Storie de Il
Gladiatore
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Storie ispirate dal film Il Gladiatore |
Si Vis
Pacem Para Bellum
(Se vuoi la pace, prepara la guerra)
di Ilaria Dotti
Prima Parte: Aria e Polvere
"Più veloce,
più veloce!" ordinò la donna e il conducente del carro obbedì frustando i
cavalli.
Le colline di
Trujillo si estendevano a perdita d’occhio tutt’intorno, ma Rea non le vide
nemmeno, la sua attenzione concentrata su di un unico obiettivo.
Quando giunsero
al punto dove una strada privata si dipartiva da quella principale Rea alzò la
mano e subito il carro rallentò fino ad arrestarsi, imitato dai sei cavalieri
che costituivano la sua scorta.
Rea fissò la
colonna di fumo nero e denso, troppo alta per essere originata da un falò e
mormorò, "Siamo arrivati troppo tardi."
La comitiva
imboccò il viale e lo percorse lentamente. Ben presto gli ordinati vigneti e i
lussureggianti campi di grano e orzo lasciarono posto alla terra bruciata e
agli scheletri di poveri alberi ancora avvolti dalle fiamme. Qua e la erano
visibili le forme contorte e carbonizzate di alcuni cadaveri. Rea si sentì
invadere dallo sconforto, mentre lei e i suoi uomini avanzavano tra quello
scenario di morte e distruzione. Il fronte dell’incendio era troppo vasto per
essere stato causato da un focolaio lasciato incustodito e la posizione di
alcuni cadaveri faceva intendere che quelle persone erano già morte prima che
le fiamme li avviluppassero.
L’attenzione di
Rea fu attratta dalla carcassa di un cavallo. La povera bestia giaceva su di un
mucchio di sabbia, in una zona annerita dalle fiamme, ma essa era ancora
integra, segno che l’animale vi era stramazzato dopo che il fuoco aveva
distrutto quel campo. Il sauro recava tutti i segni di essere morto di
sfinimento, il manto ricoperto da sudore secco come se qualcuno lo avesse
spinto al limite delle sue forze per raggiungere quella casa...
Un brivido le
corse per la schiena nonostante il tremendo calore che la circondava e Rea
ordinò ai suoi uomini: "Sparpagliatevi e cercate ovunque: potrebbe esserci
qualche superstite."
"Come
desideri, domina," risposero i servitori e si
allontanarono.
La donna fece
cenno al conducente del carro di avanzare fino alla piccola altura dove,
circondata da alti pioppi, sorgeva la villa padronale... o almeno quello che ne
era rimasto: travi bruciate, un camino, i muri maestri.
Rea chinò la
testa e si asciugò le lacrime con un gesto quasi di rabbia. Conosceva bene la
gente che abitava in quella villa, anche se non li aveva mai incontrati. Le
parole di suo fratello avevano fatto sì che quella famiglia sconosciuta
entrasse a far parte della sua vita e ora sia lui sia loro erano morti...
Un grido
interruppe le sue riflessioni. "Domina,
abbiamo trovato un uomo ancora vivo!"
Rea sollevò di
scatto la testa e senza attendere l’aiuto del conducente scese dal carro.
Sollevate con le mani i bordi della sua tunica avanzò con rapidità verso il
punto da cui era provenuto il grido.
Ciò che vide le
fece stringere il cuore.
Il corpo dell’uomo
giaceva sdraiato a pancia sotto vicino a due mucchi di terra che avevano tutta
l’aria di essere due sepolture. L’uomo sembrava voler abbracciare le due
montagnole, che Rea notò essere l’una più piccola dell’altra, come se
ricoprisse il corpo di un bambino... Due piccoli mazzi di fiori viola erano
stati posati amorevolmente sulla sommità dei cumuli.
Rea si avvicinò
all’uomo, notando la sua tunica rosso scuro, e si chinò su di lui, posandogli
una mano sul collo. Il battito cardiaco era affrettato e la pelle era calda e
umida. Spostò la mano a toccargli la fronte e poi disse ad uno dei suoi
accompagnatori: "Quest’uomo ha la febbre alta; fai venire qua il carro,
dobbiamo portarlo via il più in fretta possibile." Il servo annuì e si
allontanò di corsa.
Rea si rivolse ad
un altro dei suoi accompagnatori. "Aiutami a voltarlo."
Quando l’uomo
svenuto fu girato sulla schiena e Rea lo poté guardare in viso capì subito di
chi si trattasse. Non lo aveva mai visto prima, ma sapeva di stare fissando il
volto del generale Massimo Decimo Meridio. Le descrizioni di suo fratello e la
sua tunica da soldato lo rendevano inconfondibile.
Mentre lo fissava
Rea si chiese quale fosse la causa della sua febbre... finché non notò lo
strappo della tunica lungo la manica sinistra. Scostò il tessuto con
delicatezza ed un’esclamazione inorridita le sfuggì dalle labbra quando vide la
brutta ferita localizzata un poco più in alto del tatuaggio SPQR che tutti i
legionari recavano vicino alla spalla. La ferita era infetta e sporca di terra
e fuliggine, come del resto tutto il suo corpo.
Le mani, in
particolare erano in condizioni pietose: gonfie, lacerate, con le unghie
spezzate. Era tristemente evidente che il Generale aveva scavato le tombe dei
suoi cari a mani nude, prima di crollare svenuto su di esse.
In quel mentre
arrivò il carro e il corpo del Generale vi fu caricato con delicatezza sotto lo
sguardo attento di Rea. La donna montò a sua volta sul veicolo e si sistemò a
fianco al ferito.
"Due di voi
rimangano qui e diano degna sepoltura a questa povera gente," disse ai
suoi servi. Poi si rivolse al conducente del carro. "Torniamo a casa di
corsa."
L’uomo annuì e
frustò i cavalli.
La notte era
calata da qualche tempo e la grande villa era addormentata.
Rea si avvolse
uno scialle sulle spalle e percorse i pochi metri che separavano la sua camera
da quella dove era alloggiato l’uomo che lei era certa essere il generale
Massimo Decimo Meridio.
Aprì la porta
senza fare rumore e si avvicinò al letto.
Il ferito giaceva
supino, il suo sonno finalmente tranquillo dopo quattro notti e tre giorni
passati ad agitarsi e ad urlare in preda al delirio.
Rea controllò la
fasciatura al braccio sinistro e si ritrovò a sorridere: Galeno, suo medico
personale e suo amico, era stato bravissimo, non solo a salvare la vita del
soldato ma anche e soprattutto a riuscirci senza dover ricorrere all’amputazione
del braccio. Galeno era rimasto al fianco del ferito notte e giorno, fino a che
quel pomeriggio non le aveva annunciato con un sorriso stanco ma soddisfatto
che l’infezione era stata debellata... Dopo di che l’aveva salutata ed era
andato a dormire.
Rea si sedette
accanto al letto e passò una mano tra i capelli del malato.
"Dimmi,
Generale, che cosa ti è successo? Perché sei corso qui dalla Germania con tanta
urgenza da uccidere il tuo cavallo nello sforzo? Come facevi a sapere che la
tua famiglia era in pericolo?"
L’uomo non
rispose, ma del resto lei non si era aspettata che lo facesse. La sua curiosità
avrebbe dovuto attendere, anche se si era già fatta un’idea di quello che
poteva essere successo tra le fredde foreste del nord....
Rea chinò la
testa e in quell’atmosfera tranquilla trovò alla fine il tempo di piangere suo
fratello, cosa che non era ancora riuscita a fare: da quando i Pretoriani le
avevano dato l’annuncio della sua morte lei non aveva più avuto un attimo di
pace, fino a quel momento, in quella camera buia, vicino all’uomo che Marco
aveva sempre considerato come un figlio.
*****
Massimo Decimo
Meridio uscì piano piano dall’incoscienza attirato da uno strano suono. La sua
mente annebbiata impiegò qualche minuto a rendersi conto che si trattava di
qualcuno che stava piangendo vicino a lui. "Chi
è? Perché piange?" pensò stancamente. Quindi aprì gli occhi.
Intorno a lui
regnava l’oscurità della notte, rotta solo dai raggi lunari che filtravano
dalla finestra. Massimo si guardò intorno. Quella stanza gli era sconosciuta...
dove si trovava? Che cosa era successo? Un movimento alla sua destra attirò la
sua attenzione e lui voltò la testa. Quel piccolo gesto gli costò una fatica
spropositata ma gli permise di vedere la persona che gli era accanto.
Si trattava di
una donna dai lunghi capelli castani striati di grigio. Massimo aggrottò la
fronte e si chiese "Chi è?"
Quindi chiuse di nuovo gli occhi e si sforzò di ricordare.
*****
Rea sollevò la
testa e si asciugò le lacrime dal viso. Non sapeva per quanto tempo avesse
pianto, ma ora si sentiva meglio, anche se era esausta.
Si alzò dalla
sedia, sistemò meglio il lenzuolo sul petto del ferito e mormorò.
"Riprenditi presto, Generale, non vedo l’ora di conoscerti. Mio fratello
mi ha parlato molto di te."
Dopo di che si
voltò e fece per andarsene ma una debole voce l’arrestò all’istante.
"Fratello?"
Rea ruotò su se
stessa e tornò affianco del letto. I suoi occhi incontrarono quelli del ferito
e lei sorrise. "Bentornato tra noi Generale!"
"Generale? Ah, sì è vero sono un generale." Massimo pensò, mentre la
donna si chinava su di lui, dandogli la possibilità di osservarla meglio.
Doveva avere almeno una cinquantina d’anni ma il suo viso conservava ancora
delle tracce della bellezza che doveva essere stata da giovane. I suoi
lineamenti erano fini, aristocratici e i suoi occhi dovevano essere chiari,
anche se era difficile dirlo nell’oscurità della stanza.
"Come ti
senti?" chiese lei.
Massimo rispose
con sincerità, "Confuso. Dove sono? Chi sei tu?" la sua voce si era
fatta più forte, ma mancava del timbro deciso che normalmente la
contraddistingueva.
"Ti trovi in
Hispania, Generale Massimo, e io sono Rea Aurelia Vera, sorella dell’imperatore
Marco Aurelio." Rea sperava che le sue parole avrebbero aiutato Massimo a
debellare la sua confusione ma il risultato fu diverso.
Il Generale
aggrottò la fronte e disse "Marco Aurelio? Chi è? E che cosa ci faccio in
Hispania? Dovrei essere in Germania, a combattere i barbari... Come sono
arrivato qua? Che cosa mi è successo?" La sua voce si era fatta ansiosa e
lui guardò Rea mentre i suoi occhi si riempivano di terrore. "Perché non
riesco a ricordare?"
Rea strinse i
denti. Che cosa stava succedendo? Cercò di tranquillizzarlo come meglio poteva.
"Sei stato ferito ad un braccio e hai avuto la febbre alta per molti
giorni. Probabilmente è per questo che non riesci a ricordare, la tua mente è
ancora sconvolta dal delirio." Rea si interruppe e vide che le sue parole
avevano avuto l’effetto sperato: il viso del Generale si era rilassato e lui
annuì rassicurato. Quella donna aveva ragione. Doveva aver ragione.
"Sono così
stanco," mormorò, "e la testa mi duole molto."
Rea sorrise e prese
una coppa dal comodino. "Questo ti aiuterà," disse e aiutò Massimo a
bere il decotto che Galeno aveva lasciato pronto nel caso il Generale avesse
ripreso i sensi.
Massimo vuotò il
contenuto della coppa e poi riadagiò la testa sul cuscino.
La pozione ebbe
un rapido effetto e nel giro di pochi minuti si riaddormentò.
Rea rimase a
fissarlo, preoccupata per la sua amnesia, chiedendosi se il prolungato delirio
non avesse danneggiato la sua mente. La donna alzò gli occhi al cielo e mormorò
una preghiera agli dei affinché guarissero Massimo. Il sogno di suo fratello e
il destino di Roma erano nelle sue mani.
"Dimmi
Galeno, com’è possibile che un uomo possa ricordare il suo nome e niente
altro?" domandò Rea mentre insieme al medico osservava Massimo passeggiare
per il giardino della villa. Erano passati quattro giorni dal suo risveglio e
Galeno gli aveva consigliato di stare all’aria aperta il più possibile, per
godere dei benefici effetti del sole.
"La mente
dell’uomo cela più misteri dei profondi abissi, Rea," le rispose il suo
amico, un uomo alto e distinto con un marcato accento greco. "Però, se
vuoi la mia opinione, io credo che l’amnesia del Generale sia
auto-indotta."
"Cosa?"
esclamò stupita la nobildonna.
"Oh, lui non
lo sta facendo di proposito, è la sua mente, la parte più nascosta della sua
anima che non vuole ricordare."
"Ma
perché?"
"Non è
difficile formulare un’ipotesi. Tu stessa mi hai detto di averlo trovato
svenuto vicino alle tombe di sua moglie e suo figlio... Io credo che lui non
voglia ricordare questi eventi perché non vuole affrontare il dolore che ad
essi si accompagna. La sua disperazione deve essere così grande che il suo
cervello si rifiuta di accettarla, e così ha approfittato della malattia per
cancellare la tragedia dalla sua memoria."
Rea annuì, la
cosa aveva senso. "Per quanto tempo potrà durare questa situazione?"
Galeno scosse la
testa. "E’ difficile fare delle previsioni in questi casi ma secondo me
non durerà ancora per molto. Ricordi così brutti non possono essere cancellati
e presto riaffioreranno. Le sue continue emicranie e i suoi incubi notturni ne
sono la prova. Presto o tardi un suono, una parola, un profumo o qualche
oggetto familiare faranno scattare in lui qualcosa e allora tutto gli tornerà
in mente."
Rea annuì ancora.
"Speriamo che succeda presto. Roma ha bisogno di lui."
Galeno le lanciò
un’occhiata curiosa ma lei non aggiunse altro.
*****
Massimo stava
camminando per il giardino, cercando di rilassarsi e di scacciare il mal di
testa che da giorni era il suo inseparabile compagno. Il Generale si sentiva
stanco e confuso e con le passeggiate cercava invano di trovare un po’ di pace.
La sua amnesia lo teneva in uno stato di continua preoccupazione. Galeno lo
aveva rassicurato dicendogli che si trattava di una cosa temporanea ma a
Massimo la cosa non piaceva lo stesso e lui passava ore a sforzarsi di
ricordare.
