Storie de Il
Gladiatore
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Storie ispirate dal film Il Gladiatore |
Salvo
ad ogni costo
di Ilaria Dotti
N.d.A.: La storia è scritta in prima persona, alternando il punto di
vista di due personaggi.
Prologo
Amor. Odium.
Amore. Odio.
Sono forse questi
i sentimenti più forti che un essere umano possa provare. E io li ho
sperimentati entrambi: un amore così profondo da sentirmi tutt’uno con colei
che amavo, due corpi e una sola anima, e un odio talmente devastante da affogare
il mio cuore in un nero abisso di furore e desiderio di vendetta.
Qualcuno sostiene
che amore e odio siano due facce della stessa moneta, e che si può arrivare ad
odiare la persona che prima si amava e viceversa, ma io, in tutta sincerità,
questo non l’ho mai creduto. Tuttavia, devo ammettere che, ora, amo una persona
che credevo di odiare con tutte le mie forze, malgrado essa non mi abbia mai
odiato.
Sto parlando di
mia moglie, la donna che mi ha salvato la vita, non solo materialmente,
allontanandomi dal pericolo quotidiano d’essere ucciso ma, ben più importante,
recuperando la mia anima dal baratro profondo in cui era precipitata a causa
del mio odio per Commodo.
*****
Credo che tutti
conoscano la mia storia: il generale che divenne schiavo, lo schiavo che
divenne gladiatore, il gladiatore che uccise un imperatore e divenne il padrone
di Roma.
Tutti sanno quel
che Commodo fece alla mia famiglia, e non ho intenzione di scrivere a proposito
di questi accadimenti. Malgrado ciò sia avvenuto diversi anni fa e io abbia
ritrovato la serenità, è per me impossibile raccontare per iscritto ciò che
provai quando trovai i cadaveri brutalizzati di Marco e Selene, perché è
indescrivibile. Solo chi abbia vissuto le mie stesse esperienze potrebbe
comprendere le mie emozioni e, francamente, spero che nessuno tra coloro che
leggeranno queste mie pagine non debba mai soffrire per una simile crudele
tragedia. Così inizierò il racconto dal momento del mio incontro con la donna
che pensavo di odiare con tutte le mie forze, e che adesso amo più della mia
stessa vita.
Era la seconda
notte dopo la “Battaglia di Cartagine” e la rivelazione della mia identità di
fronte a Commodo.
Era una notte
tranquilla, rischiarata dalla luna, il silenzio interrotto soltanto dalle
chiacchiere occasionali tra gli uomini di guardia al Ludus Magnus.
Stavo dormendo
nella mia cella, ma ero lo stesso vigile. I molti anni passati lungo i confini
settentrionali o in altri luoghi pericolosi, mi avevano reso capace di balzare
in piedi perfettamente sveglio al minimo rumore. E’ una capacità che possiedo
ancora, anche dopo anni di pace e tranquillità, quando gli unici attacchi che
rischio di subire sono quelli dei miei bambini che mi vengono addosso per farmi
il solletico.
Non era certo
così quella notte a Roma. Allora temevo l’arrivo di un sicario incappucciato,
inviato da Commodo a completare il lavoro che i suoi Pretoriani non erano
riusciti a portare a termine in Germania. Mi trovavo ancora in una fase di
sconforto, durante la quale non mi sarebbe importato di morire, se questo mi
avesse permesso di raggiungere i miei cari nei Campi Elisi, così la mia paura
non era connessa con l’idea di essere ucciso (dopotutto, come Marco Aurelio disse
una volta, “la morte sorride a tutti noi. Un uomo può solo sorriderle di
rimando”), ma con il fatto di non essere in grado di portare a termine la mia
vendetta, lasciando Lucilla e suo figlio preda delle rapaci mani di Commodo.
Detto ciò, non
c’è da sorprendersi se scattai in piedi quando un violento trambusto penetrò
nella cella dal cortile.
Mi sedetti in
fretta sul pagliericcio e strinsi gli occhi nel buio, cercando di capire cosa
stesse succedendo all’esterno. Dai rumori che riuscivo a riconoscere, sembrava
che un carro fosse arrivato e si fosse fermato nel cortile interno del Ludus Magnus: potevo sentire lo
scalpiccio degli zoccoli dei cavalli e il cigolio delle ruote.
Il mio udito
ancora concentrato sui rumori provenienti da fuori, mi voltai in direzione di
Juba: il mio amico e compagno di cella nubiano era pressoché invisibile nella
stanza, essendo la sua pelle nera dello stesso colore del buio che ci
avvolgeva.
“Cosa succede?”
mi domandò.
“Non lo so,”
replicai, con un migliaio di possibilità che mi danzavano nella mente, nessuna
di esse piacevole.
All’improvviso la
porta si aprì e Proximo, il mio lanista
entrò nella stanza e disse: “Vestiti, Generale, dobbiamo andarcene di qui alla
svelta.”
“Che sta
succedendo?”domandai stupito, ma l’uomo grigio e barbuto non mi rispose.
“Sii veloce e
silenzioso.” Proximo se n’andò, facendo entrare due guardie che occuparono il
suo posto, e io seppi che non potevo fare altro che obbedire. Il mio cuore era
pieno di preoccupazione e per l’ennesima volta i miei pensieri andarono a
Selene, a mio figlio, al sogno di Marco Aurelio e di sua figlia e a quello che
sarebbe accaduto se fossi stato ucciso allora. Mentre mi vestivo, sentivo gli
occhi di Juba fissi su di me che mi domandavano silenziosi che cosa avesse
dovuto fare, ma io non avevo risposte da dargli. Pochi minuti dopo, Proximo
rientrò e mi gettò sulle spalle un mantello scuro con il cappuccio. Quindi si
rivolse alle guardie. “Siamo pronti. Accompagnate l’Ispanico al carro.”
Con un ultimo
sguardo al mio amico numida, uno sguardo che diceva più delle mille parole che
non ebbi il tempo di dire, uscii all’esterno tra le guardie ma, con mia gran
sorpresa, non fui spinto sul carro, bensì vicino ad un angolo nascosto della
costruzione, dove stava anche Proximo, egli pure vestito di nero. Da quella
posizione, vidi un altro gladiatore salire sul carro e, mentre la porta di
ferro fu chiusa alle sue spalle, un uomo disse a voce alta. “L’Ispanico è a
bordo.” Al che Proximo replicò chiaramente: “Bene, portatelo al Tivoli: io vi seguirò
presto.”
“Sì, padrone.”
Intanto che
continuavano a caricare il carro, mi voltai verso Proximo. Era evidente che il lanista stava creando un diversivo per
distrarre i Pretoriani che con ogni probabilità sorvegliavano il Ludus Magnus, ma naturalmente non capivo
perché stesse facendo così.
Ce ne stemmo
zitti, appiattiti contro il muro per parecchio tempo, guardando il carro
allontanarsi ed attendendo fino a che la scuola dei gladiatori non tornò ad
essere tranquilla e silenziosa. Allora Proximo mi disse piano: “Vieni con me.”
“Dove stiamo
andando?”
“Non è il momento
di porre domande, Generale. Lasciami dire soltanto che non ti accadrà nulla. E
adesso taci e seguimi.”
Chiusi la bocca e
cominciai a seguirlo, con le due guardie che mi marciavano a fianco. Attraversammo
il cortile, stando ben attenti a camminare rasente il muro, finché arrivammo ad
una scala. Proximo prese una torcia, l’accese ed illuminò il tragitto. La scala
portava a un passaggio sotterraneo con pavimento di pietra e muri di mattoni.
Non so per quanto
tempo camminammo lì sotto ma finalmente trovammo un’altra scala che ci riportò
in superficie. Fuori, il paesaggio era cambiato. Non vi erano edifici in vista,
solo una radura con cespugli e una quercia solitaria nel mezzo. E vicino
all’albero vidi due figure ferme presso alcuni cavalli. Uno era più basso
dell’altro, ma i lunghi mantelli rendevano impossibile discernere ulteriori
dettagli.
Proximo si
avvicinò loro e disse: “E’ qui.”
“Bene,” fece eco
la voce di un uomo. “Fatelo montare a cavallo, dobbiamo giungere a Ostia al più
presto.”
Ostia? Il mio
cuore cominciò a battere selvaggiamente mentre pensavo a quella città. Sebbene
non vi fossi mai stato, sapevo che ospitava un accampamento militare, e
comincia a domandarmi se non sarebbe stato possibile raggiungerlo, e cercare di
scoprire dove fossero i miei uomini, la mia legione.
Le guardie
sembrarono leggermi nel pensiero, e mi incatenarono i polsi. Quindi mi
aiutarono a montare in sella a uno dei cavalli e ci mettemmo in cammino.
*****
Il viaggio verso
Ostia fu molto veloce perché ci fermammo a metà strada a cambiare i cavalli, e
prima che il sole sorgesse scorgemmo il grande porto, e la brezza fresca marina
risvegliò i miei sensi. Ero teso e stanco. Durante il viaggio, Proximo non aveva
mai parlato e quindi non avevo indizi su che cosa stesse succedendo.
Ho sempre
detestato l’essere lasciato senza informazioni perché ciò mi rende incapace di
valutare la situazione in cui mi trovo. Mi sentivo come un agnello condotto al
macello, le parole rassicuranti che Proximo mi aveva rivolto in precedenza
erano già state dimenticate.
Quando infine
giungemmo al porto, uno dei figuri che avevamo incontrato fuori Roma additò una
delle navi visibili nella pallida luce dell’alba e disse: “E’ quella. Sta solo
aspettando noi per salpare.”
“Bene,” fece
Proximo.
Ero molto
confuso. Le cose si stavano movendo troppo in fretta perché io potessi
razionalizzare ciò che stava accadendo intorno a me. Era evidente che stavamo
per imbarcarci, ma per andare dove? Stavamo forse per tornare in Africa?
I cavalli si
fermarono e le guardie mi tirarono giù di sella non troppo gentilmente. Il mio
istinto alla fine si ribellò e cominciai a resistere loro. Ero stanco d’essere
trattato come un sacco di farina e non avevo intenzione di salire su quella
nave finché non avessi saputo dove mi stavano portando.
Proximo si
avvicinò e mi disse: “Generale, non essere recalcitrante. Ti ho detto che non
ti capiterà niente di male.”
“Dove stiamo
andando?” gli sibilai, ma lui si limitò ad accennare alle guardie di portarmi
via ed uno dei nostri accompagnatori si unì ai due uomini. Con ben tre
persone che mi tiravano per le catene e mi spingevano dietro la schiena, fu
impossibile resistere a lungo. E così, malgrado avessi lottato per ogni passo del
cammino, infine mi ritrovai a bordo della nave, rinchiuso in una piccola
cabina, le catene fissate ad un anello della parete. Provai a tirarle,
misurando la loro forza e alla fine mi sedetti sul letto che era l’unico mobile
di quella stanza insieme ad una bacinella, cercando di valutare la mia
situazione. Dai rumori provenienti dall’esterno, sembrava che la nave stesse
per salpare dal molo.
All’improvviso la
porta si aprì. Scattai in piedi quando riconobbi Proximo.
“Che succede?”
domandai, forse per la decima volta.
“Questo è un
addio, Generale. I nostri destini stanno per prendere differenti strade.”
“Cosa?”
“Io non sono più
il tuo padrone, Massimo… Sei stato comprato.”
Ero sconvolto, la
mia mente stentava a comprendere quel che lui mi aveva appena finito di dire.
“Co… comprato?”
“Sì. Da qualcuno
che non vuole che tu metta più piede in qualche arena… Da questo momento, stai
per iniziare una gran bella vita.”
“Perché? Perché
mi fai questo?” chiesi, mentre un gelido furore rimpiazzò la mia iniziale
sorpresa.
“Mi fai questo? A
prescindere dal fatto che sono il tuo proprietario e posso fare di te ciò che
voglio, di certo non ti sto spedendo alle miniere di sale di Cartagine. Ti sto
mandando in un posto dove sarai salvo e al sicuro.”
“Io non voglio
essere al sicuro!” ringhiai furioso, avanzando quanto me lo permetteva il gioco
delle catene. “Tu sai cosa voglio!”.
“Sì, so cosa
vuoi: vuoi ritrovarti di fronte a Commodo ed ucciderlo, per vendicare i tuoi
cari e Marco Aurelio, ma disgraziatamente non sarai più in grado di farlo,
perché qualcuno ti ha comprato giusto per evitarti di finire ammazzato.”
Stava cominciando
a perdere la pazienza, ma non me ne importava più di tanto. “Proximo…”
“Mi dispiace,
Generale, ma io sono solo un uomo di spettacolo. E sto diventando vecchio. I
soldi che ho guadagnato vendendoti mi permetteranno di trascorrere negli agi il
resto della mia vita ed era un’offerta che non potevo rifiutare. Forse ti
sentirai meglio, se ti dico che tutti i tuoi compagni gladiatori sono adesso
uomini liberi. Non li volevo più tra i piedi e così li ho affrancati.”
Me ne stavo
zitto, fissando il mio ex padrone. Non c’era altro da dire. Tutto era già stato
deciso. Ero acutamente consapevole del fatto che non contassi niente e fossi
alla completa mercé degli dei e d’altre persone. Inoltre, dentro di me,
qualcosa si stava spezzando.
Tradimento.
Ancora un volta
ero stato tradito da qualcuno che reputavo amico.
“Sono stato un
folle a fidarmi di te,” gli dissi cupamente.
Proximo rimase un
lungo istante in silenzio, mordendosi le labbra come se si stesse trattenendo
dal dire qualcosa, quindi sussurrò: “Addio Generale, ti auguro di avere una
lunga vita.
Non replicai ma
gli voltai le spalle, nel gesto più offensivo che potessi fare come schiavo.
Qualche istante dopo, sentii aprirsi e richiudersi la porta.
*****
Il tempo passò.
