperatore, sfiorando con la punta delle dita i segni lasciati da quelle vecchie e sagge mani.

Poi cominciò a leggere il primo foglio.

 

VI

 

Mio caro Massimo,

quando riceverai questa lettera io sarò morto. La mia speranza è che prima di morire io abbia avuto la possibilità di parlarti di persona e che queste righe non siano più necessarie, ma se così non fosse, spero che quanto segue possa aiutarti a portare a compimento l’ultimo incarico che voglio affidarti.

Amico affettuoso e suddito leale, spero che tu sappia quale conforto sia stato per me l’averti avuto accanto in tutti questi anni e sono certo che in questo momento tu stia piangendo per me. Non farlo, Massimo, ma invece gioisci:  il posto dove mi trovo ora è sicuramente più tranquillo e pacifico del mondo che ho lasciato e qui potrò dedicare più tempo alla mia amata filosofia. Guidare Roma e l’impero sono stati il mio onore e il mio onere per vent’anni e io ho sempre cercato di fare ciò che era giusto per il bene del mio popolo, per quanto difficile o doloroso fosse. E ora che sento avvicinarsi la fine, sempre più spesso sento in me l’ansia per il futuro.

Oh, non ho paura di morire. La morte sorride a tutti, un uomo non può far altro che sorriderle di rimando. No,  quello che mi preoccupa è il futuro di Roma dopo che me ne sarò andato. E’ la corruzione che vi si è diffusa che mi preoccupa, che mi angustia, che non mi lascia dormire la notte. La corruzione deve essere fermata o l’impero sarà roso dall’interno, come un pezzo di legno dai tarli. Ormai da qualche tempo mi sono reso conto che mio figlio Commodo non potrà cambiare questo stato di cose perché lui stesso è corrotto e nel modo peggiore, nella sua anima. La colpa di ciò è mia, non sono stato un buon padre: ho servito Roma sacrificando la mia famiglia sull’altare del dovere e ora ne sto pagando il prezzo. Lucilla è diventata una donna forte e giusta anche senza il mio aiuto ma disgraziatamente è una donna e suo figlio Lucio è solo un bambino, e io non posso scaricare su di loro il peso del potere e dell’inevitabile scontro con Commodo.

No, Massimo, c’è solo una persona che può riuscire nell’impresa di sconfiggere la corruzione e quella persona sei tu.

Tu sei forte, giusto, nobile nel cuore e nello spirito. Non ti chiedo di diventare imperatore, so che per te non sarebbe un onore ma una condanna. No, ti chiedo di diventare il Protettore di Roma dopo la mia morte e di sovrintendere alla sua trasformazione da Impero a Repubblica cosicché il potere possa tornare al popolo. Una volta che il potere sarà nuovamente nelle mani del Senato, tu potrai tornare dalla tua famiglia.

Ti prego Massimo, ascolta questa mia supplica, tu sei l’unico di cui mi fido. Ti prego di servire ancora Roma come hai fatto per tutta la vita. So che quello che ti chiedo è tanto, forse troppo, ma ti prego in ginocchio, accetta quest’ultimo incarico, solo così la mia anima avrà la pace che cerca.

Che gli dei ti assistano e ti aiutino sempre.

Ad in perpetuum ave atque vale, figlio mio.

Marco Aurelio Antonino

 

Massimo ripiegò il foglio e lo ripose poi si concentrò sul secondo papiro che al contrario del primo non era una lettera ma un documento pubblico redatto con tutti i crismi dell’ufficialità.

Esso diceva:

 

Io, Marco Aurelio Antonino Augusto, Cesare ed Imperatore di Roma, Padre della patria, con questo documento ordino che alla mia morte il posto alla guida dell’Impero sia preso da Massimo Decimo Meridio, comandante dell’Esercito del Nord e Generale delle Legioni Felix.

Ad egli io conferisco, con quest’atto, il titolo di Protettore di Roma che egli potrà conservare per un tempo indefinito. Ad egli spetterà il compito di trasformare Roma da impero a repubblica. I tempi e le modalità di questa trasformazione saranno a sua unica discrezione e il Senato dovrà seguire le sue direttive.

Egli avrà inoltre il completo controllo dell’esercito e chiunque dovesse osare ribellarsi alla sua autorità dovrà essere considerato un traditore della Patria.

Ai membri della mia famiglia spetteranno tutti i miei possedimenti personali ed una congrua parte di quelli imperiali e la possibilità di mantenere i propri titoli ma non potranno avanzare alcuna pretesa sul trono.

Queste sono le mie volontà per il bene di Roma, da sempre il mio unico pensiero e scopo di vita.

Affido quest’atto nelle mani di mia sorella Rea Aurelia Vera affinché lo consegni nelle mani del Generale Massimo Decimo Meridio in caso di mia morte improvvisa.

Che gli Dei proteggano sempre Roma.

 

Hispania, anno 932 ab Urbe condita, terzo giorno prima delle calende di ottobre.

 

Massimo sollevò lo sguardo e passò il foglio a Rea che lo lesse velocemente. I due si scambiarono una occhiata.

"Dobbiamo rientrare a Roma il più presto possibile e mostrare questo documento al Senato, prima che Commodo possa conquistarsi il favore del popolo," disse il Generale.

"Darò immediate disposizioni per la partenza. Io di solito trascorro in Hispania tutta l’estate ma, viste le circostanze, nessuno si stupirà del mio ritorno improvviso."

Massimo annuì approvando, poi si alzò e andò alla finestra. Guardando fuori, alzò lo sguardo verso il cielo e pensò: "Padre, il tuo sogno non morirà con te, te lo giuro."

 

 

Seconda Parte: il sogno che era Roma

 

I

 

Il grande mausoleo era freddo nonostante il clima fosse mite. Rea percorse il pavimento di marmo verde fino ad arrivare davanti alla tomba più recente, dove erano conservati i resti mortali di suo fratello, l’imperatore Marco Aurelio. Inginocchiatasi davanti ad essa cominciò a pregare.

Un rumore alle sue spalle attirò la sua attenzione e lei voltò lentamente il viso.

C’era qualcuno con lei nella stanza e lei lo riconobbe subito. Commodo.

Rea fece un profondo respiro e si alzò in piedi, avvicinandosi a suo nipote.

L’imperatore rimase fermo ad aspettarla, il viso serio e adatto al luogo solenne dove si trovavano.

Rea si avvicinò e si inchinò davanti a lui. "Cesare," disse in tono rispettoso.

Commodo sorrise nel vedere la sua orgogliosa zia inchinarsi davanti a lui e poi recitando la parte del grazioso monarca le tese la mano e la invitò a sollevarsi.

Rea obbedì, baciò l’anello sulla mano che le fu porta, ma rimase a capo chino, non tanto in gesto di rispetto, quanto per il fatto che desiderava avere il pieno controllo delle sue emozioni prima di incrociare il suo sguardo con quello di Commodo.

Non voleva che lui potesse vedere l’ira che ribolliva dentro di lei.

"Mia cara zia Rea, ti prego solleva lo sguardo," esordì Commodo e Rea lo accontentò. "Mi auguro che tu abbia fatto buon viaggio," continuò l’imperatore.

"Sì, Cesare, il viaggio è andato benissimo."

"Mi ha sorpreso sapere che tu abbia preferito la via di terra ad una nave.”

Rea strinse i denti. Sembrava una domanda innocente ma con Commodo e la sua paranoia non si poteva mai sapere. Lei e Massimo avevano viaggiato via terra per evitare i rigorosi controlli che erano effettuati al porto di Ostia, ma così facendo avevano impiegato quasi due mesi per giungere a Roma, contro i pochi giorni che avrebbero impiegato se avessero preso una nave. "Cesare, la mia salute non è più quella di un tempo e il mio stomaco è così delicato che non riesce più a sopportare il movimento del mare."

Commodo annuì e desideroso di mostrare alla zia la sua città, la prese per un braccio e la condusse fuori del mausoleo. Appena furono all’aperto Commodo iniziò a parlarle dei festeggiamenti che aveva organizzato per onorare la memoria e la grandezza di suo padre e Rea dovette fingersi interessata e stupita per tanta magnificenza e per l’amore figliare messo in mostra dal nuovo Cesare.

"...e poi ho organizzato dei grandi giochi. Tutti i migliori gladiatori dell’impero vi parteciperanno e così..." Commodo si interruppe mentre un largo sorriso gli si dipingeva sul volto e animava i suoi freddi occhi verdi.

Rea seguì la direzione del suo sguardo e vide Lucilla dirigersi verso di loro.

"Sorella," esclamò entusiasta l’imperatore. " Guarda un po’ chi ho trovato davanti alla tomba del nostro augusto genitore!"

Lucilla sorrise e si avvicinò a Rea, abbracciandola con calore. "Zia Rea, bentornata a Roma."

"Grazie, nipote mia. Come ti senti? Come sta il piccolo Lucio?" Rea domandò mentre la sua mente prendeva nota del viso tirato della giovane donna.

Lucilla si animò nel sentire il nome di suo figlio ma prima che potesse rispondere Commodo si intromise. "Lucio sta benissimo. E’ un fanciullo molto acuto e i giochi dei gladiatori gli piacciono molto."

Rea spalancò gli occhi e lanciò un’occhiata a Lucilla. Che ci faveva un bambino di otto anni a vedere i giochi?

Lucilla vide la domanda negli occhi della zia e scosse la testa, inclinandola leggermente verso il fratello.

Rea annuì e disse a voce alta: "Spero, Cesare, che vorrai farmi l’onore di essere mio ospite una di queste sere. Ho assoldato un attore perché impari e ci reciti I ricordi di Marco Aurelio e pensavo di invitare nella mia domus alcuni filosofi per commentarli."

Come aveva previsto - e sperato - alla menzione della parola filosofi, Commodo fece una smorfia disgustata. Rea sapeva quanto il nipote odiasse la filosofia.

"Cara zia, mi dispiace molto di dover rifiutare ma sono molto occupato in questi giorni. Come mio padre diceva sempre, guidare l’impero non è cosa facile e io sto ancora imparando. Tuttavia sono certo che Lucilla sarà più che lieta di rappresentarmi."

Sua sorella annuì. "Certo che verrò zia Rea," e le lanciò un’occhiata carica di significato. Lucilla sapeva che Rea voleva parlarle lontano da suo fratello.

"Bene, allora è tutto sistemato. Ti aspetterò il giorno delle Idi." Poi tornò a rivolgersi a Commodo. "Se vuoi scusarmi ora, Cesare, sono molto stanca e vorrei tornare a casa."

Commodo, felice di essersi risparmiato una noiosissima serata in compagnia della zia, fu più che contento di concederle di congedarsi e Rea si allontanò, non prima di aver scambiato un altro sguardo di intesa con Lucilla.