Mentre stava
ammirando la bella fontana che si trovava nel cortile, un odore dolciastro,
molto particolare, raggiunse le sue narici portato dal vento e lui si fermò ad
annusare meglio l’aria.
Quell’odore era
familiare... era profumo di gelsomino. Massimo sorrise: il gelsomino gli faceva
sempre pensare a casa sua. Casa sua?
Il Generale lanciò un’occhiata alla grande villa grigia e seppe con certezza
che quella non era casa sua. La sua villa era più piccola, più semplice, in
pietra rosa...
L’immagine si
formò chiara nella sua mente per essere però subito sostituita da altre: muri
diroccati ed anneriti dal fumo... travi incenerite... cadaveri carbonizzati
dalle forme contorte... due corpi inchiodati a delle croci... Selene... Marco...
I ricordi
piombarono su di lui come l’onda di un fiume in piena e Massimo si sentì
sopraffare dal dolore mentre tutto gli tornava alla mente: l’ultima
conversazione con Marco Aurelio, la morte dell’imperatore, il tradimento di
Quinto, la sua corsa forsennata attraverso la Germania e la Gallia, la scoperta
della sua famiglia trucidata...
Massimo crollò in
ginocchio, urlando al mondo e agli dei la sua disperazione. Le lacrime presero
a scorrere copiose sul suo viso e il nodo alla gola si fece così stretto che
respirare divenne quasi impossibile.
Una piccola
folla, Rea e Galeno inclusi, si radunò subito attorno a lui, richiamata dal suo
urlo animale e Massimo si sentì soffocare. Via, doveva andare via da lì... doveva
tornare a casa. Si alzò in piedi, si guardò attorno con occhi spiritati e poi
corse alle scuderie. Infilò la testiera al primo cavallo che vide, gli saltò in
groppa e lo lanciò subito al galoppo.
Doveva andare a
casa... a casa.
Rea e Galeno
guardarono con occhi preoccupati Massimo allontanarsi e sparire tra gli alberi.
Appariva chiaro ad entrambi che il Generale avesse riacquistato la memoria. I
due amici si scambiarono uno sguardo.
"Che cosa
possiamo fare? Che cosa dobbiamo fare?" domandò Rea al medico.
"Credi che
stia andando a casa sua?"
"Penso di
sì, in quale altro posto potrebbe andare?"
"Allora
sarebbe meglio che qualcuno andasse a controllare che non commetta qualche atto
irreparabile."
Rea annuì e disse:
"Andrò io."
"Rea..."
iniziò Galeno.
"Non cercare
di fermarmi: mio fratello amava quell’uomo come un figlio e io non permetterò
che gli accada qualcosa." E così dicendo si diresse rapidamente verso le
scuderie.
Massimo si aggirò
tra le rovine di quella che era stata la sua casa barcollando come un ubriaco.
La sua mente
sconvolta notò che mani pietose avevano raccolto e seppellito i corpi dei suoi
servi, sottraendoli ai denti dei predatori. Raggiunse il grosso pioppo sotto
cui aveva seppellito Selene e Marco e si inginocchiò, accarezzando dolcemente i
due cumuli di terra. I suoi occhi erano asciutti - non aveva più lacrime da
versare - e il suo cuore era sprofondato in un abisso di dolore. L’unica cosa
che voleva era raggiungere sua moglie e suo figlio e trovare con loro la pace
che era certo non avrebbe mai più trovato in questa vita.
Un rumore
improvviso ruppe l’innaturale silenzio che lo circondava. Massimo girò la testa
e vide la donna che lo aveva aiutato. Era alle sue spalle, e lo fissava
gravemente.
"Che cosa
fai qui?" le chiese con una voce che non riconobbe come la sua.
"Sono venuta
a controllare che tu non commetta qualcosa d’irreparabile," rispose lei
con voce pacata.
"Non vuoi
che mi uccida, eh? Non avrei bisogno di farlo, se tu mi avessi lasciato dove mi
hai trovato. L’infezione avrebbe fatto il suo corso e tutto sarebbe finito in
poco tempo."
"Forse. O
forse no. I mercanti di schiavi nord africani si aggirano spesso da queste
parti e se ti avessero trovato loro, chi può dire che cosa sarebbe stato di
te?"
Massimo scrollò
le spalle. Che cosa gliene importava di quello che avrebbe potuto succedergli?
Lui era morto nel momento in cui aveva scoperto i suoi cari bruciati e
crocifissi. Tutto il resto, la casa, la sua fama, la sua vita, non erano altro
che aria e polvere, nulla di più.
Il Generale voltò
la testa, "Ti ringrazio per ciò che hai fatto per me ma ora lasciami
solo."
"Solo se mi
prometti che non commetterai qualche sciocchezza," rispose Rea decisa.
Massimo si alzò
di scatto, invaso dalla rabbia. "Ma che t’importa di me?" urlò.
"Mio
fratello ti amava e io non permetterò che ti succeda qualcosa, non me lo
perdonerei mai."
"Tuo
fratello?"
"Marco
Aurelio, non ricordi? Ne abbiamo parlato subito dopo il tuo risveglio." La
voce di Rea era calma, suadente.
Massimo annuì,
ricordando. Marco Aurelio gli aveva parlato spesso di sua sorella, durante le
loro innumerevoli conversazioni durante le lunghe notti germaniche. Al pensiero
dell’imperatore Massimo si sentì invadere dalla colpa... Non era riuscito a
salvarlo, come non era riuscito a salvare la sua famiglia.
"Come fai a
sapere che è morto?"
"Una squadra
di Pretoriani è venuta ad avvisarmi..." Rea si morse le labbra, indecisa
se continuare o no, poi proseguì. "Io temo che fossero gli stessi uomini
mandati a compiere questo scempio."
Massimo annuì
ancora e poi chiese: "Tu sapevi che questa è... era la mia casa?"
"Sì, Marco
Aurelio me la indicò l’ultima volta che venne a trovarmi, circa un anno fa.
Quando i pretoriani mi hanno annunciato la sua morte e mi hanno recato i saluti
del nuovo imperatore ho capito che c’era qualcosa che non andava e conoscendo
Commodo, mi sono precipitata qui... Purtroppo era troppo tardi."
Massimo la guardò
e domandò, incuriosito suo malgrado: "Perché sei venuta qui? Perché sapevi
che c’era qualcosa che non andava?"
"Perché io
sapevo che Marco non voleva che Commodo gli succedesse - aveva in mente un
altro uomo come erede." Rea si interruppe un istante e guardò la sua
reazione. "Il fatto che invece mio nipote fosse sul trono e che una
squadra di venti pretoriani fosse da queste parti era la prova evidente che
qualcosa era andata storta nei progetti di mio fratello."
Massimo la
guardò, mentre l’indifferenza tornava ad avvolgerlo come un manto. Quella donna
sapeva, ma che importanza poteva avere?
"Lasciami
solo," le intimò ancora una volta e si allontanò.
Massimo camminò
fino al frutteto, che le fiamme avevano miracolosamente risparmiato. Lì,
fissata al ramo di un melo, vide l’altalena che aveva costruito per suo figlio
l’ultima volta che era stato a casa. Era molto semplice, due funi fissate ad un
asse di legno ma per Marco era stato un dono speciale perché suo padre gli
aveva permesso di aiutarlo mentre la costruiva. Massimo sorrise, ricordando la
gioia del suo bambino quando era salito sull’altalena per la prima volta, e
sfiorò una delle corde con mano amorevole. Sarebbe stato così facile staccarla
dall’asse, farne un cappio, avvolgersela intorno al collo e farla finita con il
mondo e con il suo dolore. Ma Massimo sapeva che non l’avrebbe fatto, che non
poteva farlo. Qualcosa in lui glielo impediva. Non era mai stato un codardo e
non avrebbe incominciato ad esserlo proprio adesso.
Onore.
Dovere.
Sua moglie, suo
figlio, Marco Aurelio stesso erano morti per onore e per dovere... Non poteva
permettere che il loro sacrificio fosse stato vano. Non poteva permettere che
Commodo continuasse a regnare e condannasse altre persone al dolore e alla
disperazione a cui aveva condannato lui. No, non poteva permetterlo e non
glielo avrebbe permesso. Il soldato dentro di lui rialzò la testa. Era stanco,
amareggiato, ferito e disperato ma non era battuto. Avrebbe lottato fino alla
fine, con tutte le sue forze.
"Io servirò sempre Roma." Quelle parole presero a riecheggiargli
nella mente mentre con passo deciso si diresse verso il luogo dove aveva
lasciato il cavallo.
Rea era lì ad
attenderlo insieme al conducente del suo carro. Lo vide avvicinarsi, il passo
cadenzato, il portamento fiero, lo sguardo indurito.
"Andiamo
via." le disse, le ordinò. "Qui non c’è più niente per me." E si
allontanò senza più voltarsi indietro.
Rea annuì e lo
seguì.
Quella sera dopo
cena Massimo e Rea si chiusero nella biblioteca, ordinando ai servi di non
disturbarli per nessuna ragione.
Dopo alcuni
attimi di silenzio in cui si fissarono negli occhi come per valutarsi a vicenda
Rea esordì: "Come è morto mio fratello?"
"Commodo lo
ha ucciso. Probabilmente lo ha soffocato," rispose Massimo, la voce priva di emozione, il volto una maschera
inespressiva.
Rea sospirò.
"Sospettavo che fosse successa una cosa del genere. Perché ha fatto
uccidere la tua famiglia?"
"Perché ho
rifiutato di giurargli fedeltà." Ancora una volta la sua voce risultò
fredda e impersonale.
"Oggi
pomeriggio, quando ho accennato al fatto che Marco Aurelio avesse scelto un
altro uomo come erede, non ho visto alcuna sorpresa sul tuo volto. Posso
dedurne, Generale, che mio fratello ti avesse detto che tu eri quell’uomo?"
Massimo annuì.
"Me lo disse il giorno in cui morì."
"E tu cosa
gli rispondesti?"
"Che avevo
bisogno di tempo per decidere."
"Ma non hai
avuto il modo di comunicargli la tua decisione, non è vero?"
"Esatto."
"E quale
sarebbe stata la tua decisione?"
Massimo strinse
gli occhi. "Avrei fatto ciò che Cesare mi aveva chiesto di fare."
"E ora che
Cesare è morto?"
"Lotterò
affinché le sue ultime volontà siano esaudite. E’ il mio dovere."
Rea annuì,
approvando le sue parole anche se dentro di sé sentiva che c’era qualcosa che
non andava nel comportamento del Generale. Nelle sue lettere Marco Aurelio le
aveva sempre descritto Massimo come un uomo dalle profonde emozioni e dai forti
sentimenti. Un uomo che non aveva paura di mostrare ciò che provava. Ma quella
descrizione non si adattava all’uomo seduto di fronte a lei: nei suoi occhi e
nel suo viso non c’era alcuna traccia di quei sentimenti. Ma forse, considerata
la tragedia che aveva appena subito, quel comportamento, quell’assenza di
emozioni era prevedibile e naturale.
Rea tornò al
presente "E come pensi di riuscirci Generale?"
"Non lo so
ancora, ma so che servirò sempre Roma, in un modo o nell’altro. Marco Aurelio
mi disse che Commodo non poteva regnare, che non doveva regnare... E non
regnerà." Gli occhi del Generale fiammeggiarono pieni di rabbia.
"Bene, io ti
aiuterò."
Massimo la guardò.
"Mi aiuterai anche se questo comporterà la morte di tuo nipote? Perché io
lo ucciderò, fosse l’ultima cosa che faccio."
Rea annuì decisa.
"Anch’io, come te e mio fratello ho sempre servito Roma. L’ho servita
sposando un uomo che non amavo affinché il trono di Marco fosse più sicuro e la
servirò liberandola da un tiranno. Anche se si tratta di un membro della mia
famiglia." Detto questo la donna si alzò e si avvicinò ad uno scrittoio
dove era posato un piccolo porta gioielli. Rea tirò fuori una chiave che teneva
legata al collo come un ciondolo e aprì il cofanetto, estraendone una lettera
sigillata. Poi tornò a sedersi e continuò. "Quando Marco venne a trovarmi
per l’ultima volta, aveva già deciso che Commodo non avrebbe dovuto succedergli
e che tu eri l’uomo destinato a prendere il suo posto. Come ben sai mio
fratello era un uomo previdente e nell’eventualità che potesse succedergli
qualcosa, prima di partire per tornare in Germania, mi lasciò in custodia questa
lettera con l’incarico di consegnartela."
E senza
aggiungere altro gliela mise il mano.
Massimo ruppe i
sigilli e spiegò due fogli di papiro, vergati con la calligrafia chiara e
precisa dell’imperatore, sfiorando con la punta delle dita i segni lasciati da
quelle vecchie e sagge mani.
Poi cominciò a
leggere il primo foglio.
Mio caro Massimo,
quando riceverai questa lettera io sarò morto. La
mia speranza è che prima di morire io abbia avuto la possibilità di parlarti di
persona e che queste righe non siano più necessarie, ma se così non fosse,
spero che quanto segue possa aiutarti a portare a compimento l’ultimo incarico
che voglio affidarti.
Amico affettuoso e suddito leale, spero che tu
sappia quale conforto sia stato per me l’averti avuto accanto in tutti questi
anni e sono certo che in questo momento tu stia piangendo per me. Non farlo,
Massimo, ma invece gioisci: il posto
dove mi trovo ora è sicuramente più tranquillo e pacifico del mondo che ho
lasciato e qui potrò dedicare più tempo alla mia amata filosofia. Guidare Roma
e l’impero sono stati il mio onore e il mio onere per vent’anni e io ho sempre
cercato di fare ciò che era giusto per il bene del mio popolo, per quanto
difficile o doloroso fosse. E ora che sento avvicinarsi la fine, sempre più spesso
sento in me l’ansia per il futuro.
