FILIPPO ROMANO

IL NUOVO TITOLO V DELLA COSTITUZIONE:

L’IMPATTO DELLA RIFORMA SULLA NORMAZIONE IN MATERIA DI PERSONALE DEGLI ENTI LOCALI

 

SOMMARIO: 1. Le fonti del rapporto di lavoro dei dipendenti delle autonomie locali - 2. L’impatto della riforma del Titolo V della Costituzione sulla materia de qua - 3. Le ragioni contrarie alla competenza legislativa statale - 4. Le ragioni a favore alla competenza legislativa statale - 4.1 L’ascrivibilità del personale locale alla materia dello "ordinamento civile" - 4.2 Più in generale: la competenza esclusiva statale in materia di ordinamento degli enti locali - 4.3 Altre ragioni in favore della competenza legislativa statale in materia - 4.4 Il parere della Conferenza dei presidenti delle regioni e province autonome - 5. Probabili linee evolutive del quadro normativo nella materia de qua.

 

1. Le fonti del rapporto di lavoro dei dipendenti delle autonomie locali

 

Il personale dipendente dagli enti locali è costituito da impiegati sottoposti a regime di diritto privato, il cui rapporto di lavoro di lavoro è disciplinato dalle norme generali del codice civile, dalla normativa speciale del d.lgs. 165/1990 (sui dipendenti delle amministrazioni pubbliche), del Tuel (sui dipendenti degli enti locali), delle leggi di settore (su materie specifiche quali i diritti sindacali) e dai contratti collettivi di lavoro, nonché – a livello integrativo – dalle fonti normative locali (statuti e, soprattutto, regolamenti).

 

La contrattazione collettiva (il CCNQ - contratto collettivo quadro - sottoscritto in data 9 agosto 2000 per il quadriennio contrattuale 2002-05) ha individuato un "comparto regioni e autonomie locali", nel quale sono compresi i dipendenti degli enti locali insieme a quelli delle regioni.

 

Precisamente il comparto comprende il personale dipendente: dalle regioni a statuto ordinario; dagli enti pubblici non economici dipendenti dalle regioni a statuto ordinario; dagli istituti autonomi per le case popolari, dai consorzi regionali degli istituti stessi e dalla loro associazione nazionale (ANIACAP); dai comuni, dalle province; dalle comunità montane; dalle ex istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (ex IPAB), che svolgono prevalentemente funzioni assistenziali; dalle università agrarie e Associazioni agrarie dipendenti dagli enti locali; dalle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e dalle loro associazioni regionali cui esse partecipano ed i cui dipendenti siano disciplinati dai contratti collettivi relativi al rapporto pubblico; dalle autorità di bacino. In apposite aree contrattuali nell’ambito del comparto sono poi stipulati i contratti di lavoro della dirigenza locale e dei segretari comunali.

 

La definizione del comparto assume rilievo fondamentale ai fini della disciplina contrattuale del rapporto di lavoro in quanto – come noto – è nel suo ambito che si individuano le associazioni sindacali dotate della rappresentatività necessaria per essere ammesse alle trattative e, dall’altra parte, i comitati di settore rappresentativi dei datori di lavoro in seno all’ARAN. È il comparto, pertanto, che delimita l’ambito soggettivo (la categoria di dipendenti) della disciplina negoziale del rapporto di lavoro.

 

Alla contrattazione nazionale svolta a livello di comparto consegue, poi, una contrattazione decentrata locale, integrativa della prima, svolta a livello di singolo ente ovvero, per l’area dei segretari comunali e provinciali, di singola sezione regionale dell’Agenzia nazionale dei segretari. Il contratto individuale di ogni singolo lavoratore completa quindi la disciplina, seppure aggiungendovi una regolamentazione minima e limitata a pochi oggetti secondari (fatta eccezione per i segretari comunali e provinciali e, per certi versi, per alcuni dirigenti).