Tutto procedeva secondo i piani.

 

II

 

Massimo mimò l’ennesimo affondo contro un immaginario avversario e poi posò il gladio su di una panchina di pietra, detergendosi il sudore dalla fronte con la manica della tunica. La primavera romana era calda e umida ma non era il clima a disturbare maggiormente Massimo, era l’inattività.

Da quando era arrivato a Roma, dieci giorni prima, non aveva fatto altro che dormire (male), mangiare (poco) e allenarsi (molto) con la spada per recuperare il tono muscolare perso durante la malattia e il lungo viaggio dalla Hispania. Ma ora incominciava a non essere più sufficiente.  L’incontro con Lucilla organizzato da Rea si sarebbe tenuto la sera successiva e Massimo era in preda all’ansia e all’impazienza. Rea gli aveva parlato del suo incontro con Commodo e Lucilla e gli aveva detto di aver trovato la nipote molto stanca e tesa. L’anziana donna era sicura che Lucilla si sarebbe schierata dalla loro parte, una volta messa al corrente delle ultime volontà di Marco Aurelio, ma Massimo non era così certo, anche se il ricordo del suo viso spaventato e rigato di lacrime la sera in cui suo padre era stato ucciso si insinuò nella sua mente. Ad ogni modo lui avrebbe fatto il suo dovere fino in fondo, con o senza l’aiuto di Lucilla.

Il Generale prese di nuovo in mano il gladio ma invece di sollevarlo in posizione di combattimento lo assicurò alla cintura e vi sistemò sopra la toga.

"Non ce la faccio più a stare chiuso in questa casa, " pensò mentre lasciava il giardino e rientrava nella domus. "Probabilmente andare in giro per Roma da solo non è la cosa più saggia da fare, ma le probabilità di essere riconosciuto da qualcuno sono davvero poche."

Attraversò l’atrio a grandi passi e, lasciato detto ad uno schiavo di avvertire Rea della sua assenza, uscì dalla villa e cominciò a discendere il Viminale diretto verso il centro della città.

 

*****

 

La sua camminata lo portò verso la zona più bella dell’Urbe e nonostante il suo senso dell’arte non fosse molto rifinito, Massimo rimase affascinato dai templi, dalle basiliche e dalle statue delle divinità che vedeva attorno a sé. Quando arrivò ai piedi dell’Anfiteatro Flavio, il Generale rimase senza fiato: mai in tutta la sua vita aveva visto qualcosa di così imponente e maestoso. Non poté fare a meno di alzare lo sguardo verso la sommità dell’edificio mentre vi camminava intorno. Pochi momenti di distrazione e Massimo si ritrovò circondato da una folla urlante che spingeva e sgomitava per riuscire ad entrare nell’anfiteatro per assistere ai giochi offerti dall’imperatore. Massimo imprecò contro se stesso per la sua disattenzione e cercò di uscire dal flusso di persone in cui era rimasto incanalato ma si trattava di una battaglia persa, così, alla fine, decise di rinunciare a lottare contro la marea umana e di prendere posto con essa sugli spalti.

 

*****

 

Massimo si sedette sulla tribuna di marmo e si guardò intorno con curiosità. Il Colosseo era stracolmo di gente che invocava a gran voce l’inizio dei giochi.

"Giochi, " pensò disgustato il Generale. "Come si possono definire giochi delle carneficine umane? Come si fa a considerare divertente vedere degli uomini uccidersi a vicenda?" Massimo scosse la testa: sapeva che Marco Aurelio aveva soppresso per alcuni anni i combattimenti a Roma ma che essi erano continuati nelle province e sapeva che Commodo li aveva riaperti per conquistarsi il favore di un popolo che non l’amava. Massimo fece una smorfia. "Mi chiedo che cosa farebbe il popolo se sapesse che per pagare i 150 giorni di giochi promessi, Commodo ha prosciugato le casse del tesoro imperiale e sta ora vendendo le scorte di grano della città. Alle prime avvisaglie di carestia il prezzo del pane andrà alle stelle e molta povera gente non sarà più in grado di permetterselo."

Il suo sguardo colse un movimento nell’arena e lui guardò verso il basso: una delle porte che immettevano nella grande elisse ricoperta di sabbia si era aperta e un gruppo di gladiatori vi fece il suo ingresso, salutato dal boato della folla. Si trattava di una ventina di uomini vestiti con delle tuniche blu, delle rozze corazze ed elmi dalle forme più disparate. Ognuno di essi aveva in mano una lunga lancia e uno scudo rettangolare, simile a quello in uso nell’esercito. I gladiatori avanzarono fino al centro dell’arena e si schierarono di fronte al palco imperiale.

Al grido ripetuto di "Cesare!", Commodo fece il suo ingresso nel Colosseo e andò a sedersi, salutando la folla con la mano.

"La carogna sembra raggiant," pensò Massimo con odio, mentre un sorriso crudele gli increspava le labbra. "Divertiti pure finché puoi, principe, perché il tempo per onorarti arriverà presto alla fine."

Guardando meglio, il Generale vide che Commodo era accompagnato da altre persone tra cui riconobbe Quinto, Lucilla e un bambino che ritenne essere il figlio di lei, Lucio.

La sua attenzione tornò a concentrarsi sui gladiatori sotto di lui, che il maestro delle cerimonie annunciò come "orda barbarica di Annibale." Massimo riuscì a stento a trattenere uno sbuffo sprezzante. Ma quale orda barbarica?! Lui aveva visto decine di orde barbariche, negli anni passati, a combattere in Germania, e quel patetico gruppo di poveri schiavi non aveva proprio nulla a che spartire con esse. Pochi istanti dopo un’altra porta si aprì e ne uscirono alcune bighe, con altri gladiatori chiamati ad impersonare i legionari di Scipione l’Africano, che cominciarono a percorrere l’anello esterno del campo di battaglia, tutt’attorno ai "barbari".

Il combattimento ebbe inizio e per gli uomini a piedi le cose volsero subito al peggio, poiché essi erano un facile bersaglio per le frecce dei “legionari”.

Suo malgrado Massimo si ritrovò coinvolto dallo scontro e si ritrovò a gridare come le persone che lo circondavano. Ma al contrario degli altri spettatori che incitavano i “legionari” al massacro, il Generale si schierò dalla parte dei “barbari” urlando loro a squarciagola. "State vicini, state vicini! Unite gli scudi come un sol uomo, solo così potrete difendervi!" Purtroppo però le sue grida si persero nel clamore che lo circondava, mentre nell’arena i “barbari” soccombevano uno ad uno. Gli ultimi a cadere furono un gigante dai capelli chiari, forse uno schiavo germanico, ed un agile uomo di colore, probabilmente un Nubiano. I due gladiatori si erano battuti con coraggio e ardimento ma contro un avversario troppo forte per loro e Massimo chinò la testa rattristato quando li vide accasciarsi sulla sabbia ormai rossa. La folla intorno a lui lanciò grida entusiaste e, mentre l’odore dolciastro del sangue raggiungeva gli spalti, Massimo capì di averne avuto abbastanza e si alzò, dirigendosi verso l’uscita.

 

*****

 

Una volta fuori dell’anfiteatro, Massimo respirò a pieni polmoni l’aria fresca e pulita e decise di rientrare subito alla villa. Mentre camminava si accorse di sentirsi profondamente sconvolto e non a causa di quello che aveva visto: era abituato allo spettacolo della morte, anche se mai prima di allora aveva assistito ad esso come semplice spettatore. No, non era quella la ragione del suo turbamento interiore, era la sua reazione a quello che aveva visto. Per la prima volta in mesi si era interessato a qualcosa di diverso che non fossero i suoi piani di vendetta o la sua rabbia nei confronti di Commodo. Per la prima volta in mesi il destino di altre persone aveva avuto importanza per lui, e le sue grida d’incitamento ai gladiatori ne erano la prova. L’indifferenza nei confronti di tutto e di tutti che era stata la sua compagna e il suo scudo dal giorno in cui aveva riacquistato la memoria e aveva voltato le spalle a tutto ciò che era stata la sua vita era improvvisamente sparita, ed egli non era in grado di decidere se il cambiamento fosse da considerare positivo o negativo.

 

III

 

Una volta rientrato alla villa, Massimo corse nella piccola stanza dove Rea gli aveva mostrato essere l’altare della sua famiglia e chiusosi la porta alle spalle si inginocchiò sul freddo marmo.

Massimo unì le mani e guardò le statuette davanti ai suoi occhi, illuminate dalla fiamma tremolante delle candele: non erano i penati della sua famiglia ma in quel momento non aveva importanza. Aveva un disperato bisogno di schiarirsi le idee e quell’altare era esattamente ciò di cui necessitava.

Chiudendo gli occhi iniziò a pregare.

"Sacri Antenati, invoco la vostra guida. Madre mia, aiutami a ritrovare la pace dell’anima e la chiarezza necessaria per portare a termine il mio compito. Padre mio, mostrami il volere degli dei per il mio futuro e guida il mio cammino in questo momento così difficile. Moglie mia, figlio mio, perdonatemi per aver scacciato il vostro ricordo dalla mia mente e per avervi ignorato per così tanto tempo. Sappiate solo che l’ ho fatto per il dolore immenso che mi provoca il pensare a voi, anche se ora ho capito di aver bisogno del mio dolore, perché esso è parte di me, parte di ciò che sono. Inoltre ho capito che il dolore per avervi perso non deve farmi dimenticare la gioia di avervi avuto. Vi chiedo inoltre perdono per non essere stato in grado di proteggervi come avrei dovuto e per non potervi raggiungere subito nell’altra vita. Spero che capiate e sappiate aspettarmi. Sacri antenati, io vi onoro: aiutatemi a realizzare il sogno del mio imperatore e a fare ciò che è giusto per la città di Roma..."

 

Massimo rimase a lungo in ginocchio e quando si rialzò i muscoli protestarono per la sua lunga immobilità, ma egli non vi fece caso: per la prima volta da quel tragico giorno in cui aveva trovato la sua famiglia massacrata si sentiva in pace con se stesso. Ciò non significava che una parte del suo io non desiderasse più morire e raggiungere i suoi cari, ma che egli aveva imparato ad accettare ciò che era successo e a guardare al futuro con occhi nuovi... con una nuova speranza nel cuore.

Quando uscì dalla piccola stanza Massimo Decimo Meridio era un uomo nuovo. O forse, più semplicemente, era tornato ad essere quello di un tempo.