Sapevo che la
nave aveva lasciato Ostia e si trovava adesso in mare aperto, l’avevo dedotto
dal rollio tranquillo dell’imbarcazione. Dalla luce che entrava da una
finestrella sulla parte alta mi accorsi che era già mattina inoltrata ma,
nonostante non avessi chiuso occhio tutta la notte, mi riuscì impossibile
riposare. Continuai a camminare avanti e indietro come un leone in gabbia,
troppo agitato e furibondo per sdraiarmi sul letto.
La porta si aprì
ancora una volta per ammettere due uomini che sembravano guardie. Uno di loro
era lungo e secco, l’altro più basso e robusto, e zoppicava dalla gamba destra.
Erano entrambi armati e quello alto girò la lancia verso di me, premendone la
punta contro il mio petto.
“Sta fermo e
stendi le braccia,” mi disse l’altro, con un familiare accento spagnolo.
Impossibilitato
dal fare altro, ubbidii ai suoi ordini e guardai con sorpresa mentre egli mi
liberava il polso destro dalle catene, lasciando assicurato al muro solo il
braccio sinistro. Questo cambiamento mi dava maggiore libertà, ma mi lasciò
alquanto perplesso. Fatto questo, la guardia uscì lasciandomi sotto la custodia
del suo collega armato di lancia, quindi tornò subito portando con sé un
vassoio di legno pieno di cibo.
“Questa è la tua
colazione,” mi disse l’uomo. “Mangia, verremo tra un’ora a portare via il
vassoio.”
Non lo guardai
neppure. “Non ho fame. Voglio vedere colui che mi ha comprato,” chiesi.
“Il tuo nuovo
padrone in questo momento è occupato.”
“Digli che voglio
vederlo!” Urlai. Ero talmente furioso da dimenticare che la mia condizione era
di uno schiavo in catene.
L’uomo tarchiato
sorrise. “Calma, Generale. Avrai tempo d’incontrare il tuo nuovo proprietario.
Adesso mangia e riposati… Il viaggio sarà lungo.”
Detto ciò
uscirono, lasciandomi solo con le mie domande senza risposta.
Andai verso il
letto e ispezionai il cibo nel vassoio: pane al miele, formaggio, latte e
frutta. Era una colazione molto abbondante e questo, unito al fatto che mi
avessero alleggerito delle catene, confermava le parole di Proximo, secondo cui
sarei stato trattato bene. Ma tutto questo non placò la mia rabbia e la mia
ansia. Ero così agitato che non riuscii a mangiare. Volevo sapere chi fosse il
mio nuovo padrone (come mi suonavano strane nella testa quelle parole!). Volevo guardare in faccia l’uomo che mi
aveva privato dell’unica possibilità che avessi di trovarmi di fronte a Commodo
per vendicare la mia famiglia e realizzare l’ultimo ordine del mio imperatore.
Dopo essere stato così vicino alla realizzazione del mio scopo, non potevo
sopportare di essere portato via. Volevo vedere la persona che aveva fatto
tutto questo e mostrarle tutto l’odio e il disgusto che avevo nel cuore...
E’ tempo per me di comparire in questa storia;
Massimo vuole che il mio punto di vista sia incluso insieme al suo.
Egli vuole altresì che mantenga in questo mio
scritto un certo alone di mistero e non riveli subito la mia identità… come se
le persone che stanno leggendo queste pagine non sapessero già chi sono! Ma io
farò come chiede, cominciando il mio racconto dal terzo giorno del nostro
viaggio per mare.
Ricordo che me ne stavo nella mia cabina e
leggevo alcune lettere scritte dal mio defunto padre. Era in pratica tutto ciò
che mi restava di lui, dopo che il mio fratellastro si era rifiutato di farmi
avere le statue e i preziosi che papà mi aveva lasciato con il suo testamento.
Ero seduta ad un tavolino, e il rollio della nave
faceva danzare il fuoco della lucerna di fronte a me, quando udii bussare alla
porta.
“Avanti,” dissi, e Tito entrò. Era un ex soldato,
un centurione proveniente dalla Spagna Tarraconense che, dopo venticinque anni
di servizio militare, era stato scelto da mio padre come capo delle mie guardie
personali. Era tarchiato e muscoloso come un mastino, e mi era fedele fino alla
morte. Sua moglie e sua figlia erano morte a causa della peste e, da allora,
era come se mi avesse adottata.
Tito si fermò di fronte a me, sull’attenti, in
quella posizione che non mancava mai di strapparmi un sorriso e disse:
“Signora, mi dispiace disturbarti, ma mi avevi detto di informarti
immediatamente se il Generale avesse continuato a rifiutarsi di mangiare.”
Parlò come se stesse facendo rapporto ad un ufficiale superiore.
“Grazie, Tito. E così persiste a fare il
testardo?”
“Sì, domina. Rifiuta di assumere cibo, di
lavarsi ed insiste con il volerti incontrare. Abbiamo tentato in molti modi di
convincerlo a cambiare sistema, ma è stato tutto inutile.”
“Non l’avete picchiato, vero?” domandai
preoccupata.
“No, domina, non abbiamo toccato il
Generale. Tuttavia, se mi è permesso parlare, dovremo costringerlo a buttar giù
qualcosa, perché non può andare avanti a lungo senza mangiare.”
Serrai le labbra, sapendo che aveva ragione.
Sapevo già che Massimo era un uomo testardo, ma non avevo previsto che lo
sarebbe stato contro di me. A quel tempo ero piuttosto ingenua su certe
faccende, ma quel viaggio per mare e gli eventi che vi succedettero, mi fecero
maturare velocemente. Mi alzai e dissi: “Hai ragione, Tito, è tempo che vada a
visitarlo. Andiamo.” E così dicendo mi diressi verso la cabina adiacente.
*****
Non mi presi il
disturbo di alzarmi dal mio giaciglio quando sentii aprirsi la porta, convinto
che fossero le due guardie, venute a riprendersi il vassoio che avevano portato
un’ora prima. Ero abituato all’andazzo, sicché mi limitai ad aprire un occhio
per controllare cosa facessero, pronto a tornare al mio pisolino. Tuttavia
questa volta c’erano tre persone nella stanza ed una di loro era una donna. Era
molto giovane, intorno ai diciotto, diciannove anni, alta e snella. Aveva i
capelli tra il biondo e il castano chiaro, gli occhi azzurri. Era bella sotto
qualsiasi punto di vista ma, in quel momento, non ero dell’umore adatto per
apprezzarla.
Mi misi a sedere
e la fissai con belligeranza. Sapevo che mi sarei dovuto alzare ed inchinarmi,
ma ero talmente adirato e risentito da non riuscire ad essere anche educato e
rispettoso.
Ci fissammo l’un
l’altra a lungo, quindi lei ruppe il silenzio. “Mi è stato detto che ti rifiuti
di mangiare e che hai detto di volermi incontrare.” Disse con voce pacata.
Io sollevai un
sopracciglio. “Tu, signora? Io voglio parlare con il mio nuovo padrone, tuo
padre o tuo marito, suppongo.”
“Mio padre è
morto e non sono sposata,” ribatté lei. ”Sono io la tua padrona.”
“CHE?!” esclamai
stupito. “Perché mi hai comprato?”
“Ho le mie buone
ragioni. Niente di cui t’importi, Generale.” Replicò lei.
Il tono freddo e
formale della sua risposta mi mandò in bestia. Quella donna mi aveva tolto
qualsiasi possibilità di mettere in atto la mia vendetta e aveva l’ardire di
rifiutarsi di spiegarmene i motivi. Sentii la mia rabbia salire a livelli di
guardia. Mi alzai di scatto, barcollando un attimo per la debolezza dovuta alla
mancanza di cibo, e mossi contro di lei, finché le catene non mi bloccarono.
“Dimmi perché!”
le urlai, e le guardie reagirono puntandomi al petto le loro lance. Non me ne
importava niente e seguitai ad incenerire con lo sguardo la donna.
Lei indietreggiò
e dopo qualche istante disse: “Sei un uomo talmente attraente… Sarebbe un
peccato se t’ammazzassero nell’arena. Specialmente adesso che ho altri progetti
per te. Progetti molto piacevoli, potrei aggiungere.”
Mi fissava con
uno sguardo calcolatore che non mi piacque per niente e sentii un brivido
corrermi lungo la schiena quando udii le sue parole. Sapevo che certe donne
erano morbosamente attratte dai gladiatori… La stessa Lucilla aveva trovato
quella scusa per incontrarmi nelle segrete del Colosseo.
“Che vuoi da me?”
le chiesi con voce molto calma.
Lei fissò
arrogante il mio corpo, come se stesse valutando un cavallo che intendeva
acquistare, e disse: ”Possiedo un allevamento di schiavi a Melita (Malta) e ho
bisogno di un buono stallone. Credo che tu sia perfetto per questo genere
d’attività. Sono sicura che genererai parecchi bambini forti e belli.” Mi
sorrise e tacque, guardandomi con… aspettativa? Le guardie sembrarono pensare
che io avrei reagito male perché strinsero le lance ancor più saldamente, come
se temessero un attacco.
Ma non reagii in
quel modo. La rabbia che avevo provato fino a quel momento si era dileguata,
rimpiazzata da una calma determinazione. Il futuro che quella donna mi aveva
pianificato sarebbe potuto sembrare il paradiso per qualche altro uomo, ma non
per me. Era una tale degradante, avvilente e umiliante prospettiva che non
riuscii nemmeno a prenderla in considerazione. Fino a quel momento, malgrado
avessi perduto la mia libertà e tutto ciò che contava di più per me, avevo
conservato la mia dignità, la mia autostima, il mio onore. Ma ciò che quella
donna voleva fare di me, trasformarmi in uno stallone da monta, era l’estrema
umiliazione, la vergogna completa per me, per la memoria di mia moglie e dei
miei avi. Ero nauseato. “Ciò che facciamo
in vita, echeggia nell’eternità” e io non volevo essere marchiato come uno
stallone da monta. Volevo poter incontrare i miei antenati nei Campi Elisi a
testa alta.
Il mio sguardo si
indurì quando decisi che c’era solo una cosa che mi restasse da fare. Morire. E
volevo una morte da Romano.
Sentendomi più
calmo di quanto non lo fossi stato in mesi, voltai lentamente le spalle alle
guardie e alla donna e raccolsi tutte le mie forze. Quindi, veloce come una
saetta, ruotai sui talloni e mi gettai sulla lancia puntata contro il mio
petto. Chiusi gli occhi quando sentii la lama penetrarmi nella carne. Mi piegai
sulle ginocchia… L’ultima cosa che ricordo prima di soccombere al terribile
dolore fu il senso di maligna soddisfazione che provai quando sentii la donna
urlare per il dispiacere di aver perduto il suo prezioso stallone.
*****
Molti anni sono trascorsi da quel pomeriggio ma ancora adesso quella
scena ritorna qualche volta a perseguitarmi nei miei sogni. E io la vedo di nuovo:
Massimo che si getta sulla lancia, la punta di ferro all’altezza del suo cuore.
Vedo me stessa intuire all’ultimo possibile istante le sue intenzioni e reagire
spingendo il braccio di Tito prima che il corpo di Massimo tocchi l’arma. E
sento il mio urlo di terrore quando lo vedo piegarsi sulle ginocchia e crollare
sul pavimento con un’orribile macchia rossa che gli si allarga rapidamente sul
petto…
Quel pomeriggio compresi quanto danno possano arrecare le bugie, anche se
sono dette a fin di bene.
Per alcuni terribili momenti credetti che Massimo fosse morto e tutto per
colpa mia. Mi abbandonai al panico, ma il sangue freddo di Tito salvò la
situazione… e salvò l’uomo che mio padre aveva amato talmente tanto da farmi
sacrificare quasi tutto pur di strapparlo agli artigli di Commodo.
Fu Tito a prestare a Massimo i primi soccorsi… Fu lui a chiamare il
medico di famiglia, che viaggiava con noi. Fu lui che mi portò via mentre che
il dottore lottava per salvare la vita del Generale e mi tenne la testa contro
il suo petto mentre piangevo. Tito: il migliore amico che abbia mai avuto.
Osservai in silenzio mentre il medico, Antonio, rimuoveva le bende dalla
spalla ferita di Massimo, le annusava e annuiva in segno d’approvazione.
“Non c’è più alcun segno d’infezione,” commentò, e io sospirai di
sollievo. Tuttavia la mia felicità fu di breve durata. “Se sta migliorando,
perché non si sveglia?” domandai preoccupata. Erano passati quattro giorni dal
suo tentativo di suicidio e Massimo non aveva ancora aperto gli occhi.
“Beh, mia signora, il suo corpo è molto provato dall’emorragia e dal
digiuno… Inoltre, se posso essere franco, non ha più voglia di vivere. Dopo
tutto ha cercato di uccidersi, e non credo che intenda lottare per la sua vita.”
Annuii, cupa. Sapevo che era solo colpa mia se il Generale giaceva
incosciente nel letto.
Antonio terminò di riporre i suoi ferri e uscì dalla stanza,
promettendomi che più tardi, nel pomeriggio, sarebbe tornato. Non appena mi
ritrovai sola, presi tra le mie la mano di Massimo e cominciai a parlargli,
sperando che le mie parole potessero suscitare in lui qualche reazione…
*****
Le prime
sensazioni che provai mentre cominciavo a ritornare in me furono un pulsante
dolore che mi tormentava la spalla sinistra, la stretta delicata di una mano
intorno alla mia e la freschezza di dita gentili che mi accarezzavano la barba
sulle guance o i capelli.
Quindi sentii una
voce accanto a me.
La sua
voce.
“Ti prego, non
morire, Generale, ” stava dicendo. “Ti ho raccontato una bugia, non ho alcuna
intenzione di trasformarti in uno stallone da monta… Credimi… Per favore…”
Me ne stetti
fermo e zitto, tenendo gli occhi chiusi mentre la mia mente stanca cercava di
assorbire quello che avevo appena udito. La donna aveva mentito… non sarei
stato costretto ad accoppiarmi… ma potevo crederle? La stanchezza mi avvolse
ancora e mi addormentai prima di poter dare una risposta alle mie stesse
domande.