 

Ciò premesso, la disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti degli enti locali è attualmente articolata secondo i seguenti livelli:

 

1) legislazione nazionale (d.lgs. 165/2001, Tuel, Codice civile e alcune leggi di settore, quali la legge 146/1990 sull’esercizio del diritto di sciopero), per i principi generali;

 

2) contrattazione nazionale di comparto, per la disciplina del rapporto di lavoro, (classificazione del personale, funzioni di ogni figura professionale, retribuzione, altri aspetti giuridici ed economici);

 

3) fonti normative locali (statuto, regolamenti di organizzazione e altri regolamenti), per la definizione di istituti organizzativi che hanno riflessi sul rapporto di lavoro (quali l’attribuzione di risorse e obiettivi ai singoli incarichi dirigenziali, l’accesso all’impiego, gli orari di apertura al pubblico, la gestione del personale, ecc.);

 

4) contrattazione integrativa, decentrata a livello di singolo ente per la disciplina degli aspetti di dettaglio del rapporto di lavoro (gli orari di servizio, la gestione dei procedimenti disciplinari, il controllo degli accessi, l’attribuzione e la quantificazione delle voci stipendiali accessorie previste dalla contrattazione nazionale, ecc.); sono gli stessi contratti collettivi nazionali del personale delle autonomie locali a indicare quali materie sono decentrate a favore della contrattazione integrativa locale;

 

5) contrattazione individuale, con la quale si istituisce il singolo rapporto di lavoro; per la maggior parte dei dipendenti il contratto individuale ha un contenuto prestabilito e si limita a richiamare o a riprodurre norme dei contratti collettivi applicabili; per alcuni fra i segretari comunali e provinciali e fra i dirigenti, invece, il contratto individuale può contenere importanti precisazioni in merito agli incarichi aggiuntivi (rispetto al nucleo "minimo" previsto dalla legislazione e dalla contrattazione nazionale) e alla relativa retribuzione.

 

2. L’impatto della riforma del Titolo V della Costituzione sulla materia de qua

 

L’elencazione di fonti appena riportata – secondo l’interpretazione che a noi sembra preferibile – non subisce sostanziali modifiche a opera della riforma del Titolo V della Costituzione, introdotta dalla legge costituzionale 3/2001.

 

Infatti, il testo novellato dell’art. 117 Cost. si limita a statuire che l’ordinamento civile (ossia la disciplina delle relazioni negoziali che costituiscono espressione dell’autonomia privata riconosciuta ai soggetti giuridici) [1] rientra tra le materie sottoposte alla potestà legislativa esclusiva dello Stato.

 

Ora, è un dato acquisito che il rapporto di lavoro rientri fra gli oggetti del diritto civile e che il diritto del lavoro sia una branca del diritto privato, con alcuni aspetti pubblicistici legati, soprattutto, alla regolazione pubblica del mercato del lavoro e alla specifica materia del diritto sindacale. Ciò vale anche per il lavoro alle dipendenze di enti pubblici, compresi quelli locali territoriali, il quale è stato ormai definitivamente privatizzato, con il d.lgs. 80/1998, che ha completato il lungo cammino intrapreso dal legislatore con il d.lgs. 29/1993 e che è ora cristallizzato nel d.lgs. 165/2001 (il c.d. testo unico delle norme generali sull’impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni).

 

Il d.lgs. 165/2001 detta quindi una disciplina tipica del lavoro alle dipendenze pubbliche che, se è sicuramente speciale rispetto a quella dettata dal Codice civile per tutto il lavoro dipendente privato, è però comunque una componente dell’ "ordinamento civile", tanto che ove non vi siano esplicite norme speciali si applica il diritto generale stabilito dal Codice civile o dalle altre leggi in materia di lavoro dipendente [2].

 

Si pensi alle disposizioni della legge 146/1990 sul diritto di sciopero: esse non distinguono certo secondo la qualità – pubblica o privata – del datore di lavoro, bensì guardano alla qualità del lavoro svolto e all’effetto che ha l’astensione dal lavoro sulla continuità dei servizi essenziali, siano essi svolti da dipendenti di compagnie aeree private oppure da dipendenti comunali addetti alla nettezza urbana. Sarebbe inimmaginabile lasciare a ogni singola regione la disciplina dell’esercizio del diritto di sciopero soltanto ove esercitato da personale degli enti locali, continuando nel contempo ad assicurare una disciplina unitaria nazionale per la stessa materia se riferita ai dipendenti di imprese private. Si giungerebbe al paradosso per cui il servizio di igiene urbana sarebbe considerato diversamente, o comunque sarebbe disciplinato in modo differenziato lo sciopero in quell’ambito, a seconda che esso venga svolto direttamente dai comuni (come avviene nei più piccoli), o che sia affidato ad aziende "ex-municipalizzate".