Oh, non ho paura di morire. La morte sorride a
tutti, un uomo non può far altro che sorriderle di rimando. No, quello che mi preoccupa è il futuro di Roma
dopo che me ne sarò andato. E’ la corruzione che vi si è diffusa che mi
preoccupa, che mi angustia, che non mi lascia dormire la notte. La corruzione
deve essere fermata o l’impero sarà roso dall’interno, come un pezzo di legno
dai tarli. Ormai da qualche tempo mi sono reso conto che mio figlio Commodo non
potrà cambiare questo stato di cose perché lui stesso è corrotto e nel modo
peggiore, nella sua anima. La colpa di ciò è mia, non sono stato un buon padre:
ho servito Roma sacrificando la mia famiglia sull’altare del dovere e ora ne
sto pagando il prezzo. Lucilla è diventata una donna forte e giusta anche senza
il mio aiuto ma disgraziatamente è una donna e suo figlio Lucio è solo un
bambino, e io non posso scaricare su di loro il peso del potere e dell’inevitabile
scontro con Commodo.
No, Massimo, c’è solo una persona che può riuscire
nell’impresa di sconfiggere la corruzione e quella persona sei tu.
Tu sei forte, giusto, nobile nel cuore e nello
spirito. Non ti chiedo di diventare imperatore, so che per te non sarebbe un
onore ma una condanna. No, ti chiedo di diventare il Protettore di Roma dopo la
mia morte e di sovrintendere alla sua trasformazione da Impero a Repubblica
cosicché il potere possa tornare al popolo. Una volta che il potere sarà
nuovamente nelle mani del Senato, tu potrai tornare dalla tua famiglia.
Ti prego Massimo, ascolta questa mia supplica, tu
sei l’unico di cui mi fido. Ti prego di servire ancora Roma come hai fatto per
tutta la vita. So che quello che ti chiedo è tanto, forse troppo, ma ti prego
in ginocchio, accetta quest’ultimo incarico, solo così la mia anima avrà la
pace che cerca.
Che gli dei ti assistano e ti aiutino sempre.
Ad in perpetuum ave atque vale, figlio mio.
Marco Aurelio Antonino
Massimo ripiegò
il foglio e lo ripose poi si concentrò sul secondo papiro che al contrario del
primo non era una lettera ma un documento pubblico redatto con tutti i crismi
dell’ufficialità.
Esso diceva:
Io, Marco Aurelio Antonino Augusto, Cesare ed
Imperatore di Roma, Padre della patria, con questo documento ordino che alla
mia morte il posto alla guida dell’Impero sia preso da Massimo Decimo Meridio,
comandante dell’Esercito del Nord e Generale delle Legioni Felix.
Ad egli io conferisco, con quest’atto, il titolo
di Protettore di Roma che egli potrà conservare per un tempo indefinito. Ad
egli spetterà il compito di trasformare Roma da impero a repubblica. I tempi e
le modalità di questa trasformazione saranno a sua unica discrezione e il
Senato dovrà seguire le sue direttive.
Egli avrà inoltre il completo controllo dell’esercito
e chiunque dovesse osare ribellarsi alla sua autorità dovrà essere considerato
un traditore della Patria.
Ai membri della mia famiglia spetteranno tutti i
miei possedimenti personali ed una congrua parte di quelli imperiali e la
possibilità di mantenere i propri titoli ma non potranno avanzare alcuna
pretesa sul trono.
Queste sono le mie volontà per il bene di Roma, da
sempre il mio unico pensiero e scopo di vita.
Affido quest’atto nelle mani di mia sorella Rea
Aurelia Vera affinché lo consegni nelle mani del Generale Massimo Decimo
Meridio in caso di mia morte improvvisa.
Che gli Dei proteggano sempre Roma.
Hispania, anno 932 ab Urbe condita, terzo giorno
prima delle calende di ottobre.
Massimo sollevò
lo sguardo e passò il foglio a Rea che lo lesse velocemente. I due si
scambiarono una occhiata.
"Dobbiamo
rientrare a Roma il più presto possibile e mostrare questo documento al Senato,
prima che Commodo possa conquistarsi il favore del popolo," disse il
Generale.
"Darò
immediate disposizioni per la partenza. Io di solito trascorro in Hispania
tutta l’estate ma, viste le circostanze, nessuno si stupirà del mio ritorno
improvviso."
Massimo annuì
approvando, poi si alzò e andò alla finestra. Guardando fuori, alzò lo sguardo
verso il cielo e pensò: "Padre, il
tuo sogno non morirà con te, te lo giuro."
I
Il grande
mausoleo era freddo nonostante il clima fosse mite. Rea percorse il pavimento
di marmo verde fino ad arrivare davanti alla tomba più recente, dove erano
conservati i resti mortali di suo fratello, l’imperatore Marco Aurelio.
Inginocchiatasi davanti ad essa cominciò a pregare.
Un rumore alle
sue spalle attirò la sua attenzione e lei voltò lentamente il viso.
C’era qualcuno
con lei nella stanza e lei lo riconobbe subito. Commodo.
Rea fece un
profondo respiro e si alzò in piedi, avvicinandosi a suo nipote.
L’imperatore
rimase fermo ad aspettarla, il viso serio e adatto al luogo solenne dove si
trovavano.
Rea si avvicinò e
si inchinò davanti a lui. "Cesare," disse in tono rispettoso.
Commodo sorrise
nel vedere la sua orgogliosa zia inchinarsi davanti a lui e poi recitando la
parte del grazioso monarca le tese la mano e la invitò a sollevarsi.
Rea obbedì, baciò
l’anello sulla mano che le fu porta, ma rimase a capo chino, non tanto in gesto
di rispetto, quanto per il fatto che desiderava avere il pieno controllo delle
sue emozioni prima di incrociare il suo sguardo con quello di Commodo.
Non voleva che
lui potesse vedere l’ira che ribolliva dentro di lei.
"Mia cara
zia Rea, ti prego solleva lo sguardo," esordì Commodo e Rea lo accontentò.
"Mi auguro che tu abbia fatto buon viaggio," continuò l’imperatore.
"Sì, Cesare,
il viaggio è andato benissimo."
"Mi ha
sorpreso sapere che tu abbia preferito la via di terra ad una nave.”
Rea strinse i
denti. Sembrava una domanda innocente ma con Commodo e la sua paranoia non si
poteva mai sapere. Lei e Massimo avevano viaggiato via terra per evitare i
rigorosi controlli che erano effettuati al porto di Ostia, ma così facendo
avevano impiegato quasi due mesi per giungere a Roma, contro i pochi giorni che
avrebbero impiegato se avessero preso una nave. "Cesare, la mia salute non
è più quella di un tempo e il mio stomaco è così delicato che non riesce più a
sopportare il movimento del mare."
Commodo annuì e
desideroso di mostrare alla zia la sua città,
la prese per un braccio e la condusse fuori del mausoleo. Appena furono all’aperto
Commodo iniziò a parlarle dei festeggiamenti che aveva organizzato per onorare
la memoria e la grandezza di suo padre e Rea dovette fingersi interessata e
stupita per tanta magnificenza e per l’amore figliare messo in mostra dal nuovo
Cesare.
"...e poi ho
organizzato dei grandi giochi. Tutti i migliori gladiatori dell’impero vi
parteciperanno e così..." Commodo si interruppe mentre un largo sorriso
gli si dipingeva sul volto e animava i suoi freddi occhi verdi.
Rea seguì la
direzione del suo sguardo e vide Lucilla dirigersi verso di loro.
"Sorella,"
esclamò entusiasta l’imperatore. " Guarda un po’ chi ho trovato davanti
alla tomba del nostro augusto genitore!"
Lucilla sorrise e
si avvicinò a Rea, abbracciandola con calore. "Zia Rea, bentornata a
Roma."
"Grazie,
nipote mia. Come ti senti? Come sta il piccolo Lucio?" Rea domandò mentre
la sua mente prendeva nota del viso tirato della giovane donna.
Lucilla si animò
nel sentire il nome di suo figlio ma prima che potesse rispondere Commodo si
intromise. "Lucio sta benissimo. E’ un fanciullo molto acuto e i giochi
dei gladiatori gli piacciono molto."
Rea spalancò gli
occhi e lanciò un’occhiata a Lucilla. Che ci faveva un bambino di otto anni a
vedere i giochi?
Lucilla vide la
domanda negli occhi della zia e scosse la testa, inclinandola leggermente verso
il fratello.
Rea annuì e disse
a voce alta: "Spero, Cesare, che vorrai farmi l’onore di essere mio ospite
una di queste sere. Ho assoldato un attore perché impari e ci reciti I
ricordi di Marco Aurelio e pensavo di invitare nella mia domus alcuni filosofi per
commentarli."
Come aveva
previsto - e sperato - alla menzione della parola filosofi, Commodo fece
una smorfia disgustata. Rea sapeva quanto il nipote odiasse la filosofia.
"Cara zia,
mi dispiace molto di dover rifiutare ma sono molto occupato in questi giorni.
Come mio padre diceva sempre, guidare l’impero non è cosa facile e io sto
ancora imparando. Tuttavia sono certo che Lucilla sarà più che lieta di
rappresentarmi."
Sua sorella annuì.
"Certo che verrò zia Rea," e le lanciò un’occhiata carica di
significato. Lucilla sapeva che Rea voleva parlarle lontano da suo fratello.
"Bene,
allora è tutto sistemato. Ti aspetterò il giorno delle Idi." Poi tornò a
rivolgersi a Commodo. "Se vuoi scusarmi ora, Cesare, sono molto stanca e
vorrei tornare a casa."
Commodo, felice
di essersi risparmiato una noiosissima serata in compagnia della zia, fu più
che contento di concederle di congedarsi e Rea si allontanò, non prima di aver
scambiato un altro sguardo di intesa con Lucilla.
Tutto procedeva
secondo i piani.
Massimo mimò l’ennesimo
affondo contro un immaginario avversario e poi posò il gladio su di una
panchina di pietra, detergendosi il sudore dalla fronte con la manica della
tunica. La primavera romana era calda e umida ma non era il clima a disturbare
maggiormente Massimo, era l’inattività.
Da quando era
arrivato a Roma, dieci giorni prima, non aveva fatto altro che dormire (male),
mangiare (poco) e allenarsi (molto) con la spada per recuperare il tono
muscolare perso durante la malattia e il lungo viaggio dalla Hispania. Ma ora
incominciava a non essere più sufficiente.
L’incontro con Lucilla organizzato da Rea si sarebbe tenuto la sera
successiva e Massimo era in preda all’ansia e all’impazienza. Rea gli aveva
parlato del suo incontro con Commodo e Lucilla e gli aveva detto di aver
trovato la nipote molto stanca e tesa. L’anziana donna era sicura che Lucilla
si sarebbe schierata dalla loro parte, una volta messa al corrente delle ultime
volontà di Marco Aurelio, ma Massimo non era così certo, anche se il ricordo
del suo viso spaventato e rigato di lacrime la sera in cui suo padre era stato
ucciso si insinuò nella sua mente. Ad ogni modo lui avrebbe fatto il suo dovere
fino in fondo, con o senza l’aiuto di Lucilla.
Il Generale prese
di nuovo in mano il gladio ma invece di sollevarlo in posizione di
combattimento lo assicurò alla cintura e vi sistemò sopra la toga.
"Non ce la faccio più a stare chiuso in
questa casa, " pensò mentre lasciava il giardino e rientrava nella domus. "Probabilmente andare in giro per Roma da solo non è la cosa più saggia
da fare, ma le probabilità di essere riconosciuto da qualcuno sono davvero
poche."
Attraversò l’atrio
a grandi passi e, lasciato detto ad uno schiavo di avvertire Rea della sua
assenza, uscì dalla villa e cominciò a discendere il Viminale diretto verso il
centro della città.
*****
La sua camminata
lo portò verso la zona più bella dell’Urbe e nonostante il suo senso dell’arte
non fosse molto rifinito, Massimo rimase affascinato dai templi, dalle
basiliche e dalle statue delle divinità che vedeva attorno a sé. Quando arrivò
ai piedi dell’Anfiteatro Flavio, il Generale rimase senza fiato: mai in tutta
la sua vita aveva visto qualcosa di così imponente e maestoso. Non poté fare a
meno di alzare lo sguardo verso la sommità dell’edificio mentre vi camminava
intorno. Pochi momenti di distrazione e Massimo si ritrovò circondato da una
folla urlante che spingeva e sgomitava per riuscire ad entrare nell’anfiteatro
per assistere ai giochi offerti dall’imperatore. Massimo imprecò contro se
stesso per la sua disattenzione e cercò di uscire dal flusso di persone in cui
era rimasto incanalato ma si trattava di una battaglia persa, così, alla fine,
decise di rinunciare a lottare contro la marea umana e di prendere posto con
essa sugli spalti.
*****
Massimo si
sedette sulla tribuna di marmo e si guardò intorno con curiosità. Il Colosseo
era stracolmo di gente che invocava a gran voce l’inizio dei giochi.
"Giochi, " pensò disgustato il
Generale. "Come si possono definire giochi delle carneficine umane? Come si fa a considerare divertente vedere
degli uomini uccidersi a vicenda?" Massimo scosse la testa: sapeva che
Marco Aurelio aveva soppresso per alcuni anni i combattimenti a Roma ma che
essi erano continuati nelle province e sapeva che Commodo li aveva riaperti per
conquistarsi il favore di un popolo che non l’amava. Massimo fece una smorfia. "Mi chiedo che cosa farebbe il popolo
se sapesse che per pagare i 150 giorni di giochi promessi, Commodo ha
prosciugato le casse del tesoro imperiale e sta ora vendendo le scorte di grano
della città. Alle prime avvisaglie di carestia il prezzo del pane andrà alle
stelle e molta povera gente non sarà più in grado di permetterselo."
Il suo sguardo
colse un movimento nell’arena e lui guardò verso il basso: una delle porte che
immettevano nella grande elisse ricoperta di sabbia si era aperta e un gruppo
di gladiatori vi fece il suo ingresso, salutato dal boato della folla. Si
trattava di una ventina di uomini vestiti con delle tuniche blu, delle rozze
corazze ed elmi dalle forme più disparate. Ognuno di essi aveva in mano una
lunga lancia e uno scudo rettangolare, simile a quello in uso nell’esercito. I
gladiatori avanzarono fino al centro dell’arena e si schierarono di fronte al
palco imperiale.
Al grido ripetuto
di "Cesare!", Commodo fece il suo ingresso nel Colosseo e andò a
sedersi, salutando la folla con la mano.
"La carogna sembra raggiant," pensò Massimo con odio, mentre un sorriso
crudele gli increspava le labbra. "Divertiti
pure finché puoi, principe, perché il tempo per onorarti arriverà presto alla
fine."