*****
La seconda volta
che mi svegliai, udii ancora la voce dolce della donna. Impiegai qualche minuto
prima di rendermi conto che stava leggendo qualcosa… un brano di un trattato
filosofico. Rimasi a lungo con gli occhi chiusi, ascoltandola e valutando le
mie condizioni. La spalla quasi non mi faceva più male, ma quella era una magra
consolazione. Ero ancora vivo… Pronto a diventare uno stallone… Ero… La
successione dei miei pensieri fu interrotta dal ricordo di quanto aveva detto
la donna al mio primo risveglio. Aveva detto di avermi mentito…
Mi riscossi e,
con grande sforzo, aprii gli occhi, deciso che era arrivato il momento di
ottenere delle risposte.
*****
Con la coda dell’occhio vidi il movimento della sua testa e subito
lasciai cadere il rotolo di papiro, dedicando a lui tutta la mia attenzione.
“Generale, ti sei svegliato!” Mi rivolsi a lui con piacere. Non era
esattamente la cosa più intelligente da dire, ma ero troppo sopraffatta dal
sollievo per pensare con chiarezza.
Massimo grugnì alle mie parole e lessi sulla sua bella faccia che si
stava domandando se la mia felicità fosse o no dovuta al fatto che non avessi
perduto una proprietà pagata a caro prezzo. I nostri sguardi s’incrociarono e
sentii il mio sorriso gelarsi, quando vidi la rabbia che gli bruciava negli
occhi verde azzurri, mentre mi fissava con uno sguardo accusatore.
“Generale,” cominciai, piegando la testa. “Mi dispiace molto per tutto
questo. Non avrei mai immaginato che tu reagissi così… all’idea
dell’allevamento di schiavi.” I suoi occhi si piantarono irosi nei miei e io
proseguii, ammettendo con vergogna. “Era tutta una bugia.”
“E perché?” La sua voce era arrochita dal fatto che fosse rimasto quattro
giorni senza parlare.
“Io credevo che l’idea di essere considerato alla stregua di uno stallone
avrebbe acuito la tua rabbia, convincendoti a mangiare di nuovo in modo da
essere in grado di contrastarmi. Ma, ovviamente, avevo fatto male i miei
calcoli…”
Vidi le sopracciglia di Massimo alzarsi sulla fronte, segno di crescente
curiosità. “Che vuoi fare con me?” Il suo tono era ancora rabbioso e
maleducato, ma non me ne importava. Aveva ragione di comportarsi in quel modo.
Raccolsi le idee prima di rispondergli, decisa che era giunto il momento
di dirgli tutta la verità. “Desidero semplicemente tenerti al sicuro, e
salvarti dall’odio di Commodo. Non posso sopportare l’idea di vederti ucciso.”
“Perché?” Domandò ancora una volta, avendo la mia risposta sollecitato
oltremodo la sua curiosità.
“Perché mio padre vorrebbe che io lo facessi. Se fosse ancora vivo, il
suo cuore non reggerebbe all’idea di saperti schiavo, gladiatore e alla
completa mercé di Commodo.”
“Tuo padre?”
“Sì,” sussurrai piano, venendo
al dunque. “Il mio nome è Aureliana Flavia Caspia e sono la figlia illegittima
di Marco Aurelio.”
*****
Rimasi
meravigliato alla sua dichiarazione. La figlia di Marco Aurelio! Provai a
mettermi seduto e ci riuscii grazie al suo aiuto, adagiandomi con la schiena
appoggiata alla spalliera del letto, notando distratto che non ero più
incatenato. Ancora ammutolito dalla sua rivelazione, osservai curioso la sua
giovane faccia. Studiandola con attenzione, mi accorsi che i capelli avevano la
stessa sfumatura di quelli di Lucilla e gli zigomi erano affilati come quelli
del padre.
“Sei la piccola
Pseca?” domandai meravigliato.
Sul suo visino si
disegnò un sorriso euforico. “Sai di me?”
Annuii. “Tuo
padre mi parlava spesso di te…” Mi smarrii nei ricordi: le notti fredde in
Germania… Gli ululati dei lupi attraverso gli alberi… il vento che sferzava le
strade dell’accampamento… una tenda riscaldata… le fiamme che danzavano sul
viso di Marco Aurelio, mentre il vecchio mi parlava della sua figlia più
giovane, che amava tanto e a cui aveva affibbiato il nomignolo affettuoso di
Pseca. Briciolina.
Aureliana sorrise
e replicò: “Anche lui mi ha parlato molto di te. Ti amava come un figlio, e
sono molte le cose che so di te… Tu per me sei come un caro amico, anche se non
ti ho mai visto prima, e non potevo permettere che Commodo ti uccidesse, non
quando possedevo i mezzi per salvarti.”
Quelle parole mi riportarono
al presente. “Mia signora Aureliana,” cominciai rispettosamente. “Quello che
hai fatto è molto pericoloso. Commodo mi vuole morto e mi farà cercare. Stai
mettendo la tua vita in grave pericolo.”
“Per cominciare,
Generale, la mia vita ha cominciato ad essere in pericolo dal momento in cui il
mio fratellastro è diventato imperatore. Commodo mi odia, non ha mai perdonato
al padre di essersi preso un’altra donna dopo la morte di sua moglie. Egli era
morbosamente attaccato a sua madre… ed era risentito dal fatto che mio padre ed
io fossimo molto vicini. Era solo questione di tempo prima che ordinasse che io
fossi uccisa o esiliata. Così me ne sono andata prima che potesse farlo. La
notte della nostra fuga diverse navi che ho ereditato dalla famiglia di mia
madre hanno lasciato Ostia dirette verso vari porti dell’Impero, in modo da
mettere in difficoltà chi cercasse di individuare quella giusta. Stiamo andando
a Melita, in una proprietà che apparteneva a mia madre. Nessuno, eccetto mio
padre e un altro uomo di cui mi fido completamente, ha mai saputo che
esistesse. Lì saremo al sicuro.” Aureliana cessò di parlare e mi guardò, con
gli occhi limpidi che tradivano il bisogno della mia approvazione. Era una
donna intelligente, ma in lei viveva ancora la bambina che era stata fino a
poco tempo prima: sospettavo che la morte improvvisa del padre e l’ascesa al
potere di Commodo l’avessero fatta maturare rapidamente.
“Ma che mi dici
di Roma, mia signora?” le domandai piano.
“Roma?”si
accigliò confusa. “Che cosa vuoi dire?”
“Mi hai detto che
tu e tuo padre eravate molto legati, quindi dovresti sapere che per lui non
c’era niente di più importante di Roma e del benessere dei suoi abitanti. E’
morto per questo… Come possiamo lasciare Commodo sul trono, libero di distruggere
tutto ciò che Marco Aurelio ha fatto?” Parlai con sincerità e serietà, cercando
di fare appello al suo senso della responsabilità e del dovere.
Aureliana si
voltò dall’altra parte, evitando di guardarmi.
“Lasciami
tornare, Aureliana,” cercai di convincerla in modo gentile ma allo stesso tempo
deciso, stringendole il polso con la mano destra. “Sono l’unico che possa
fermarlo.”
“No.” I suoi
occhi guardarono nuovamente nei miei, pieni di testardaggine. “No. Non voglio
che ti sacrifichi. Tu verrai con me a Melita e ci rimarrai finché Commodo vive.
Dopo sarai libero di andartene.”
“Aureliana…”
provai ancora a farla ragionare, ma lei si alzò in piedi, liberando il braccio
dalla mia stretta.
“E’ tutto,
Generale,” disse con un tono che mi ricordò quello usato da suo padre quando
dava ordini che non ammettevano repliche. “Non c’è più niente da discutere.
Adesso riposati, devi assolutamente guarire prima che raggiungiamo l’isola,
perché la mia tenuta è in mezzo alle montagne ed è difficoltoso arrivarci.”
E, detto questo, girò sui tacchi e se ne andò, lasciandomi solo e desolato.
*****
Ripensando a quella conversazione, mi rendo conto
che qualcuno potrebbe pensare che io agii come una bambina irresponsabile e
viziata, pensando solo a me stessa e non certo a Roma. Forse era così. Ma lo
feci solo perché guidata dall’amore per mio padre, e dalla ferma convinzione
che quello fosse esattamente ciò che lui avrebbe voluto che io facessi.
Egli amava davvero Massimo come un figlio e sono
sicura che non avrebbe mai voluto sacrificare la sua vita per Roma.
Sì, so che la gente può pensarlo, adesso che la
verità è conosciuta da tutti: Marco Aurelio, in Germania, aveva chiesto a
Massimo di diventare il Protettore di Roma, malgrado sapesse che non era questo
ciò che il Generale voleva, e questo potrebbe far pensare che fosse pronto a
sacrificare la sua felicità per l’Impero. Può darsi che fosse vero, ma io credo
ancora che mio padre non avrebbe mai voluto sacrificare la vita di Massimo. Se
tutto fosse andato come aveva pianificato, Massimo sarebbe tornato alla sua
tenuta, una volta compiuto il dovere di Protettore, pronto a vivere come meglio
credeva il resto della sua vita. Ma mio padre si sbagliava: Commodo non accettò
quelle decisioni e Massimo e la sua famiglia pagarono il prezzo di
quell’errore.
Fui informata della morte di mio padre da
Lucilla. Lei ed io siamo sempre state molto legate, considerate le circostanze
della mia nascita. Lei mi riferì anche che il Generale Massimo era stato
giustiziato per tradimento e io piansi la perdita di un uomo che non avevo mai
incontrato, ma che conoscevo molto bene. L’uomo che, posso ora confessarlo, mio
padre una volta mi disse sarebbe stato un ottimo marito per me, se non fosse
che era già sposato e perdutamente innamorato di sua moglie. Penso che possiate
concedermi che tale pensiero fosse più che sufficiente per destare in me la più
grande curiosità riguardo a Massimo!
E penso che questo possa aiutare a capire perché,
una volta scoperto che era ancora vivo e costretto a lottare da gladiatore nel
Colosseo, usai tutte le risorse a mia disposizione per comprarlo e portarlo in
salvo in un posto sicuro. Conoscevo il suo desiderio di vendetta avendo
assistito ai Giochi, su cortese invito del mio fratellastro, il giorno in cui
lui lo dichiarò di fronte a cinquantamila persone, ma del fatto che si
vendicasse, francamente non me ne importava più di tanto, a quel tempo.
Chiamatemi ingenua, se volete. Anche la
politica non era poi così importante. Chiamatemi irresponsabile, se lo
desiderate. Ma l’amore e l’affetto lo erano. Così agii. Versai una piccola
fortuna a Proximo per comprare Massimo e lo portai via.
E non mi pentii mai della mia decisione, nemmeno
nei mesi terribili e bui durante i quali lui mi odiò con tutto se stesso.
Bene, adesso non credo che odiassi davvero Aureliana nel periodo del nostro
soggiorno a Melita, ma certo provavo rancore nei suoi riguardi e per ciò che mi
aveva fatto. Credo fosse naturale. Razionalmente so, come lo sapevo allora, che
le mie possibilità di uccidere Commodo nell’arena dopo che il mio primo
tentativo era fallito a causa della presenza del piccolo Lucio, sarebbero state
più che scarse perché certamente lui avrebbe preso tutte le precauzioni
possibili, ma ero lo stesso furioso per essere stato trascinato via prima che
potessi compiere la mia ultima missione.
Ero ancora in una fase di profonda depressione, cieco a tutto ciò che non
fosse dolore o vendetta. Adesso capisco che il mio proposito era un’ossessione
e sono profondamente grato per il tempo che fui costretto a passare sull’isola
perché, con gradualità, riemersi dal nero abisso in cui ero caduto e cominciai
di nuovo a vedere la luce.
Ma non era facile
e, come ho detto, ci vollero mesi.
Sin dal primo momento del mio sbarco a Melita e per un lungo periodo, il
mio umore mutò dalla depressione, al risentimento, alla rabbia, con Aureliana e
Tito come principali bersagli. Essi furono abbastanza intelligenti da starmi
lontani, lasciandomi rimuginare tutto il giorno, ma allo stesso tempo tenendomi
d’occhio, come se temessero che potessi tentare di uccidermi di nuovo. Non ce
n’era bisogno, ero troppo arrabbiato per desiderare di morire.
Nei primi giorni dopo il mio arrivo avevo tentato di parlare con Tito, un
ex legionario, chiedendogli di lasciarmi andare, per il bene di Roma, ma lui
era stato chiaro: era fedele alla sua padrona, nessun aiuto sarebbe arrivato da
parte sua. E così non facevo altro che lavorare sotto il sole cocente,
stancandomi abbastanza da crollare, ogni notte, esausto sul letto.
*****
Un pomeriggio, mentre stavo ammucchiando del fieno con un forcone, le
labbra irrigidite in una linea dura per manifestare la mia intenzione di non
soccombere alla stanchezza finché non avessi finito il lavoro iniziato, udii
passi leggeri avvicinarsi a me da dietro. Perfino prima che iniziasse a
parlare, seppi che era Aureliana e mi sforzai di continuare il lavoro come se
lei non ci fosse.
“Che stai
facendo, Generale?” cominciò.
Come al solito, la sua voce mi fece imbestialire, ma cercai di controllare
le mie reazioni. “Penso, signora, che tu possa vedere da te quello che sto
facendo.” La mia voce era fredda, tale da scoraggiare ulteriori tentativi di
avviare una conversazione.
Lei stette per un
po’ in silenzio, poi aggiunse. “So quello che stai facendo, ma la domanda è
un’altra… Perché lo stai facendo? Ci sono gli schiavi per certi lavori.”
“Io sono uno schiavo, signora, nel caso tu l’avessi dimenticato,” dissi
continuando il mio lavoro e ignorandola a bella posta.