 

*****

 

Quella sera a cena, Rea guardò l’uomo seduto di fronte a sé e sorrise. Non aveva fatto commenti sulla sua improvvisa uscita pomeridiana né, tanto meno, sul suo precipitoso rientro, ma sentiva che in lui c’era qualcosa di diverso. Lo aveva percepito nella sua voce, l’aveva visto nei suoi occhi, l’aveva osservato nel suo modo interagire con gli schiavi e con lei stessa. Fino allora era stato sempre educato con lei, nulla di più, ma quella sera era stato anche gentile... premuroso. Il suo sorriso divenne ancora più ampio.

"Che cosa c’è?" le chiese il suo compagno.

Rea notò il suo sguardo incuriosito e disse. "Niente di importante: stavo solo pensando a quanto sia piacevole conoscere finalmente il vero Massimo Decimo Meridio, l’uomo che mio fratello mi ha sempre descritto. Ero stanca di avere a che fare con una statua animata... o forse dovrei dire orso irascibile?"

Massimo spalancò gli occhi nel sentire le ultime parole e poi sorrise: mai si sarebbe aspettato da lei un commento del genere! Tornando serio disse: "Mi dispiace di essermi comportato così male. So che non deve essere stato facile vivere con me in questi mesi e me ne scuso. Mi ero convinto che il non provare niente fosse il metodo migliore per non farsi coinvolgere troppo e per non soffrire. Fortunatamente oggi ho capito che non solo sono già coinvolto ma anche che ho bisogno dei miei sentimenti. Il soldato dentro di me non può vivere senza l’uomo."

Rea annuì e non aggiunse altro. Non c’era bisogno.

Nella sala da pranzo calò un amichevole silenzio e Massimo si abbandonò un poco, lasciandosi cullare dall’atmosfera pacifica e dimenticando per un po’ i problemi che lo affliggevano, come aveva fatto tante volte in compagnia di Marco Aurelio durante i lunghi anni passati al fronte. L’imperatore gli aveva parlato spesso di sua sorella e lo aveva sempre fatto con affetto ed ammirazione, sentimenti che anche il suo cuore appena risvegliatosi dal sonno stava incominciando a provare per lei.

 

IV

 

La sera seguente come d’accordo Lucilla giunse alla villa sul Viminale, accompagnata da due ancelle e quattro Pretoriani, che furono lasciati di guardia fuori del salone principale.

Rea condusse la nipote nella sala e le presentò gli altri commensali, i due filosofi invitati per commentare I ricordi di Marco Aurelio.

Non appena ebbero preso posto sui triclini i camerieri cominciarono a servire il cibo e a mescere il vino mentre un attore iniziò a declamare i passi più significativi del trattato filosofico dell’imperatore.

Lucilla sapeva che quella rappresentazione non era il vero motivo dell’invito di sua zia ma sapeva anche che quella finzione avrebbe dovuto durare per qualche tempo, per non destare sospetti nei servi e soprattutto nei Pretoriani.

Mentre mangiava, a stento gustando il sapore del cibo, l’Augusta si sforzò di mostrare interesse nei confronti delle dissertazioni filosofiche portate avanti dai due anziani studiosi seduti al suo tavolo, pregando che il tempo passasse in fretta.

 

Finalmente, dopo circa due ore, Rea si portò una mano alla testa e adducendo con i suoi ospiti la scusa di non sentirsi bene, pose fine alla serata. Lucilla si incaricò di congedare gli ospiti e poi accompagnò la zia a letto, dicendo ai servi e ai Pretoriani che si sarebbe trattenuta con lei per qualche tempo.

Le due donne uscirono lentamente dalla sala, e si diressero verso la stanza da letto.

 

Una volta che la porta si fu chiusa alle loro spalle Rea parve riacquistare di colpo la salute e abbracciò con affetto la nipote.

Lucilla contraccambiò il gesto e poi sedette sulla sedia indicatele dalla zia che invece si sistemò sul letto, la schiena appoggiata ad una montagna di cuscini. La finzione era perfetta: se qualcuno avesse guardato dalla finestra avrebbe solo visto la giovane nipote chinata premurosamente sull’anziana zia.

"Allora, Lucilla," esordì Rea, "come stai?"

Lucilla guardò quegli occhi così simili a quelli di suo padre e mormorò: "Sono stanca zia, molto stanca."

Rea annuì. "Servire Roma - e servirla bene - è un compito gravoso."

La giovane donna sospirò. "Vedo che mi capisci. Spero di riuscire a fare il mio dovere ancora a lungo ma non so per quanto ancora riuscirò a tenere testa a Commodo. Vuole sciogliere il Senato, sai? Sta solo aspettando il momento giusto. Finora sono riuscita a fermarlo ma è solo questione di tempo."

Rea la sguardo con occhi penetranti. "C’è dell’altro vero?"

Lucilla annuì. "Saprai già che per allestire i suoi giochi mio fratello sta prosciugando le casse dello Stato... Quello che forse non sai è che per poterle rimpinguare ha messo gli occhi sulle proprietà di alcuni senatori e ricchi mercanti. Presto o tardi tutti questi uomini saranno accusati di tradimento, uccisi e le loro proprietà confiscate."

Rea strinse le labbra. "Lucilla, non possiamo permettere che Commodo continui a regnare: in poco tempo distruggerà tutto quello che tuo padre ha costruito in tanti anni e con tanti sacrifici."

"Lo so zia, ma cosa potremmo fare? Congiurare contro di lui? E con chi? Nessuno si fida di nessuno in città, Commodo ha spie dappertutto."

"C’è sempre l’esercito..."

"Le legioni hanno tutti nuovi comandanti fedeli a Commodo ed inoltre nessuno di loro ha sufficiente prestigio o carisma per evitare che gli altri gli si rivoltino contro." Lucilla abbassò la testa e poi continuò con un tono di voce più basso e triste. "L’unico uomo che avrebbe potuto opporsi a mio fratello è stato anche il primo ad essere eliminato."

Lucilla rimase a capo chino, persa nei suoi pensieri finché la voce di sua zia non la riscosse.

"Ne sei proprio sicura, Lucilla?" le domandò con uno strano tono di voce.

La giovane donna alzò di scatto la testa e vide Massimo uscire dalle ombre che lo avevano avvolto fino allora.

 

*****

 

Il generale aveva atteso pazientemente tutta la sera nascosto in camera di Rea in attesa che lei mettesse in pratica il suo piano e conducesse la nipote nella stanza.

Quando infine la porta si era aperta i suoi occhi si erano concentrati su Lucilla. Una parte di lui non si fidava ancora della giovane donna; tuttavia lei era l’unica che potesse dargli le informazioni di cui necessitava. La politica non era mai stata il suo forte e Rea aveva ragione nell’affermare che avevano bisogno di un alleato potente.

Massimo l’aveva osservata durante la sua conversazione con Rea e aveva notato il suo viso stanco e tirato e le rughe di preoccupazione sulla sua fronte. Contro la sua volontà gli erano tornati in mente i momenti passati insieme, il suono delle sue risate e la gioia che aveva illuminato il suo sguardo...  Massimo aveva scacciato i ricordi ed era tornato a concentrarsi sulla conversazione e quando Rea aveva menzionato l’esercito aveva capito che il momento di uscire allo scoperto sarebbe arrivato presto. E così era stato.

 

*****

 

Lucilla vide Massimo uscire dalle ombre e riuscì a stento a trattenere un urlo. Si alzò di scatto e gli si avvicinò, allungando una mano verso il suo viso, come a volersi sincerare che non si trattasse di un fantasma ma poi si trattenne, incerta sul modo in cui lui avrebbe reagito.

Massimo le andò vicino e la salutò chinando la testa. "Augusta Lucilla." Il suo tono era neutro ma dentro di lui il suo cuore stava battendo forte. Aveva sentito l’emozione che aveva pervaso la voce di Lucilla quando aveva parlato di lui credendolo morto e per il suo spirito ferito era stato come un balsamo curativo.

"Massimo," rispose semplicemente la giovane donna e i due rimasero a guardarsi in silenzio per alcuni istanti finché Rea non si schiarì la gola.

Richiamati al dovere, Lucilla tornò a sedersi sulla sedia affianco al letto mentre Massimo si appoggiò ad una cassapanca vicino al muro, fuori dal campo visivo della finestra.

Rea prese in mano le redini della conversazione. "Lucilla, quello che sto per dirti forse ti sorprenderà, ma tuo padre non voleva che Commodo gli succedesse sul trono, sapeva che non avrebbe potuto essere un buon sovrano." Lucilla annuì, per nulla sorpresa dalle parole di sua zia: sapeva bene quanto suo padre fosse stato deluso da Commodo.

Rea continuò. "L’ultima volta che Marco venne a trovarmi, circa un anno e mezzo fa, lasciò in mia custodia una lettera sigillata con il compito di consegnarla al generale Massimo Decimo Meridio nel caso egli fosse morto all’improvviso."

Lucilla si girò curiosa verso Massimo ed egli tirò fuori la lettera da sotto la tunica e gliela diede senza parlare. La giovane donna lesse rapidamente i due fogli di papiro e poi rimase in silenzio alcuni minuti mentre la sua mente lavorava in modo frenetico.

"Ecco il perché della convocazione dei senatori! Lui non voleva annunciare la successione di Commodo,  ma quella di Massimo," pensò, mentre tutti gli eventi accaduti in Germania prendevano un nuovo significato. "Perché mi hai chiamato? Ho bisogno di te per tuo fratello.. Ti vuole bene... e ora avrà bisogno di te più che mai."

Lucilla incontrò la sguardo di Massimo. "E’ questo che ti disse mio padre la mattina che ci incontrammo, vero? Il giorno in cui morì."

"Esatto."

"E Commodo l’ha ucciso prima che potesse annunciarlo pubblicamente. Sì, tutto ha senso… anche troppo." Lucilla sospirò e restituì i fogli a Massimo. Le loro dita e si sfiorarono per un istante e un brivido corse lungo le loro schiene. Lucilla si voltò di scatto e Rea le chiese: "Ti senti bene?"

"Sì zia, sto bene. Quello che mi avete appena detto ha solo confermato ciò che sospettavo da qualche tempo."

"Tuo padre mi anche lasciato una lettera per te."

"Davvero?" chiese la giovane con voce emozionata.

"Sì, eccola qui."

Lucilla prese la lettera e ruppe i sigilli con delicatezza.

 

Mia amata figlia,

spero che tu sappia che ti ho sempre amato e sempre lo farò. Tu sei tutto ciò che un padre desidera in una figlia:  obbediente, generosa, intelligente. Il mio unico rimpianto è che tu non sia nata uomo. Che grande Cesare saresti stata! E quanti problemi di meno avrei adesso!

Lucilla, tu conosci Commodo, probabilmente meglio di me, e sai che non può e non deve regnare.

Per regnare con giustizia bisogna essere servi di Roma ma tuo fratello farebbe di Roma la sua serva.