Guardando meglio,
il Generale vide che Commodo era accompagnato da altre persone tra cui
riconobbe Quinto, Lucilla e un bambino che ritenne essere il figlio di lei,
Lucio.
La sua attenzione
tornò a concentrarsi sui gladiatori sotto di lui, che il maestro delle
cerimonie annunciò come "orda barbarica di Annibale." Massimo riuscì
a stento a trattenere uno sbuffo sprezzante. Ma quale orda barbarica?! Lui
aveva visto decine di orde barbariche, negli anni passati, a combattere in
Germania, e quel patetico gruppo di poveri schiavi non aveva proprio nulla a
che spartire con esse. Pochi istanti dopo un’altra porta si aprì e ne uscirono
alcune bighe, con altri gladiatori chiamati ad impersonare i legionari di
Scipione l’Africano, che cominciarono a percorrere l’anello esterno del campo
di battaglia, tutt’attorno ai "barbari".
Il combattimento
ebbe inizio e per gli uomini a piedi le cose volsero subito al peggio, poiché
essi erano un facile bersaglio per le frecce dei “legionari”.
Suo malgrado
Massimo si ritrovò coinvolto dallo scontro e si ritrovò a gridare come le
persone che lo circondavano. Ma al contrario degli altri spettatori che
incitavano i “legionari” al massacro, il Generale si schierò dalla parte dei
“barbari” urlando loro a squarciagola. "State vicini, state vicini! Unite
gli scudi come un sol uomo, solo così potrete difendervi!" Purtroppo però
le sue grida si persero nel clamore che lo circondava, mentre nell’arena i
“barbari” soccombevano uno ad uno. Gli ultimi a cadere furono un gigante dai
capelli chiari, forse uno schiavo germanico, ed un agile uomo di colore,
probabilmente un Nubiano. I due gladiatori si erano battuti con coraggio e
ardimento ma contro un avversario troppo forte per loro e Massimo chinò la
testa rattristato quando li vide accasciarsi sulla sabbia ormai rossa. La folla
intorno a lui lanciò grida entusiaste e, mentre l’odore dolciastro del sangue
raggiungeva gli spalti, Massimo capì di averne avuto abbastanza e si alzò,
dirigendosi verso l’uscita.
*****
Una volta fuori
dell’anfiteatro, Massimo respirò a pieni polmoni l’aria fresca e pulita e
decise di rientrare subito alla villa. Mentre camminava si accorse di sentirsi
profondamente sconvolto e non a causa di quello che aveva visto: era abituato
allo spettacolo della morte, anche se mai prima di allora aveva assistito ad
esso come semplice spettatore. No, non era quella la ragione del suo turbamento
interiore, era la sua reazione a quello che aveva visto. Per la prima volta in
mesi si era interessato a qualcosa di diverso che non fossero i suoi piani di
vendetta o la sua rabbia nei confronti di Commodo. Per la prima volta in mesi
il destino di altre persone aveva avuto importanza per lui, e le sue grida d’incitamento
ai gladiatori ne erano la prova. L’indifferenza nei confronti di tutto e di
tutti che era stata la sua compagna e il suo scudo dal giorno in cui aveva
riacquistato la memoria e aveva voltato le spalle a tutto ciò che era stata la
sua vita era improvvisamente sparita, ed egli non era in grado di decidere se
il cambiamento fosse da considerare positivo o negativo.
Una volta
rientrato alla villa, Massimo corse nella piccola stanza dove Rea gli aveva
mostrato essere l’altare della sua famiglia e chiusosi la porta alle spalle si
inginocchiò sul freddo marmo.
Massimo unì le
mani e guardò le statuette davanti ai suoi occhi, illuminate dalla fiamma
tremolante delle candele: non erano i penati della sua famiglia ma in quel
momento non aveva importanza. Aveva un disperato bisogno di schiarirsi le idee
e quell’altare era esattamente ciò di cui necessitava.
Chiudendo gli
occhi iniziò a pregare.
"Sacri Antenati, invoco la vostra guida.
Madre mia, aiutami a ritrovare la pace dell’anima e la chiarezza necessaria per
portare a termine il mio compito. Padre mio, mostrami il volere degli dei per
il mio futuro e guida il mio cammino in questo momento così difficile. Moglie
mia, figlio mio, perdonatemi per aver scacciato il vostro ricordo dalla mia
mente e per avervi ignorato per così tanto tempo. Sappiate solo che l’ ho fatto
per il dolore immenso che mi provoca il pensare a voi, anche se ora ho capito
di aver bisogno del mio dolore, perché esso è parte di me, parte di ciò che
sono. Inoltre ho capito che il dolore per avervi perso non deve farmi
dimenticare la gioia di avervi avuto. Vi chiedo inoltre perdono per non essere
stato in grado di proteggervi come avrei dovuto e per non potervi raggiungere
subito nell’altra vita. Spero che capiate e sappiate aspettarmi. Sacri
antenati, io vi onoro: aiutatemi a realizzare il sogno del mio imperatore e a
fare ciò che è giusto per la città di Roma..."
Massimo rimase a
lungo in ginocchio e quando si rialzò i muscoli protestarono per la sua lunga
immobilità, ma egli non vi fece caso: per la prima volta da quel tragico giorno
in cui aveva trovato la sua famiglia massacrata si sentiva in pace con se
stesso. Ciò non significava che una parte del suo io non desiderasse più morire
e raggiungere i suoi cari, ma che egli aveva imparato ad accettare ciò che era
successo e a guardare al futuro con occhi nuovi... con una nuova speranza nel
cuore.
Quando uscì dalla
piccola stanza Massimo Decimo Meridio era un uomo nuovo. O forse, più
semplicemente, era tornato ad essere quello di un tempo.
*****
Quella sera a
cena, Rea guardò l’uomo seduto di fronte a sé e sorrise. Non aveva fatto
commenti sulla sua improvvisa uscita pomeridiana né, tanto meno, sul suo
precipitoso rientro, ma sentiva che in lui c’era qualcosa di diverso. Lo aveva
percepito nella sua voce, l’aveva visto nei suoi occhi, l’aveva osservato nel
suo modo interagire con gli schiavi e con lei stessa. Fino allora era stato
sempre educato con lei, nulla di più, ma quella sera era stato anche gentile...
premuroso. Il suo sorriso divenne ancora più ampio.
"Che cosa c’è?"
le chiese il suo compagno.
Rea notò il suo
sguardo incuriosito e disse. "Niente di importante: stavo solo pensando a
quanto sia piacevole conoscere finalmente il vero Massimo Decimo Meridio, l’uomo
che mio fratello mi ha sempre descritto. Ero stanca di avere a che fare con una
statua animata... o forse dovrei dire orso irascibile?"
Massimo spalancò
gli occhi nel sentire le ultime parole e poi sorrise: mai si sarebbe aspettato
da lei un commento del genere! Tornando serio disse: "Mi dispiace di
essermi comportato così male. So che non deve essere stato facile vivere con me
in questi mesi e me ne scuso. Mi ero convinto che il non provare niente fosse
il metodo migliore per non farsi coinvolgere troppo e per non soffrire.
Fortunatamente oggi ho capito che non solo sono già coinvolto ma anche che ho
bisogno dei miei sentimenti. Il soldato dentro di me non può vivere senza l’uomo."
Rea annuì e non
aggiunse altro. Non c’era bisogno.
Nella sala da
pranzo calò un amichevole silenzio e Massimo si abbandonò un poco, lasciandosi
cullare dall’atmosfera pacifica e dimenticando per un po’ i problemi che lo
affliggevano, come aveva fatto tante volte in compagnia di Marco Aurelio
durante i lunghi anni passati al fronte. L’imperatore gli aveva parlato spesso
di sua sorella e lo aveva sempre fatto con affetto ed ammirazione, sentimenti
che anche il suo cuore appena risvegliatosi dal sonno stava incominciando a
provare per lei.
La sera seguente
come d’accordo Lucilla giunse alla villa sul Viminale, accompagnata da due
ancelle e quattro Pretoriani, che furono lasciati di guardia fuori del salone
principale.
Rea condusse la
nipote nella sala e le presentò gli altri commensali, i due filosofi invitati
per commentare I ricordi di Marco Aurelio.
Non appena ebbero
preso posto sui triclini i camerieri cominciarono a servire il cibo e a mescere
il vino mentre un attore iniziò a declamare i passi più significativi del
trattato filosofico dell’imperatore.
Lucilla sapeva
che quella rappresentazione non era il vero motivo dell’invito di sua zia ma
sapeva anche che quella finzione avrebbe dovuto durare per qualche tempo, per
non destare sospetti nei servi e soprattutto nei Pretoriani.
Mentre mangiava,
a stento gustando il sapore del cibo, l’Augusta si sforzò di mostrare interesse
nei confronti delle dissertazioni filosofiche portate avanti dai due anziani
studiosi seduti al suo tavolo, pregando che il tempo passasse in fretta.
Finalmente, dopo
circa due ore, Rea si portò una mano alla testa e adducendo con i suoi ospiti
la scusa di non sentirsi bene, pose fine alla serata. Lucilla si incaricò di
congedare gli ospiti e poi accompagnò la zia a letto, dicendo ai servi e ai
Pretoriani che si sarebbe trattenuta con lei per qualche tempo.
Le due donne
uscirono lentamente dalla sala, e si diressero verso la stanza da letto.
Una volta che la
porta si fu chiusa alle loro spalle Rea parve riacquistare di colpo la salute e
abbracciò con affetto la nipote.
Lucilla
contraccambiò il gesto e poi sedette sulla sedia indicatele dalla zia che
invece si sistemò sul letto, la schiena appoggiata ad una montagna di cuscini.
La finzione era perfetta: se qualcuno avesse guardato dalla finestra avrebbe
solo visto la giovane nipote chinata premurosamente sull’anziana zia.
"Allora,
Lucilla," esordì Rea, "come stai?"
Lucilla guardò
quegli occhi così simili a quelli di suo padre e mormorò: "Sono stanca
zia, molto stanca."
Rea annuì.
"Servire Roma - e servirla bene - è un compito gravoso."
La giovane donna sospirò.
"Vedo che mi capisci. Spero di riuscire a fare il mio dovere ancora a
lungo ma non so per quanto ancora riuscirò a tenere testa a Commodo. Vuole
sciogliere il Senato, sai? Sta solo aspettando il momento giusto. Finora sono
riuscita a fermarlo ma è solo questione di tempo."
Rea la sguardo
con occhi penetranti. "C’è dell’altro vero?"
Lucilla annuì.
"Saprai già che per allestire i suoi giochi mio fratello sta prosciugando
le casse dello Stato... Quello che forse non sai è che per poterle rimpinguare
ha messo gli occhi sulle proprietà di alcuni senatori e ricchi mercanti. Presto
o tardi tutti questi uomini saranno accusati di tradimento, uccisi e le loro
proprietà confiscate."
Rea strinse le
labbra. "Lucilla, non possiamo permettere che Commodo continui a regnare:
in poco tempo distruggerà tutto quello che tuo padre ha costruito in tanti anni
e con tanti sacrifici."
"Lo so zia,
ma cosa potremmo fare? Congiurare contro di lui? E con chi? Nessuno si fida di
nessuno in città, Commodo ha spie dappertutto."
"C’è sempre
l’esercito..."
"Le legioni
hanno tutti nuovi comandanti fedeli a Commodo ed inoltre nessuno di loro ha
sufficiente prestigio o carisma per evitare che gli altri gli si rivoltino
contro." Lucilla abbassò la testa e poi continuò con un tono di voce più
basso e triste. "L’unico uomo che avrebbe potuto opporsi a mio fratello è
stato anche il primo ad essere eliminato."
Lucilla rimase a
capo chino, persa nei suoi pensieri finché la voce di sua zia non la riscosse.
"Ne sei
proprio sicura, Lucilla?" le domandò con uno strano tono di voce.
La giovane donna
alzò di scatto la testa e vide Massimo uscire dalle ombre che lo avevano
avvolto fino allora.
*****
Il generale aveva
atteso pazientemente tutta la sera nascosto in camera di Rea in attesa che lei
mettesse in pratica il suo piano e conducesse la nipote nella stanza.
Quando infine la
porta si era aperta i suoi occhi si erano concentrati su Lucilla. Una parte di
lui non si fidava ancora della giovane donna; tuttavia lei era l’unica che
potesse dargli le informazioni di cui necessitava. La politica non era mai
stata il suo forte e Rea aveva ragione nell’affermare che avevano bisogno di un
alleato potente.
Massimo l’aveva
osservata durante la sua conversazione con Rea e aveva notato il suo viso
stanco e tirato e le rughe di preoccupazione sulla sua fronte. Contro la sua
volontà gli erano tornati in mente i momenti passati insieme, il suono delle
sue risate e la gioia che aveva illuminato il suo sguardo... Massimo aveva scacciato i ricordi ed era
tornato a concentrarsi sulla conversazione e quando Rea aveva menzionato l’esercito
aveva capito che il momento di uscire allo scoperto sarebbe arrivato presto. E
così era stato.
*****
Lucilla vide
Massimo uscire dalle ombre e riuscì a stento a trattenere un urlo. Si alzò di
scatto e gli si avvicinò, allungando una mano verso il suo viso, come a volersi
sincerare che non si trattasse di un fantasma ma poi si trattenne, incerta sul
modo in cui lui avrebbe reagito.
Massimo le andò
vicino e la salutò chinando la testa. "Augusta Lucilla." Il suo tono
era neutro ma dentro di lui il suo cuore stava battendo forte. Aveva sentito l’emozione
che aveva pervaso la voce di Lucilla quando aveva parlato di lui credendolo
morto e per il suo spirito ferito era stato come un balsamo curativo.
"Massimo,"
rispose semplicemente la giovane donna e i due rimasero a guardarsi in silenzio
per alcuni istanti finché Rea non si schiarì la gola.
Richiamati al
dovere, Lucilla tornò a sedersi sulla sedia affianco al letto mentre Massimo si
appoggiò ad una cassapanca vicino al muro, fuori dal campo visivo della
finestra.