 

In altre parole, la qualità – pubblica o privata – del datore di lavoro non muta la natura del rapporto di lavoro, che è in ogni caso privatistica, sia o meno regolata dal solo Codice civile o anche da leggi speciali (quale il d.lgs. 165/2001).

 

3. Le ragioni contrarie alla competenza legislativa statale

 

D’altro canto, è anche vero che, ai sensi dello stesso articolo 117 Cost., sono oggetto di legislazione esclusiva statale – per ciò che concerne gli enti locali – soltanto la disciplina elettorale, gli "organi di governo" e le "funzioni fondamentali". Non vi è, come si vede, alcun accenno esplicito alla materia del personale dipendente.

 

Su quest’ultima constatazione, la dottrina vicina alle posizioni regionaliste sostiene che la potestà legislativa in materia di personale degli enti locali spetta univocamente alle regioni, secondo il noto meccanismo della residualità della competenza legislativa statale, introdotto nel novellato articolo 117 Cost. dalla citata legge costituzionale 3 del 2001.

 

Tale assunto è altresì fondato sulla ritenuta attrazione della materia del personale degli enti locali nella sfera dell’organizzazione, ambito del quale competono alla legislazione statale soltanto gli oggetti prima indicati (organi di governo e funzioni fondamentali). In effetti, prima della c.d. "privatizzazione" iniziata nel 1993 con d.lgs 29, era proprio questa la scelta di fondo del legislatore, sulla quale si fondava sin dalle origini la posizione del diritto del lavoro pubblico nel campo pubblicistico del diritto.

 

4. Le ragioni a favore della competenza legislativa statale

 

4.1 L’ascrivibilità del personale locale alla materia dello "ordinamento civile"

 

Una prima obiezione a quanto appena riferito è che non alla competenza normativa regionale, ma semmai a quella locale sarebbe attratta la materia del personale degli enti locali ove si dovesse ritenere non più compatibile con la Costituzione una competenza normativa statale (ma si veda meglio quanto detto nel sottoparagrafo 4.2).

 

Una seconda obiezione, che impedisce anche l’accesso all’ipotesi della competenza normativa "esclusivamente" locale (la quale, peraltro, avrebbe il poco desiderabile effetto di creare migliaia di statuti giuridici differenti per un’importante, unitaria categoria di lavoratori) risiede nella ragione di fondo della "privatizzazione", o meglio della "contrattualizzazione" dell’impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

 

Infatti, la contrattualizzazione – seppure fatto dell’ultimo decennio in una storia più che secolare – non è scelta contingente, bensì riforma epocale e d’importanza cruciale. Anzi, è tutta la storia del lavoro pubblico, soprattutto di quello locale, che dev’essere guardata dall’angolo visuale dell’affrancamento del rapporto di lavoro dalla unilaterale potestà pubblica.

 

Alle origini dello Stato unitario, nella seconda metà del XIX secolo, il rapporto di lavoro alle dipendenze degli enti locali era totalmente privatizzato, per così dire, nel senso che l’unica norma di diritto pubblico che interveniva in materia era l’articolo 10 della legge 2248/1965 [3], All. A, il quale disponeva che "ogni comune (…) deve (…) avere un segretario ed un ufficio comunale" (quindi dei dipendenti ove necessario per le dimensioni dell’ufficio stesso); non si dettava alcun’altra statuizione in merito all’organizzazione interna o al personale.

 

Fino ai primi anni settanta del secolo XX, inoltre, non esisteva uno statuto nazionale dell’impiegato locale (eccezione fatta per i segretari comunali e provinciali, che erano però dipendenti statali), né una vera contrattazione collettiva di livello nazionale.