Tu hai sempre servito bene Roma, Lucilla. So quale sacrificio è stato per te sposare Lucio Vero e so quanto ti è costato fare da madre ad un fratello che in cambio ha riversato su di te attenzioni morbose.

No, non negare figlia mia, lo so. Mi dispiace solo di non averti aiutato in questo frangente. E ora mi ritrovo qui a chiederti di assumere un altro grave compito. Tuo fratello non deve regnare e Roma deve tornare ad essere una Repubblica, solo così la corruzione potrà essere debellata. A questo scopo io appronterò un Protettore di Roma, con il compito di sovrintendere al passaggio dei poteri dall’imperatore al Senato. Massimo Decimo Meridio è l’uomo che ho scelto per l’incarico. Tu lo conosci:  è onesto, giusto, leale e forte. Ma non è esperto di politica: sarà tuo compito aiutarlo in questo campo. Tu conosci come ragionano i potenti di Roma e sai come funzionano certi meccanismi burocratici. Aiutalo, Lucilla. Aiutalo a realizzare il mio sogno. E perdonami se così facendo escluderò il piccolo Lucio dalla successione al trono, ma è necessario per il bene di Roma.

Addio figlia mia, spero che tu possa avere una vita felice.

Che gli dei veglino sempre su di te e il piccolo Lucio,

con amore,

tuo padre,

Marco Aurelio Antonino

 

Lucilla ripiegò la lettera e alzò lo sguardo sui suoi compagni: era una figlia di Roma e come tale rispose. "Commodo va eliminato. Ma prima di agire è necessario che il Senato sia informato delle ultime disposizioni di mio padre. Se i senatori si schiereranno dalla nostra parte, il popolo li seguirà; Commodo non è ancora riuscito a conquistarsi l’amore della folla."

"E se qualcuno spargesse la voce che per pagare i giochi sta vendendo le scorte di grano della città il malcontento aumenterebbe ulteriormente," si inserì Rea, dando prova del suo acume politico.

Massimo, fino a quel momento silenzioso, disse: "Io ho bisogno di sapere dove si trova il mio esercito. C’è qualcuno in grado di dirmelo?"

Lucilla sorrise. "Io lo so. Siamo fortunati, Generale, i tuoi uomini sono accampati ad Ostia."

Massimo sorrise a sua volta, annuendo: era davvero un colpo di fortuna che fossero così vicini!

Lucilla continuò. "Prima di mobilitare l’esercito dobbiamo però informare il Senato."

"Lo so."

"Mi incaricherò io di farlo; credo che il Senatore Gracco ci aiuterà. Lui detesta Commodo e il suo nome è il primo sulla lista nera di mio fratello."

"E’ una buona idea," commentò Rea. "Gracco è un ottimo politico ed anche il decano dei Senatori. Però dobbiamo fare in fretta, Lucilla: sai meglio di me quanto sia difficile mantenere dei segreti in questa città."

Lucilla annuì poi disse. "Ora è meglio che vada, non voglio che qualcuno si insospettisca."

Massimo e Rea approvarono e Lucilla si alzò.

"A presto zia," disse baciandola sulla guancia poi si voltò verso Massimo e lo guardò negli occhi.

Il generale prese una delle sue mani e se la portò alle labbra, baciandola. La sensazione della sua barba contro la sua pelle scatenò una tempesta nel cuore di Lucilla e lei non riuscì a trattenersi dal fargli una carezza sulla guancia. Poi uscì di corsa dalla stanza, senza aggiungere altro.

 

*****

 

Massimo si rigirò nel letto per l’ennesima volta e buttò indietro le coperte con un grugnito di frustrazione. Era ormai notte fonda e lui era molto stanco ma nonostante tutto non riusciva a prendere sonno. Continuava a pensare alla conversazione avuta con Rea e Lucilla e, soprattutto, ai sentimenti che il rivedere la giovane donna aveva evocato in lui. Non era stato preparato alle emozioni che il semplice sfiorarsi delle loro dita o la mano di lei sulla sua guancia avevano suscitato. Massimo aveva provato piacere e ora si sentiva divorare dalla colpa: come poteva pensare ad un’altra donna quando la sua amata moglie era morta da solo pochi mesi? Eppure nonostante tutto non riusciva a scacciare l’immagine di Lucilla dalla sua mente. Contro il suo volere i ricordi legati alla loro storia cominciarono ad affiorare e stanco di combattere, Massimo si abbandonò ad essi.

"In fondo, che male c’è?" chiese a se stesso prima di addormentarsi, il viso finalmente rilassato.

 

*****

 

In un’altra stanza da letto, in un altro palazzo, su di un altro colle, anche Lucilla cercava invano di addormentarsi.

Rivedere Massimo vivo, dopo aver pianto la sua morte, era stato scioccante, ma ancor più sconvolgente era la speranza che la sua presenza aveva risvegliato in lei. Speranza che l’incubo continuo in cui si era trasformata la sua esistenza da quando suo padre era morto avesse finalmente fine. Voleva poter piangere suo padre in pace senza il dover vivere nel terrore per quello che Commodo avrebbe potuto fare a suo figlio o a lei stessa.

E poi c’era Massimo... Lucilla sapeva di amarlo ancora: l’aveva capito la mattina che si erano incontrati in Germania. Allora quel sentimento era stato soffocato con rabbia - lui era sposato - ma ora che entrambi erano vedovi, era forse un delitto sperare che le cose potessero tornare come erano un tempo? Lei aveva sentito la corrente che era passata tra loro quando le loro dita si erano toccate ed era sicura che anche Massimo l’avesse avvertita, l’aveva compreso dal modo in cui lui si era ritratto, spaventato da tanta intensità.

"E’ possibile," si domandò Lucilla, "che lui mi ami ancora?" Sognare poteva essere pericoloso, vista la sua situazione, ma in quel momento era proprio quello di cui aveva bisogno.

Lucilla scivolò nel sonno senza accorgersene, con un piccolo sorriso sulle labbra.

 

 

 

 

 

 

Parte terza: Protettore di Roma

 

I

 

Massimo si fece largo tra la gente che affollava il mercato cercando di non perdere di vista l’uomo che stava seguendo. La sagoma del Pretoriano era facile da distinguere ma il generale non voleva correre rischi.

Il soldato camminava con passo deciso ed aveva un vantaggio sul suo inseguitore: la folla si faceva rispettosamente da parte al suo passaggio, permettendogli di avanzare senza intoppi mentre Massimo doveva farsi largo a spintoni e gomitate.

 

Era il giorno successivo al suo incontro con Lucilla e Massimo aveva deciso di trascorrerlo esplorando Roma per imprimersi nella memoria il percorso che avrebbe dovuto fare per raggiungere il Palatino quando sarebbe arrivato il momento di entrare in città in testa alla sua legione. Gli dei gli erano venuti in aiuto quella mattina, facendogli un inaspettato quanto gradito regalo, provocando un forte temporale estivo che gli aveva permesso di indossare, senza la paura di destare troppa curiosità, un lungo mantello con cappuccio, che lo proteggeva dalla pioggia e soprattutto da eventuali sguardi indiscreti.

 

Era appena arrivato nei pressi del Colosseo quando aveva scorto una figura familiare avanzare da sola tra la moltitudine di persone riversata nelle vie.

"Quinto!" aveva pensato pieno di sorpresa. "Che cosa fa in giro senza scorta?"

Un’idea improvvisa, magari anche folle, si era presentata alla sua mente: se fosse riuscito a mostrare al suo ex secondo in comando l’atto con cui Marco Aurelio lo aveva designato come suo successore, forse Quinto sarebbe passato dalla sua parte e questo avrebbe potuto essere molto utile per evitare futuri spargimenti di sangue.

"E se invece non volesse credermi?" si chiese Massimo, ma l’esitazione fu subito scacciata, mentre i lineamenti del suo viso si indurivano. Sapeva bene quello che avrebbe fatto se Quinto non gli avesse creduto... avrebbe fatto ciò che era necessario, non aveva altra scelta. Il destino di Roma era troppo importante.

 

*****

 

Quinto Emilio Leto, comandante della guardia pretoriana, svoltò l’angolo e varcò i cancelli delle Terme di Traiano con in mente l’idea di farsi un lungo bagno e trascorrere un po’ di tempo lontano dal Palazzo imperiale e dal suo cupo signore.

Più passavano i giorni e più Quinto si chiedeva come Marco Aurelio avesse potuto generare un uomo immorale come Commodo e come fosse possibile che un uomo con la saggezza del defunto imperatore avesse potuto lasciare che un tale essere gli succedesse sul trono. "Ma forse Marco Aurelio non voleva che Commodo gli succedesse..."  sussurrò una voce dentro di lui, subito messa a tacere. Quinto era un seguace della filosofia Stoica che predicava l’accettazione degli eventi che non potevano essere cambiati e l’obbedienza assoluta agli ordini del suo imperatore. Questi precetti erano stati facili da seguire quando a sedere sul trono era stato Marco Aurelio, ma ora che Commodo era al potere, per Quinto fare il proprio dovere era diventato molto difficile. Da quando si era insediato il nuovo Cesare non aveva fatto altro che uccidere e sperperare denaro, distruggendo in sostanza tutto il lavoro fatto da suo padre. E Quinto temeva che quello fosse solo l’inizio e che il peggio dovesse ancora arrivare.

 

*****

 

Quinto entrò in un cubicolo e iniziò a spogliarsi mentre un pensiero pellegrino gli attraversò la mente. "Meno male che non ho famiglia... se mai dovessi perdere il favore di Commodo, nessun altro oltre me ne soffrirà."

Il pretoriano aggrottò la fronte mentre piegava i suoi abiti, chiedendosi da dove fosse spuntata fuori una tale idea. E poi capì. "Massimo," pensò con dolore. Non era la prima volta che il ricordo del suo generale e amico per più di dieci anni tornava a tormentarlo... Quinto cercò di bandire dalla mente la memoria di quell’ultima notte in Germania e per l’ennesima volta si chiese se avesse fatto davvero il suo dovere nell’obbedire a Commodo e condannare a morte Massimo o se invece avesse commesso un colossale errore. Lui aveva giurato di servire Roma, ma Roma non era l’imperatore, come recitava il tatuaggio che aveva sulla spalla e che fino a poco tempo prima aveva sempre mostrato con orgoglio. Ma ora...

Quinto imprecò e scacciò con rabbia tali pensieri: piangere sul latte versato non serviva a niente e lui era venuto alle terme per rilassarsi e non per tormentarsi con mille ma, forse  e se.
Prese un telo di lino, se lo mise sul braccio sinistro e fece per uscire dal cubicolo, ma aveva appena aperto la porta e messo fuori la testa quando una larga mano si posò sul suo petto e lo spinse rudemente indietro.

