05/12/2002 200206657
Consiglio di Stato, sez. VI, 5 dicembre 2002, n. 6657
ACQUIESCENZA INTERESSE A RICORRERE
Si deve prendere le mosse per analizzare la problematica dal codice di
rito civile (art.100 c.p.c.) che prevede che per proporre una domanda o
per contraddire alla stessa occorre avervi interesse. La norma è
applicabile anche al processo amministrativo – per il suo carattere di
generalità – è da ciò deriva che per agire nel processo
amministrativo è necessario non solo essere titolari, a seconda dei casi
di situazioni giuridiche di diritto soggettivo o di interesse legittimo,
ma anche di una posizione di interesse a ricorrere, intesa non come
idoneità astratta a conseguire un risultato utile, ma come interesse
proprio del ricorrente al conseguimento di un vantaggio materiale o morale
attraverso il processo amministrativo. Nell’ottica del processo di tipo
impugnatorio si tratta di un interesse all’eliminazione dell’atto
impugnato, originato dall’emanazione di un atto lesivo di interessi
legittimi, ossia della sussistenza dell’interesse all’eliminazione
dell’atto illegittimo. L’interesse a ricorrere, secondo la dottrina e
la giurisprudenza, è qualificato da un duplice ordine di fattori: a) la
lesione effettiva e concreta che il provvedimento impugnato arreca alla
sfera patrimoniale o morale del ricorrente; b) il vantaggio concreto,
anche se solo potenziale, che il ricorrente mira ad ottenere
dall’annullamento del provvedimento impugnato. L’interesse a ricorrere
deve essere caratterizzato anche dai predicati della personalità (deve
riguardare specificamente e direttamente il ricorrente) e della attualità
(deve sussistere al momento della proposizione del ricorso e deve
continuare a sussistere nel corso del giudizio, non essendo sufficiente
un'ipotesi o una mera eventualità di lesione) nonché della concretezza
(l’interesse va valutato con riferimento ad una concreta lesione o
pregiudizio verificatosi a danno del ricorrente). L’interesse è
considerato sufficiente anche se il suo carattere è meramente
strumentale, avuto riguardo alla finalità di rimettere semplicemente in
discussione il rapporto controverso ai fini del riesercizio del potere in
termini potenzialmente idonei ad evitare il pregiudizio sofferto o a
conseguire il vantaggio sperato (e ciò in relazione al carattere
peculiare del processo amministrativo che si inserisce quale momento
parentetico nella dinamica di esercizio del potere). Si deve quindi
ribadire l’acquisizione giurisprudenziale secondo la quale nel processo
amministrativo, come nel processo civile, salva espressa previsione di
legge, non è ammessa l’azione popolare, ossia l’azione volta ad
ottenere un mero controllo oggettivo della legittimità di un
provvedimento amministrativo da parte del giudice per iniziativa del
quisque de populo. Non sono ammesse nell’ordinamento forme di controllo
giurisdizionale generalizzato sulla pubblica amministrazione, nelle forme
dell’azione popolare (diverso essendo lo scopo dell’azione penale in
materia di reati contro la pubblica amministrazione che è quella di
accertare responsabilità personali ed irrogare sanzioni penali), né sono
possibili azioni dirette ad ottenere pronunce di principio al fine di
orientare la futura azione amministrativa. Ciò premesso in via generale
si deve inquadrare in modo particolare la tematica dell’interesse
all’impugnazione in materia ambientale poiché non v’è dubbio che in
tale materia esso si atteggi in modo del tutto peculiare in relazione
anche al fenomeno dell’espansione del diritto pubblico dell’ambiente e
del ruolo che in detta espansione svolgono le formazioni sociali e gli
enti pubblici territoriali ed istituzionali. L’espansione del diritto
pubblico dell’ambiente anche in forza dell’iniziativa giuridica degli
organismi sovranazionali è fenomeno di ragguardevole entità in molti
ordinamenti. L’estensione delle attività regolamentate comporta la
correlativa espansione dell’area dei conflitti "giustiziabili"
tuttavia ciò non può trasformare il processo in una sede di
rappresentazione di interessi sociali che avrebbero come veicolo attori e
soggetti non aventi alcuna relazione qualificata nel senso anzidetto con
l’atto impugnato. Occorre quindi affrontare il tema nell’ottica
dell’esame degli approdi giurisprudenziali. Essi hanno valorizzato il
criterio della vicinitas al fine di radicare l’interesse a ricorrere
avverso gli atti autorizzativi della creazione e dell’esercizio di
impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili (nella
specie, alimentato da combustibile ricavato da rifiuti) (in argomento CdS
VI 15/10/2001 n.5411). E’ ormai pacifico l’interesse a ricorrere degli
enti locali quali ad es. "il comune nel cui territorio è localizzata
una discarica di rifiuti, ai sensi dell'art.3 bis l. 29 ottobre 1987
n.441", in proposito si è affermato che "è titolare
dell'interesse a ricorrere avverso la delibera di localizzazione, sia in
quanto ente esponenziale dei residenti, sia in quanto titolare del potere
di pianificazione urbanistica su cui incide il provvedimento di
localizzazione, sia in quanto soggetto che per legge può partecipare al
procedimento amministrativo e che in quanto tale può impugnarne il
provvedimento conclusivo" (C. Stato, sez.V, 2.3.1999, n.217; in senso
analogo CdS IV 6/10/2001 n.5296). E’ del pari certo che non occorra
provare l’esistenza di un danno concreto ed attuale al fine di impugnare
il provvedimento di localizzazione di una discarica o di un impianto
industriale ritenuto inquinante in quanto la questione della concreta
pericolosità dell’impianto, valutata alla luce dei parametri normativi,
è questione di merito, mentre al fine di radicare l’interesse ad
impugnare è sufficiente la prospettazione di temute ripercussioni su un
territorio collocato nelle immediate vicinanze ed in relazione al quale i
ricorrenti sono in posizione qualificata (quali residenti o proprietari o
titolari di altre posizioni giuridiche soggettive rilevanti).
Il divieto di azione popolare sarebbe troppo facilmente eluso se si
permettesse, in modo sganciato da ogni riferimento alla vicinitas o
prossimità come sopra definita, l’impugnazione di atti di
localizzazione di impianti pericolosi a fini ambientali da parte di gruppi
di cittadini, organizzati in comitati, aventi struttura transeunte e non
duratura, non titolari di posizioni giuridiche qualificate o aventi una
peculiare relazione con il territorio interessato dalla realizzazione
industriale contestata e quindi prescindendo dal riferimento
dell’associazione a determinate qualità dei partecipanti ed alle
finalità di tutela di una determinata collettività. Non basta il mero
scopo associativo o lo statuto del comitato, a rendere differenziato un
interesse diffuso o adespota, facente capo alla popolazione nel suo
complesso quale l’interesse alla salvaguardia dell’ambiente (che cosa
diversa dal diritto all’ambiente salubre spettante al singolo la cui
sfera può essere concretamente incisa da un’iniziativa dannosa), specie
quando tale scopo associativo si risolva senza mediazione alcuna di altre
finalità, nell’"utilizzazione di tutti i mezzi leciti per non
consentire la realizzazione di un determinato progetto industriale"
e, quindi, in definitiva, nella stessa finalità di proporre l’azione
giurisdizionale. In tal caso la costituzione di un comitato o di
un’associazione diverrebbe lo strumento per perseguire l’azione
giurisdizionale popolare in veste diversa. Tuttavia è ormai pacifico
l’interesse a ricorrere in via autonoma delle associazioni
ambientalistiche riconosciute (ai sensi dell'art.18, 5º comma, l. 8
luglio 1986 n.349 le associazioni ambientalistiche, infatti, se
riconosciute da appositi decreti ministeriali, sono legittimate a
ricorrere nelle controversie relative a materie corrispondenti alle loro
finalità istituzionali. C. Stato, sez.VI, 25.1.1995, n.77) mentre la
situazione dell'associazione di fatto, meno stabile, ai fini del
riconoscimento della sua legittimazione ad agire in giudizio può essere
valorizzata – a tutto concedere – solo ai fini dell'ammissione di un
suo intervento ad adiuvandum (del quale esistono i presupposti formali e
sostanziali). Infatti l'esplicita legittimazione delle associazioni
ambientalistiche di dimensione nazionale o ultraregionale non esclude,
quindi, di per sé sola, una legittimazione, quantomeno limitata al fine
di spiegare un intervento ad aiuvandum, agli organismi comitati o
associazioni che si costituiscano in un ambito territoriale al precipuo
scopo di proteggere l'ambiente, la salute, e/o la qualità della vita
delle popolazioni residenti su tale circoscritto territorio, ove non solo
il loro statuto ma i loro programmi e le loro attività risultino
effettivamente orientati nel senso di volere proteggere l'ambiente e la
salute nella data località (e si pensi al ruolo pregnante che possono
avere in questa materia i c.d. comitati di quartiere).