 

Nell’ottocento, ogni tentativo di stabilire una disciplina legale del lavoro alle dipendenze degli enti locali – e ve ne furono molti per la categoria dei segretari comunali e provinciali – era bloccato in seno allo stesso Parlamento con motivazioni che sembrano stranamente confliggere con il forte centralismo della classe politica italiana dell’epoca. Si diceva, infatti, che l’imposizione della presenza di un funzionario e di un ufficio nell’organizzazione comunale era il massimo di compressione dell’autonomia organizzativa consentito dai principi generali dell’ordinamento: la citata legge del 1865, appunto, imponeva la presenza di un segretario e di un ufficio in tutti i comuni, non disponendo altro sull’organizzazione interna degli enti. E invero, le prime leggi sugli enti locali, pur imponendo un forte controllo sugli stessi e pur facendone esternamente dei terminali dello Stato attraverso l’attribuzione di numerosissime spese obbligatorie (che poco spazio lasciavano alle iniziative autonome, dette "spese facoltative"), rispettarono sempre la potestà autoorganizzativa dei comuni e delle province.

 

Organizzazione e disciplina del personale locale, dunque, sono stati per lungo tempo fra i pochi, ma rispettati, capisaldi dell’autonomia locale: illuminante, di questa impostazione, il discorso di Sidney Sonnino alla Camera dei Deputati in occasione della discussione sul progetto che poi sarebbe divenuto la legge 5965/1888: "un certo potere discrezionale sugli impiegati, entro limiti contrattuali, (…) è condizione della buona amministrazione" [4].

 

La prima limitazione dell’autonomia degli enti locali nella materia del personale giunge soltanto agli albori del secolo successivo, con la previsione di garanzie di stabilità a favore dei segretari comunali e provinciali (i quali, all’epoca, erano ancora dipendenti degli enti locali con contratto di lavoro privatistico), con la legge 7 maggio 1902, n. 144.

 

La regolamentazione del lavoro alle dipendenze degli enti locali, dunque, si ha soltanto nel novecento e, come già accennato, un compiuto statuto nazionale dell’impiegato locale arriva solo negli anni settanta. Per analogia con il rapporto di lavoro alle dipendenze dello Stato si tratta di uno statuto pubblicistico; ma ciò, a ben vedere, non è che la prima risposta al problema della tutela del lavoratore nella dinamica negoziale. La successiva privatizzazione del rapporto, che giunge come per gli altri comparti del pubblico impiego nel 1993, da un’ulteriore riposta completando un iter evolutivo lungo un secolo e mezzo.

 

È la contrattualizzazione, infatti, la risposta non tanto e non solo al problema della tutela dell’impiegato locale, ma anche e soprattutto alla questione della composizione dei contrastanti interessi in una effettiva dinamica negoziale che lascia, di volta in volta, alle parti (datoriale e sindacale) la disciplina del rapporto secondo un incontro ottimale di interessi contrapposti alle reciproche prestazioni (attività lavorativa contro retribuzione e altri benefici).

 

Il fatto che tale strada assimili il lavoro alle dipendenze del datore pubblico con quello alle dipendenze del datore privato non significa altro che una corretta equiparazione di tutti i lavoratori di fronte alla tematica della tutela della parte debole del rapporto e, più in generale, in riferimento alla disciplina stessa del rapporto di lavoro.

 

Si tratta, perciò, di un traguardo fondamentale che non può essere considerato alla stregua di una scelta contingente e quasi occasionale del legislatore, tale da potere essere posta fra gli eventi "accidentali" della legislazione ordinaria (cioè che non definiscono un istituto nella sua essenza).

 

È, insomma, un elemento caratterizzante del rapporto di lavoro alle dipendenze degli enti pubblici, che definisce ormai lo stesso rapporto come istituto di diritto privato, sottoposto quindi alle norme di diritto civile e di conseguenza riservato alla disciplina legislativa esclusiva dello Stato (ai sensi dell’articolo 117, comma 1, lettera l della Costituzione).

 

Ciò premesso, non sembra che possa dubitarsi, anche nel nuovo quadro costituzionale, della persistente centralità della scelta operata dal legislatore nazionale con la contrattualizzazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. È un dato normativo che appare saldamente inserito nell’alveo dell’ordinamento civile.

 

In altre parole, per tutti i dipendenti pubblici il riconoscimento del valore dell’autonomia contrattuale, individuale e collettiva, non può che essere ricondotto al legislatore statale, che ha il compito di provvedere alla disciplina uniforme del diritto dei contratti e tra questi del contratto di lavoro.