Quinto andò su tutte le furie e urlò. "Che cosa stai facendo?! Chi sei?!" La figura incappucciata davanti a lui rimase in silenzio, il volto appena distinguibile nella penombra della piccola stanza.

"Lo sai chi sono io?" tuonò ancora minaccioso il pretoriano, ma ancora una volta non ricevette risposta.

"E sia, " pensò Quinto, "l’hai voluto tu, amico." Con una rapida mossa allungò la mano per afferrare il gladio che aveva lasciato appoggiato al muro, ma non riuscì a terminare il gesto: uno spostamento d’aria, una ferrea stretta sul polso, un violento spintone e Quinto si ritrovò con le spalle al muro, la lama di una daga premuta contro la gola.

"Fossi in te non lo farei, Quinto," ringhiò lo sconosciuto.

Quinto spalancò gli occhi e il respiro gli si mozzò in gola: quella voce era familiare, ma l’uomo a cui apparteneva era morto e non era possibile... O forse lo era? Non aveva mai visto il suo cadavere e i suoi assassini non erano mai rientrati all’accampamento, ufficialmente uccisi dai barbari in un agguato.

Quinto deglutì sonoramente e bisbigliò esitante. "Massimo?"

La mano con la daga rimase ferma mentre con l’altra il suo aggressore spinse indietro il cappuccio e Quinto incontrò gli occhi del suo generale.

 

Lo sguardo di Massimo era duro, freddo come quello di uno spirito vendicatore e Quinto credette che il suo momento fosse arrivato. Non pensò nemmeno a chiedere clemenza o perdono, non dopo avere saputo che cosa era stato fatto alla famiglia del generale. Quinto pronunciò una breve preghiera agli dei ed inclinò all’indietro la testa, mettendo a nudo la gola, quindi chiuse gli occhi ed attese... ed attese, ma quando infine la lama si mosse non provò alcun dolore.

"Quinto, guardami," ordinò Massimo, ripetendo senza accorgersene la frase già pronunciata in Germania.

Quinto aprì gli occhi e fissò il suo generale. Massimo aveva allentato la presa sul suo collo e ora il braccio che reggeva la daga era disteso al suo fianco.

I due uomini rimasero in silenzio per alcuni minuti, valutandosi a vicenda e poi Quinto chiese: "Che cosa fai qui, Massimo?" Non sei qui per uccidermi, che cosa vuoi?, lasciava sottintendere il suo tono.

Senza mai staccare gli occhi da quelli del pretoriano, Massimo frugò sotto la propria tunica ed estrasse le lettere di Marco Aurelio, che portava sempre con sé in un sacchetto di cuoio fissato al collo.

"Leggi," intimò, mettendo i fogli in mano al suo compagno.

Quinto lo guardò sorpreso, ma obbedì. I suoi occhi corsero veloci sui papiri e il suo volto divenne ancora più pallido. Nella sua mente non c’era il minimo dubbio che quelle lettere fossero autentiche: non solo conosceva bene i sigilli e la calligrafia di Marco Aurelio, ma sapeva anche che Massimo non sarebbe mai ricorso all’inganno, era troppo onesto per fare una cosa del genere. 

"Per gli dei," mormorò disperato quando ebbe terminato la lettura. "Che cosa ho fatto?"

"Hai fatto quello che credevi essere il tuo dovere," gli rispose Massimo riprendendo i fogli e riponendoli al loro posto.

Quinto lo guardò esterrefatto. Era mai possibile che Massimo archiviasse tutto il male che gli aveva fatto, così semplicemente, attribuendo le sue azioni al dovere?

Il generale chiese: "Che cosa farai ora?"

Il pretoriano lo fissò senza capire e Massimo continuò. "Io intendo portare a compimento le ultime volontà di Marco Aurelio e vendicare la mia famiglia. Tu che farai? Mi aiuterai o cercherai di fermarmi?"

Quinto scattò sull’attenti. "Ti aiuterò."

"E il tuo giuramento?"

"Io ho giurato di servire Roma," disse il pretoriano con orgoglio, toccando le lettere SPQR impresse sulla sua spalla. "Ho già commesso un errore, non ne commetterò un altro."

Massimo lo fissò a lungo in silenzio e poi il suo volto si allargò in un sorriso. "Grazie amico," disse afferrandogli la mano.

Quinto contraccambiò, ma una parte di lui ancora non riusciva a credere che il suo generale potesse perdonarlo così facilmente e così provò di nuovo a scusarsi. "Massimo, mi dispiace... Io non sapevo..."

"Quinto, per favore, basta. Lo so che stavi eseguendo degli ordini... come io stavo eseguendo i miei."

"Tu sapevi, quindi? Sapevi che Marco Aurelio aveva scelto te..."

"Sì, me lo disse la mattina del giorno in cui morì. Per questo Commodo l’uccise."

"Già," disse Quinto, ormai convinto della colpevolezza del nuovo Cesare. "Che cosa intendi fare?"

"Farò in modo che il Senato venga a conoscenza delle ultime disposizioni di Marco Aurelio e poi prenderò il potere," rispose Massimo deciso.

"La Legione Felix è accampata a Ostia... se vuoi posso darti una mano ad uscire dalla città senza che nessuno se ne accorga."

Massimo annuì. "Domani sera incontrerò uno dei senatori: se tutto andrà come previsto, entro pochi giorni il piano sarà pronto a scattare."

"Va bene, allora faremo in modo di incontrarci domani notte. Dove posso trovarti?"

"Presso la villa di Rea Aurelia Vera, sul Viminale."

Quinto annuì. "L’Augusta Lucilla è stata a cena da lei alcune sere fa e dovrebbe tornarci domani... Ehi, un momento... Anche lei è a conoscenza del volere di Marco Aurelio?"

"Sì."

Quinto scoppiò in una breve risata e vedendo Massimo che lo guardava interrogativamente, spiegò: "Commodo vuole che accompagni io Lucilla a trovare la zia domani sera e quando stamattina lo ha annunciato all’Augusta lei non sembrava per niente contenta della mia presenza. Adesso capisco perché."

Massimo sorrise a sua volta e poi disse: "Adesso è meglio che me ne vada: non vorrei che qualcuno si facesse delle strane idee su noi due!"

Quinto annuì e poggiandosi il pugno destro sul cuore disse: "Forza e onore."

"Forza e onore," replicò il generale prima di uscire dal cubicolo.

 

Quinto rimase lì a fissare la porta chiusa per alcuni minuti, lasciandosi poi andare ad un lungo sospiro. "Dei immortali, io vi ringrazio. Avete ascoltato le mie preghiere," pensò, prima di dirigersi alle vasche con un sorriso soddisfatto: per la prima volta in mesi il futuro non sembrava più così cupo.

 

II

 

Il sole era appena tramontato quando Lucilla fece il suo ingresso nella lussuosa villa sul Viminale, ufficialmente per trascorrere un po’ di tempo con sua zia, ancora convalescente per il malore di pochi giorni prima. L’Augusta entrò in un piccolo salone accompagnata da Quinto che aveva detto al resto dei suoi uomini di andare a passare un po’ di tempo alla taverna.

Massimo e Rea andarono incontro ai nuovi arrivati e la padrona di casa offrì a tutti da bere, in attesa dell’arrivo del Senatore Gracco. Lucilla e Massimo scambiarono poche parole in maniera formale ma i loro occhi comunicarono in modo assai diverso.

Pochi minuti dopo si udì bussare alla porta; uno dei servi andò ad aprire ed introdusse il Senatore Gracco nella sala. Era un uomo sulla sessantina, ancora piacente, molto distinto coi capelli grigi e una barba ben curata.

Rea e Lucilla gli andarono incontro. "Grazie di essere venuto, Senatore."

Gracco replicò a tono mentre il suo sguardo si posava curioso su Massimo e Quinto. Nel vedere il capo dei pretoriani, il politico aggrottò la fronte ma Rea lo rassicurò con un gesto della mano.

"Senatore," disse Lucilla prendendolo per un braccio. "Permettimi di presentarti il Generale Massimo Decimo Meridio."

Gracco spalancò gli occhi: non aveva mai incontrato il Generale in persona, ma le sue imprese contro i barbari del nord erano leggendarie.

"Generale."

"Senatore Gracco."

"Perdona la mia sorpresa, Generale, ma credevo che tu fossi morto."

"Avrei dovuto esserlo."

Ci fu un attimo di silenzioso disagio, mentre gli occupanti della sala parevano valutarsi a vicenda, rotto infine dalla voce decisa di Massimo.

"Senatore abbiamo bisogno del tuo aiuto per indire una riunione straordinaria del Senato."

Gracco inarcò le sopracciglia. "Potrei sapere perché?"

Massimo rispose consegnandogli l’atto con cui Marco Aurelio lo nominava Protettore di Roma.

Il senatore lesse velocemente e poi con più calma il papiro, dopodiché sollevò lo sguardo sul Generale. "Intendi tenere fede a questo documento?"

"Sì," rispose secco Massimo.

Gracco si girò a guardare Rea, Lucilla e Quinto e lesse sui loro volti la medesima determinazione.

"Quali sono i vostri piani?"

"Il Senato deve essere portato a conoscenza dell’esistenza di questo atto... Credi che i senatori si schiereranno dalla nostra parte?"

Gracco annuì. "Sì, ci seguiranno." Fece un sorriso amaro e continuò. "Molti di noi sono già uomini morti se Commodo continuerà a regnare." Il Senatore prese a passeggiare per la sala. "Convocherò una riunione straordinaria per il giorno delle None, cioè tra tre giorni. Va bene?"

Lucilla guardò Massimo ed egli annuì. "Meglio muoversi in fretta, prima che Commodo possa sospettare qualcosa," disse l’Augusta.

"E tu, Generale, che cosa farai nel frattempo?"

"Andrò ad Ostia e mi ricongiungerò al mio esercito."

"Cosa?!" scattò l’anziano politico. "A che cosa ti serve l’esercito?"

Massimo rispose. "A mantenere l’ordine in città e ad evitare che Commodo possa fuggire."

"E’ vero," si intromise Quinto, "abbiamo bisogno della Legione Felix perché non ho idea di quanti dei miei uomini obbediranno ai miei ordini e quanti invece rimarranno fedeli a Cesare."

Gracco fissò Massimo negli occhi, chiedendosi inutilmente se l’uomo davanti a lui non fosse un altro potenziale tiranno, ma poi scartò l’idea: Marco Aurelio si era fidato di quell’uomo; sua figlia e sua sorella si fidavano di lui... non aveva altra scelta che seguire il loro esempio e fidarsi di lui. "E sia," disse. "E’ tutto deciso."