APPELLO MOTIVI DEL RICORSO
I motivi d’appello devono essere specifici e formulati in relazione alla
sentenza impugnata, tanto che si è dubitato in giurisprudenza,
all’inverso, della legittimità dell’appello che si risolva nella mera
riproposizione dei motivi del ricorso di primo grado, a fronte di una
sentenza analiticamente argomentata, mentre deve ritenersi ammissibile
l’appello che, formulato in guisa di esame critico del decisum
impugnato, contenga, sul piano logico, la chiara riproposizione delle
questioni fatte oggetto dei motivi di impugnazione proposti in primo
grado.
AMBIENTE RIFIUTI
Con leggi 9 gennaio 1991 n.9 e n.10 è stato disposto, fra l’altro, che
la produzione di energia elettrica a mezzo di impianti che utilizzano
fonti di energia rinnovabili, tra cui sono ricompresse le azioni di
trasformazione di rifiuti organici ed inorganici finalizzati alla
produzione di energia, non è soggetta alla normativa emanata in materia
di nazionalizzazione dell’energia elettrica (art.22 legge n.9/1991) e
che l’utilizzazione delle fonti di energia predette è considerata di
pubblico interesse e di pubblica utilità (art.1 legge n.10/1991). Per gli
impianti di produzione di energia elettrica che comportano emissioni
nell’atmosfera, ivi compresi gli impianti utilizzanti rifiuti o
combustibili non convenzionali (CNC), la vigente normativa ambientale
prescrive una specifica autorizzazione alla costruzione ed all’esercizio
– ai sensi dell’art.17 del d.p.r. 24 maggio 1988 n.203 – rilasciato
dal Ministero dell’Industria, previo parere favorevole dei Ministeri
dell’Ambiente e della Sanità, sentite le Regioni interessate. Nel caso
specifico poi occorre fare riferimento ulteriore ad una serie di norme
che, al fine di agevolare la soluzione del problema dello smaltimento dei
rifiuti, hanno individuato varie categorie di questi ultimi
particolarmente idonei al loro impiego quali combustibili per la
produzione di energia elettrica, escludendoli, nel contempo, dal campo di
applicazione del regime dei rifiuti di cui al d.p.r. n.915/1982 e
successive modificazioni ed integrazioni (fino alla legge n.22/1997 e
successive modificazioni ed integrazioni). Dette norme sono state
introdotte a partire dal d.l. 8/7/1994 n.438, reiterato sostanzialmente
per undici volte fino al d.l. 8 marzo 1996 n.113 di cui fa applicazione il
decreto impugnato. Occorre riportare per chiarezza espositiva l’intera
disposizione dell’art.5 (Attività di riutilizzo sottoposte a
comunicazione): "Chiunque intende effettuare sul territorio nazionale
il trattamento, lo stoccaggio o il riutilizzo dei residui di cui agli
allegati 2 e 3 al decreto del Ministro dell'ambiente 5 settembre 1994,
pubblicato nel supplemento ordinario n.126 alla Gazzetta Ufficiale n.212
del 10 settembre 1994, e di cui al decreto del Ministro dell'ambiente 16
gennaio 1995, pubblicato nel supplemento ordinario della Gazzetta
Ufficiale del 30 gennaio 1995, n.24, ad eccezione delle categorie di cui
ai punti 21 e 22 dell'allegato 1 al medesimo decreto, è tenuto a darne
annualmente comunicazione, su carta libera, alla sezione regionale
dell'Albo nazionale delle imprese esercenti servizi di smaltimento dei
rifiuti ed alla regione, alla provincia autonoma o alla provincia
delegata, territorialmente competente. La comunicazione è corredata da
una relazione, nella quale sono indicati provenienza, tipi, quantità e
caratteristiche dei residui da trattare, stabilimento e ciclo di
trattamento, di produzione o di combustione nel quale i residui stessi
sono destinati ad essere riutilizzati, nonché le caratteristiche
merceologiche dei prodotti derivanti dai predetti cicli di riutilizzo. La
regione, la provincia autonoma o la provincia delegata può chiedere
ulteriori dati ed informazioni per verificare il rispetto delle norme
vigenti sulla tutela della salute e dell'ambiente e, qualora accerti la
mancanza dei presupposti o dei requisiti dalle stesse richiesti, può
vietare la prosecuzione dell'attività ed impone la rimozione degli
effetti già prodotti. 1. Con decreto del Ministro dell'ambiente, di
concerto con i Ministri dell'industria, del commercio e dell'artigianato e