 

La legge nazionale, infatti, definisce la qualificazione delle fattispecie e individua gli schemi contrattuali tipici e gli equilibri di fondo, regola gli istituti che incidono sulla struttura del contratto e le cause di estinzione, ecc. Tale potestà legislativa esclusiva sussiste, indifferentemente, per il lavoro pubblico e per quello privato [5].

 

Ne consegue che la competenza legislativa in materia di personale degli enti locali spetta allo Stato, in quanto rientrante nella più ampia materia dello "ordinamento civile", che l’articolo 117, lett. l riserva alla legislazione esclusiva statale.

 

4.2 Più in generale: la competenza esclusiva statale in materia di ordinamento degli enti locali

 

Ma v’è da chiedersi, sotto un angolo visuale più generale, se il mantenimento del lavoro alle dipendenze degli enti locali nell’ambito della legislazione nazionale, almeno a livello di principi, non sia assicurato comunque nel nuovo quadro costituzionale, anche a prescindere dall’iscrizione della materia nella riserva di legge statale sullo "ordinamento civile", di cui all’articolo 117, lett. l[6].

 

La risposta ruota attorno ai due dati testuali del nuovo articolo 114 e del nuovo articolo 117:

 

a) il riconoscimento dell’autonomia statutaria, normativa ed organizzativa di Comuni, Province e Città Metropolitane, secondo i principi fissati dalla Costituzione;

 

b) l’attribuzione alla legislazione esclusiva dello Stato della materia relativa ad organi di governo, sistema elettorale e funzioni fondamentali degli enti locali;

 

La lettura combinata delle due disposizioni implica che il riferimento dell’autonomia normativa locale ai "principi fissati nella Costituzione" non può intendersi nel senso che l’autonomia degli enti locali prescinda totalmente dalla mediazione legislativa, cui spetta la definizione delle linee di fondo, dei principi entro cui la prima deve muoversi. Fra tali principi deve essere ricompreso anche e soprattutto il principio di legalità, cui fa capo il rispetto delle nuove norme costituzionali sul riparto tra Stato e Regioni della potestà legislativa (il testo novellato dell’articolo 117).

 

Ma v’è un’altra norma costituzionale, questa non toccata dalla riforma del Titolo V, che assume un peso determinante nella questione de qua: l’articolo 97, il quale stabilisce la nota riserva (relativa) di legge sull’organizzazione dei pubblici uffici ("i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge").

 

Ciò, ove non si considerasse sufficiente quanto appena detto, sgombra il campo da ogni residuo dubbio sulla possibilità che le fonti normative locali regolino in via esclusiva la materia dell’impiego locale, fermo restando che – con tutta evidenza – la legge potrà recare soltanto principi generali ed essere articolata su linee fondamentali, poiché deve rispettare il principio costituzionale di autonomia di comuni e province.

 

Il problema si ribalta, a questo punto, al livello superiore, quello del riparto fra competenza legislativa statale e competenza legislativa regionale. A quale legge, dunque, è riservata la materia dell’organizzazione dei pubblici uffici? Statale o regionale?

 

Tutto depone per la competenza statale. Infatti, fra le materie fondamentali riservate alla legislazione esclusiva dello Stato rientra – a termini dell’articolo 117 – la funzione organizzativa degli enti locali, per la parte non definitivamente ed esclusivamente attribuita alla diretta competenza normativa locale: organi di governo, sistema elettorale e funzioni fondamentali.

 

In altre parole, ciò che non rientra in queste materie è direttamente attribuito alla fonte normativa locale (statuti e regolamenti); ma fra ciò che vi rientra vi sono i principi generali in materia di organizzazione e di funzioni fondamentali. Non residua uno spazio proprio, in tali materie, per la legislazione regionale, ne ve n’è uno concorrente, attesa la mancanza di ogni esplicita previsione fra le materie di legislazione concorrente.

 

4.3 Altre ragioni in favore della competenza legislativa statale in materia

 

In aggiunta a quanto fin qui argomentato, a favore del mantenimento della competenza legislativa statale in materia di personale degli enti locali e, di conseguenza, della gerarchia delle fonti prima descritta, militano anche altre considerazioni.