Nel salone l’atmosfera si rilassò, ora che tutto era stato detto e il tempo dell’azione si avvicinava.

Rea ruppe l’amichevole silenzio. "Come reagirà il popolo?"

"Ho già iniziato a far spargere la voce che Commodo sta vendendo le scorte di grano sotto prezzo per pagare i giochi: oggi, nel Colosseo, è stato accolto da alcuni fischi," disse Lucilla. "Nel momento in cui Massimo sarà al potere, faremo delle donazioni di grano alla popolazione e tutto tornerà tranquillo."

Gracco annuì pensieroso. "Sì, certo, però tutto sarebbe più facile e sicuro se esistesse un qualche legame tra il Generale e Marco Aurelio."

"Ma non è sufficiente quell’atto?" chiese Quinto.

Gracco sorrise. "La maggior parte del popolo non sa leggere, comandante, né sa riconoscere i sigilli imperiali. Io sono convinto che se Marco Aurelio ne avesse avuto il tempo avrebbe adottato il Generale, facendone suo figlio ed erede naturale."

Massimo lo guardò sorpreso. "Davvero?"

"Certo: è quello che qualunque politico accorto avrebbe fatto e il defunto Cesare era un ottimo politico."

"Ma Commodo l’ha ucciso prima che potesse farlo..." disse fredda Lucilla.

Gracco e Rea si scambiarono un’occhiata e il Senatore disse. "A dir la verità ci sarebbe un modo..."

Massimo, Lucilla e Quinto si voltarono a guardarlo e Gracco sorrise, domandandosi come mai un’esperta politica come Lucilla non vi avesse pensato da sola. "Se lui e l’Augusta Lucilla si sposassero, questo fatto legittimerebbe parecchio la scalata al potere del Generale agli occhi del popolo."

Massimo e Lucilla spalancarono gli occhi per lo stupore.

"Cosa?" chiese Massimo con un filo di voce.

"Un matrimonio dimostrerebbe inequivocabilmente che l’Augusta è dalla tua parte, Generale e che appoggia le tue azioni."

Massimo scosse la testa ma anche per un uomo digiuno di politica come lui, il ragionamento del senatore era molto chiaro. E tuttavia non riusciva ad accettarlo: aveva giurato di portare a compimento le ultime volontà di Marco Aurelio, ma questo era davvero troppo. Come poteva tradire la memoria di sua moglie sposando un’altra donna? Sapeva che sarebbe stata solo una manovra politica ma ciò nonostante... "E invece no! " disse una voce dentro di lui. "Non mentire a te stesso, Generale. Se fosse solo una mossa politica lo faresti senza problemi... ma non è così, vero? Tu provi ancora qualcosa per lei ed è questo che ti divora e che non riesci ad accettare."

Massimo chiuse gli occhi mentre la verità gli appariva finalmente chiara. Lui amava ancora Lucilla, l’aveva sempre amata. Ma aveva amato anche Selene e finché lei era stata viva quel sentimento aveva offuscato e attenuato quello che provava per Lucilla. Ma ora Selene non c’era più...

Una mano delicata si posò sul suo braccio e lo richiamò alla realtà. Massimo scrollò la testa, come a volersi schiarire le idee, quindi si guardò intorno, incrociando gli occhi Lucilla.

"Massimo, stai bene?" gli chiese Quinto e il Generale si accorse di avere su di sé lo sguardo di tutti i presenti.

"Scusate, mi sono perso nei miei pensieri."

"E’ comprensibile," disse Rea, l’unica persona in quella sala a sapere veramente che cosa avesse provato Massimo nel trovare la sua famiglia massacrata.

Lucilla guardò Massimo preoccupata, domandandosi che cosa stesse pensando. Quando Gracco aveva accennato ad un matrimonio tra loro due, il suo cuore le aveva fatto le capriole nel petto. Sposare Massimo... Quante volte aveva sognato una cosa del genere ma... ma...

Il Generale fissò Lucilla e disse: "Vorrei parlarti un attimo in privato."

Lei annuì ed i due uscirono insieme in giardino.

 

Dopo alcuni minuti passati a passeggiare Massimo ruppe il silenzio.

"Che cosa ne pensi?"

"Gracco e mia zia hanno ragione, un matrimonio tra noi due rafforzerebbe molto la tua posizione agli occhi del popolo."

Massimo smise di camminare e Lucilla fece lo stesso.

"E’ tutto?" le domandò, e la giovane donna ebbe la distinta impressione che fosse deluso.

Si guardarono fissi negli occhi e all’improvviso l’attrazione che avevano provato durante il loro precedente incontro tornò a manifestarsi. Fortissima. Inarrestabile. Incontrollabile.

I loro visi si avvicinarono e le loro labbra si toccarono in un bacio che ben presto divenne appassionato. Massimo attirò Lucilla tra le sue braccia e la tenne stretta, respirando il suo profumo e assaporando il suo calore.

Lucilla gli accarezzò i capelli e mormorò: "Quanto mi sei mancato, Massimo."

"Anche tu mi sei mancata," rispose lui con sincerità.

Si scostarono un poco l’uno dall’altro guardandosi dolcemente negli occhi. Massimo allungò un braccio, tracciando i contorni del viso di lei con un dito e Lucilla lo sorprese prendendo la sua mano e baciandola.

"Allora," gli disse con un misto di speranza e di timore, "andiamo dentro a dare la buona notizia?"

Massimo sorrise di rimando e, cintole la vita con un braccio, rispose. "Andiamo."

 

Quando rientrarono nel salone trovarono Rea, Gracco e Quinto seduti intorno ad un tavolo, immersi in una tranquilla conversazione. I tre congiurati si alzarono in piedi non appena li videro e si avvicinarono.

"Allora?" chiese Rea, dando voce alla curiosità di tutti.

"Ci sposeremo," annunciò Massimo solenne, ma il suo braccio intorno alla vita di Lucilla e il sorriso che increspava le labbra di entrambi facevano capire che la loro unione non era dettata solo da esigenze politiche: qualcosa di più profondo e più importante legava il generale alla principessa.

Gracco approvò con un sorriso. "Bene. Io suggerirei di procedere subito. Uno dei miei fratelli minori è sacerdote e abita non molto lontano da qui: potrebbe celebrare lui la cerimonia."

Massimo guardò Lucilla con aria interrogativa e lei annuì: il tempo era un lusso che non potevano permettersi e poi, perché aspettare se era quello che entrambi desideravano?

 

*****

 

Un’ora dopo Massimo Decimo Meridio e Annia Lucilla Vera divennero marito e moglie. Gracco e Quinto fecero da testimoni e Rea mise a disposizione gli anelli. La cerimonia fu breve ma molto sentita da tutti i partecipanti.

Lucilla e Massimo ricevettero le congratulazioni dei presenti ma non ci fu tempo per altri festeggiamenti: la notte era già calata da tempo e Lucilla sapeva di dover rientrare a Palazzo prima che il suo paranoico fratello si insospettisse.

Massimo le accarezzò il volto e mormorò: "Vedrai, andrà tutto bene: la prossima volta che saremo insieme niente e nessuno potrà separarci, te lo prometto."

Lucilla sorrise, gli diede un bacio fugace e poi si allontanò.

Quinto fece per seguirla ma Massimo lo trattenne per il gomito. "Abbi cura di lei e di suo figlio," gli disse.

Il Pretoriano annuì deciso. "Li proteggerò con la mia vita."

"Grazie amico."

Quinto annuì ancora e se ne andò, raggiungendo Lucilla e il resto dei suoi accompagnatori.

 

III

 

Il cavallo avanzava veloce sulla strada lastricata illuminata dalla luce lunare.

Massimo non aveva avuto problemi ad uscire da Roma, aiutato come promesso da Quinto, che al momento del cambio della guardia aveva ritardato l’arrivo delle nuove sentinelle, facendo sì che la porta est della città rimanesse incustodita per circa dieci minuti.

 

Il generale rallentò la sua cavalcatura: era in viaggio da più di un’ora e poteva vedere le prime costruzioni di Ostia stagliarsi all’orizzonte. Si guardò intorno e poi guidò l’animale fuori della strada e nella boscaglia, percorrendo la via più breve per raggiungere l’accampamento della sua legione.

 

*****

 

Il giovane uomo si fermò sotto un albero, si lasciò cadere a terra, poggiando la testa contro il tronco e si abbandonò ad un sospiro: era stanco morto eppure non riusciva a dormire. Il suo sguardo si posò sulla ordinata distesa di tende che lo circondava: l’accampamento sembrava addormentato ma egli sapeva che si trattava solo di calma apparente. Sarebbe bastato entrare in una qualsiasi delle tende dormitorio per sentire tensione che aleggiava tra i soldati, una tensione che presto sarebbe esplosa in qualche rivolta.

Cicero emise un fischio e subito Ares accorse a leccargli il viso segnato dalle cicatrici. Il giovane accarezzò il lupo e sospirò: da quando il generale Massimo era stato trascinato via e giustiziato, la sua vita, come quella degli altri soldati era cambiata e non certo in meglio. Il nuovo comandante era uno stupido incompetente, il figlio di un senatore che non aveva mai messo piede fuori dall’agro romano e che non sapeva trattare con legionari induriti da mille battaglie. Non aveva nemmeno provato a conquistarsi l’amore o per lo meno il rispetto della truppa, ma si limitava a mantenere la disciplina attraverso la paura di brutali punizioni, ma Cicero sapeva che non ci sarebbe riuscito ancora a lungo.

All’improvviso Ares drizzò l’orecchie ed annusò l’aria, dopodiché emise un guaito eccitato e corse via, sparendo tra i cespugli.

Cicero aggrottò la fronte ma non si mosse. "Avrà fiutato qualche volpe," pensò. Dopo alcuni minuti Cicero decise di tornare alla sua tenda per provare a dormire e chiamò il lupo, ma l’animale non si fece vedere. L’uomo imprecò sottovoce e decise di andarlo a cercare, inoltrandosi tra i fitti rovi. Aveva fatto solo pochi passi nel sottobosco quando scorse Ares, intento a leccare il viso di un uomo che a sua volta lo stava accarezzando. Cicero si arrestò di scatto: Ares era addestrato a combattere e non concedeva facilmente la sua fiducia; le uniche persone che gli avesse mai visto leccare erano lui stesso e il suo padrone, Massimo, che lo aveva trovato ed allevato fin da quando era un cucciolo.

In quel preciso momento il lupo fiutò la sua presenza e si voltò nella sua direzione, imitato dall’uomo che era con lui: il suo viso illuminato dalla luna divenne visibile e Cicero trattenne a stento un grido di gioia quando lo riconobbe.

"Generale!" esclamò correndogli incontro.