della sanità, verranno stabilite le norme tecniche per la
regolamentazione delle attività finalizzate al riutilizzo ai fini della
produzione di energia dei residui bituminosi derivanti da processi di
lavorazione del greggio (TAR) e dei residui allo stato solido derivanti
dal processo di codificazione di frazioni pesanti petrolifere (Coke di
petrolio). 2. Le sezioni regionali territorialmente competenti dell'Albo
nazionale delle imprese esercenti servizi di smaltimenti dei rifiuti
redigono l'elenco degli operatori che hanno effettuata la comunicazione ai
sensi del presente articolo. 3. Agli oneri per la tenuta degli elenchi di
cui al comma 1 si provvede con le entrate derivanti dal diritto di
iscrizione annuale, pari a lire cinquantamila a carico delle ditte
esercenti le attività. 4. Nel rispetto delle norme a tutela della salute
e dell'ambiente e della normativa comunitaria, con particolare riferimento
alle disposizioni di cui ai commi 5 e 6, con decreto del Ministro
dell'ambiente, di concerto con i Ministri della sanità, dell'industria,
del commercio e dell'artigianato e delle risorse agricole, alimentari e
forestali, vengono apportate modifiche ed integrazioni agli allegati di
cui al comma 1. 5. Le attività di riutilizzo dei residui non tossici e
nocivi sono sottoposte alle procedure agevolate previste dal presente
articolo qualora: a) siano definite per ciascun tipo di attività le norme
generali che fissano i tipi dei residui nonché le condizioni alle quali
le attività sono sottoposte alla disciplina del presente articolo; b)
siano definite in relazione ai tipi di residui ed ai metodi di trattamento
o riutilizzo le prescrizioni necessarie per assicurare che i residui
stessi siano riutilizzati senza pericolo per la salute dell'uomo e senza
usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizi all'ambiente.
6. Le attività di riutilizzo dei residui tossici o nocivi o pericolosi
sono sottoposte alle procedure agevolate previste dal presente articolo
qualora: a) siano definite le norme generali che fissano i tipi di
residui; b) sia indicato per ogni tipo di residuo il valore limite di
sostanze pericolose contenute ed i valori limite di emissione; c) siano
individuati i tipi di attività e le condizioni alle quali l'attività è
sottoposta alla disciplina del presente articolo; d) siano definite, in
relazione ai tipi e alle quantità di sostanze pericolose contenute nei
residui ed ai metodi di riutilizzo, le prescrizioni necessarie per
assicurare che i residui stessi siano riutilizzati senza pericolo per la
salute dell'uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare
pregiudizi all'ambiente." Fin qui la disciplina primaria. Con il
decreto interministeriale 1/1/1995 il quadro normativo relativo ai c.d.
residui riutilizzabili veniva completato in modo esaustivo, individuando i
tipi di residui smaltibili mediante riutilizzo nei processi di generazione
dell’energia elettrica. Il quadro normativo predetto non veniva mai
convertito in legge, sicché non superava la soglia della transitorietà
ed eccezionalità, pure durevole nel tempo con la prassi
costituzionalmente illegittima della reiterazione dei decreti legge, ma
veniva sanato dalla legge 11 novembre 1996 n.575 per quanto attinente gli
effetti della mancata conversione dei decreti legge predetti. In primo
luogo va rilevato che l’utilizzazione delle fonti rinnovabili è in
accordo con la politica energetica della CE ed è rispondente ad un uso
razionale dell’energia. Tra le fonti rinnovabili la legge n.10/1991
art.1 comma 3 annovera la trasformazione di rifiuti organici ed
inorganici, considerando altresì fonti assimilate alle fonti rinnovabili
di energia la cogenerazione intesa come produzione combinata di energia
elettrica o meccanica di calore. L’utilizzazione delle fonti rinnovabili
di energia è considerata dall’art.1 ult. co. citato di pubblico
interesse e di pubblica utilità. Essa non era soggetta alla vecchia
riserva disposta in favore dell'ENEL dall’art.1 della legge 6/12/1962
n.1643 ed alle relative autorizzazioni (art.22 della legge 9/1/1991 n.9).