Rea prese in mano
le redini della conversazione. "Lucilla, quello che sto per dirti forse ti
sorprenderà, ma tuo padre non voleva che Commodo gli succedesse sul trono,
sapeva che non avrebbe potuto essere un buon sovrano." Lucilla annuì, per
nulla sorpresa dalle parole di sua zia: sapeva bene quanto suo padre fosse
stato deluso da Commodo.
Rea continuò.
"L’ultima volta che Marco venne a trovarmi, circa un anno e mezzo fa,
lasciò in mia custodia una lettera sigillata con il compito di consegnarla al
generale Massimo Decimo Meridio nel caso egli fosse morto all’improvviso."
Lucilla si girò
curiosa verso Massimo ed egli tirò fuori la lettera da sotto la tunica e gliela
diede senza parlare. La giovane donna lesse rapidamente i due fogli di papiro e
poi rimase in silenzio alcuni minuti mentre la sua mente lavorava in modo
frenetico.
"Ecco il perché della convocazione dei
senatori! Lui non voleva annunciare la successione di Commodo, ma quella di Massimo," pensò, mentre tutti gli eventi accaduti in
Germania prendevano un nuovo significato.
"Perché mi hai chiamato? Ho bisogno di te per tuo fratello.. Ti vuole
bene... e ora avrà bisogno di te più che mai."
Lucilla incontrò
la sguardo di Massimo. "E’ questo che ti disse mio padre la mattina che ci
incontrammo, vero? Il giorno in cui morì."
"Esatto."
"E Commodo l’ha
ucciso prima che potesse annunciarlo pubblicamente. Sì, tutto ha senso… anche
troppo." Lucilla sospirò e restituì i fogli a Massimo. Le loro dita e si
sfiorarono per un istante e un brivido corse lungo le loro schiene. Lucilla si
voltò di scatto e Rea le chiese: "Ti senti bene?"
"Sì zia, sto
bene. Quello che mi avete appena detto ha solo confermato ciò che sospettavo da
qualche tempo."
"Tuo padre
mi anche lasciato una lettera per te."
"Davvero?"
chiese la giovane con voce emozionata.
"Sì, eccola
qui."
Lucilla prese la
lettera e ruppe i sigilli con delicatezza.
Mia amata figlia,
spero che tu sappia che ti ho sempre amato e
sempre lo farò. Tu sei tutto ciò che un padre desidera in una figlia: obbediente, generosa, intelligente. Il mio
unico rimpianto è che tu non sia nata uomo. Che grande Cesare saresti stata! E
quanti problemi di meno avrei adesso!
Lucilla, tu conosci Commodo, probabilmente meglio
di me, e sai che non può e non deve regnare.
Per regnare con giustizia bisogna essere servi di
Roma ma tuo fratello farebbe di Roma la sua serva.
Tu hai sempre servito bene Roma, Lucilla. So quale
sacrificio è stato per te sposare Lucio Vero e so quanto ti è costato fare da
madre ad un fratello che in cambio ha riversato su di te attenzioni morbose.
No, non negare figlia mia, lo so. Mi dispiace solo
di non averti aiutato in questo frangente. E ora mi ritrovo qui a chiederti di
assumere un altro grave compito. Tuo fratello non deve regnare e Roma deve
tornare ad essere una Repubblica, solo così la corruzione potrà essere
debellata. A questo scopo io appronterò un Protettore di Roma, con il compito
di sovrintendere al passaggio dei poteri dall’imperatore al Senato. Massimo
Decimo Meridio è l’uomo che ho scelto per l’incarico. Tu lo conosci: è onesto, giusto, leale e forte. Ma non è
esperto di politica: sarà tuo compito aiutarlo in questo campo. Tu conosci come
ragionano i potenti di Roma e sai come funzionano certi meccanismi burocratici.
Aiutalo, Lucilla. Aiutalo a realizzare il mio sogno. E perdonami se così
facendo escluderò il piccolo Lucio dalla successione al trono, ma è necessario
per il bene di Roma.
Addio figlia mia, spero che tu possa avere una
vita felice.
Che gli dei veglino sempre su di te e il piccolo
Lucio,
con amore,
tuo padre,
Marco Aurelio Antonino
Lucilla ripiegò
la lettera e alzò lo sguardo sui suoi compagni: era una figlia di Roma e come
tale rispose. "Commodo va eliminato. Ma prima di agire è necessario che il
Senato sia informato delle ultime disposizioni di mio padre. Se i senatori si
schiereranno dalla nostra parte, il popolo li seguirà; Commodo non è ancora
riuscito a conquistarsi l’amore della folla."
"E se
qualcuno spargesse la voce che per pagare i giochi sta vendendo le scorte di
grano della città il malcontento aumenterebbe ulteriormente," si inserì
Rea, dando prova del suo acume politico.
Massimo, fino a
quel momento silenzioso, disse: "Io ho bisogno di sapere dove si trova il
mio esercito. C’è qualcuno in grado di dirmelo?"
Lucilla sorrise.
"Io lo so. Siamo fortunati, Generale, i tuoi uomini sono accampati ad
Ostia."
Massimo sorrise a
sua volta, annuendo: era davvero un colpo di fortuna che fossero così vicini!
Lucilla continuò.
"Prima di mobilitare l’esercito dobbiamo però informare il Senato."
"Lo
so."
"Mi
incaricherò io di farlo; credo che il Senatore Gracco ci aiuterà. Lui detesta
Commodo e il suo nome è il primo sulla lista nera di mio fratello."
"E’ una
buona idea," commentò Rea. "Gracco è un ottimo politico ed anche il
decano dei Senatori. Però dobbiamo fare in fretta, Lucilla: sai meglio di me
quanto sia difficile mantenere dei segreti in questa città."
Lucilla annuì poi
disse. "Ora è meglio che vada, non voglio che qualcuno si
insospettisca."
Massimo e Rea
approvarono e Lucilla si alzò.
"A presto
zia," disse baciandola sulla guancia poi si voltò verso Massimo e lo
guardò negli occhi.
Il generale prese
una delle sue mani e se la portò alle labbra, baciandola. La sensazione della
sua barba contro la sua pelle scatenò una tempesta nel cuore di Lucilla e lei
non riuscì a trattenersi dal fargli una carezza sulla guancia. Poi uscì di
corsa dalla stanza, senza aggiungere altro.
*****
Massimo si rigirò
nel letto per l’ennesima volta e buttò indietro le coperte con un grugnito di
frustrazione. Era ormai notte fonda e lui era molto stanco ma nonostante tutto
non riusciva a prendere sonno. Continuava a pensare alla conversazione avuta
con Rea e Lucilla e, soprattutto, ai sentimenti che il rivedere la giovane
donna aveva evocato in lui. Non era stato preparato alle emozioni che il
semplice sfiorarsi delle loro dita o la mano di lei sulla sua guancia avevano
suscitato. Massimo aveva provato piacere e ora si sentiva divorare dalla colpa:
come poteva pensare ad un’altra donna quando la sua amata moglie era morta da
solo pochi mesi? Eppure nonostante tutto non riusciva a scacciare l’immagine di
Lucilla dalla sua mente. Contro il suo volere i ricordi legati alla loro storia
cominciarono ad affiorare e stanco di combattere, Massimo si abbandonò ad essi.
"In fondo,
che male c’è?" chiese a se stesso prima di addormentarsi, il viso
finalmente rilassato.
*****
In un’altra
stanza da letto, in un altro palazzo, su di un altro colle, anche Lucilla
cercava invano di addormentarsi.
Rivedere Massimo
vivo, dopo aver pianto la sua morte, era stato scioccante, ma ancor più
sconvolgente era la speranza che la sua presenza aveva risvegliato in lei.
Speranza che l’incubo continuo in cui si era trasformata la sua esistenza da
quando suo padre era morto avesse finalmente fine. Voleva poter piangere suo
padre in pace senza il dover vivere nel terrore per quello che Commodo avrebbe
potuto fare a suo figlio o a lei stessa.
E poi c’era
Massimo... Lucilla sapeva di amarlo ancora: l’aveva capito la mattina che si
erano incontrati in Germania. Allora quel sentimento era stato soffocato con
rabbia - lui era sposato - ma ora che entrambi erano vedovi, era forse un
delitto sperare che le cose potessero tornare come erano un tempo? Lei aveva
sentito la corrente che era passata tra loro quando le loro dita si erano
toccate ed era sicura che anche Massimo l’avesse avvertita, l’aveva compreso
dal modo in cui lui si era ritratto, spaventato da tanta intensità.
"E’
possibile," si domandò Lucilla, "che lui mi ami ancora?" Sognare
poteva essere pericoloso, vista la sua situazione, ma in quel momento era
proprio quello di cui aveva bisogno.
Lucilla scivolò
nel sonno senza accorgersene, con un piccolo sorriso sulle labbra.
Parte terza: Protettore di Roma
I
Massimo si fece
largo tra la gente che affollava il mercato cercando di non perdere di vista l’uomo
che stava seguendo. La sagoma del Pretoriano era facile da distinguere ma il
generale non voleva correre rischi.
Il soldato
camminava con passo deciso ed aveva un vantaggio sul suo inseguitore: la folla
si faceva rispettosamente da parte al suo passaggio, permettendogli di avanzare
senza intoppi mentre Massimo doveva farsi largo a spintoni e gomitate.
Era il giorno
successivo al suo incontro con Lucilla e Massimo aveva deciso di trascorrerlo
esplorando Roma per imprimersi nella memoria il percorso che avrebbe dovuto
fare per raggiungere il Palatino quando sarebbe arrivato il momento di entrare
in città in testa alla sua legione. Gli dei gli erano venuti in aiuto quella
mattina, facendogli un inaspettato quanto gradito regalo, provocando un forte
temporale estivo che gli aveva permesso di indossare, senza la paura di destare
troppa curiosità, un lungo mantello con cappuccio, che lo proteggeva dalla
pioggia e soprattutto da eventuali sguardi indiscreti.
Era appena
arrivato nei pressi del Colosseo quando aveva scorto una figura familiare
avanzare da sola tra la moltitudine di persone riversata nelle vie.
"Quinto!" aveva pensato pieno di sorpresa.
"Che cosa fa in giro senza
scorta?"
Un’idea
improvvisa, magari anche folle, si era presentata alla sua mente: se fosse
riuscito a mostrare al suo ex secondo in comando l’atto con cui Marco Aurelio
lo aveva designato come suo successore, forse Quinto sarebbe passato dalla sua
parte e questo avrebbe potuto essere molto utile per evitare futuri spargimenti
di sangue.
"E se invece
non volesse credermi?" si chiese Massimo, ma l’esitazione fu subito
scacciata, mentre i lineamenti del suo viso si indurivano. Sapeva bene quello
che avrebbe fatto se Quinto non gli avesse creduto... avrebbe fatto ciò che era
necessario, non aveva altra scelta. Il destino di Roma era troppo importante.
*****
Quinto Emilio
Leto, comandante della guardia pretoriana, svoltò l’angolo e varcò i cancelli
delle Terme di Traiano con in mente l’idea di farsi un lungo bagno e
trascorrere un po’ di tempo lontano dal Palazzo imperiale e dal suo cupo
signore.
Più passavano i
giorni e più Quinto si chiedeva come Marco Aurelio avesse potuto generare un
uomo immorale come Commodo e come fosse possibile che un uomo con la saggezza
del defunto imperatore avesse potuto lasciare che un tale essere gli succedesse
sul trono. "Ma forse Marco Aurelio
non voleva che Commodo gli
succedesse..." sussurrò una
voce dentro di lui, subito messa a tacere. Quinto era un seguace della
filosofia Stoica che predicava l’accettazione degli eventi che non potevano
essere cambiati e l’obbedienza assoluta agli ordini del suo imperatore. Questi
precetti erano stati facili da seguire quando a sedere sul trono era stato
Marco Aurelio, ma ora che Commodo era al potere, per Quinto fare il proprio
dovere era diventato molto difficile. Da quando si era insediato il nuovo
Cesare non aveva fatto altro che uccidere e sperperare denaro, distruggendo in
sostanza tutto il lavoro fatto da suo padre. E Quinto temeva che quello fosse
solo l’inizio e che il peggio dovesse ancora arrivare.
*****
Quinto entrò in
un cubicolo e iniziò a spogliarsi mentre un pensiero pellegrino gli attraversò
la mente. "Meno male che non ho
famiglia... se mai dovessi perdere il favore di Commodo, nessun altro oltre me
ne soffrirà."
Il pretoriano
aggrottò la fronte mentre piegava i suoi abiti, chiedendosi da dove fosse
spuntata fuori una tale idea. E poi capì. "Massimo," pensò con dolore. Non era la prima volta che il
ricordo del suo generale e amico per più di dieci anni tornava a tormentarlo...
Quinto cercò di bandire dalla mente la memoria di quell’ultima notte in
Germania e per l’ennesima volta si chiese se avesse fatto davvero il suo dovere
nell’obbedire a Commodo e condannare a morte Massimo o se invece avesse
commesso un colossale errore. Lui aveva giurato di servire Roma, ma Roma non
era l’imperatore, come recitava il tatuaggio che aveva sulla spalla e che fino
a poco tempo prima aveva sempre mostrato con orgoglio. Ma ora...
Quinto imprecò e
scacciò con rabbia tali pensieri: piangere sul latte versato non serviva a
niente e lui era venuto alle terme per rilassarsi e non per tormentarsi con
mille ma, forse e se.
Prese un telo di lino, se lo mise sul braccio sinistro e fece per uscire dal
cubicolo, ma aveva appena aperto la porta e messo fuori la testa quando una
larga mano si posò sul suo petto e lo spinse rudemente indietro.
Quinto andò su
tutte le furie e urlò. "Che cosa stai facendo?! Chi sei?!" La figura
incappucciata davanti a lui rimase in silenzio, il volto appena distinguibile
nella penombra della piccola stanza.
"Lo sai chi
sono io?" tuonò ancora minaccioso il pretoriano, ma ancora una volta non
ricevette risposta.
"E sia, " pensò Quinto, "l’hai voluto tu, amico." Con una
rapida mossa allungò la mano per afferrare il gladio che aveva lasciato
appoggiato al muro, ma non riuscì a terminare il gesto: uno spostamento d’aria,
una ferrea stretta sul polso, un violento spintone e Quinto si ritrovò con le
spalle al muro, la lama di una daga premuta contro la gola.
"Fossi in te
non lo farei, Quinto," ringhiò lo sconosciuto.