“Qui tu sei un
ospite.”
“Un ospite?!” sbottai infine smettendo di lavorare per guardarla. “Un
ospite che non può andarsene? Che di notte è chiuso a chiave nella sua stanza?
Io credo che tu abbia una strana idea a proposito dell’ospitalità.”
Aureliana serrò le labbra. “Se di notte ti chiudiamo a chiave nella stanza
è per il tuo bene, ma tu qui non sei prigioniero. Sono molte le cose che
potresti fare: cavalcare, nuotare nel lago, esercitarti in palestra, leggere in
biblioteca…” Il suo tono gentile e cortese mi rese ancora più furioso.
“Ma non posso
fare ciò che davvero vorrei!” le urlai contro, piantando il forcone in terra.
*****
Ricordo così bene la faccia di Massimo… com’era
quel giorno, con la sua tunica fine tutta sporca, la pelle viscida di sudore,
gli occhi fiammeggianti fissi nei miei, bello come Marte furibondo. Potevo
percepire la rabbia a stento contenuta ribollirgli sotto la pelle abbronzata e
lo trovai eccitante e pericoloso. Mio padre mi aveva descritto Massimo come un
uomo solitamente calmo e gentile ma, come spesso succede a questo tipo di
uomini, la sua collera poteva essere devastante. Ma non provavo paura, mi
sentivo spavalda e orgogliosa e così commisi l’azione più sciocca di tutta la
mia vita: lo provocai, forse volendolo punire perché continuava testardamente a
rifiutare il dono che gli avevo fatto, o forse perché mi piaceva giocare col
fuoco. “Che cosa vuoi?” gli chiesi.
“Come se non lo sapessi…” replicò lui sarcastico.
“Ah…capisco, ” dissi con tono di supponenza,
“forse… vuoi un po’ di compagnia a letto …”
Ancora adesso non so come io abbia potuto dire
una cosa del genere… Ma la dissi, e prima che avessi il tempo di reagire me lo
trovai addosso, con le forti mani che mi afferravano per le braccia mentre
ringhiava. “Devi smetterla di provocarmi!” e mentre lo diceva mi strinse al suo
petto muscoloso e mi baciò, aprendomi le labbra con brutalità, mentre la sua
lingua mi invadeva la bocca. L’assalto non durò che pochi momenti, quindi
Massimo mi lasciò andare. “Se non puoi darmi ciò che voglio, almeno lasciami
solo!” sbottò allontanandosi da me con lunghi passi nervosi.
Lo guardai andarsene, il cuore che batteva forte,
la mente sconvolta da ciò che era appena accaduto. Nessuno mi aveva mai
baciato, prima, e le sensazioni che Massimo aveva scatenato in me erano potenti
e confuse: stupore, paura, piacere… desiderio. E rabbia, ma non contro di lui,
contro me stessa. Mi vergognavo di averlo provocato in maniera tanto volgare.
Scossi la testa per chiarirmi le idee. Perché continuavo a comportarmi in quel
modo?
Ero ancora convinta che il mio amato padre
avrebbe voluto che io tenessi Massimo al sicuro, ma questo non mi dava il
diritto di tormentarlo perché non lui era felice della situazione. Mi ritenevo
ormai una donna, ma mi ero comportata come una ragazzina viziata.
Tuttavia la reazione del mio corpo al bacio di
Massimo non era stata quella di una ragazzina, ma di una donna, una donna che
avrebbe voluto ripetere quell’esperienza, una donna che avrebbe potuto essere
tentata dall’idea di provocare ancora il generale, nella speranza che lui
rispondesse nell’identica maniera…
*****
Ripensandoci,
credo che quell’assalto, quel bacio, rappresenti il punto più basso che abbia
mai toccato nel corso della mia tribolata esistenza, perché mi fece comprendere
che mi stavo comportando come un animale. Mentre mi allontanavo da Aureliana mi
rimproverai per ciò che le avevo fatto. Mi sono sempre piaciute le donne e le
ho sempre rispettate. Nella campagna spagnola dove sono cresciuto, le donne
hanno una grande importanza all’interno delle famiglie ed è stato mio padre ad
insegnarmelo, con l’esempio del rispetto e dell’amore verso mia madre. Mi
vergognai di me stesso. Io, che ero sempre stato gentile e rispettoso perfino
con le puttane di guarnigione a disposizione dei soldati, avevo trattato con
brutalità e violenza una ragazzina innocente il cui unico torto era quello di
volermi salvare la vita! Mi sentii profondamente addolorato e mi domandai che
cosa stesse pensando di me Selene, nei Campi Elisi. Lei, la cui opinione per me
contava più di quella di chiunque altro, sicuramente sarebbe stata sconvolta
dalla mia azione.
Eppure,
nonostante la mia autodeprecazione, non mi scusai con Aureliana se non molto
tempo dopo, quando accadde qualcosa che ci fece avvicinare, come se tutta
l’ostilità che provavo per lei non fosse mai esistita. Ma quando ciò avvenne,
io avevo già iniziato a cambiare, avevo già cominciato a riemergere dal gorgo
della rabbia, avevo gia incominciato a guardare ad Aureliana con occhi diversi,
a vederla come la giovane donna degna di rispetto che effettivamente era. E
tutto a causa di quel bacio violento, punitivo, perché, avendo toccato il
fondo, non potei fare altro che iniziare a risalire.
A due mesi circa
da quell’episodio, stavo attraversando il giardino per raggiungere la mia
stanza: era tardo pomeriggio e mi sentivo stanco ma soddisfatto, avendo
trascorso la giornata aiutando i braccianti a raccogliere le arance dagli
alberi e desideravo solo un bagno, del cibo e il mio letto. Non ero felice,
quel sentimento era un così lontano ricordo che a stento rimembravo che cosa
significasse, ma almeno non mi sentivo del tutto miserabile come qualche tempo
prima. Quando me ne resi conto, mi fermai un attimo in giardino, a gustarmi la
nuova, piacevole sensazione e l’atmosfera rilassante del luogo. Guardai la
fontana centrale e la vasca con i pesciolini, lo zampillo dell’acqua come
musica per le mie orecchie. Guardai al di là delle siepi ben potate verso le
montagne che si stagliavano all’orizzonte e il sole che stava tramontando,
quasi sorpreso che avessi ancora, o forse, di nuovo, la sensibilità per
ammirare un simile spettacolo.
La visione mi
riportò alla mente il ricordo di altre sere, passate a guardare il tramonto con
Selene tra le braccia e il naso infilato in mezzo ai suoi capelli. Ma stavolta
i ricordi non mi provocarono la straziante pena del passato, bensì un dolce
senso di nostalgia. E capii che stavo cominciando a guarire. Non volevo più
morire per raggiungere mia moglie e mio figlio, perché sapevo che loro
sarebbero stati sempre con me nel mio cuore, ma stavo lo stesso male perché non
ero stato in grado di tenere fede alla mia promessa di vendicarli.
Sapevo che non mi sarei mai lasciato alle spalle il passato, finché Commodo
fosse stato vivo. Fino a che egli fosse vissuto io non sarei stato capace di
dimenticare che non ero stato capace di eseguire gli ordini di Cesare e neppure
di proteggere i miei cari. Finché egli fosse vissuto, io non sarei stato libero
di iniziare una nuova vita.
Pensare al tiranno mi fece guardare verso la villa, in direzione della
terrazza al primo piano dove Aureliana passava parecchio del suo tempo.
Era lì, ma non
stava leggendo, scrivendo o cucendo come faceva di solito a quell’ora. Stava
piangendo, il corpo minuto scosso dai singhiozzi, le braccia strette intorno al
petto.
Nonostante tutto
quello che era successo tra noi, fui commosso dal quadro disperato che
rappresentava… Sembrava così fragile e abbattuta che sentii dentro di me la
necessità di andare da lei ed indagare su cosa potesse esserle capitato.
Percorsi al volo
la scala di marmo, rallentando solo quando misi piede sul terrazzo. Aureliana
mi sentì e alzò la testa e si irrigidì quando si accorse di che si trattava,
cercando di asciugarsi in fretta le lacrime.
Sentii una fitta
al cuore alla sua reazione, allo sguardo timoroso che mi lanciò, e per
l’ennesima volta rimproverai me stesso per il comportamento vergognoso che
avevo tenuto con lei. Quel bacio animalesco aveva distrutto tutta la fiducia
che aveva in me e da allora aveva sempre evitato di ritrovarsi sola in mia
presenza. Infatti anche allora la vidi scrutare il terrazzo cercando qualcuna
delle serve o delle guardie.
“Non temere, mia
signora,” dissi fermandomi a qualche passo da lei. “Non verrò più vicino.”
Lei annuì senza
parlare, ma nei suoi espressivi occhi azzurri era possibile leggere una
domanda. Perché sei qui?”
“Ti ho vista
disperata, signora, e volevo sapere se posso esserti d’aiuto in qualche modo.”
Aureliana annuì
ancora e vidi scendere dai suoi occhi lacrime copiose che le rigavano gli
zigomi delicati.
“Che succede?”
domandai preoccupato, tormentato dal suo dolore e da una sgradevole
premonizione. “Dimmelo, per favore, forse potrei aiutarti…”
*****
La sincerità del suo sguardo e della sua voce
fecero crollare la mia risolutezza. Avevo un disperato bisogno di qualcuno a
cui confidare le mie pene, di qualcuno in cui riporre la mia fiducia… Sì,
perché non avevo mai smesso di fidarmi di Massimo, nemmeno dopo la faccenda del
bacio.
Lui vi ha detto che dopo quell’episodio io avevo
paura di lui, ma non è proprio così. Avevo paura, ma di me stessa. Non volevo
stare sola con lui perché temevo che avrei provato a stuzzicarlo un’altra volta
nel tentativo di provocargli la stessa reazione. Sapevo già di essere innamorata
di lui, di un uomo che con tutta probabilità mi detestava…. Non credo debba
sorprendere che io cercassi di stargli lontana per evitare di aumentare la sua
ostilità nei miei riguardi…
Ma quel giorno stavo troppo male e lui mi
sembrava così premuroso! Allora gli raccontai tutto.
“E’ appena arrivata una lettera da Roma…”
cominciai.
“Sì?”
“Me l’ ha spedita un amico. Dice che Commodo è
stato vittima di un attentato. Esso è fallito, ma il mio fratellastro ha
reagito molto male… Molti senatori sono stati uccisi o esiliati e… e…” La mia
voce si spezzò, prima che potessi riferirgli la parte peggiore di ciò che mi
era stato scritto.
Massimo mi si avvicinò e s’inginocchiò di fronte
alla mia sedia. “Aureliana, vai avanti, per favore.”
Pur nella mia disperazione, notai che quella era
la prima volta che mi chiamava per nome, dai tempi della nostra conversazione
sulla nave. “Commodo è convinto che Lucilla abbia preso parte al complotto… La
tiene di fatto prigioniera a Palazzo… E non le permette di vedere Lucio. Il mio
amico teme che Cesare possa… usare il bambino per soddisfare gli insani
desideri che nutre… per sua sorella.” Io sapevo già da qualche tempo che
Commodo nutriva una morbosa passione per Lucilla e, guardando l’espressione di
Massimo, capii che anche lui ne era a conoscenza.
Egli restò per qualche attimo in silenzio quindi,
guardandomi negli occhi intensamente, disse: “Aureliana, dobbiamo fare qualcosa
per aiutarli.” Stavo per accennare un no con la testa, ma lui mi prevenne, con
la sua voce dolce e determinata. “Lucio è solo un bambino, una creatura
innocente. Non possiamo permettere che Commodo gli faccia del male o corrompa
la sua anima. E Lucilla… Marco Aurelio mi aveva confidato che lei ti vuole
bene, che avete trascorso insieme molto tempo. Non credi che lui avrebbe voluto
che li aiutassimo?”
La mia risolutezza cominciò a vacillare e Massimo
lo notò. Prese la mia nelle sue grandi mani e soggiunse, “Lasciami andare, per
favore… Se non per Roma, per la memoria di tuo padre…”
“Io… non voglio che tu muoia,” dissi. “Non voglio
che Commodo ti faccia quel che ha fatto a mio padre.”
“Chi te l’ha detto?”domandò sorpreso.
“Io… E’ solo una mia supposizione. Sapevo che mio
padre non voleva lasciare il trono a Commodo e il fatto che egli invece ci sia
seduto sopra, ha fatto sorgere dei sospetti dentro di me. Ho ragione?”
“Sì, hai ragione. Marco Aurelio è stato
strangolato. E questo è un altro motivo per cui non possiamo lasciare Commodo
al suo posto.”
*****
Aureliana rimase
a lungo in silenzio, meditando e ponderando sulle mie parole.
“Come pensi di
eliminarlo?”
Scossi la testa. “A dire il vero, non lo so,” sospirai frustrato, poi
aggiunsi: “Hai detto di avere un amico a Roma… Quello che ti ha spedito la
lettera…” Lei annuì. “Potrebbe aiutarmi a scoprire dov’è d’istanza il mio
esercito?”
“Il tuo esercito? Saresti pronto a marciare su Roma alla testa dei tuoi
soldati?” Più che sconvolta, era ammirata.
“Se fosse
necessario, sì, lo farei.”
“Il mio amico è
un senatore, certamente sarà in grado di trovare i tuoi uomini.”
“Perfetto.” Sorrisi e me ne restai silenzioso, mentre osservavo Aureliana
lottare con le sue emozioni.
Era evidente che voleva aiutare la sua sorellastra e il nipotino, ma allo
stesso tempo non voleva che lasciassimo il nostro sicuro nascondiglio di Melita.
Infine sospirò e disse: “Bene, Generale, hai vinto. Andremo a Roma e faremo
quanto è in nostro potere per salvare Lucilla e Lucio.”