Il procedimento autorizzatorio per le centrali non appartenenti all’ENEL
ossia gli impianti di produzione di energia elettrica che comportano
emissioni nell’atmosfera, ivi compresi gli impianti utilizzanti rifiuti
o combustibili non convenzionali, è disciplinato per il caso in esame
dall’art.17 del d.p.r. 24/5/1988 n.203 che fa salva la competenza del
Ministro dell’Industria e disciplina la fattispecie per quanto attiene
gli aspetti relativi la qualità dell’aria (ora il procedimento è
disciplinato anche dal regolamento di cui al d.p.r. 11/2/1998 n.53).
E’ ius receptum nel diritto comunitario che la nozione di rifiuto ai
sensi delle direttive 75/442 e 78/319 non deve intendersi nel senso che
escluda le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione
economica (Corte Giustizia CE 28/3/1990 cause riunite 206/88 e 207/88
Vessoso-Zanetti nonché Corte di Giustizia CE 18/4/1992 causa 9/00 Palin
Granit e Vehmassalonkansanterveyon). Di recente, confermando tale
orientamento, si è statuito che: "la nozione di "rifiuti"
figurante all'art.1 della direttiva del consiglio 15 luglio 1975
n.75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del
consiglio 18 marzo 1991 n.91/156/CEE, cui rinviano l'art.1 n.3, della
direttiva del consiglio 12 dicembre 1991 n.91/689/CEE, relativa ai rifiuti
pericolosi, e l'art.2, lett. a), del regolamento (CEE) del consiglio 1º
febbraio 1993 n.259, relativo alla sorveglianza e al controllo delle
spedizioni di rifiuti all'interno della comunità europea, nonché in
entrata e in uscita dal suo territorio, non deve essere intesa nel senso
che essa esclude sostanze od oggetti suscettibili di riutilizzazione
economica, neanche se i materiali di cui trattasi possono costituire
oggetto di un negozio giuridico, ovvero di una quotazione in listini
commerciali pubblici o privati; in particolare, un processo di
inertizzazione dei rifiuti finalizzato alla loro semplice innocuizzazione,
l'attività di discarica dei rifiuti in depressione o in rilevato e
l'incenerimento dei rifiuti costituiscono operazioni di smaltimento o di
recupero che rientrano nella sfera d'applicazione delle precisate norme
comunitarie; il fatto che una sostanza sia classificata nella categoria
dei rifiuti riutilizzabili senza che le sue caratteristiche e la sua
destinazione siano precisate è al riguardo irrilevante; lo stesso vale
per la triturazione di un rifiuto" (Corte giustizia Comunità
europee, 25.6.1997, nn.304, 330, 342/94, 224/95 Tombesi). La sentenza
Tombesi è particolarmente interessante avuto riguardo alle questioni
oggetto dell’appello poiché in essa venivano in rilievo proprio i
decreti-legge reiterati ma non convertiti recanti disposizioni in tema di
riutilizzo dei residui derivanti da cicli di produzione o di consumo in un
processo produttivo o in un processo di combustione, nonché in materia di
smaltimento dei rifiuti", adottati a partire dal novembre 1993 (d.l.
9 novembre 1993 n.443 GURI 10/11/1993 n.264). Il Governo italiano, per
diversi anni, attraverso l’emanazione di successivi decreti legge, oltre
che aver fatto ricorso all’espediente terminologico di definire i
rifiuti riutilizzabili e/o recuperabili residui ha disposto una blanda
disciplina per la loro regolamentazione ed il riutilizzo, disciplina
sostanzialmente derogatoria rispetto alla disciplina interna (d.p.r.
n.915/1982) di recepimento delle prime direttive comunitarie in materia di
rifiuti e difforme rispetto alle ulteriori direttive non ancora trasposte
(91/156 e 91/689). L’espediente terminologico non era quindi né ingenuo
né innocuo, né meramente nomenclatorio o classificatorio, ma serviva,
nell’ottica del legislatore, proprio a segnare il campo di una
differente disciplina, ritenuta non contrastante con il diritto
comunitario (ma con perplessità che conducevano poi alla mancata
conversione dei decreti legge pur molte volte reiterati) perché fuori dal
campo di applicazione delle direttive sui rifiuti. Proprio i principi
affermati nella sentenza Tombesi ossia la qualificabilità dei residui
come rifiuti impongono di verificare - come richiesto dagli appellanti che
su tale presupposto fondano tutto il ricorso - se la disciplina posta
dalla normativa adottata d'urgenza e salvata in sede di mancata
conversione con l. 11/11/1996 n.575 (GURI 12/11/1996 n.265) sia conforme
alle direttive comunitarie recepite dal diritto interno ed alle altre che
erano in attesa di trasposizione o se, non debba, come richiesto dagli
appellanti farsi applicazione della normativa interna di recepimento
(d.p.r. n.915/1982 ed ora d.lgs. n.22/1997 c.d. decreto "Ronchi"
dal nome del Ministro proponente). Infatti la sentenza Tombesi è chiara
nell’affermare che "una normativa nazionale che adotti una
definizione della nozione di rifiuti che esclude le sostanze e gli oggetti
suscettibili di riutilizzazione economica non è compatibile con la
direttiva 74/442 nella sua versione originale e con la direttiva 78/319
(sentenze 28/3/1990 causa C- 359/88 Zanetti; 10/5/1995 causa 422/92
Commissione c. Germania). Tale interpretazione non è messa in discussione
né dalla direttiva 91/156, che ha apportato modifiche alla prima delle
due direttive, né dalla direttiva 91/689 che ha abrogato la seconda (cfr.