Quinto spalancò
gli occhi e il respiro gli si mozzò in gola: quella voce era familiare, ma l’uomo
a cui apparteneva era morto e non era possibile... O forse lo era? Non aveva
mai visto il suo cadavere e i suoi assassini non erano mai rientrati all’accampamento,
ufficialmente uccisi dai barbari in un agguato.
Quinto deglutì sonoramente
e bisbigliò esitante. "Massimo?"
La mano con la
daga rimase ferma mentre con l’altra il suo aggressore spinse indietro il
cappuccio e Quinto incontrò gli occhi del suo generale.
Lo sguardo di
Massimo era duro, freddo come quello di uno spirito vendicatore e Quinto
credette che il suo momento fosse arrivato. Non pensò nemmeno a chiedere
clemenza o perdono, non dopo avere saputo che cosa era stato fatto alla
famiglia del generale. Quinto pronunciò una breve preghiera agli dei ed inclinò
all’indietro la testa, mettendo a nudo la gola, quindi chiuse gli occhi ed
attese... ed attese, ma quando infine la lama si mosse non provò alcun dolore.
"Quinto,
guardami," ordinò Massimo, ripetendo senza accorgersene la frase già
pronunciata in Germania.
Quinto aprì gli
occhi e fissò il suo generale. Massimo aveva allentato la presa sul suo collo e
ora il braccio che reggeva la daga era disteso al suo fianco.
I due uomini
rimasero in silenzio per alcuni minuti, valutandosi a vicenda e poi Quinto
chiese: "Che cosa fai qui, Massimo?" Non sei qui per uccidermi, che cosa vuoi?, lasciava sottintendere
il suo tono.
Senza mai
staccare gli occhi da quelli del pretoriano, Massimo frugò sotto la propria
tunica ed estrasse le lettere di Marco Aurelio, che portava sempre con sé in un
sacchetto di cuoio fissato al collo.
"Leggi,"
intimò, mettendo i fogli in mano al suo compagno.
Quinto lo guardò
sorpreso, ma obbedì. I suoi occhi corsero veloci sui papiri e il suo volto
divenne ancora più pallido. Nella sua mente non c’era il minimo dubbio che
quelle lettere fossero autentiche: non solo conosceva bene i sigilli e la
calligrafia di Marco Aurelio, ma sapeva anche che Massimo non sarebbe mai
ricorso all’inganno, era troppo onesto per fare una cosa del genere.
"Per gli
dei," mormorò disperato quando ebbe terminato la lettura. "Che cosa
ho fatto?"
"Hai fatto
quello che credevi essere il tuo dovere," gli rispose Massimo riprendendo
i fogli e riponendoli al loro posto.
Quinto lo guardò
esterrefatto. Era mai possibile che Massimo archiviasse tutto il male che gli
aveva fatto, così semplicemente, attribuendo le sue azioni al dovere?
Il generale
chiese: "Che cosa farai ora?"
Il pretoriano lo
fissò senza capire e Massimo continuò. "Io intendo portare a compimento le
ultime volontà di Marco Aurelio e vendicare la mia famiglia. Tu che farai? Mi
aiuterai o cercherai di fermarmi?"
Quinto scattò
sull’attenti. "Ti aiuterò."
"E il tuo
giuramento?"
"Io ho
giurato di servire Roma," disse il pretoriano con orgoglio, toccando le
lettere SPQR impresse sulla sua spalla. "Ho già commesso un errore, non ne
commetterò un altro."
Massimo lo fissò
a lungo in silenzio e poi il suo volto si allargò in un sorriso. "Grazie
amico," disse afferrandogli la mano.
Quinto
contraccambiò, ma una parte di lui ancora non riusciva a credere che il suo
generale potesse perdonarlo così facilmente e così provò di nuovo a scusarsi.
"Massimo, mi dispiace... Io non sapevo..."
"Quinto, per
favore, basta. Lo so che stavi eseguendo degli ordini... come io stavo
eseguendo i miei."
"Tu sapevi,
quindi? Sapevi che Marco Aurelio aveva scelto te..."
"Sì, me lo
disse la mattina del giorno in cui morì. Per questo Commodo l’uccise."
"Già,"
disse Quinto, ormai convinto della colpevolezza del nuovo Cesare. "Che
cosa intendi fare?"
"Farò in
modo che il Senato venga a conoscenza delle ultime disposizioni di Marco
Aurelio e poi prenderò il potere," rispose Massimo deciso.
"La Legione
Felix è accampata a Ostia... se vuoi posso darti una mano ad uscire dalla città
senza che nessuno se ne accorga."
Massimo annuì.
"Domani sera incontrerò uno dei senatori: se tutto andrà come previsto,
entro pochi giorni il piano sarà pronto a scattare."
"Va bene,
allora faremo in modo di incontrarci domani notte. Dove posso trovarti?"
"Presso la
villa di Rea Aurelia Vera, sul Viminale."
Quinto annuì.
"L’Augusta Lucilla è stata a cena da lei alcune sere fa e dovrebbe
tornarci domani... Ehi, un momento... Anche lei è a conoscenza del volere di
Marco Aurelio?"
"Sì."
Quinto scoppiò in
una breve risata e vedendo Massimo che lo guardava interrogativamente, spiegò:
"Commodo vuole che accompagni io Lucilla a trovare la zia domani sera e
quando stamattina lo ha annunciato all’Augusta lei non sembrava per niente
contenta della mia presenza. Adesso capisco perché."
Massimo sorrise a
sua volta e poi disse: "Adesso è meglio che me ne vada: non vorrei che
qualcuno si facesse delle strane idee su noi due!"
Quinto annuì e
poggiandosi il pugno destro sul cuore disse: "Forza e onore."
"Forza e
onore," replicò il generale prima di uscire dal cubicolo.
Quinto rimase lì
a fissare la porta chiusa per alcuni minuti, lasciandosi poi andare ad un lungo
sospiro. "Dei immortali, io vi
ringrazio. Avete ascoltato le mie preghiere," pensò, prima di
dirigersi alle vasche con un sorriso soddisfatto: per la prima volta in mesi il
futuro non sembrava più così cupo.
Il sole era
appena tramontato quando Lucilla fece il suo ingresso nella lussuosa villa sul
Viminale, ufficialmente per trascorrere un po’ di tempo con sua zia, ancora
convalescente per il malore di pochi giorni prima. L’Augusta entrò in un
piccolo salone accompagnata da Quinto che aveva detto al resto dei suoi uomini
di andare a passare un po’ di tempo alla taverna.
Massimo e Rea
andarono incontro ai nuovi arrivati e la padrona di casa offrì a tutti da bere,
in attesa dell’arrivo del Senatore Gracco. Lucilla e Massimo scambiarono poche
parole in maniera formale ma i loro occhi comunicarono in modo assai diverso.
Pochi minuti dopo
si udì bussare alla porta; uno dei servi andò ad aprire ed introdusse il
Senatore Gracco nella sala. Era un uomo sulla sessantina, ancora piacente,
molto distinto coi capelli grigi e una barba ben curata.
Rea e Lucilla gli
andarono incontro. "Grazie di essere venuto, Senatore."
Gracco replicò a
tono mentre il suo sguardo si posava curioso su Massimo e Quinto. Nel vedere il
capo dei pretoriani, il politico aggrottò la fronte ma Rea lo rassicurò con un
gesto della mano.
"Senatore,"
disse Lucilla prendendolo per un braccio. "Permettimi di presentarti il
Generale Massimo Decimo Meridio."
Gracco spalancò
gli occhi: non aveva mai incontrato il Generale in persona, ma le sue imprese
contro i barbari del nord erano leggendarie.
"Generale."
"Senatore
Gracco."
"Perdona la
mia sorpresa, Generale, ma credevo che tu fossi morto."
"Avrei
dovuto esserlo."
Ci fu un attimo
di silenzioso disagio, mentre gli occupanti della sala parevano valutarsi a
vicenda, rotto infine dalla voce decisa di Massimo.
"Senatore
abbiamo bisogno del tuo aiuto per indire una riunione straordinaria del
Senato."
Gracco inarcò le
sopracciglia. "Potrei sapere perché?"
Massimo rispose
consegnandogli l’atto con cui Marco Aurelio lo nominava Protettore di Roma.
Il senatore lesse
velocemente e poi con più calma il papiro, dopodiché sollevò lo sguardo sul
Generale. "Intendi tenere fede a questo documento?"
"Sì,"
rispose secco Massimo.
Gracco si girò a
guardare Rea, Lucilla e Quinto e lesse sui loro volti la medesima
determinazione.
"Quali sono
i vostri piani?"
"Il Senato
deve essere portato a conoscenza dell’esistenza di questo atto... Credi che i
senatori si schiereranno dalla nostra parte?"
Gracco annuì.
"Sì, ci seguiranno." Fece un sorriso amaro e continuò. "Molti di
noi sono già uomini morti se Commodo continuerà a regnare." Il Senatore
prese a passeggiare per la sala. "Convocherò una riunione straordinaria
per il giorno delle None, cioè tra tre giorni. Va bene?"
Lucilla guardò
Massimo ed egli annuì. "Meglio muoversi in fretta, prima che Commodo possa
sospettare qualcosa," disse l’Augusta.
"E tu,
Generale, che cosa farai nel frattempo?"
"Andrò ad
Ostia e mi ricongiungerò al mio esercito."
"Cosa?!"
scattò l’anziano politico. "A che cosa ti serve l’esercito?"
Massimo rispose.
"A mantenere l’ordine in città e ad evitare che Commodo possa
fuggire."
"E’
vero," si intromise Quinto, "abbiamo bisogno della Legione Felix
perché non ho idea di quanti dei miei uomini obbediranno ai miei ordini e
quanti invece rimarranno fedeli a Cesare."
Gracco fissò
Massimo negli occhi, chiedendosi inutilmente se l’uomo davanti a lui non fosse
un altro potenziale tiranno, ma poi scartò l’idea: Marco Aurelio si era fidato
di quell’uomo; sua figlia e sua sorella si fidavano di lui... non aveva altra
scelta che seguire il loro esempio e fidarsi di lui. "E sia," disse.
"E’ tutto deciso."
Nel salone l’atmosfera
si rilassò, ora che tutto era stato detto e il tempo dell’azione si avvicinava.
Rea ruppe l’amichevole
silenzio. "Come reagirà il popolo?"
"Ho già
iniziato a far spargere la voce che Commodo sta vendendo le scorte di grano
sotto prezzo per pagare i giochi: oggi, nel Colosseo, è stato accolto da alcuni
fischi," disse Lucilla. "Nel momento in cui Massimo sarà al potere,
faremo delle donazioni di grano alla popolazione e tutto tornerà
tranquillo."
Gracco annuì
pensieroso. "Sì, certo, però tutto sarebbe più facile e sicuro se
esistesse un qualche legame tra il Generale e Marco Aurelio."
"Ma non è
sufficiente quell’atto?" chiese Quinto.
Gracco sorrise.
"La maggior parte del popolo non sa leggere, comandante, né sa riconoscere
i sigilli imperiali. Io sono convinto che se Marco Aurelio ne avesse avuto il
tempo avrebbe adottato il Generale, facendone suo figlio ed erede
naturale."
Massimo lo guardò
sorpreso. "Davvero?"
"Certo: è
quello che qualunque politico accorto avrebbe fatto e il defunto Cesare era un
ottimo politico."
"Ma Commodo
l’ha ucciso prima che potesse farlo..." disse fredda Lucilla.
Gracco e Rea si
scambiarono un’occhiata e il Senatore disse. "A dir la verità ci sarebbe
un modo..."
Massimo, Lucilla
e Quinto si voltarono a guardarlo e Gracco sorrise, domandandosi come mai un’esperta
politica come Lucilla non vi avesse pensato da sola. "Se lui e l’Augusta
Lucilla si sposassero, questo fatto legittimerebbe parecchio la scalata al
potere del Generale agli occhi del popolo."
Massimo e Lucilla
spalancarono gli occhi per lo stupore.
"Cosa?"
chiese Massimo con un filo di voce.
"Un
matrimonio dimostrerebbe inequivocabilmente che l’Augusta è dalla tua parte,
Generale e che appoggia le tue azioni."
Massimo scosse la
testa ma anche per un uomo digiuno di politica come lui, il ragionamento del
senatore era molto chiaro. E tuttavia non riusciva ad accettarlo: aveva giurato
di portare a compimento le ultime volontà di Marco Aurelio, ma questo era
davvero troppo. Come poteva tradire la memoria di sua moglie sposando un’altra
donna? Sapeva che sarebbe stata solo una manovra politica ma ciò nonostante... "E invece no! " disse una voce dentro di lui. "Non mentire a te stesso, Generale. Se fosse solo una mossa politica
lo faresti senza problemi... ma non è così, vero? Tu provi ancora qualcosa per lei ed è questo che ti
divora e che non riesci ad accettare."
Massimo chiuse
gli occhi mentre la verità gli appariva finalmente chiara. Lui amava ancora
Lucilla, l’aveva sempre amata. Ma aveva amato anche Selene e finché lei era
stata viva quel sentimento aveva offuscato e attenuato quello che provava per
Lucilla. Ma ora Selene non c’era più...
Una mano delicata
si posò sul suo braccio e lo richiamò alla realtà. Massimo scrollò la testa,
come a volersi schiarire le idee, quindi si guardò intorno, incrociando gli
occhi Lucilla.
"Massimo,
stai bene?" gli chiese Quinto e il Generale si accorse di avere su di sé
lo sguardo di tutti i presenti.
"Scusate, mi
sono perso nei miei pensieri."
"E’
comprensibile," disse Rea, l’unica persona in quella sala a sapere
veramente che cosa avesse provato Massimo nel trovare la sua famiglia
massacrata.
Lucilla guardò
Massimo preoccupata, domandandosi che cosa stesse pensando. Quando Gracco aveva
accennato ad un matrimonio tra loro due, il suo cuore le aveva fatto le capriole
nel petto. Sposare Massimo... Quante volte aveva sognato una cosa del genere
ma... ma...
Il Generale fissò
Lucilla e disse: "Vorrei parlarti un attimo in privato."
Lei annuì ed i
due uscirono insieme in giardino.
Dopo alcuni
minuti passati a passeggiare Massimo ruppe il silenzio.
"Che cosa ne
pensi?"