 

In primo luogo, l’articolo 39 della Costituzione, il quale, nel momento in cui attribuisce efficacia erga omnes alla contrattazione nazionale (con generico riferimento al rapporto di lavoro dipendente, dove ormai sono assimilati quello alle dipendenze di datori privati e quello alle dipendenze di datori pubblici), non può che presupporre una regolazione legislativa nazionale.

 

In secondo luogo, il novellato articolo 117 – come più volte evidenziato – prevede che la legge statale effettui la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti sociali e civili, ivi compresi quelli legati alla prestazione di lavoro dipendente.

 

In terzo luogo, fra le materie riservate alla legislazione nazionale dal citato articolo 117, v’è la tutela della concorrenza.

 

A ciò si aggiunga che – con esclusivo riferimento alla specifica ma importante tematica del principio di distinzione fra attività di indirizzo politico e attività gestionale-amministrativa – la riserva di legge allo Stato della disciplina degli "organi di governo" degli enti locali (articolo 117) sembra configurare una impermeabilità da altre fonti legislative, rimettendo al legislatore nazionale la scelta in ordine al previsione e al mantenimento del principio (nel senso che, nel disciplinare gli organi di governo, la legge può e deve indicarne le relative funzioni e i limiti delle rispettive sfere di competenza, anche nei riguardi degli organi burocratici).

 

Non del tutto chiara, invece, appare anche la perimetrazione della materia della tutela e della sicurezza del lavoro, attribuita dall’articolo 117 della Costituzione alla legislazione concorrente statale-regionale.

 

4.4 Il parere della Conferenza dei presidenti delle regioni e province autonome

 

Non si può concludere l’esposizione delle ragioni che militano a favore della competenza statale in materia senza citare un atto dal rilievo che potrebbe dirsi quasi conclusivo, considerata la fonte: il documento della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome del 21 marzo 2002, dedicato appunto allo "Impatto della legge costituzionale n. 3/2001 su rapporto di lavoro pubblico e ruolo delle regioni nella contrattazione collettiva".

 

Con tale dichiarazione, infatti, la Conferenza afferma di ritenere che nella nozione di ordinamento civile "siano ricompresi gli aspetti fondamentali del rapporto di lavoro privato e quindi del rapporto di lavoro pubblico, oltre che la disciplina del diritto sindacale". Di conseguenza – prosegue il documento – "poiché il rapporto di lavoro pubblico è stato fatto rientrare nella disciplina privatistica, possiamo quindi concludere che, parimenti ai lavoratori privati, anche per quelli alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il legislatore regionale trova un limite invalicabile nella contrattazione nazionale, che può a sua volta ricevere una regolamentazione di sostegno da parte del legislatore nazionale".

 

5. Probabili linee evolutive del quadro normativo nella materia de qua

 

Se, quindi, le regioni non sono dotate di potestà legislativa sulle materie della disciplina dei rapporti di lavoro, dei livelli essenziali dei diritti sociali e civili, della tutela della concorrenza e sulla perequazione finanziaria, è con riferimento a questi ambiti che può essere, de plano, colto lo spazio di intervento della contrattazione nazionale, quale potere eteronomo "filiato" dalla legislazione nazionale.

 

Legislatore e contrattazione nazionale, tuttavia, non possono comprimere la potestà legislativa regionale, sconfinando oltre le linee ordinamentali e i livelli essenziali laddove si vada "ad incrociare la materia dell’ordinamento e dell’organizzazione amministrativa, che il legislatore regionale può, a suo piacimento, regolare direttamente o distribuire tra le varie possibili fonti di regolamentazione interne, ivi compresa la contrattazione collettiva." [7]

 

Si è affermato, in proposito, che le regioni dovrebbero avere "piena disponibilità in ordine alla disciplina dei raccordi tra regole generali del lavoro e regole della propria organizzazione"[8]. Sotto questo profilo, considerazioni critiche si sono addensate, in primis, sull’attuale modello di contrattazione collettiva centrato sull’ARAN e sulla rappresentanza legale di tutte le pubbliche amministrazioni agli effetti della contrattazione collettiva nazionale, sistema sorretto da una legislazione statale il cui titolo di intervento appare in dubbio.