la precitata sentenza Commissione c. Germania). Le direttive in tema di
rifiuti pongono il principio fondamentale dell’autorizzazione di ogni
attività di smaltimento e recupero (artt.9 e 10 della direttiva 91/156) o
dell’iscrizione dell’impresa che smaltisce in appositi albi (art.12)
(il d.p.r. n.915/1982 adotta pienamente il principio dell’autorizzazione
art.6 lett. d) del d.p.r. n.915/1982). L’autorizzazione può non essere
contemplata per gli stabilimenti o le imprese che recuperano rifiuti, ma
ciò può avvenire (art.11) a condizione che le autorità competenti
abbiano adottato per ciascun tipo di attività norme generali che fissano
i tipi e le quantità di rifiuti e le condizioni alle quali l’attività
può essere dispensata dall’autorizzazione e sempre che i tipi o le
quantità di rifiuti ed i metodi di smaltimento o di ricupero siano tali
da rispettare le condizioni imposte dall’articolo 4. Tali condizioni
vogliono che i rifiuti siano recuperati senza creare rischi per l’acqua,
l’aria, il suolo e per la fauna e la flora; senza causare inconvenienti
da rumori od odori; senza danneggiare il paesaggio ed i siti di
particolare interesse (art.4 direttiva citata). Gli stati membri informano
la Commissione delle norme generali adottate in virtù del paragrafo 1.
Analoga norma è prevista in tema di smaltimento di rifiuti pericolosi
(art.3 della direttiva 91/689) ma in questo caso è prevista che la
disciplina derogatoria rispetto al principio di autorizzazione, ossia la
dispensa dello Stato membro, sia comunicata alla Commissione almeno tre
mesi prima, che si apra una procedura di consultazione fra gli Stati
membri, che la Commissione faccia una proposta di adozione della normativa
secondo la procedura di cui all’art.18 della direttiva 75/442/CE (che
prevede, in caso di proposta non conforme al parere del Comitato dei
rappresentanti degli Stati membri, l’intervento del Consiglio). La
normativa italiana che, in attesa della completa attuazione delle
direttive 91/156 CE e 91/689 CE ed in particolare "in attesa che la
Commissione dell’Unione europea stabilisse in maniera puntuale i criteri
che caratterizzano la nozione di rifiuto", ha distinto fra rifiuti e
materie prime secondarie e poi fra rifiuti e residui riutilizzabili non
trova quindi alcuna copertura comunitaria da parte dello Stato membro non
essendovi prova dell’esperimento puntuale delle procedure di garanzia di
cui agli artt.11 della direttiva 91/156 e 3 della direttiva 91/689 per la
dispensa dall’autorizzazione ed apparendo singolare il riferimento alla
necessità di una puntualizzazione dei criteri che definiscono la nozione
di rifiuto in presenza di cospicue e costanti indicazioni della
giurisprudenza comunitaria sul punto. L’approdo della giurisprudenza
comunitaria relativamente alla nozione ampia ed oggettiva di rifiuto è
stato sostanzialmente accolto anche dalla Cassazione e dal Consiglio di
Stato in alcune decisioni riguardanti il regime delle c.d. "materie
prime secondarie", che ai sensi della legge 9/11/1988 n.475 (legge
alla quale risale l’inizio della c.d. "emergenza rifiuti")
sono i "residui derivanti da processi produttivi e che sono
suscettibili, eventualmente previi idonei trattamenti, di essere
utilizzati come materie prime in altri processi produttivi della stessa o
di altra natura". Giudicando sul noto caso dell’impresa Acna di
Cengio il Supremo Consesso ha avuto occasione di precisare che in tema di
smaltimento dei rifiuti, nella generale categoria dei rifiuti rientrano
non soltanto le sostanze e gli oggetti che si possono considerare tali sin
dall'origine (ad es., immondizie), ma anche le sostanze e gli oggetti non
più idonei a soddisfare i bisogni cui erano originariamente destinati,
pur se non ancora privi di valore economico, sicché "abbandonato o
destinato all'abbandono" va inteso non nel senso civilistico di res
nullius o di res derelicta, disponibile all'apprensione di chiunque,
sebbene di sostanza od oggetto ormai inservibile alla sua funzione
originaria, dismesso - o destinato ad essere dismesso - da colui che lo
detiene, anche mediante un negozio giuridico (C. Stato, sez.IV, 19.7.1993,
n.741 nello stesso senso Cass. pen. Sez.III 26/2/1991 Lunardi; Cass. Sez.