“Grazie, mia signora,” dissi io, stringendole affettuosamente la mano. “Ma sarebbe
meglio se tu rimanessi qui al sicuro… Ho solo bisogno d’una lettera di
presentazione a quel tuo amico senatore e…” Lei mi interruppe divincolando il
braccio dalla mia stretta e sollevandola in un gesto imperioso simile a quelli
di Marco Aurelio.
“Verrò con te e niente potrà farmi cambiare idea. Inoltre ho da porti
un’altra condizione per lasciarti andare…”
“Oh?”
“Voglio che tu mi giuri, adesso, sulla cosa che ti è più cara, che
prenderai tutte le precauzioni possibili per non essere ucciso.”
“Che?” Restai meravigliato a quella richiesta.
“Giura che farai di tutto per sopravvivere. Lo pretendo. So che potrebbe
sembrarti infantile, ma mio padre diceva che sei un uomo di parola e che tieni
sempre fede alle tue promesse.”
Guardai il suo viso, notando ancora di più che strana affascinante
mescolanza fosse… La bambina spaventata si sovrapponeva alla donna e
necessitava la mia promessa per esorcizzare le sue paure. Annuii piano e dissi
con solennità: “Va bene, Aureliana. Io giuro sulla memoria di mia moglie e di
mio figlio che farò di tutto per uscirne vivo.”
“Ottimo,” disse lei e subito la bambina scomparve per lasciar posto solo
alla donna. “Siediti accanto a me, Generale, ho bisogno del tuo aiuto per
organizzare il viaggio.”
Colpito dal suo tono deciso, mi alzai per accomodarmi sulla sedia vicino
alla sua, la mente già intenta a pianificare la mia prossima “campagna
militare”.
Il viaggio di ritorno a Roma fu del tutto diverso da quello che mi aveva
portato a Melita. Per cominciare, non ero più uno schiavo chiuso a chiave
dentro la cabina, ma un uomo libero che poteva muoversi ovunque sulla nave.
Inoltre non ero più pieno di rabbia contro il mondo in generale e Aureliana
in particolare, ma mi sentivo di nuovo determinato e concentrato, il mio cieco
desiderio di vendetta imbrigliato da calcoli e necessità politiche,
dall’esigenza di salvare Lucilla e Lucio e di proteggere Aureliana. Non ero più
un gladiatore, ero di nuovo un generale, pronto a servire Roma come avevo
sempre fatto, anche se non indossavo più la sua uniforme.
Passai molto tempo ad elaborare i piani con Aureliana e Tito. L’idea di
base era prendere contatto Gracco, il senatore amico di Aureliana e chiedergli
aiuto per individuare il mio esercito. Nutrivo la speranza che i miei uomini
fossero acquartierati in Italia perché era lì che erano attesi alla fine delle
campagne in Germania. L’idea di marciare su Roma con la mia legione e di
scontrarmi con i Pretoriani non mi spaventava, le mie uniche preoccupazioni
erano per i civili che si sarebbero potuti trovare coinvolti nei combattimenti.
Per questo motivo speravo che il senatore Gracco (un politico accorto, secondo
Aureliana, e molto attento al benessere del popolo) potesse farsi venire in
mente qualche altra idea. Anche Tito la pensava così. Mi piaceva, era stato un
abile centurione, pratico e dotato di sangue freddo e io apprezzavo i suoi
consigli, perché lui conosceva Roma e l’Italia meglio di me. Diventammo ottimi
amici durante il viaggio, e lo siamo ancora.
Di comune accordo, decidemmo di non attraccare ad Ostia ma a Napoli, perché
quel porto era meno controllato, e quindi di procedere via terra, spacciandoci
per mercanti.
Ma non trascorremmo tutto il tempo complottando. Io e Aureliana ci
lanciavamo spesso in lunghe discussioni oppure giocavamo coi dadi, facendo sì
che i lunghi giorni di inattività passassero più in fretta.
Durante le nostre chiacchierate, imparai molte cose su di lei e sulla sua
famiglia. La madre, Flavia Caspia, era stata l’unica figlia di un ricco
mercante ma, proprio perché suo padre non ebbe altri figli e desiderava che
qualcuno mandasse avanti la sua attività, era stata educata come un maschio e
il suo interesse per la filosofia, l’economia e la politica avevano attratto
l’attenzione di Marco Aurelio, nel corso di una cena alla quale aveva
accompagnato suo padre. Il matrimonio dell’Imperatore era a quel tempo un
completo disastro perché sua moglie Faustina se la intendeva con i gladiatori e
lui trovò conforto nell’amicizia di una donna che non era interessata solo agli
abiti all’ultima moda e ai giochi del Circo. Dopo alcuni anni di amicizia erano
divenuti amanti, dopo Faustina che era morta di malattia, ed essi avevano avuto
una figlia, Aureliana. Marco Aurelio non aveva potuto riconoscerla per ragioni
d’opportunità politica, ma ciò non gli aveva impedito di amarla teneramente, di
occuparsi di lei e di andarla a trovare ogni volta che si trovava a Roma,
portando spesso Lucilla con sé. La madre di Aureliana era morta tre anni prima
del nostro incontro, lasciando alla figlia le sue grandi ricchezze, che
comprendevano tenute in varie zone dell’impero e un’imponente flotta
mercantile.
Più conoscevo Aureliana, più mi piaceva. Era ancora giovane e piuttosto
ingenua, ma aveva una mente brillante e predisposizione per gli affari. Era preparata
in politica ma piuttosto idealista, non certo scaltra e calcolatrice come
Lucilla. Era così pura, incorrotta… Ed era così rigenerante parlare con lei,
ridere con lei, ora che era tornato il sereno tra di noi.
E poi, quasi all’improvviso, mi accorsi di esserne attratto.
Accadde un giorno mentre, dal ponte della nave, guardavamo il mare. Il
vento soffiava con forza e la prua fendeva sicura le onde, causando degli alti
spruzzi che finirono col bagnarci. Ci ritraemmo dal parapetto con un grido e
stavamo ridendo come bambini sciocchi quando il mio sguardo fu attratto dai
suoi seni, che la seta bagnata della veste evidenziava come una seconda pelle.
La mia risata si spense e sentii il mio corpo reagire a quella vista, per cui
mi voltai imbarazzato e confuso. Mi imposi di ignorare quelle nuove sensazioni.
Aureliana era così giovane, io non avevo ancora dimenticato quel che era
accaduto a Selene e stavamo andando a Roma per eliminare l’imperatore, anche se
non sapevamo quante possibilità avessimo di riuscire a farlo. Non era certo il
momento per un romantico interludio, anche se fossi stato il tipo d’uomo che
amava le avventure passeggere, il che non era. Tuttavia, dovetti ripetermi
spesso quei propositi, specialmente quando Aureliana mi sorrideva in quel modo
che avevo iniziato a adorare.
*****
Massimo non era il solo a lottare contro le sue emozioni.
Anch’io provavo dei forti sentimenti per il mio compagno di viaggio.
Adesso che era libero e non più di cattivo umore
com’era stato in passato, potevo vedere
in lui, nel modo in cui parlava e si muoveva, l’uomo che mio padre aveva amato
e stimato, l’uomo che avevo voluto salvare. Ed era davvero un uomo speciale, con una formidabile combinazione
di personalità carismatica e fascino fisico a cui io non ero in grado di
resistere.
Ero conscia di essere innamorata di lui, lo ero dal giorno in cui mi aveva baciata, ma
non avevo idea di cosa fare. Ero infatti timidissima e non sapevo come avrebbe reagito
alle mie attenzioni. Massimo sembrava apprezzare i momenti che trascorrevamo
insieme sulla nave, impegnati a chiacchierare un po’ di tutto o a giocare, ma
ogni qualvolta egli parlava della sua famiglia sterminata, i suoi occhi
diventavano così tristi e malinconici, che io lo credevo ancora legato alla
moglie defunta. Pensavo che non avrebbe gradito le mie attenzioni, ammesso e
non concesso che avessi trovato il coraggio di fare il primo passo, per cui
decisi di accontentarmi dell’amicizia che ero certa vi fosse tra di noi, felice
di passare il tempo ascoltando la sua voce quando mi raccontava vecchi aneddoti
sui primi anni della sua carriera militare, ed orgogliosa che si fidasse di me
a tal punto da rivelarmi cosa fosse successo davvero in Germania il giorno
terribile in cui morì mio padre.
Non desideravo perdere tutto questo offrendo a
Massimo qualcosa che egli non volesse, o forse, non fosse ancora pronto a
prendersi... Giusto, perché, nonostante tutta la mia inesperienza in questioni
amorose, notai ugualmente le occhiate che spesso lanciava nella mia direzione,
prima di distogliere lo sguardo con un rapido, colpevole, movimento. Non era
molto… ma abbastanza per cominciare a sperare.
Non appena attraccammo a Napoli, acquistammo alcuni cavalli e una partita
di pezze di seta, in modo da poterci travestire da mercanti prima di iniziare
il nostro cammino verso Roma. Io non assunsi il ruolo del proprietario delle
merci ma quello di una delle guardie di scorta, ed Aureliana e Tito si
spacciarono per padre e figlia.
Il viaggio durò dodici giorni e sarebbe stato molto piacevole, non
fosse per la tensione causata dalla
difficoltà della missione e per la massiccia presenza dei Pretoriani lungo la
strada. Essi continuavano a chiederci di mostrare i nostri salvacondotti e a
perquisire il convoglio, ma per fortuna non fecero niente di peggio che
innervosirci. In quelle circostanze ammirai il sangue freddo di Aureliana e il
modo in cui riusciva ad ottenere la lealtà di tutti coloro che stavano al suo
servizio. Da questo punto di vista, era davvero figlia di suo padre… E più
tempo passavo con lei, più difficile diventava resisterle. Mi stavo innamorando
di lei, per quanto impossibile sarebbe stato solo sei mesi prima, anche se mi
sforzai di non agire. Non sapevo che cosa potesse capitarmi a Roma, e non
volevo farle del male. E, ancor più importante, non sapevo come Aureliana
avrebbe potuto reagire alle mie attenzioni… Adesso posso ammettere che allora
non mi ero reso conto dei suoi sentimenti per me: era passato molto tempo
dall’ultima volta che mi ero innamorato e stentavo a riconoscerne i segni.
Finché una sera
Aureliana mi dimostrò esplicitamente quel che pensava di me…
*****
Ricordo ancora quella sera, come se fosse
accaduto ieri.
Eravamo ad appena alcune miglia da Roma e stavamo
attraversando una zona spopolata, circondata da campi e foreste. Sentivo
crescere dentro di me un misto di paura, eccitazione ed aspettativa ad ogni
miglio che percorrevamo.
Quando il sole cominciò a tramontare, ci fermammo
e ci accampammo nei pressi del Tevere. Sarebbe stata l’ultima volta: la sera
successiva saremmo stati a casa di Gracco.
Mentre Tito e gli altri uomini montavano le tende
e preparavano la cena, Massimo si occupò dei cavalli, portandoli al fiume per
bere e per bagnarsi. Poiché avevo sempre amato queste stupende creature, lo
accompagnai e nonostante le sue proteste lo aiutai a far entrare gli animali
nell’acqua. Mi sedetti quindi sul tronco di un albero caduto e lo guardai
giocare con un puledro al quale lui gentilmente afferrava la lingua ogni
qualvolta la giovane bestia spalancava la bocca come se volesse, per scherzo,
mordere il Generale. Era una scena così serena che mi persi nella sua
contemplazione: lì, vicino al fiume che mormorava, circondati dalla quieta foresta,
mi sentivo stranamente in pace, come se i pericoli che ci attendevano a Roma e
le preoccupazioni che avevano accompagnato il nostro viaggio si fossero
dileguati.
Ma quella pace durò solo pochi minuti, perché le nuvole che ci avevano seguiti per
tutto il giorno si erano accumulate sulle nostre teste e il rombo lontano di un
tuono ruppe il silenzio. Io sono rimasta terrorizzata dai temporali da quando,
ancora molto piccola, ho visto la mia bambinaia essere uccisa da un fulmine a
pochi passi da me. Mi considero una persona razionale, ma tuoni e lampi hanno
il potere di scatenare la creatura irragionevole che vive in me. Quel giorno
non fu diverso: reagii al primo lampo che vidi balzando in piedi e correndo
nella foresta in cerca di un rifugio. Chiunque sa che la cosa peggiore che si
possa fare durante un temporale è cercare rifugio sotto gli alberi, ma come vi
ho detto, ero talmente terrorizzata che la mia mente non ragionava più, tanto
da dimenticare perfino che l’area dove sostavamo era piena di zone paludose.
Ma per fortuna Massimo mi seguì, afferrandomi per
un braccio e fermandomi prima che potessi farmi davvero male.
*****
Non appena vidi Aureliana scattare in piedi e correre via, fui sorpreso ed
allarmato. Aveva sentito qualcosa di insolito? Qualcosa che poteva essere per
noi una minaccia? Poi, all’improvviso, il balenare di un lampo mi riportò alla
mente una conversazione avuta con Marco Aurelio durante una notte di temporale
in Germania, durante la quale, parlando dei fulmini, mi aveva detto come la sua
piccola Pseca ne fosse terrorizzata.
Lasciai i cavalli, sperando che non scappassero via, e mi lanciai al suo
inseguimento, chiamandola per nome a gran voce. Durante il giorno, avevamo
notato delle pozze paludose lungo il fiume e temevo che potesse cadervi dentro.
Aureliana correva veloce come una gazzella spaventata ma alla fine riuscii
ad afferrarla per un braccio e a fermarla.
“Aureliana…” le dissi voltandola verso di me. “Aureliana…”
I suoi occhi erano spalancati e folli di terrore. Provò a divincolarsi e mi
disse implorante: “Dobbiamo scappare! Dobbiamo cercare un rifugio! I lampi ci
uccideranno!”