 

Si potrebbe, tuttavia, anche qui osservare come "l’intervento conformativo del legislatore statale in ordine alla rappresentanza di parte pubblica in sede di contrattazione nazionale abbia ancora una sua giustificazione costituzionale in quanto funzionale ad assicurare in modo adeguato su tutto il territorio nazionale – in virtù della presenza di un unico agente negoziale – l’omogeneità dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali (art. 117, comma 2, lett. m) dei lavoratori pubblici e, in via indiretta, degli stesi cittadini utenti dei servizi da essi erogati o forniti" [9]. Peraltro, se si accedesse a quest’ultima prospettiva, apparirebbe, comunque, indispensabile rivisitare e adattare ARAN e comitati di settore al nuovo contesto, dovendo il potere normativo contrattuale nazionale esprimersi in modo coerente con la ricollocazione in capo alle regioni del potere normativo in materia di organizzazione e ordinamento. I due organismi in questione "dovrebbero essere strutturati come una diretta emanazione delle Regioni e vedersi riconosciuti poteri negoziali sensibilmente ridotti [..] Le Regioni dovrebbero contare assai più di prima negli ambiti in cui hanno potestà legislativa piena in materia ordinamentale: sanità, istruzione e, ovviamente, personale regionale" [10].

 

In buona sostanza, si prospetta una sorta di "ritirata" del contratto collettivo nazionale dai temi che più strettamente si saldano a quegli aspetti organizzativi che possono avere riflessi ordinamentali, a fronte della possibilità di diversificazione, da parte degli enti forniti di autonoma potestà legislativa e regolamentare, dei propri modelli organizzativi (si pensi ai criteri generali per l’attribuzione degli incarichi dirigenziali finora stabiliti dai CCNL).

 

Nel contempo, sotto un profilo precipuamente ordinamentale, fermo restando che "all’indomani della privatizzazione, non dovrebbe essere più possibile far ricadere all’interno dell’espressione ‘ordinamento e organizzazione amministrativa’ lo stato giuridico economico del personale" – si osserva – "la riconduzione formale nell’ambito della competenza esclusiva dello Stato non potrà che tener conto di una situazione ormai consolidatasi tale da concedere alle Regioni una notevole capacità di manovra in materia" [11]. La stessa autorevole opinione afferma, comunque, che non sembra possa ritenersi che "dalla riforma costituzionale derivi una "delegittimazione" dell’Aran e della contrattazione collettiva di comparto, relativamente alle Regioni, anche se la spinta in proposito potrà anche essere molto forte:

per assorbirla, bisognerebbe probabilmente dar via libera ad un distinto comparto per le Regioni con un contratto quadro che lasci loro una notevole capacità di adattamento a livello di contrattazione decentrata".

 

Agli antipodi di questa posizione si colloca l’opinione – assai meno condivisibile – di chi vorrebbe far ricadere anche la disciplina del rapporto di lavoro presso gli enti locali nella competenza legislativa esclusiva delle regioni [12].

 

Fra tutti gli interventi in materia, del resto, assume un rilievo che potrebbe dirsi quasi conclusivo, considerata la fonte, il già citato documento della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome del 21 marzo 2002, (Impatto della legge costituzionale n. 3/2001 su rapporto di lavoro pubblico e ruolo delle regioni nella contrattazione collettiva"). A quanto già riferito poco sopra, si deve qui aggiungere soltanto che il documento – favorevole all’appartenenza alla nozione di "ordinamento civile" degli "aspetti fondamentali del rapporto di lavoro privato e quindi del rapporto di lavoro pubblico, oltre che la disciplina del diritto sindacale", e quindi all’affermazione della competenza legislativa statale in materia – puntualizza, peraltro, che "nell’ambito della conferma di un sistema bipolare di contrattazione, nazionale e integrativa, occorre prioritariamente alleggerire i contenuti del contratto nazionale di comparto".