Un. pen. 27/3/1992 Viezzoli). Le materie prime secondarie, ovvero i
residui derivanti dai processi produttivi suscettibili di essere
riutilizzati, non costituiscono una categoria autonoma, diversa o comunque
alternativa rispetto ai rifiuti, giacché si tratta pur sempre di sostanze
ed oggetti dismessi - o destinati ad essere dismessi - dal loro detentore
in quanto non più idonei a soddisfare i bisogni cui erano originariamente
destinati; pertanto, continua ad applicarsi ad esse la normativa
(amministrativa e penale) prevista dal d.p.r. 10 settembre 1982 n.915,
almeno fino a quando non si provvederà a tutti gli adempimenti
prefigurati dall'art.2 l. 9 novembre 1988 n.475 che, proprio in funzione
dell'attitudine delle materie prime secondarie ad essere riutilizzate,
riserva alle stesse un regime giuridico diverso da quello cui sono
sottoposti i rifiuti in generale (C. Stato, sez.IV, 19.7.1993, n.741). Il
principio è chiaro: non sono ingiustificabili diversità di trattamento
fra rifiuti e rifiuti-residui (diversità consentite anche dalle direttive
comunitarie) ma esse non devono comportare una sostanziale sottrazione
della materia al perseguimento delle finalità di tutela affermatesi
nell’ambito del diritto comunitario vivente in materia ambientale con
riguardo ai rifiuti. In particolare poi, anche sul piano sostanziale, non
possono dirsi soddisfatte dal d.l. n.113/1996 e dalla disciplina
secondaria da esso presa a riferimento (emanata in attuazione dei primi
decreti non convertiti), le condizioni poste dal legislatore comunitario
per la dispensa dal regime autorizzatorio: a fronte del disposto
dell’art.5 del d.l. n.113/1996 (attività di riutilizzo sottoposte a
comunicazione) che impone solo oneri informativi all’impresa che
effettua il riutilizzo dei residui-rifiuti e non assicura alcuna
salvaguardia preventiva dell’ambiente o cautela sufficiente affidandosi
solo ai controlli ex post (divieti di prosecuzione dell’attività ed
ordini di rimozione degli effetti già prodotti). In proposito giova
ricordare che le procedure semplificate introdotte dal decreto Ronchi (d.lgs.
n.22/1997) che hanno rielaborato la disciplina di settore (in virtù di
una doppia delega legislativa l. 22/2/1994 n.146 artt.38-39 per il
recepimento delle direttive 91/156 e 91/689 nonché l. 6/2/1996 n.52 per
il recepimento della direttiva 94/62 sugli imballaggi), eliminando gran
parte delle disposizioni contrastanti con il diritto comunitario hanno
costruito un sistema organico fondato su principi direttivi, assetti
organizzativi, profili procedimentali e sanzionatori che affrontano
compiutamente la materia dei rifiuti superando quella che la dottrina ha
indicato come l’epoca dell’"emergenza rifiuti" connotata
dall’emanazione continua dei c.d. "decreti catenaccio". A
seguito dell’emanazione del decreto "Ronchi" è stata emanata
una disciplina per il riutilizzo dei rifiuti non pericolosi con d.m.