"Cicero, amico mio!" rispose Massimo abbracciandolo.

"Credevo fossi morto!"

"Quasi."

"Sei venuto a riprenderci, Generale?"

"Sì. Come sono gli uomini?"

"Grassi, molto annoiati e non sopportano quell’idiota che li comanda," rispose Cicero.

"Valerio è sempre in servizio?"

"Sì, per fortuna. Quando si è sparsa la notizia che la tua "improvvisa chiamata a casa" non era che una frottola per giustificare la tua sparizione e che in realtà Commodo ti aveva fatto uccidere, aveva deciso di chiedere il congedo, ma poi è rimasto a tenere calmi gli uomini e ad evitare uno scontro con i Pretoriani. Mi ha anche salvato la vita, prendendomi come suo attendente e proteggendomi da Commodo."

Massimo annuì: conosceva bene il senso del dovere che animava il comandante della fanteria.

"Puoi portarmi da lui?"

"Certo."

 

*****

 

Attraversare l’accampamento senza farsi notare risultò per Massimo un’impresa impossibile, la sua sagoma era così familiare che ben presto il generale si ritrovò circondato dai suoi uomini, riuscendo a stento a frenare il loro entusiasmo e farli stare zitti: c’era troppa gioia nell’aria e nei cuori di tutti i presenti.

Quando Massimo raggiunse infine la tenda di Valerio, trovò il robusto ufficiale già sveglio e vestito. I due uomini si scambiarono un forte abbraccio e poi Valerio disse: "Siamo ai tuoi ordini, Generale, devi solo dirci cosa vuoi che facciamo."

Massimo annuì e raccontò a Valerio e agli altri ufficiali radunatisi nella tenda ciò che era successo quella tragica notte in Germania, concludendo con: "Dobbiamo entrare a Roma e prenderne il controllo. Marco Aurelio non voleva che Commodo gli succedesse e io farò in modo che la sua volontà sia rispettata."

Tutti i legionari approvarono senza riserve: sapevano del grande amore e reciproco rispetto che avevano legato il defunto Cesare al loro Generale e desideravano far pagare a Commodo l’uccisione dell’augusto genitore e il tentato assassinio di Massimo.

Nel giro di pochi minuti furono organizzate delle squadre con il compito di isolare ed imprigionare il comandante della legione e i pochi uomini a lui fedeli. Una volta che questi furono al sicuro, Massimo riunì ancora i suoi ufficiali ed illustrò il suo piano. "Il Senatore Gracco ha indetto per domani pomeriggio una riunione straordinaria del Senato a cui parteciperà anche Commodo. Ad eccezione di Gracco e dell’Augusta Lucilla, nessuno sa che il motivo della convocazione è di dare pubblica lettura del testamento di Marco Aurelio, in cui egli annunciava la sua volontà di trasformare Roma di nuovo in una repubblica, sotto la mia supervisione. Sarà nostro compito evitare che Commodo possa fuggire e potremmo anche essere costretti a dover mantenere l’ordine in città."

"Ci sarà anche da combattere contro i pretoriani," intervenne Valerio, che come molti legionari non aveva simpatia per le guardie imperiali.

"Spero di no," gli rispose Massimo. "Quinto è dalla nostra parte e mi ha assicurato che gran parte dei suoi uomini seguirà i suoi ordini. A quanto pare il nuovo Cesare non è amato nemmeno dagli uomini che dovrebbero proteggerlo." Massimo fece una smorfia significativa. "Ora andate a riposarvi. Ci metteremo in marcia all’alba."

I vari ufficiali annuirono, salutarono ed uscirono dalla tenda. Massimo rimase in compagnia di Valerio e di Cicero, che gli disse: "Generale, vieni da questa parte: ti faccio vedere dove ti ho preparato un letto."

Massimo sorrise, salutò Valerio e seguì il suo attendente in un’altra tenda.

"Amico mio, sei impagabile," gli disse ammirando il suo alloggio.

Cicero sorrise, quindi prese la mano di Massimo, gli mise qualcosa tra le dita, e si allontanò in tutta fretta, sentendo che il Generale avrebbe voluto restare da solo nei momenti che sarebbero seguiti.

Massimo lo osservò uscire dalla tenda e posò lo sguardo sull’oggetto nel palmo della sua mano. Quando vide di cosa si trattava, la stanza iniziò a girare su se stessa e lui crollò sulla sedia più vicina. Massimo strinse il pugno e poi lo riaprì, estraendo dal piccolo sacchetto di cuoio le statuine di Selene e Marco.

Gli occhi gli si riempirono di lacrime mentre guardava ed accarezzava quei piccoli visi con la punta delle dita. "Presto, miei amati," sussurrò, "presto la vostra morte sarà vendicata e voi potrete vivere in pace nei Campi Elisi. E anche se io non potrò raggiungervi subito, state certi che vi avrò sempre vicino, nel mio cuore e nella mia mente."

Massimo baciò entrambe le statuine e si sdraiò sul letto, addormentandosi con le due figurine strette al petto.

 

IV

 

"Per gli dei!" La voce furiosa di Commodo riecheggiò nel palazzo imperiale. "Giuro che questa è l’ultima volta che quel vecchio borioso si permette di darmi degli ordini!"

"Stai calmo, fratello," cercò di ammansirlo Lucilla che in realtà era più nervosa di lui.

"Ah no, sorella. Questa volta Gracco ha passato ogni limite: convocare una riunione del Senato così all’improvviso e pretendere che io vi partecipi!"

"E’ un suo diritto come decano dei senatori, Commodo."

"Ancora per poco. Ho deciso Lucilla, è tempo di sciogliere il Senato. Il popolo mi ama e mi seguirà." Commodo sorrise crudelmente. "Sarà interessante vedere come reagiranno quei vecchi ammuffiti a vedersi togliere tutti i loro bei privilegi: niente più posti riservati e gratuiti a teatro o ai giochi, tasse più salate... Sono sicuro che per molti di loro questo sarà più sconvolgente che il non ricoprire più la carica." L’imperatore parve riacquistare il buon umore e si avvicinò a sua sorella, posandole un braccio sulle spalle e sussurrandole all’orecchio. "Vedrai come ce la caveremo bene, io e te, da soli alla testa dell’impero."

Lucilla fece un sorriso di circostanza. "Sarà così, Commodo."

Suo fratello annuì e domandò. "Dov’è Lucio?"

"E’ andato a passare un giorno con la zia Rea. L’altra sera aveva espresso il desiderio di stare un po’ di tempo con lui."

"Ah sì, me lo avevi detto. Quella donna sta diventando troppo noiosa."

"Via, Commodo, è solo una povera anziana malata e sola. E’ naturale che cerchi il conforto della sua famiglia."

"Hai ragione. E’ solo che mi dispiace non averlo affianco a me a vedere i giochi: gli piacciono così tanto!"

L’arrivo di Quinto impedì a Lucilla di fare ulteriori commenti.

"Cesare, il Senato è riunito e ti attende," disse Quinto dopo essersi inchinato.

Commodo annuì e si allontanò a grandi passi, senza accorgersi dell’occhiata d’intesa tra il Pretoriano e Lucilla.

 

*****

 

Commondo entrò nell’aula del Senato zittendo all’istante il clamore che vi regnava. I senatori si inchinarono e l’imperatore avanzò fino al centro della sala dove era collocata la sua sedia. Lucilla e Quinto lo seguivano da vicino.

"Allora Gracco," esordì Commodo con tono sprezzante, "che cosa c’è di così importante da dover convocare una seduta straordinaria?"

Nessuno rispose.

"Dove sei Gracco, giochi a nasconderti?"

Il senatore Gaio si fece avanti e disse. "Cesare, il senatore Gracco deve ancora arrivare."

"E’ in ritardo? Come osa essere in ritardo?! Pensa che io abbia tempo da perdere?" Commodo era furibondo ma la sua sfuriata fu interrotta dall’arrivo improvviso di un pretoriano.

"Cesare!" esclamò ansimando. "Un esercito ha varcato le porte della città e procede in questa direzione!"

"Cosa?!" esplose Commodo mentre i senatori si abbandonavano al caos.

"Sono dei barbari?" chiese Gaio al giovane soldato.

"No, signore. E’ una delle nostre legioni, la Felix per essere precisi."

Commodo iniziò a sudare freddo nel sentire il nome della legione. Erano gli uomini di Massimo e lui sapeva che essi non credevano alla voce fatta circolare che il loro Generale fosse tornato in Hispania da privato cittadino. La loro presenza in città non era di buon auspicio.

"Quinto!" urlò Commodo, mentre in lontananza si udì il rumore di decine di cavalli che percorrevano al trotto le strade di Roma.

"Cesare?"

"Ordina ai tuoi uomini di prepararsi ad un eventuale attacco e poi informati su che cosa vogliono quei legionari."

Il Pretoriano annuì e corse fuori dall’aula del Senato.

"Sorella," disse ancora l’imperatore, "stammi vicina."

Lucilla gli si avvicinò e gli prese la mano, mentre il suo corpo rimaneva teso, pronto allo scatto: se fosse stato necessario sapeva di doversi divincolare anche con la forza.

 

Ben presto il ritmico rumore causato dagli zoccoli sul selciato si fece più forte e più vicino finché all’improvviso non tacque.

Tutti i presenti nell’aula del Senato si guardarono l’un l’altro, scambiandosi occhiate interrogative e spaventate.

Fu in quel preciso momento che il Senatore Gracco fece il suo ingresso nel salone.

"Cesare, Augusta Lucilla, illustri colleghi, scusate il mio ritardo."

"Gracco!" ruggì Commodo. "Hai qualcosa a che fare con la presenza dell’esercito in città?"

"In verità sì, Cesare," rispose tranquillo il Senatore.

Commodo lasciò andare Lucilla - che si allontanò velocemente - e si avvicinò all’anziano politico.

"Spero per te che tu abbia una spiegazione valida per tutto questo."

"Ce l’ho, Cesare."

"Bene, mi auguro per te che sia molto buona, altrimenti non uscirai vivo da qui."

Gracco annuì. "Sei stato molto chiaro, Cesare. Ora, se per favore posso avere un po’ di silenzio, ho qualcosa da leggere."

Commodo fece un ironico gesto con la mano e tornò a sedersi.

Gracco si portò al centro della sala e disse: "Padri coscritti, vi prego di ascoltare attentamente poiché quelle che sto per leggere sono le ultime volontà del nostro defunto Cesare, Marco Aurelio."

Commodo impallidì nel sentire il nome di suo padre, ma prima che potesse dire o fare qualcosa, Gracco diede inizio alla lettura. Nella sala calò il più assoluto silenzio e la voce del senatore riecheggiò chiara e precisa:

 

"Io Marco Aurelio Antonino Augusto, Cesare ed Imperatore di Roma, Padre della patria...