"Gracco e
mia zia hanno ragione, un matrimonio tra noi due rafforzerebbe molto la tua
posizione agli occhi del popolo."
Massimo smise di
camminare e Lucilla fece lo stesso.
"E’
tutto?" le domandò, e la giovane donna ebbe la distinta impressione che
fosse deluso.
Si guardarono
fissi negli occhi e all’improvviso l’attrazione che avevano provato durante il
loro precedente incontro tornò a manifestarsi. Fortissima. Inarrestabile.
Incontrollabile.
I loro visi si
avvicinarono e le loro labbra si toccarono in un bacio che ben presto divenne
appassionato. Massimo attirò Lucilla tra le sue braccia e la tenne stretta,
respirando il suo profumo e assaporando il suo calore.
Lucilla gli
accarezzò i capelli e mormorò: "Quanto mi sei mancato, Massimo."
"Anche tu mi
sei mancata," rispose lui con sincerità.
Si scostarono un
poco l’uno dall’altro guardandosi dolcemente negli occhi. Massimo allungò un
braccio, tracciando i contorni del viso di lei con un dito e Lucilla lo
sorprese prendendo la sua mano e baciandola.
"Allora,"
gli disse con un misto di speranza e di timore, "andiamo dentro a dare la
buona notizia?"
Massimo sorrise
di rimando e, cintole la vita con un braccio, rispose. "Andiamo."
Quando
rientrarono nel salone trovarono Rea, Gracco e Quinto seduti intorno ad un
tavolo, immersi in una tranquilla conversazione. I tre congiurati si alzarono
in piedi non appena li videro e si avvicinarono.
"Allora?"
chiese Rea, dando voce alla curiosità di tutti.
"Ci
sposeremo," annunciò Massimo solenne, ma il suo braccio intorno alla vita
di Lucilla e il sorriso che increspava le labbra di entrambi facevano capire
che la loro unione non era dettata solo da esigenze politiche: qualcosa di più
profondo e più importante legava il generale alla principessa.
Gracco approvò
con un sorriso. "Bene. Io suggerirei di procedere subito. Uno dei miei
fratelli minori è sacerdote e abita non molto lontano da qui: potrebbe
celebrare lui la cerimonia."
Massimo guardò
Lucilla con aria interrogativa e lei annuì: il tempo era un lusso che non
potevano permettersi e poi, perché aspettare se era quello che entrambi
desideravano?
*****
Un’ora dopo
Massimo Decimo Meridio e Annia Lucilla Vera divennero marito e moglie. Gracco e
Quinto fecero da testimoni e Rea mise a disposizione gli anelli. La cerimonia
fu breve ma molto sentita da tutti i partecipanti.
Lucilla e Massimo
ricevettero le congratulazioni dei presenti ma non ci fu tempo per altri
festeggiamenti: la notte era già calata da tempo e Lucilla sapeva di dover
rientrare a Palazzo prima che il suo paranoico fratello si insospettisse.
Massimo le
accarezzò il volto e mormorò: "Vedrai, andrà tutto bene: la prossima volta
che saremo insieme niente e nessuno potrà separarci, te lo prometto."
Lucilla sorrise,
gli diede un bacio fugace e poi si allontanò.
Quinto fece per
seguirla ma Massimo lo trattenne per il gomito. "Abbi cura di lei e di suo
figlio," gli disse.
Il Pretoriano
annuì deciso. "Li proteggerò con la mia vita."
"Grazie
amico."
Quinto annuì
ancora e se ne andò, raggiungendo Lucilla e il resto dei suoi accompagnatori.
Il cavallo
avanzava veloce sulla strada lastricata illuminata dalla luce lunare.
Massimo non aveva
avuto problemi ad uscire da Roma, aiutato come promesso da Quinto, che al
momento del cambio della guardia aveva ritardato l’arrivo delle nuove
sentinelle, facendo sì che la porta est della città rimanesse incustodita per
circa dieci minuti.
Il generale
rallentò la sua cavalcatura: era in viaggio da più di un’ora e poteva vedere le
prime costruzioni di Ostia stagliarsi all’orizzonte. Si guardò intorno e poi
guidò l’animale fuori della strada e nella boscaglia, percorrendo la via più
breve per raggiungere l’accampamento della sua legione.
*****
Il giovane uomo
si fermò sotto un albero, si lasciò cadere a terra, poggiando la testa contro il
tronco e si abbandonò ad un sospiro: era stanco morto eppure non riusciva a
dormire. Il suo sguardo si posò sulla ordinata distesa di tende che lo
circondava: l’accampamento sembrava addormentato ma egli sapeva che si trattava
solo di calma apparente. Sarebbe bastato entrare in una qualsiasi delle tende
dormitorio per sentire tensione che aleggiava tra i soldati, una tensione che
presto sarebbe esplosa in qualche rivolta.
Cicero emise un
fischio e subito Ares accorse a leccargli il viso segnato dalle cicatrici. Il
giovane accarezzò il lupo e sospirò: da quando il generale Massimo era stato
trascinato via e giustiziato, la sua vita, come quella degli altri soldati era
cambiata e non certo in meglio. Il nuovo comandante era uno stupido
incompetente, il figlio di un senatore che non aveva mai messo piede fuori dall’agro
romano e che non sapeva trattare con legionari induriti da mille battaglie. Non
aveva nemmeno provato a conquistarsi l’amore o per lo meno il rispetto della
truppa, ma si limitava a mantenere la disciplina attraverso la paura di brutali
punizioni, ma Cicero sapeva che non ci sarebbe riuscito ancora a lungo.
All’improvviso
Ares drizzò l’orecchie ed annusò l’aria, dopodiché emise un guaito eccitato e
corse via, sparendo tra i cespugli.
Cicero aggrottò la
fronte ma non si mosse. "Avrà
fiutato qualche volpe," pensò. Dopo alcuni minuti Cicero decise di
tornare alla sua tenda per provare a dormire e chiamò il lupo, ma l’animale non
si fece vedere. L’uomo imprecò sottovoce e decise di andarlo a cercare,
inoltrandosi tra i fitti rovi. Aveva fatto solo pochi passi nel sottobosco
quando scorse Ares, intento a leccare il viso di un uomo che a sua volta lo
stava accarezzando. Cicero si arrestò di scatto: Ares era addestrato a
combattere e non concedeva facilmente la sua fiducia; le uniche persone che gli
avesse mai visto leccare erano lui stesso e il suo padrone, Massimo, che lo
aveva trovato ed allevato fin da quando era un cucciolo.
In quel preciso
momento il lupo fiutò la sua presenza e si voltò nella sua direzione, imitato
dall’uomo che era con lui: il suo viso illuminato dalla luna divenne visibile e
Cicero trattenne a stento un grido di gioia quando lo riconobbe.
"Generale!"
esclamò correndogli incontro.
"Cicero,
amico mio!" rispose Massimo abbracciandolo.
"Credevo
fossi morto!"
"Quasi."
"Sei venuto
a riprenderci, Generale?"
"Sì. Come
sono gli uomini?"
"Grassi,
molto annoiati e non sopportano quell’idiota che li comanda," rispose
Cicero.
"Valerio è
sempre in servizio?"
"Sì, per
fortuna. Quando si è sparsa la notizia che la tua "improvvisa chiamata a
casa" non era che una frottola per giustificare la tua sparizione e che in
realtà Commodo ti aveva fatto uccidere, aveva deciso di chiedere il congedo, ma
poi è rimasto a tenere calmi gli uomini e ad evitare uno scontro con i
Pretoriani. Mi ha anche salvato la vita, prendendomi come suo attendente e
proteggendomi da Commodo."
Massimo annuì:
conosceva bene il senso del dovere che animava il comandante della fanteria.
"Puoi
portarmi da lui?"
"Certo."
*****
Attraversare l’accampamento
senza farsi notare risultò per Massimo un’impresa impossibile, la sua sagoma
era così familiare che ben presto il generale si ritrovò circondato dai suoi
uomini, riuscendo a stento a frenare il loro entusiasmo e farli stare zitti: c’era
troppa gioia nell’aria e nei cuori di tutti i presenti.
Quando Massimo
raggiunse infine la tenda di Valerio, trovò il robusto ufficiale già sveglio e
vestito. I due uomini si scambiarono un forte abbraccio e poi Valerio disse:
"Siamo ai tuoi ordini, Generale, devi solo dirci cosa vuoi che
facciamo."
Massimo annuì e
raccontò a Valerio e agli altri ufficiali radunatisi nella tenda ciò che era
successo quella tragica notte in Germania, concludendo con: "Dobbiamo
entrare a Roma e prenderne il controllo. Marco Aurelio non voleva che Commodo
gli succedesse e io farò in modo che la sua volontà sia rispettata."
Tutti i legionari
approvarono senza riserve: sapevano del grande amore e reciproco rispetto che
avevano legato il defunto Cesare al loro Generale e desideravano far pagare a
Commodo l’uccisione dell’augusto genitore e il tentato assassinio di Massimo.
Nel giro di pochi
minuti furono organizzate delle squadre con il compito di isolare ed
imprigionare il comandante della legione e i pochi uomini a lui fedeli. Una
volta che questi furono al sicuro, Massimo riunì ancora i suoi ufficiali ed
illustrò il suo piano. "Il Senatore Gracco ha indetto per domani
pomeriggio una riunione straordinaria del Senato a cui parteciperà anche
Commodo. Ad eccezione di Gracco e dell’Augusta Lucilla, nessuno sa che il
motivo della convocazione è di dare pubblica lettura del testamento di Marco
Aurelio, in cui egli annunciava la sua volontà di trasformare Roma di nuovo in
una repubblica, sotto la mia supervisione. Sarà nostro compito evitare che
Commodo possa fuggire e potremmo anche essere costretti a dover mantenere l’ordine
in città."
"Ci sarà
anche da combattere contro i pretoriani," intervenne Valerio, che come
molti legionari non aveva simpatia per le guardie imperiali.
"Spero di
no," gli rispose Massimo. "Quinto è dalla nostra parte e mi ha
assicurato che gran parte dei suoi uomini seguirà i suoi ordini. A quanto pare
il nuovo Cesare non è amato nemmeno dagli uomini che dovrebbero
proteggerlo." Massimo fece una smorfia significativa. "Ora andate a
riposarvi. Ci metteremo in marcia all’alba."
I vari ufficiali
annuirono, salutarono ed uscirono dalla tenda. Massimo rimase in compagnia di
Valerio e di Cicero, che gli disse: "Generale, vieni da questa parte: ti
faccio vedere dove ti ho preparato un letto."
Massimo sorrise,
salutò Valerio e seguì il suo attendente in un’altra tenda.
"Amico mio,
sei impagabile," gli disse ammirando il suo alloggio.
Cicero sorrise,
quindi prese la mano di Massimo, gli mise qualcosa tra le dita, e si allontanò
in tutta fretta, sentendo che il Generale avrebbe voluto restare da solo nei
momenti che sarebbero seguiti.
Massimo lo
osservò uscire dalla tenda e posò lo sguardo sull’oggetto nel palmo della sua
mano. Quando vide di cosa si trattava, la stanza iniziò a girare su se stessa e
lui crollò sulla sedia più vicina. Massimo strinse il pugno e poi lo riaprì,
estraendo dal piccolo sacchetto di cuoio le statuine di Selene e Marco.
Gli occhi gli si
riempirono di lacrime mentre guardava ed accarezzava quei piccoli visi con la
punta delle dita. "Presto, miei amati," sussurrò, "presto la
vostra morte sarà vendicata e voi potrete vivere in pace nei Campi Elisi. E
anche se io non potrò raggiungervi subito, state certi che vi avrò sempre
vicino, nel mio cuore e nella mia mente."
Massimo baciò
entrambe le statuine e si sdraiò sul letto, addormentandosi con le due figurine
strette al petto.
"Per gli
dei!" La voce furiosa di Commodo riecheggiò nel palazzo imperiale.
"Giuro che questa è l’ultima volta che quel vecchio borioso si permette di
darmi degli ordini!"
"Stai calmo,
fratello," cercò di ammansirlo Lucilla che in realtà era più nervosa di
lui.
"Ah no,
sorella. Questa volta Gracco ha passato ogni limite: convocare una riunione del
Senato così all’improvviso e pretendere che io vi partecipi!"
"E’ un suo
diritto come decano dei senatori, Commodo."
"Ancora per
poco. Ho deciso Lucilla, è tempo di sciogliere il Senato. Il popolo mi ama e mi
seguirà." Commodo sorrise crudelmente. "Sarà interessante vedere come
reagiranno quei vecchi ammuffiti a vedersi togliere tutti i loro bei privilegi:
niente più posti riservati e gratuiti a teatro o ai giochi, tasse più salate...
Sono sicuro che per molti di loro questo sarà più sconvolgente che il non
ricoprire più la carica." L’imperatore parve riacquistare il buon umore e
si avvicinò a sua sorella, posandole un braccio sulle spalle e sussurrandole
all’orecchio. "Vedrai come ce la caveremo bene, io e te, da soli alla
testa dell’impero."
Lucilla fece un
sorriso di circostanza. "Sarà così, Commodo."
Suo fratello
annuì e domandò. "Dov’è Lucio?"
"E’ andato a
passare un giorno con la zia Rea. L’altra sera aveva espresso il desiderio di
stare un po’ di tempo con lui."
"Ah sì, me
lo avevi detto. Quella donna sta diventando troppo noiosa."
"Via,
Commodo, è solo una povera anziana malata e sola. E’ naturale che cerchi il
conforto della sua famiglia."
"Hai
ragione. E’ solo che mi dispiace non averlo affianco a me a vedere i giochi:
gli piacciono così tanto!"
L’arrivo di
Quinto impedì a Lucilla di fare ulteriori commenti.
"Cesare, il
Senato è riunito e ti attende," disse Quinto dopo essersi inchinato.
Commodo annuì e
si allontanò a grandi passi, senza accorgersi dell’occhiata d’intesa tra il
Pretoriano e Lucilla.
*****
Commondo entrò
nell’aula del Senato zittendo all’istante il clamore che vi regnava. I senatori
si inchinarono e l’imperatore avanzò fino al centro della sala dove era
collocata la sua sedia. Lucilla e Quinto lo seguivano da vicino.