 

Ciò premesso, si delinea quindi un possibile scenario futuro caratterizzato da:

 

1) una legislazione nazionale di principi e di inquadramento generale del rapporto di lavoro alle dipendenze degli enti locali, nonché di disciplina della contrattazione collettiva;

 

2) un contratto collettivo "cornice" che definisca i minimi salariali e le principali questioni normative (spostando le restanti esigenze di regolazione verso i contratti integrativi di livello locale, rispetto ai quali prevedere anche forme di rappresentanza della parte pubblica anche a livello regionale);

 

3) il rafforzamento del ruolo delle regioni nella composizione dei comitati di settore dell’ARAN;

 

4) la costituzione – mediante l’apposito contratto collettivo "quadro" – di uno specifico comparto "Regioni e enti collegati", caratterizzato da un forte accento sulla contrattazione integrativa di livello regionale, ma comunque pur sempre inscritto in un livello di legislazione nazionale, come l’attuale comparto "autonomie locali e regioni".

 

Note:

 

[1] La lett. l) del secondo comma dell’art 117 Cost. riunifica in uno "giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa", cioè le tra branche classiche del diritto positivo (in senso oggettivo): civile, penale e processuale.

 

[2] Cfr. F. Carinci, Osservazioni sulla riforma del Titolo V della Costituzione. La materia del lavoro, in Italian Labour Law eJournal (www.dirittodellavoro.it), per il quale, "comunque si intenda l’espressione ‘ordinamento civile’, di certo il diritto del lavoro ricade all’interno della nozione ‘ordinamento civile’, sia nella sua parte sindacale, tutta ricostruita in parziale difformità dalla Costituzione formale, in chiave di autonomia collettiva-privata, sia nella sua parte individuale, tutta fondata sul contratto di lavoro. Discorso, questo, che oggi all’indomani della cd. privatizzazione o contrattualizzazione del pubblico impiego vale sia per il lavoro nelle imprese sia per l’impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni".

 

[3] È appena il caso di ricordare che si tratta della legge di unificazione amministrativa dello Stato italiano, adottata per far seguire all’unità politica una generale uniformazione dei sistemi amministrativi.

 

[4] Intervento dell’On.le Sonnino, del 2 luglio 1888, contro le garanzie di stabilità dell’impiego a favore dei segretari; cfr. Romanelli, R., Sulle carte interminate – un ceto di impiegati tra privato e pubblico: i segretari comunali in Italia, 1860-1915, Bologna, 1989, p. 195.

 

[5] La dottrina che sostiene, di contro, la possibilità per la legislazione regionale di scegliere tra il metodo della contrattazione e altro metodo (ripublicizzazione del rapporto compresa), finisce poi per ammettere il carattere chimerico di un simile obiettivo per il lavoro alle dipendenze delle regioni, giacché "difficilmente si tornerà indietro dalla scelta della contrattualizzazione, ormai entrata a far parte del patrimonio culturale sia della parte datoriale che dei lavoratori" (G. Naimo, Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle Regioni alla luce della modifica del Titolo V della Costituzione, in www.giust.it).

 

[6] A. Riccardo, Riflessioni sulla competenza legislativa in materia di personale degli enti locali a seguito della riforma costituzionale del Titolo V¸ in corso di pubblicazione, per gentile concessione dell’Autore.

 

[7] L. Zoppoli, La riforma del Titolo V della Costituzione e la regolazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni: come ricomporre i pezzi di un difficile puzzle?, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2002, 1 (supplemento), 161.

 

[8] A Corpaci, "Revisione del titolo V della parte II della Costituzione e sistema amministrativo", in Il sistema amministrativo dopo la riforma del titolo V della Costituzione, raccolta degli atti del convegno del 31 gennaio 2002, Roma, a cura della Presidenza del Consiglio - Dipartimento affari regionali, 43.

 

[9] A. Viscomi, "Prime riflessioni sulla struttura della contrattazione collettiva nelle pubbliche amministrazioni nella prospettiva della riforma costituzionale", in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2002, 1 (supplemento), 173.

 

[10] L. Zoppoli, La riforma del Titolo V, cit., 162-163.

 

[11] F. Carinci, Osservazioni sulla riforma del Titolo V, cit.

 

[12] Cfr ancora G. Naimo, Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle Regioni alla luce della modifica del Titolo V della Costituzione, in www.giust.it. La tesi – il cui autore è un consulente della Regione Calabria – è, del resto, minoritaria.