...ordino che alla mia morte il posto alla guida dell’Impero sia preso da Massimo Decimo Meridio, comandante dell’Esercito del Nord e Generale delle Legioni Felix.

Ad egli io conferisco con questo documento il titolo di Protettore di Roma che egli potrà conservare a tempo indeterminato. Ad egli spetterà il compito di trasformare Roma da impero a repubblica..."

 

Quando ebbe finito Commodo, che era riuscito a stento a controllarsi durante la lettura dell’atto, esplose. "Quel documento è un falso!" urlò con una voce in cui era possibile individuare una crescente paura.

"No, Cesare, "gli rispose secco Gracco, "è autentico. Tua zia, l’Augusta Rea Aurelia Vera giura di aver visto Marco Aurelio scriverlo davanti a lei e io stesso ne ho esaminato ed autenticato i sigilli."

"E allora? E’ autentico. E con questo? A che cosa serve? Il Generale Massimo è morto e tu farai presto la stessa fine. Tu e tutti coloro che oseranno opporsi a me."

"Io non ne sarei così sicuro, principe," disse una voce profonda alle sue spalle.

Commodo ruotò su se stesso e si ritrovò faccia a faccia con il Generale Massimo Decimo Meridio.

L’imperatore cercò di parlare, ma la sorpresa e la paura gli tolsero la voce. Le sue labbra si mossero a vuoto mentre prendeva nota della presenza dell’odiato nemico da lui creduto morto.

Nell’aula del Senato era caduto un innaturale silenzio mentre gli occhi di tutti i presenti erano puntati sui due avversari.

Massimo fissava Commodo negli occhi senza alcun timore, caricando il suo sguardo con tutto l’odio e la rabbia che provava nei confronti dell’uomo di fronte a lui. Dentro di sé si sentiva calmo e concentrato, mentre con la mano accarezzava l’elsa della sua spada.

Commodo parve riacquistare il controllo di sé e urlò. "Guardie, arrestatelo! E’ un traditore!"

Nessuno si mosse.

"Quinto!" urlò ancora Commodo.

Il Pretoriano si mise al fianco di Massimo e disse: "Principe?"

"Ci sei dentro anche tu, eh? Una volta traditore, sempre traditore. Mi stupisco che il nostro Generale si fidi ancora di te," disse velenosamente Commodo, ma Quinto non reagì.

L’imperatore si allontanò da Massimo e si mise a camminare su e giù per la sala, agitando le braccia, mentre il Generale non lo perdeva di vista un solo secondo.

"Non crederai di riuscire a prendere il potere vero? Tu non sai niente di politica. Questi serpenti ti si rivolteranno contro subito e poi il popolo non ti accetterà mai. Vedrai, fratello, presto avrai tra le mani una bella rivolta!" Gli occhi di Commodo luccicarono in modo malato.

"Io non credo, Cesare, che il popolo ti ami poi così tanto, non dopo essere stato informato sui mezzi con cui ti stai procurando il denaro per finanziare i tuoi giochi," intervenne Gracco. "Inoltre, quando il popolo saprà che il Generale e l’Augusta Lucilla sono sposati accetterà senza problemi la sua salita al potere."

Commodo impallidì e si voltò verso Lucilla. "Sorella... tu... dimmi che non è vero..."

Lucilla lo guardò dritto negli occhi. "Mi dispiace Commodo, ma tu mi ci hai costretto."

Commodo si gettò su Massimo con rabbia, ma Quinto lo trattenne. "Tu, maledetto! Non ti è bastato soppiantarmi nel cuore di mio padre: dovevi portarmi via anche mia sorella!"

Commodo crollò sulla sua sedia, apparentemente senza più forze, schiacciato da un peso troppo grande da sopportare. Quinto ordinò a due pretoriani di tenerlo d’occhio.

Alcuni senatori, credendo che lo spettacolo fosse finito, iniziarono a parlare tra di loro, a muoversi qua e là e ad avvicinarsi a Massimo, già intenti a perorare le proprie cause con il nuovo signore di Roma.

A Massimo tutta quella confusione non piaceva: non era certo che Commodo fosse sconfitto e quello che accadde nei secondi successivi gli diede ragione.

Con una mossa fulminea Commodo afferrò uno dei pretoriani e lo sgozzò con un pugnale che aveva tenuto celato nella manica e poi si avventò su Lucilla, premendole la lama alla gola. "Fatemi uscire di qua o giuro che l’ammazzo," gridò con voce spiritata.

Lucilla guardò Massimo terrorizzata e il Generale si fece avanti. "Lasciala andare, non è lei che vuoi. Sono io. Tu vuoi batterti con me, vero? Vuoi farmela pagare per tutto quello che ti ho fatto. Beh, allora fallo: io sono qui."

Commodo lo fissò e spinse violentemente Lucilla, facendola cadere a terra ai piedi di Massimo. Il generale attese che sua moglie si rimettesse in piedi e si allontanasse e poi ordinò. "Quinto, dagli la tua spada."

Quinto spalancò gli occhi. "Ne sei sicuro?"

Massimo annuì: era così che doveva andare a finire. I suoi cari e Marco Aurelio dovevano essere vendicati e non ci sarebbe mai stata pace per lui, per Lucilla o per Roma finché Commodo fosse vissuto.

Commodo prese la spada e cominciò a girare intorno al suo avversario mentre attorno a loro si creava il vuoto. Massimo sguainò il gladio e attese. Commodo si lanciò all’assalto e il duello iniziò.

Le spade si incontrarono più volte sprigionando scintille mentre i due avversari si muovevano per tutta la sala.

L’imperatore sapeva che se voleva vincere doveva indurre Massimo a commettere qualche errore e così cercò di provocarlo, sperando di costringerlo ad una mossa avventata.

"Mi hanno detto che tuo figlio strillava come una femminuccia mentre lo inchiodavano alla croce, " gli disse con ferocia. "E che tua moglie gemeva come una puttana mentre la violentavano... ancora... e ancora... e ancora..."

Gli occhi di Massimo si riempirono di lacrime al pensiero della sofferenza provata dai suoi cari ma il suo addestramento militare fu più forte della rabbia ed egli resistette alla provocazione. Commodo fece una smorfia delusa e tornò all’attacco.

All’improvviso Massimo scivolò sul marmo e Commodo lo ferì ad un polpaccio.

Il Generale strinse i denti nel sentire l’improvviso dolore e Commodo gli sorrise crudelmente. "Che c’è, Massimo, stai diventando vecchio? Mia sorella ha fatto un pessimo affare a lasciarmi per te, ma io le dimostrerò di che pasta è fatto un vero uomo!"

Massimo si limitò a fissarlo e a raddoppiare i suo sforzi. La gamba gli faceva male ma questo, unito alla visione di Lucilla nelle grinfie del suo pazzo fratello, non fece che aumentare la sua determinazione. Una tempesta di colpi si abbatté su Commodo e alla fine il suo braccio non resse più: un colpo di gladio lo tranciò praticamente in due e lo uccise sul colpo.

Massimo guardò a lungo il corpo crollato ai suoi piedi, quindi abbassò il braccio e chinò la testa, respirando affannosamente. Era finita.

Nella sala cadde un innaturale silenzio che fu rotto dalla voce decisa del Senatore Gracco. "Ave, Massimo, Protettore di Roma."

Massimo sollevò la testa mentre tutti gli altri senatori ripetevano le stesse parole e chinavano la testa in segno di rispetto.

Una mano fresca gli sfiorò la guancia e i suoi occhi incontrarono quelli pieni di lacrime di gioia di Lucilla. Massimo l’attirò a sé e l’abbracciò forte. Probabilmente non era il comportamento più consono alla sua nuova carica ma in quel momento non gliene importava nulla. Aveva vendicato i suoi cari. Aveva vendicato Marco Aurelio. Lucilla, Rea e Lucio erano salvi. Tutto il resto era aria e polvere e niente di più.

 

EPILOGO

 

Massimo Decimo Meridio era nel mausoleo di Marco Aurelio, in piedi vicino alla tomba del grande imperatore. Quel giorno cadeva il secondo anniversario della sua morte.

"Padre," mormorò Massimo con voce carica di emozione, "il tuo sogno sta per realizzarsi. Se tutto andrà come previsto, entro la fine dell’anno Roma tornerà ad essere una repubblica."

Massimo sorrise immaginando il viso compiaciuto di Marco Aurelio.

Quanto a lui, il Protettore di Roma non vedeva l’ora di lasciare il suo incarico per tornare finalmente ad occuparsi delle sue terre, dei possedimenti di Lucilla e dei latifondi che il Senato aveva deciso di assegnargli quale ricompensa per il suo operato. Avrebbe avuto molto da fare e Massimo non vedeva l’ora di cominciare.

Sentì dei passi alle sue spalle e il suo sorriso divenne ancora più ampio: sapeva già di chi si trattava, prima ancora che un braccio delicato gli cingesse la vita.

"Allora, gli hai detto che tutto sta andando per il meglio?" gli chiese Lucilla, dandogli un bacio sulla guancia.

"Sì," rispose lui semplicemente, mettendole un braccio sulle spalle ed attirandola a sé.

"E gli hai detto anche che presto avrà un altro nipotino?"

"No, pensavo volessi dirglielo tu."

Lucilla sorrise nel vedere il volto felice di suo marito e poi si staccò dal suo abbraccio, avvicinandosi alla tomba e sfiorando il marmo con le dita, in una gentile carezza.

"Riposa in pace, mio amato padre. Anch’io sono in pace adesso. Non ho più paura né per me né per mio figlio e presto smetterò di occuparmi di politica per fare solo la moglie e la madre... Per questo io ti ringrazio, padre: è merito tuo, della tua previdenza, se ora posso vivere così serenamente." Lucilla chinò la testa e Massimo tornò accanto a lei, abbracciandola di nuovo.

Rimasero in silenzio per alcuni minuti, contemplando il volto di marmo di Marco Aurelio, finché Quinto non mise dentro la testa e schiarendosi la gola disse: "Massimo, mi dispiace disturbarti, ma il Senatore Gracco ti sta cercando."

Massimo scosse la testa e rivolse un sorriso esasperato a sua moglie: mai che si riuscisse a stare tranquilli per più di dieci minuti... Ma, ringraziando gli dei, presto sarebbe tutto finito.

Porse la mano a Lucilla che la prese, stringendogli le dita come a dire: "Forza e coraggio, andiamo a sentire cosa vuole Gracco," ed insieme uscirono dal mausoleo, pronti ad affrontare qualsiasi problema o questione si fosse loro presentata.

 

FINE

 

 

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