"Allora
Gracco," esordì Commodo con tono sprezzante, "che cosa c’è di così importante
da dover convocare una seduta straordinaria?"
Nessuno rispose.
"Dove sei
Gracco, giochi a nasconderti?"
Il senatore Gaio
si fece avanti e disse. "Cesare, il senatore Gracco deve ancora
arrivare."
"E’ in
ritardo? Come osa essere in ritardo?! Pensa che io abbia tempo da
perdere?" Commodo era furibondo ma la sua sfuriata fu interrotta dall’arrivo
improvviso di un pretoriano.
"Cesare!"
esclamò ansimando. "Un esercito ha varcato le porte della città e procede
in questa direzione!"
"Cosa?!"
esplose Commodo mentre i senatori si abbandonavano al caos.
"Sono dei
barbari?" chiese Gaio al giovane soldato.
"No,
signore. E’ una delle nostre legioni, la Felix per essere precisi."
Commodo iniziò a
sudare freddo nel sentire il nome della legione. Erano gli uomini di Massimo e
lui sapeva che essi non credevano alla voce fatta circolare che il loro
Generale fosse tornato in Hispania da privato cittadino. La loro presenza in
città non era di buon auspicio.
"Quinto!"
urlò Commodo, mentre in lontananza si udì il rumore di decine di cavalli che
percorrevano al trotto le strade di Roma.
"Cesare?"
"Ordina ai
tuoi uomini di prepararsi ad un eventuale attacco e poi informati su che cosa
vogliono quei legionari."
Il Pretoriano
annuì e corse fuori dall’aula del Senato.
"Sorella,"
disse ancora l’imperatore, "stammi vicina."
Lucilla gli si
avvicinò e gli prese la mano, mentre il suo corpo rimaneva teso, pronto allo
scatto: se fosse stato necessario sapeva di doversi divincolare anche con la
forza.
Ben presto il
ritmico rumore causato dagli zoccoli sul selciato si fece più forte e più
vicino finché all’improvviso non tacque.
Tutti i presenti
nell’aula del Senato si guardarono l’un l’altro, scambiandosi occhiate
interrogative e spaventate.
Fu in quel
preciso momento che il Senatore Gracco fece il suo ingresso nel salone.
"Cesare,
Augusta Lucilla, illustri colleghi, scusate il mio ritardo."
"Gracco!"
ruggì Commodo. "Hai qualcosa a che fare con la presenza dell’esercito in
città?"
"In verità
sì, Cesare," rispose tranquillo il Senatore.
Commodo lasciò
andare Lucilla - che si allontanò velocemente - e si avvicinò all’anziano
politico.
"Spero per
te che tu abbia una spiegazione valida per tutto questo."
"Ce l’ho,
Cesare."
"Bene, mi
auguro per te che sia molto buona, altrimenti non uscirai vivo da qui."
Gracco annuì.
"Sei stato molto chiaro, Cesare. Ora, se per favore posso avere un po’ di
silenzio, ho qualcosa da leggere."
Commodo fece un
ironico gesto con la mano e tornò a sedersi.
Gracco si portò
al centro della sala e disse: "Padri coscritti, vi prego di ascoltare
attentamente poiché quelle che sto per leggere sono le ultime volontà del
nostro defunto Cesare, Marco Aurelio."
Commodo impallidì
nel sentire il nome di suo padre, ma prima che potesse dire o fare qualcosa,
Gracco diede inizio alla lettura. Nella sala calò il più assoluto silenzio e la
voce del senatore riecheggiò chiara e precisa:
"Io Marco
Aurelio Antonino Augusto, Cesare ed Imperatore di Roma, Padre della patria...
...ordino che
alla mia morte il posto alla guida dell’Impero sia preso da Massimo Decimo
Meridio, comandante dell’Esercito del Nord e Generale delle Legioni Felix.
Ad egli io
conferisco con questo documento il titolo di Protettore di Roma che egli potrà
conservare a tempo indeterminato. Ad egli spetterà il compito di trasformare
Roma da impero a repubblica..."
Quando ebbe
finito Commodo, che era riuscito a stento a controllarsi durante la lettura
dell’atto, esplose. "Quel documento è un falso!" urlò con una voce in
cui era possibile individuare una crescente paura.
"No, Cesare,
"gli rispose secco Gracco, "è autentico. Tua zia, l’Augusta Rea
Aurelia Vera giura di aver visto Marco Aurelio scriverlo davanti a lei e io
stesso ne ho esaminato ed autenticato i sigilli."
"E allora? E’
autentico. E con questo? A che cosa serve? Il Generale Massimo è morto e tu
farai presto la stessa fine. Tu e tutti coloro che oseranno opporsi a me."
"Io non ne
sarei così sicuro, principe," disse una voce profonda alle sue
spalle.
Commodo ruotò su
se stesso e si ritrovò faccia a faccia con il Generale Massimo Decimo Meridio.
L’imperatore
cercò di parlare, ma la sorpresa e la paura gli tolsero la voce. Le sue labbra
si mossero a vuoto mentre prendeva nota della presenza dell’odiato nemico da
lui creduto morto.
Nell’aula del
Senato era caduto un innaturale silenzio mentre gli occhi di tutti i presenti
erano puntati sui due avversari.
Massimo fissava
Commodo negli occhi senza alcun timore, caricando il suo sguardo con tutto l’odio
e la rabbia che provava nei confronti dell’uomo di fronte a lui. Dentro di sé
si sentiva calmo e concentrato, mentre con la mano accarezzava l’elsa della sua
spada.
Commodo parve
riacquistare il controllo di sé e urlò. "Guardie, arrestatelo! E’ un
traditore!"
Nessuno si mosse.
"Quinto!"
urlò ancora Commodo.
Il Pretoriano si
mise al fianco di Massimo e disse: "Principe?"
"Ci sei
dentro anche tu, eh? Una volta traditore, sempre traditore. Mi stupisco che il
nostro Generale si fidi ancora di te," disse velenosamente Commodo, ma
Quinto non reagì.
L’imperatore si
allontanò da Massimo e si mise a camminare su e giù per la sala, agitando le
braccia, mentre il Generale non lo perdeva di vista un solo secondo.
"Non
crederai di riuscire a prendere il potere vero? Tu non sai niente di politica.
Questi serpenti ti si rivolteranno contro subito e poi il popolo non ti
accetterà mai. Vedrai, fratello, presto avrai tra le mani una bella
rivolta!" Gli occhi di Commodo luccicarono in modo malato.
"Io non credo,
Cesare, che il popolo ti ami poi così tanto, non dopo essere stato informato
sui mezzi con cui ti stai procurando il denaro per finanziare i tuoi giochi,"
intervenne Gracco. "Inoltre, quando il popolo saprà che il Generale e l’Augusta
Lucilla sono sposati accetterà senza problemi la sua salita al potere."
Commodo impallidì
e si voltò verso Lucilla. "Sorella... tu... dimmi che non è vero..."
Lucilla lo guardò
dritto negli occhi. "Mi dispiace Commodo, ma tu mi ci hai costretto."
Commodo si gettò
su Massimo con rabbia, ma Quinto lo trattenne. "Tu, maledetto! Non ti è
bastato soppiantarmi nel cuore di mio padre: dovevi portarmi via anche mia
sorella!"
Commodo crollò
sulla sua sedia, apparentemente senza più forze, schiacciato da un peso troppo
grande da sopportare. Quinto ordinò a due pretoriani di tenerlo d’occhio.
Alcuni senatori,
credendo che lo spettacolo fosse finito, iniziarono a parlare tra di loro, a
muoversi qua e là e ad avvicinarsi a Massimo, già intenti a perorare le proprie
cause con il nuovo signore di Roma.
A Massimo tutta
quella confusione non piaceva: non era certo che Commodo fosse sconfitto e
quello che accadde nei secondi successivi gli diede ragione.
Con una mossa
fulminea Commodo afferrò uno dei pretoriani e lo sgozzò con un pugnale che
aveva tenuto celato nella manica e poi si avventò su Lucilla, premendole la
lama alla gola. "Fatemi uscire di qua o giuro che l’ammazzo," gridò
con voce spiritata.
Lucilla guardò
Massimo terrorizzata e il Generale si fece avanti. "Lasciala andare, non è
lei che vuoi. Sono io. Tu vuoi batterti con me, vero? Vuoi farmela pagare per
tutto quello che ti ho fatto. Beh, allora fallo: io sono qui."
Commodo lo fissò
e spinse violentemente Lucilla, facendola cadere a terra ai piedi di Massimo. Il
generale attese che sua moglie si rimettesse in piedi e si allontanasse e poi
ordinò. "Quinto, dagli la tua spada."
Quinto spalancò
gli occhi. "Ne sei sicuro?"
Massimo annuì:
era così che doveva andare a finire. I suoi cari e Marco Aurelio dovevano
essere vendicati e non ci sarebbe mai stata pace per lui, per Lucilla o per
Roma finché Commodo fosse vissuto.
Commodo prese la
spada e cominciò a girare intorno al suo avversario mentre attorno a loro si
creava il vuoto. Massimo sguainò il gladio e attese. Commodo si lanciò all’assalto
e il duello iniziò.
Le spade si
incontrarono più volte sprigionando scintille mentre i due avversari si
muovevano per tutta la sala.
L’imperatore
sapeva che se voleva vincere doveva indurre Massimo a commettere qualche errore
e così cercò di provocarlo, sperando di costringerlo ad una mossa avventata.
"Mi hanno
detto che tuo figlio strillava come una femminuccia mentre lo inchiodavano alla
croce, " gli disse con ferocia. "E che tua moglie gemeva come una
puttana mentre la violentavano... ancora... e ancora... e ancora..."
Gli occhi di
Massimo si riempirono di lacrime al pensiero della sofferenza provata dai suoi
cari ma il suo addestramento militare fu più forte della rabbia ed egli
resistette alla provocazione. Commodo fece una smorfia delusa e tornò all’attacco.
All’improvviso
Massimo scivolò sul marmo e Commodo lo ferì ad un polpaccio.
Il Generale
strinse i denti nel sentire l’improvviso dolore e Commodo gli sorrise
crudelmente. "Che c’è, Massimo, stai diventando vecchio? Mia sorella ha fatto
un pessimo affare a lasciarmi per te, ma io le dimostrerò di che pasta è fatto
un vero uomo!"
Massimo si limitò
a fissarlo e a raddoppiare i suo sforzi. La gamba gli faceva male ma questo,
unito alla visione di Lucilla nelle grinfie del suo pazzo fratello, non fece
che aumentare la sua determinazione. Una tempesta di colpi si abbatté su
Commodo e alla fine il suo braccio non resse più: un colpo di gladio lo tranciò
praticamente in due e lo uccise sul colpo.
Massimo guardò a
lungo il corpo crollato ai suoi piedi, quindi abbassò il braccio e chinò la
testa, respirando affannosamente. Era finita.
Nella sala cadde
un innaturale silenzio che fu rotto dalla voce decisa del Senatore Gracco.
"Ave, Massimo, Protettore di
Roma."
Massimo sollevò
la testa mentre tutti gli altri senatori ripetevano le stesse parole e
chinavano la testa in segno di rispetto.
Una mano fresca
gli sfiorò la guancia e i suoi occhi incontrarono quelli pieni di lacrime di
gioia di Lucilla. Massimo l’attirò a sé e l’abbracciò forte. Probabilmente non
era il comportamento più consono alla sua nuova carica ma in quel momento non
gliene importava nulla. Aveva vendicato i suoi cari. Aveva vendicato Marco
Aurelio. Lucilla, Rea e Lucio erano salvi. Tutto il resto era aria e polvere e
niente di più.
Massimo Decimo
Meridio era nel mausoleo di Marco Aurelio, in piedi vicino alla tomba del
grande imperatore. Quel giorno cadeva il secondo anniversario della sua morte.
"Padre,"
mormorò Massimo con voce carica di emozione, "il tuo sogno sta per
realizzarsi. Se tutto andrà come previsto, entro la fine dell’anno Roma tornerà
ad essere una repubblica."
Massimo sorrise
immaginando il viso compiaciuto di Marco Aurelio.
Quanto a lui, il
Protettore di Roma non vedeva l’ora di lasciare il suo incarico per tornare
finalmente ad occuparsi delle sue terre, dei possedimenti di Lucilla e dei
latifondi che il Senato aveva deciso di assegnargli quale ricompensa per il suo
operato. Avrebbe avuto molto da fare e Massimo non vedeva l’ora di cominciare.
Sentì dei passi
alle sue spalle e il suo sorriso divenne ancora più ampio: sapeva già di chi si
trattava, prima ancora che un braccio delicato gli cingesse la vita.
"Allora, gli
hai detto che tutto sta andando per il meglio?" gli chiese Lucilla,
dandogli un bacio sulla guancia.
"Sì,"
rispose lui semplicemente, mettendole un braccio sulle spalle ed attirandola a
sé.
"E gli hai
detto anche che presto avrà un altro nipotino?"
"No, pensavo
volessi dirglielo tu."
Lucilla sorrise
nel vedere il volto felice di suo marito e poi si staccò dal suo abbraccio,
avvicinandosi alla tomba e sfiorando il marmo con le dita, in una gentile
carezza.
"Riposa in pace, mio amato padre. Anch’io
sono in pace adesso. Non ho più paura né per me né per mio figlio e presto
smetterò di occuparmi di politica per fare solo la moglie e la madre... Per
questo io ti ringrazio, padre: è merito tuo, della tua previdenza, se ora posso
vivere così serenamente." Lucilla chinò la testa e Massimo tornò
accanto a lei, abbracciandola di nuovo.
Rimasero in
silenzio per alcuni minuti, contemplando il volto di marmo di Marco Aurelio,
finché Quinto non mise dentro la testa e schiarendosi la gola disse:
"Massimo, mi dispiace disturbarti, ma il Senatore Gracco ti sta
cercando."
Massimo scosse la
testa e rivolse un sorriso esasperato a sua moglie: mai che si riuscisse a
stare tranquilli per più di dieci minuti... Ma, ringraziando gli dei, presto
sarebbe tutto finito.
Porse la mano a
Lucilla che la prese, stringendogli le dita come a dire: "Forza e
coraggio, andiamo a sentire cosa vuole Gracco," ed insieme uscirono dal
mausoleo, pronti ad affrontare qualsiasi problema o questione si fosse loro
presentata.