“Shh,” le sussurrai senza allentare la mia stretta. “Calmati e guarda il
cielo. Lo vedi? Il temporale si sta spostando in un’altra direzione, non sta venendo
verso di noi … Non c’è da aver paura.” La presi tra le braccia, premetti la sua
testa sul mio petto, accarezzandole i capelli e la schiena, sentendo il suo
corpo minuto smettere di tremare.
*****
La prima cosa che notai tornando in me e venendo fuori
dalla mia condizione di folle terrore, fu il suono sordo del cuore di Massimo
che pulsava contro il mio orecchio. Questo mi riportò alla calma e alla
razionalità ma, nello stesso tempo, mi fece vergognare, non appena mi resi
conto di che razza di spettacolo avessi offerto all’uomo che più di ogni altro
volevo impressionare favorevolmente. Mi sentii arrossire ancor prima di dire,
“Lasciami andare, Generale, per favore. Adesso sto bene.” Egli lo fece, staccò
le braccia da me e io mi allontanai, vergognandomi a tal punto del mio
comportamento che non osai neppure guardarlo in faccia. Restammo a lungo in
silenzio, quindi lui mi domandò gentilmente: “Ne sei sicura, mia signora?”
Annuii e, fissandomi i piedi, borbottai: “Sì,
grazie Generale.”
“Non si direbbe,”commentò a bassa voce e decisi
che era tempo di guardarlo in faccia. Lo feci e quando i miei occhi
incontrarono i suoi non vi lessi dentro pietà o rabbia, ma solo gentilezza.
“Mi dispiace, Generale, non avrei dovuto
comportarmi come ho fatto… So che devo esserti sembrata stupida, a farmi
spaventare così da un lampo. Tu sei abituato al pericolo, quello vero, in
battaglia e nell’arena, e di certo mi hai preso per un’idiota quando sono
scappata per… Non ho il diritto di essere così sciocca, ci sono cose molto più
spaventose… Le orde barbariche che hai incontrato in Germania… Quelle sono cose
da temere, non…” Non so per quanto tempo ancora avrei continuato a balbettare
se Massimo non avesse fermato con un bacio quel fiume di parole. Ma questa
volta non fu un bacio punitivo come quello che mi aveva inflitto a Melita,
questo fu dolce e gentile. E mentre l’altra volta io ero rimasta rigida ed
immobile, stavolta gli risposi appassionatamente, mettendo in quell’atto tutto
il fervore che avevo covato dentro di me per mesi. Credo che il mio
comportamento sorprese Massimo, che interruppe il contatto delle nostre labbra
e mi guardò meravigliato. Gli sorrisi e risposi alle sue perplessità
prendendogli tra le mani la faccia barbuta e accostando un’altra volta la sua
bocca alla mia.
*****
Quello fu
l’inizio: come un fiume che aveva rotto gli argini, così i nostri sentimenti,
nei mesi passati tanto accuratamente nascosti agli altri e perfino a noi
stessi, irruppero liberi e ci travolsero, rendendo impossibile fermare la marea
prima che le onde della nostra passione si acquietassero, una volta esaurito il
loro slancio.
Affetto, ammirazione, passione e desiderio si unirono insieme, creando una
tempesta di emozioni che ci sommerse. Facemmo l’amore lì, in mezzo alla
foresta, con l’erba alta e tenera per materasso. Cercai di essere più gentile
che potevo, conscio dell’innocenza di Aureliana e, anche se non fu facile
tenere il mio corpo sotto controllo dopo tanti anni di astinenza, penso di aver
fatto in modo che l’esperienza fosse piacevole per entrambi.
Quando tutto ebbe termine, guardai nel profondo degli occhi di Aureliana,
domandandole silenziosamente che cosa provasse e lei replicò con il più
luminoso sorriso che avessi mai visto in tutta la mia vita. Io le risposi con
la prima vera risata gioiosa degli ultimi quattro anni, prima di rotolare sulla
schiena e di stringere il suo corpo minuto al mio petto, restando abbracciato a
lei per un lungo periodo.
I nostri guai erano tutt’altro finiti ma, in quel momento, ero in pace.
*****
Giacemmo lì, a guardare uno negli occhi
dell’altra, per non so quanto tempo, finché le voci dei servi che ci chiamavano
ruppero l’incanto. Massimo mi aiutò a rivestirmi e ancora una volta restai
sorpresa dalla gentilezza di quell’uomo, che pure era stato un così feroce
guerriero. Era stato un amante tenero e premuroso, e aveva fatto in modo che la
mia prima volta fosse dolce e meravigliosa come quella che avevo sognato
leggendo i versi d’amore di Ovidio. Egli mi aveva trattata come la cosa più
preziosa del mondo, una sensazione mai provata prima.
Non ci scambiammo parole d’amore quella sera,
almeno non con le labbra, ma entrambi sapevamo che c’era qualcosa di profondo e
meraviglioso tra di noi, e questo rese ancora più necessario per noi il
chiudere i conti con Commodo perché solo la sua morte ci avrebbe davvero resi
liberi di iniziare una nuova vita, senza più ombre nere che minacciassero il
nostro futuro.
La sera successiva arrivammo a Roma.
Eravamo tutti nervosi quando giungemmo alle porte della città, ma cercammo
di tenere sotto controllo le nostre emozioni, per non insospettire le guardie.
Comunque i Pretoriani erano distratti nel loro lavoro, e non ci chiesero i
salvacondotti. Aureliana ringraziò gli dei per la nostra buona fortuna, ma io
mi augurai che la poco accurata ispezione fosse dovuta al fatto che alle
sentinelle non importasse più di tanto del loro imperatore.
Una volta dentro le mura, trovammo una locanda con annessa stalla, dove
Tito e gli altri uomini entrarono, prenotando le camere per tutti, mentre io ed
Aureliana ci recammo subito a casa del senatore Gracco.
Il politico viveva in cima al Viminale e io seguii Aureliana attraverso la
città, meravigliato per come sapesse orientarsi nel dedalo di viuzze e
stradine. Alla fine, raggiungemmo il Vicus
Patricius trovandoci davanti ai cancelli di un’elegante villa.
“Ci siamo,” sussurrò lei bussando alla porta.
“Chi è?”domandò un servo, aprendo l’uscio solo un poco.
“Dì al Senatore Gracco che la Signora Pseca è qui,” disse Aureliana. Il
servo, un giovane greco pesantemente truccato, inarcò le sopracciglia
nell’udire quel nome ma corse ubbidiente ad avvertire il suo padrone.
Aspettammo alcuni minuti quindi la porta fu aperta di nuovo, questa volta
da un distinto, anziano signore con i capelli e la corta barba grigi. L’uomo
guardò spaventato Aureliana quindi la prese per il gomito invitandola ad
entrare nella villa e facendomi cenno di seguirla, per poi guardare con apprensione
la strada e chiudere la porta.
“Bambina mia, che ci fai qui?”domandò non appena il chiavistello scivolò al
suo posto. “Perché sei tornata, quando a Melita eri lontana da ogni pericolo?”
“Tu sai perché sono tornata, non potevo starmene con le mani in mano
sapendo quello che Commodo sta facendo a Lucilla e a Lucio,” disse Aureliana
orgogliosamente.
Gracco sorrise amaro. “Sei così un’idealista, bambina. E come ti proponi di
aiutarli?”
“Io non presumo di sapere come eliminare Commodo, ma conosco qualcuno che
potrebbe aiutarci.”
”Oh?” Gracco sollevò un sopracciglio. “E chi sarebbe?”
Aureliana mi toccò il braccio, facendomi cenno d’avvicinarmi a lei.
“Senatore, lascia che ti presenti il generale Massimo Decimo Meridio.” Io feci
scivolare giù il cappuccio del mio mantello e m’inchinai. “Senatore Gracco…”
L’anziano politico mosse gli occhi inquieti da me ad Aureliana per tornare
a me e sbottare. “Che? Non mi dire che lui era con te a Melita?!”
“Ero lì,” risposi al posto di Aureliana. “Lei mi ha comprato da Proximo e
portato via da Roma”
Gracco era troppo stupito per rispondere ma si riprese in fretta. Si
schiarì la voce e disse, porgendomi la mano: “Generale, è per me un piacere
incontrarti. Ho sentito molto parlare di te.”
“Buone cose, spero.”
“Buone cose, Generale. E dette da persone di cui mi fido e mi fidavo… Marco
Aurelio parlava molto bene di te.”
Annuii. “Senatore, avrei qualcosa di molto importante da dirti, a proposito
del nostro defunto Cesare, ma forse sarebbe meglio non restare qui nell’atrio.”
“Oh, Numi dell’Olimpo! Mi ero totalmente dimenticato di dove siamo, scusami
tanto. Seguitemi, per favore.”
Gracco ci guidò
per una lunga scala verso il suo elegante e spazioso studio dove ci indicò tre
sedie e ci offrì dei bicchieri di vino, prima di tornare all’argomento
principale. “Di che cosa volevi parlarmi, Generale?”
*****
Massimo cominciò a parlare e, in poche frasi
concise, raccontò a Gracco quel che era successo in Germania il giorno in cui
mio padre morì e del suo desiderio di sapere dove fosse accampata la legione
Felix. Concluse dicendo: “Non ho prove che attestino come Marco Aurelio volesse
che io restaurassi la Repubblica, ma spero che il fatto che io sia qui invece
che al sicuro a Melita sia garanzia sufficiente a farmi meritare la tua fiducia.”
Gracco annuì lentamente. “Marco Aurelio si fidava
di te, Generale. Le sue figlie si fidano di te. Io mi fiderò di te, aiutandoti
a ricercare il luogo dov’è stanziata la tua legione e, ancor più importante,
informandoti che c’è già in atto un piano per uccidere quello là.” Non era
necessario spiegare chi fosse “quello là”. “Entreremo in azione domani.”
“Così presto?”domandai.
“Sì: lui ci ha forzato la mano. Devi sapere che
dopodomani egli intende reclamare il consolato vestito da gladiatore, per non
parlare del fatto che ha deciso di cambiare il nome dell’Urbe da Roma a Colonia
Commodiana. E’ completamente pazzo e, privo del controllo che Lucilla riusciva
ad esercitare su di lui, è divenuto ingovernabile. Ha sterminato il Senato (io
mi meraviglio ogni giorno di essere ancora vivo) e l’Ordine Equestre per
confiscare i loro beni e pagare i giochi, dopo essersi venduto perfino le
riserve di grano. Il popolo è stanco di lui e anche i Pretoriani sono
disgustati dal suo stile di vita… E’ tempo di agire.
“Quali sono i piani?” domandò Massimo.
“Marzia, la sua amante, e il Prefetto del
Pretorio, intendono avvelenarlo. Come senz’altro sai, domani è un giorno
festivo, dedicato a Giove. Tutti i luoghi pubblici saranno chiusi e tutti gli
schiavi, gli scrivani e perfino molti Pretoriani sollevati da ogni incombenza.
Ma Commodo se ne starà a Palazzo perché vuole allenarsi con un gladiatore per
essere in perfetta forma quando apparirà nell’arena.” Gracco sbuffò e proseguì.
“Egli si allena sempre da solo con il suo istruttore e Marzia intende mettergli
il veleno nel vino. Si tratterà di qualcosa dall’azione molto lenta perché
Commodo è solito far assaggiare tutto quello che mangia e beve, ma lo sforzo
della lotta contro il gladiatore ne accelererà gli effetti…”
“E vi offrirà una scappatoia… Qualcuno che potrà
essere indicato alla folla come colpevole,” commentò Massimo amaramente,
riferendosi al ruolo del lottatore.
“Temo sia proprio così,” ammise Gracco.
“E come si chiama questo combattente?”
“Narciso, credo. Il nome suona decisamente
ridicolo, considerato che quell’uomo ha...”
“...un naso rotto e una brutta faccia sfregiata
che nasconde sempre sotto l’elmo,” concluse Massimo.
“Lo conosci?”
“Sì. Anche lui faceva parte della scuderia di
Proximo.”
“Beh, Generale, mi dispiace, ma ogni guerra ha le
sue vittime,” commentò Gracco.
“Lo so,” sospirò Massimo. “Anche troppo bene.
Quando accadrà?”
“Subito dopo pranzo.”
Il silenzio cadde nella stanza, mentre noi
sorseggiavamo il nostro vino finché non lo ruppi domandando: “E noi cosa
dobbiamo fare?”
“Penso che sarebbe meglio se tu e il Generale
lasciaste la città ed attendeste fuori delle mura l’esito della cospirazione.
Voi due avete corso un grave rischio tornando qui. Commodo vi farebbe uccidere
all’istante se vi dovesse scoprire. State lontani, per favore, fatelo per la
memoria di Marco Aurelio e nell’eventualità, Generale, che possiamo avere
bisogno che tu entri in azione, nel caso in cui...
La voce di Gracco si spense, ma Massimo continuò.
“Nel caso in cui il complotto fallisse.”
“Sì.”
Non c’era altro da dire. Gracco ci accompagnò
alla porta, mi baciò sulla guancia e raccomandò a Massimo: “Per favore,
Generale, proteggila.”
“Lo farò, non dubitare.”
*****
Quando arrivammo, ci unimmo a Tito ed al resto del gruppo e spiegammo loro
la situazione. Fu deciso che avremmo lasciato Roma di prima mattina, fatto
ritorno in campagna e atteso notizie accampati lungo la strada che portava ad
Ostia. Dopo, mangiammo e ci ritirammo nelle nostre stanze.
Io accompagnai
Aureliana nella sua stanza, ma non la seguii dentro.
“Vuoi entrare?” mi domandò timidamente, abbassando gli occhi prima di guardarmi
attraverso le ciglia. Le sorrisi, sentendo il desiderio crescermi dentro, ma lo
repressi con decisione. “Mi piacerebbe stare con te, piccola Pseca, ma è meglio
di no. Domani sarà una giornata molto lunga, abbiamo bisogno di essere riposati
e sai bene che l’altra notte non abbiamo dormito quasi niente.” Le strizzai
l’occhio e lei arrossì al pensiero di come avevamo passato la notte precedente.
Quindi sorrise. “Hai ragione.”
Le sorrisi anch’io, la presi tra le braccia per una calda stretta e un
bacio, mettendoci tutta la tenerezza e il sentimento di cui ero capace. Fu un
bacio lungo, come se volessi imprimermi nella memoria quelle sensazioni. Quando
le nostre labbra si separarono e guardai negli occhi luminosi di Aureliana,
provai l’impulso di dirle che avevo cambiato idea, ma non lo feci. Mi limitai a
dirle, “Buona notte, Aureliana.”
“Buona notte, Massimo.”
Lei si voltò ed entrò nella stanza da letto e io aspettai finché non udii
lo scatto del chiavistello. Quindi marciai lungo il corridoio, ma non raggiunsi
la mia camera; mi fermai di fronte a quella di Tito e bussai.
“Sì,” rispose lui all’istante.
“Tito, sono Massimo. Ho bisogno di parlarti. E’ urgente.”
L’ex centurione aprì la porta e domandò preoccupato: “Che cosa succede?”
“Potrei entrare?”
“Oh, perdonami, Generale, certamente! Vieni dentro, vieni dentro...” E si
scostò per lasciarmi passare.
Andai avanti e indietro nella stanza per un po’, quindi guardai l’uomo più
anziano e gli dissi: “Tito, devo chiederti un favore.” Lui mi osservò con curiosità.
“Da soldato quale sei, conosci l’importanza dell’onore,” cominciai, ed egli
annuì in silenzio. “E credo che tu sia stato un bravo centurione, pronto a
combattere accanto ai tuoi uomini e non solo ad abbaiare ordini tenendoti ben
lontano dal fulcro della battaglia.” Tito annuì ancora. “Anch’io ero quel
genere di ufficiale, perfino dopo che divenni generale continuai a guidare le
cariche della cavalleria…”
Mi si avvicinò e disse: “Generale, dove vuoi andare a parare?”
“Non lascerò Roma con te, Tito. Starò qui per essere certo che Commodo non
veda un altro giorno.” Replicai dando finalmente voce ai pensieri che mi
avevano tormentato fin dal momento in cui Gracco aveva svelato i suoi piani.
“Cosa?!”
“Non posso rischiare che sopravviva all’avvelenamento, sarebbe troppo
pericoloso, non solo per Aureliana, Lucilla e Lucio, ma per tutti coloro che
vivono a Roma. Se sopravvivesse, finirebbe col scatenare la sua collera su
tutti e tutto. Diventerebbe così paranoico che sarebbe impossibile organizzare
un altro attentato.” Fui brutalmente franco con Tito, e l’ex centurione annuì.
“Non devi far nulla per convincermi, Generale, io ho servito Roma per
venticinque anni e non voglio che cada in rovina a causa di un pazzo. Fai
quello che devi, io terrò la padrona al sicuro. La porterò fuori città e ti
attenderemo vicino all’incrocio per Ostia.
Sorrisi. “Grazie, Tito. Adesso bisogna che me ne vada, devo carpire alcune
informazioni.”
“Benissimo. E buona fortuna.”
“Buona fortuna,” ripetei mentre ci stingevamo le mani. “E forza e onore.”
“Forza e onore. E… Generale…” Il tono di Tito mi bloccò con la mano sullo
stipite della porta. “Ritorna vivo. Posso proteggere Aureliana, ma non potrei
mai guarire il suo cuore spezzato se tu… se tu non dovessi tornare.”
“Tornerò, Tito. Dille che tornerò.” E, nel dire così, scambiai con lui un
ultimo sguardo, prima di lasciare la stanza.
Scovare il posto dove Narciso viveva fu più facile di quanto sperassi:
sembrava che tutti sapessero chi fosse l’allenatore dell’Imperatore e non fu
difficile trovare un ragazzino disposto ad accompagnarmi a casa sua in cambio
di qualche moneta di rame.
Il gladiatore viveva nei paraggi della Suburra, al secondo di un’insula
alta sei piani. Sapendo che gli affitti erano tanto più alti quanto più basso
(e sicuro) era il piano, intuii che la mia vecchia conoscenza aveva un po’ di
soldi e non se la passava poi tanto male. Una ragione in più per tenerlo
lontano da quello che sarebbe successo il giorno dopo.
Forse sarà il caso che vi racconti qualcosa in più a proposito di Narciso.
Era diventato gladiatore perché condannato all’arena, avendo ucciso un uomo. In
realtà non aveva fatto niente, ma era stato incastrato da sua moglie e
dall’amante di lei, un ricco latifondista di Zucchabar. Fondamentalmente un
brav’uomo, era stato costretto a combattere per difendere la sua vita ed aveva
imparato ad usare la sua grande agilità di ginnasta come un’arma. Mi era stato
davvero amico e detestavo l’idea che potesse essere usato come vittima
sacrificale. Era già stato ingiustamente accusato di un delitto non commesso, e
meritava di meglio.
*****
Dopo un momento di stupito silenzio, sorrise ed esclamò: “Massimo! Che
piacere rivederti!” E mi abbracciò, prima di farmi entrare in casa sua. “Dove
sei stato? Tutti quanti temevamo che ti fosse capitato qualcosa di brutto. E
adesso che stai facendo?” Mi tartassò di domande, felice di avermi ritrovato.
Anch’io ero contento di vederlo ma, disgraziatamente, quello non era il momento
delle rimpatriate tra amici.
“E’ una lunga storia, Narciso, e te la racconterò non appena avrai chiuso
la porta.” Mi ubbidì, quindi mi fece sedere al tavolo di cucina e gli raccontai
per filo e per segno tutto quello che mi era capitato e che sarebbe successo
quel giorno. Dapprima il gladiatore fu comprensibilmente sconvolto dal fatto
che volessero usarlo come vittima sacrificale, poi sbottò furioso. “Non
permetterò che mi intrappolino un’altra volta!”
“Certo che no, perché tu non andrai a palazzo. Ci andrò io.”
“Cosa?!”
“Prenderò il tuo posto, Narciso. Voglio uccidere Commodo, portare a termine
ciò che non ho potuto fare al Colosseo,” proclamai con decisione.
“Ma è pericoloso…” Il mio amico era davvero preoccupato e questo riscaldò
il mio cuore ma non mi fece desistere.
“Lo so, ma non posso fare altrimenti. E’ un dovere nei riguardi della mia
famiglia e del mio sovrano… ed è il mio destino.”
Ci scambiammo un’occhiata e Narciso annuì piano. “Capisco. Come posso
aiutarti?”
“Bisogna che mi spieghi con precisione i tuoi movimenti e le tue attività a
palazzo. Da che parte entri? Dov’è la palestra? Che cosa dici alle guardie? Ho
bisogno di sapere tutto. Mi hanno detto che durante le sessioni di allenamento
porti sempre l’elmo… E’ vero?”
“Sì, il marmocchio non sopporta la vista della mia faccia.” Narciso
sorrise, quindi riprese, “Aspettami, voglio mostrarti qualcosa che troverai
molto interessante.” Si recò in un’altra stanza e ne uscì poco dopo, tenendo in
mano un oggetto metallico. “Ecco qua,
questo è l’elmo che uso.”
Lo presi e ghignai quando lo guardai meglio: era lo stesso elmo che avevo
indossato durante la ‘Battaglia di Cartagine’! Sembrava un segno degli dei, e
risi di cuore, ripensando alla faccia spaventata di Commodo nell’arena. Narciso
rise con me, poi tornò serio. “Sai che non potrai portare armi con te,
Massimo?”
“Lo so, ma sono pronto ad usare le mani nude, se necessario.”
“Se lo dici tu… Bene, che ne dici di fare colazione? E’ ancora presto per
andare a palazzo e potrò dirti tutto quello che devi sapere mentre mangiamo…”
Egli inarcò un sopracciglio, in attesa della risposta. Sorrisi e scossi la
testa, ricordando come Narciso avesse la nomea di essere sempre affamato e lo
aiutai a preparare la tavola.
*****
Mangiammo in un’amichevole atmosfera e Narciso fu molto esauriente nel
descrivermi il palazzo e le sue consuete attività in quel luogo.
Quindi mi aiutò a vestirmi: avevamo grosso modo la stessa corporatura e la
fine tunica che Commodo gli aveva regalato mi andava bene. I nostri occhi si
incontrarono mentre Narciso mi metteva in testa l’elmo, e vidi delle lacrime
scintillare nei suoi occhi.
“Non morire, per favore,” mi disse a voce molto bassa, rivelando ancora una
volta quale buon cuore si nascondesse dietro le sue feroci fattezze. “Non
potrei mai perdonarmelo, se ti capitasse qualcosa di brutto.”
“Non mi capiterà niente. Ho una promessa da mantenere.”
Non capì a cosa mi riferissi, ma annuì ugualmente. Ci stringemmo la mano
con un “Forza e onore” conclusivo, quindi lasciai il suo appartamento e mi
recai a palazzo e al mio appuntamento con il destino.
*****
Scrivere queste righe è per me molto difficoltoso
perché mi riporta alla mente le emozioni che provai quel lontano mattino,
quando rabbia e paura mi strinsero nella morsa delle loro forti braccia. E
malgrado siano passati tanti anni, sento la necessità di colpire Massimo, per
punirlo di avermi causato così tanta sofferenza, in quella giornata
interminabile.
Fu Tito a raccontarmi quel che Massimo intendeva
fare e la mia prima reazione fu quella di raggiungerlo e costringerlo a
mettersi al sicuro con noi fuori dalle mura della città. Tuttavia la mente
logica di Tito convinse la mia delirante a riflettere e a concludere che ormai
era troppo tardi per fermare Massimo: avremmo potuto mettere in allarme i
Pretoriani e le spie di Commodo sparpagliate per la città, chiedendo notizie su
Narciso. Decisi così di non far nulla ma, d’accordo con il mio vecchio amico,
di prepararmi a lasciare la città, con il cuore straziato dall’ansia e, sulle
labbra, una preghiera silenziosa agli dei affinché Massimo tornasse sano e
salvo.
Entrare nel palazzo fu quasi troppo facile.
C’erano solo due Pretoriani di guardia alla porta di servizio verso la
quale mi avevano indirizzato le istruzioni di Narciso. Mi fermai davanti a loro,
li salutai con un cenno della testa, e stesi le braccia, in modo che potessero
controllare che non avessi armi nascoste addosso. Tutto andò per il meglio.
Quando le guardie mi fecero accomodare dentro con un pigro cenno della mano, mi
chiesi se l’atteggiamento noncurante con cui la perquisizione era stata
condotta, così simile al comportamento delle sentinelle di guardia vicino alle
mura della città, fosse dovuto al fatto che gli uomini erano costretti a
lavorare mentre i loro colleghi erano in vacanza o se fosse un sintomo
dell’antipatia che Commodo suscitava in loro.
Una volta dentro l’edificio, null’altro che vuoti corridoi e un’ampia sala
mi diedero il benvenuto. Attraversai veloce quelle stanze ricordando le
istruzioni di Narciso, e in pochi istanti raggiunsi la palestra. Narciso mi
aveva detto che Commodo trascorreva parecchio del suo tempo in quel locale (più
di quanto, certamente, ne dedicasse agli affari di stato), per cui esso
sembrava più una sala di rappresentanza che una semplice palestra. Spinsi la
porta ed entrai in una specie di anticamera con cassepanche e ganci a cui
appendere i mantelli. La stanza era bella, decorata di marmi rosa e verdi, ma
non ebbi tempo di ammirarla perché la mia attenzione fu attratta da una voce
irosa che proveniva da una porta che si apriva sul muro di fronte a me. La
riconobbi come appartenente a Commodo ed un brivido freddo mi percorse la
schiena. Silenzioso come un gatto, attraversai il locale, mi appiattii contro
il muro e allungai il collo per vedere che cosa stesse succedendo nell’altra
stanza. Era quella la palestra vera e propria, con alcuni materassi stesi per
terra e diversi attrezzi ginnici, ma in un angolo c’era anche un basso tavolo,
circondato da cuscini e divani, sui quali la gente poteva accomodarsi e
osservare l’allenamento degli atleti. Tuttavia gli occupanti della stanza non
stavano assistendo a un incontro di lotta… Non appena capii cosa stava
succedendo, compresi che il piano per avvelenare Commodo era fallito. Non solo
lui godeva ottima salute, ma era perfettamente consapevole di quanto gli era
accaduto. Se ne stava in prossimità dei divani, indicandone uno con un dito e
altercando con un’altra persona che riconobbi essere Quinto, il Prefetto del
Pretorio, mio ex amico.
“Lei ha tentato di uccidermi!” stava dicendo Commodo, “e pagherà il prezzo
del suo tradimento!”
“Non è vero”, piagnucolò una voce femminile che proveniva da uno dei
triclini, e io allungai il collo per vedere meglio. C’era una giovane bruna,
seduta sul divano, con il corpo pressoché nascosto da quelli di Commodo e
Quinto che lei guardava terrorizzata, cercando di giustificarsi, “Devi
credermi, non ho fatto niente! Sicuramente hai mangiato qualcosa che ti ha
causato mal di stomaco!”
“Davvero? Allora, cara la mia Marzia, sarai ben felice di dissipare i miei
dubbi bevendo il vino che tu stessa mi hai servito.” La voce di Commodo era
falsamente dolce.
“Ma Cesare, non può essere stato il vino, quello era stato assaggiato prima
che…” Era stato Quinto a parlare e dal suo
tono capii quanto fosse spaventato.
Anche Commodo lo notò. Lo vidi raddrizzare la sua schiena e tremare con
rabbia. “Anche tu, Quinto? Anche tu hai osato complottare contro di me?”
“No, Cesare… Io…”
Commodo porse una coppa al Pretoriano e gli ingiunse: “Bevi!”
“Cesare…”
“Ho detto BEVI! O ti ammazzerò anche se il vino dovesse rivelarsi innocuo!
Bevi!”
Vidi Quinto portarsi la coppa alle labbra ma la sua mano tremava talmente
da rovesciare parecchio del suo contenuto. Egli fece il gesto di bere, quindi
gettò il calice a terra, e il clangore del metallo sul pavimento di marmo
echeggiò nel silenzio. Quinto era fermo di fronte a Commodo, in atteggiamento
risoluto, pronto a morire da vero soldato.
“Sei morto, Leto.” Disse gelido Commodo estraendo la spada che portava con
sé.
Fu allora che feci la mia mossa, uscendo dal mio nascondiglio e
attraversando la palestra in tutta tranquillità. Il rumore dei miei calzari
rimbombò sul pavimento e Commodo si voltò di scatto.
“Oh, Narciso, sei qui.” Un lento, crudele sorriso gli apparve sulla faccia
e gli occhi luccicarono in un lampo di follia. “C’è un cambio di programma, per
oggi… Per prima cosa, voglio che tu uccida il mio ex Prefetto del Pretorio:
egli ha tradito il suo sovrano.”
I miei occhi andarono da Commodo a Quinto, poi alla spada che il più
giovane impugnava. Annuii, chinai la testa e, cercando di imitare la voce bassa
di Narciso, dissi: “Farò come comandi, Cesare.”
Commodo
sghignazzò, ma poco prima di porgermi la spada, la strinse nuovamente forte in
pugno, come per prepararsi ad attaccare. “Ho cambiato idea, Narciso. Voglio
tutto per me il piacere. Adesso aspettami qui, cominceremo presto
l’allenamento…” Mi voltò le spalle e ordinò alla sua vittima: “In ginocchio!”
Quinto si rifiutò
di ubbidire e Commodo reagì colpendolo sui polpacci e costringendolo a piegare
le ginocchia con un grido di dolore.
Era abbastanza,
non potevo attendere oltre.
Balzai addosso a
Commodo da dietro e afferrai il suo braccio armato, torcendoglielo prima che
potesse abbattersi sul collo di Quinto. La mia mossa fu improvvisa, ma egli
fece presto a riaversi dalla sorpresa. “Che stai facendo?” sbottò voltandosi.
”Come hai osato attaccarmi?” Non appena Quinto si fu trascinato lontano,
iniziammo a lottare per il possesso della spada. Io tentai di disarmare Commodo
mentre lui cercava di colpirmi. Alla fine gli colpii le dita con un calcio e
lui mollò la presa. L’arma cadde sul pavimento e io la spinsi via con il piede.
Io e Commodo ci
fermammo per pochi attimi, studiandoci a vicenda, il suono del mio respiro che
mi rimbombava nelle orecchie. Lui parve notare qualcosa di strano nei miei
occhi, perché mi chiese, “Chi sei?”
Non persi altro
tempo nello sfilarmi l’elmo. “Sono Massimo Decimo Meridio e sono venuto a
completar l’opera che non ho potuto portare a termine al Colosseo.” Avrei
dovuto provare soddisfazione nel vedere l’espressione terrorizzata che apparve
sul suo viso, invece sentii solo tristezza e determinazione.
Guardai Commodo
perlustrare ansioso con lo sguardo la stanza per vedere dove fosse finita la
spada e se fosse a portata delle sue mani. Gli balzai addosso ed entrambi
cademmo sul pavimento, rotolandoci avvinghiati in una stretta mortale. Ci
rialzammo in piedi e ci gettammo di nuovo l’uno contro l’altro. La lotta
divenne presto la più brutale a cui avessi mai assistito o partecipato. Eravamo
entrambi disarmati, ma mani e piedi possono essere armi terribili. Calci e
pugni volarono in abbondanza, mentre ci battevamo come due lupi furibondi. La
mia superiore forza fisica era bilanciata dall’agilità di Commodo. Ma alla
fine, non so nemmeno come accadde, mi ritrovai a cavallo del petto di Commodo,
le mie mani avvinghiate al suo collo. Cominciai a stringere e lui mi colpì la
schiena, lo stomaco e la faccia con una pioggia di pugni, ma io rimasi
insensibile al dolore, anche quando egli mi colpì ad un occhio, lacerando la
pelle, e il sangue cominciò a colare imbrattandomi la faccia, oscurandomi la
vista e sgocciolando sulla bianca corazza di Commodo, mentre i suoi tentativi
di liberarsi diventavano sempre più deboli.
E alla fine
cessarono.
Rimasi con le
mani intorno al collo di Commodo, il respiro affaticato e l’eco dei battiti del
mio cuore che mi rimbombava nelle orecchie, fermo a guardare la sua faccia
paonazza. Assomigliava a quella di suo padre e per un secondo mi chiesi a che
cosa avesse pensato prima di morire.
Lentamente, mi
calmai e divenni cosciente che Quinto mi stava parlando. “Massimo? Lascialo
andare, Massimo, è finita.” Lo ripeté finché non capii. Mi alzai, scrollai la
testa e mi guardai intorno. Quinto era in piedi, appoggiato alla spada che
aveva appena raccolto. Notò i miei occhi posarsi sulla lama e reagì zoppicando
verso di me a porgendomi l’arma. Aveva messo la sua vita nelle mie mani, ma io
non provai alcun desiderio di vendetta, come se la morte di Commodo mi avesse
liberato da esso. Il tradimento di Quinto mi aveva ferito profondamente e
sapevo che mai più saremmo tornati amici, ma non desideravo ucciderlo. Avevo
invece bisogno del suo aiuto.
Le ore successive trascorsero
in un mare di attività… Quante cose da fare in così poco tempo! Fortunatamente
la congiura (anche se sarebbe fallita se io non fossi arrivato) era stata ben
organizzata. I Pretoriani di guardia quel giorno davanti al Palazzo erano tra i
fedelissimi di Quinto e non solo bloccarono tutti gli accessi alla residenza
imperiale, ma recapitarono dispacci a Gracco ed agli altri senatori che si
erano opposti a Commodo. Nel frattempo, mentre attendevamo l’arrivo dei
senatori, Marzia, una donna notevole debbo ammettere, si prese cura delle
ferite di Quinto, dopodiché andammo a liberare Lucilla dalla sua prigionia, in
un’ala del Palazzo che sembrava una gabbia dorata. Rimasi sconvolto vedendola
apparire: la sua faccia era pallida e tesa, il suo corpo troppo magro, gli
occhi cerchiati di scuro. Sembrava molto più vecchia di come la ricordassi ma,
e non posso fare a meno di sorridere di nuovo, si trasformò quando vide suo
figlio che, ne fui informato più tardi, non incontrava da mesi, gettarsi tra le
sue braccia. Essi restarono a lungo avvinghiati, quindi Lucilla si ricompose e
mi guardò con stupore. Chinai la testa in segno di saluto e lei mi sorrise,
prima di tornare la scaltra politica che ben conoscevo. Era chiaro che voleva
farmi delle domande ma sapevamo entrambi che non era quello il momento per
farlo.
Quando Gracco
arrivò, lui e Lucilla mi reintegrarono nel grado di Generale della Legione
Felix che, mi disse lei, era accampata nei pressi di Ostia. Fui lieto di
saperlo e mandai immediatamente un messaggio per avvertire i soldati del mio
ritorno. Nel corso di un incontro privato, fu deciso di far credere alla
popolazione, almeno in un primo momento, che Commodo era morto per un attacco
cardiaco e aveva lasciato il potere nelle mani di sua sorella e del Senato. Io
avrei dovuto fungere da garante della pace e dell’ordine pubblico.
Lavorai con
Lucilla e Gracco per quasi tutta la giornata, decidendo quali erano gli
accorgimenti da mettere in atto
nell’immediato.
Io desideravo con tutto me stesso di andare da Aureliana, ma non era possibile,
così mandai uno dei servi di Gracco ad avvertirla che tutto era andato a buon
fine. Non era esattamente ciò che avrei voluto fare, ma Roma aveva bisogno di
me.
*****
Ricordo ancora quel giorno come uno dei più lunghi nella mia vita.
Il tempo sembrava non passare mai e l’attesa vicino al crocevia nei
pressi di Ostia fu senza fine.
Tito e gli altri uomini le provarono tutte per distrarmi e tenermi in
qualche modo occupata, ma anch’essi erano preoccupati, sia per la sorte di Massimo,
sia per il nostro destino, se qualcosa non fosse andata per il verso giusto. In
particolare, Tito non mi toglieva gli occhi di dosso, forse perché temeva che
avrei potuto prendere un cavallo e scappare a Roma... Non che non ci avessi
pensato...
Per tutto il
giorno, non vidi che uomini a piedi, a cavallo o sui carri, percorrere la
strada. Essi erano ricchi mercanti che andavano a Roma, contadini che portavano
i loro prodotti ai mercati di Ostia, braccianti di ritorno alle loro case.
Niente di speciale, la vita di tutti i giorni.
Finalmente, quando ero ormai sul punto di impazzire,
qualcosa accadde: vidi un cavaliere che galoppava nella nostra direzione veloce
come se fosse inseguito dalle Furie. L’uomo portava la barba e, per pochi
istanti, gioii credendolo Massimo. Ma non era lui. Era un corriere del Senato e
non si fermò vicino a noi ma proseguì per Ostia. Fui presa dalla disperazione
guardando l’uomo e il cavallo oltrepassarci in un baleno, ed emisi un flebile
lamento. Tito mi si avvicinò e, cingendomi le spalle con le braccia mi disse,
“Sono sicuro che il Generale sta bene, mia signora.” Lo abbracciai cercando
conforto nel suo solido corpo, e ripresi ad aspettare.
Due ore dopo, un altro cavallo giunse al galoppo lungo la strada lastricata,
ma questa volta il cavaliere rallentò prima dell’incrocio e il mio cuore
cominciò a scalpitare quando riconobbi il segretario di Gracco. I nostri
sguardi si incrociarono e lui mi sorrise, prima di smontare ed avvicinarsi a
me. Incapace di star ferma, gli andai incontro, trattenendo il respiro
nell’ansia dell’attesa.
“Signora,” mi disse con un rispettoso inchino. “Ho un messaggio per te.”
Presi il papiro arrotolato che mi porgeva e quasi lo strappai,
riconoscendo il sigillo di Lucilla. Ma le parole all’interno non erano della
mia sorellastra.
“Signora,
tutto è andato a buon fine. Commodo non c’è più.
Torna alla casa di Gracco; sarò lì ad attenderti.
Massimo.”
Avevo a malapena finito di leggere la missiva che ordinai alla mia scorta
di prepararsi a muoversi. Il mio cuore era pieno di gioia: Massimo era vivo,
Commodo era morto, Lucilla, suo figlio e Roma erano salvi... Che cosa chiedere
di più alla vita? Che la strada verso l’Urbe fosse più corta, naturalmente!
*****
Fui velocissima a raggiungere la villa di Gracco e, dopo aver salutato e
abbracciato il mio vecchio amico, finalmente rividi Massimo.
Stava fermo sulla scala all’ingresso della domus e indossava l’uniforme militare.
La sua uniforme di generale. Sembrava nell’insieme impressionante, possente,
pericoloso... Ma non il suo viso. Sulla sua faccia era dipinto il sorriso più
gentile e cordiale che avessi mai visto. I suoi occhi brillavano talmente tanto
che restai ipnotizzata dal loro scintillio, notando a malapena i lividi sulle
mascelle e i tagli sulle sopracciglia e le labbra. Ci guardammo in silenzio
l’un l’altra, quindi cominciammo a muoverci nello stesso momento, incontrandoci
a metà delle scale, per poi abbracciarci,
mettendo in quel gesto tutta la nostra felicità.
Tutto questo accadde dieci anni fa.
Molte cose sono
accadute dopo quel giorno. Il tentativo di restaurare la Repubblica come Marco
Aurelio mi aveva chiesto di fare, fallì a causa delle ambizioni di molti
senatori, che desideravano diventare imperatori loro stessi.
Lucilla, Gracco ed
io le tentammo tutte per mandare avanti il progetto e far lavorare i politici
romani tutti insieme e non l’uno contro l’altro. Ma dovemmo ammettere la
sconfitta: Roma aveva bisogno di un uomo forte sul trono e quell’uomo ero io.
Feci per otto anni il mio dovere di Protettore di Roma, quindi lasciai le
redini del potere ad un altro generale proveniente dalle province, Lucio
Settimio Severo, che spero farà il bene dell’Impero.
Adesso sono
tornato a Melita, felice di godermi quella vita semplice e quel lavoro che
tanto avevo sognato in Germania. Questi campi sono diversi da quelli della
Spagna, ma è meglio così. Solo una volta sono tornato a Tergillum, per dare a Selene
e a Marco una degna sepoltura e per far ricostruire la casa. Ho affidato le
terre ad amici e non so se mai ci tornerò, troppo tristi sono i ricordi legati
a quei luoghi. La mia casa adesso è qui, in quest’isoletta dove non c’è
nessun’arena e dove le dispute politiche di Roma sembrano tanto lontane.
Aureliana ed io
ci sposammo due mesi dopo il nostro ritorno a Roma. La nostra unione è
splendida ed allietata dalla nascita di tre bambini, un maschio, Massimo iunior
e due femmine, Annia e Flavia. Li amo tutti così tanto e sono felice di poter
stare sempre con loro. Qualcuno potrebbe pensare che sono matto, perché ho
preferito quest’angolo sperduto di mondo al potere, ma a me non importa.
Sono felice. E
cosa anche più importante per un uomo che ha trascorso combattendo buona parte
della sua vita, sono in pace, con me stesso e con il mondo.
Che cosa potrei
desiderare di più?
Niente.
Proprio niente.
Nota storica: nel 192 d.C. Marzia, l’amante di
Commodo, e il Prefetto del Pretorio Quinto Emilio Leto tentarono di uccidere
l’imperatore avvelenandolo. Non essendo riusciti ad eliminarlo, chiesero aiuto
al lottatore Narciso, che lo finì strangolandolo.