5/2/1998: tale disciplina attuativa degli artt.31-33 del d.lgs. n.22/1997
è rispondente effettivamente ai canoni comunitari e costituisce una piena
attuazione delle direttive. Essa è considerata un vero e proprio
superamento dell’assetto precedente (cfr. art.33 comma 6 del d.lgs.
n.22/1997; art.11 comma 2 del d.m. 5/2/1998), che rimane transitoriamente
in vigore (e quindi viene fatto salvo dal decreto "Ronchi"), per
quanto attiene i rifiuti non pericolosi solo per quanto riguarda le voci
6, 7, 9, 14 dell’allegato 1 e solo entro tre mesi dall’entrata in
vigore dello stesso, mentre l’impianto gestito dalla Società Ambiente
utilizza residui classificati in voci dell’allegato 1 non
"salvate" dalla disciplina transitoria del d.m. 5/2/1998 e
comunque non v’è prova abbia posto in essere le procedure semplificate
del d.m. sicché si deve supporre abbia continuato ad esercitare valendosi
del vecchio titolo abilitativo anche dopo il decorso dei tre mesi
predetti. Di recente, con d.m. 12/6/2002 n.161, sono stati individuati i
rifiuti pericolosi che è possibile ammettere alle procedure semplificate,
con una compiuta disciplina degli aspetti rilevanti la gestione del
rifiuto quali ad es. la c.d. "messa in riserva" in attesa del
recupero (ossia la gestione del rifiuto non immediatamente recuperato
aspetto cruciale non disciplinato dalla normazione previgente) così
completandosi il disegno previsto dalla legge Ronchi. La norma transitoria
relativa al recupero dei rifiuti pericolosi (art.9 del d.m. 12/6/2001
n.161) abroga il D.M. 16/1/1995 e concede sei mesi alle imprese già in
esercizio – come la Società Ambiente - per adeguarsi alle disposizioni
del regolamento sui rifiuti pericolosi (art.9 comma 3).
PROCESSO AMMINISTRATIVO SOPRAVVENUTA CARENZA DI INTERESSE
È ius receptum che la legittimità dei provvedimenti amministrativi va
valutata con il riferimento alla situazione di fatto e di diritto
esistente al momento della loro emanazione; pertanto per sostenerne
l'illegittimità non è invocabile lo jus superveniens (C. Stato, sez.V,
6.4.1991, n.452). All’opposto vale la stessa regola, non può desumersi
per il principio tempus regit actum la sopravvenuta legittimità
dell’atto in forza di ius superveniens; da ciò deriva che non può
eccepirsi la carenza d’interesse per la mera forza dello ius
superveniens, salvo il caso eccezionale di chi, resistendo in giudizio,
eccepisca l’inutilità dell’annullamento di un atto perché la
riedizione del potere dovrà conformarsi ad una norma medio tempore
entrata in vigore, recante una disciplina diversa da quella previgente ed
assolutamente conforme all’atto a suo tempo adottato, sicché sia chiaro
che la riedizione del potere porterà "necessariamente" alla
medesima situazione giuridica, in forza delle norme nel frattempo entrate
a far parte dell’ordinamento giuridico (e sempre che l’interesse
all’annullamento non debba ritenersi in forza della pregiudizialità
dello stesso rispetto ad eventuali azioni risarcitorie proponibili innanzi
al giudice amministrativo o rispetto ad un qualificato interesse morale al
ripristino della legalità amministrativa violata). Deve anche
considerarsi che la giurisprudenza amministrativa considera l’interesse
strumentale alla rinnovazione del procedimento sufficiente a fondare
l’interesse ad ottenere la decisione sicché ove lo ius superveniens sia
solo diverso rispetto al diritto previgente e non comporti una necessaria
identità dell’atto rinnovato all’atto annullato, deve ritenersi che
anche dalla mera riedizione del potere in modo conforme ai nuovi canoni
legali venga soddisfatto l’interesse azionato (nella specie potranno
adottarsi maggiori cautele quali previste dalle nuove norme tecniche).
AMBIENTE RIFIUTI
L’inizio immediato di attività potenzialmente dannose per l’ambiente
(e per questo regolamentate) consentito dal d.l. n.113/1996 non si
concilia con il principio di prevenzione e precauzione che è richiamato
attualmente dall’art.174, a linea 2 del Trattato CE. Da ciò consegue la
necessità di disapplicare, in forza del principio noto di primazia del
diritto comunitario sul diritto interno con esso contrastante (su cui
Corte di Giustizia 9/3/1978 causa 106/77 Simmenthal e Corte Cost.
n.170/1984), la norma interna di cui al d.l. n.113/1996 che ha reso a suo
tempo legittimo lo smaltimento senza autorizzazione in violazione del
diritto comunitario trasposto (direttiva 75/442 e d.p.r. n.915/1982
chiaramente invocati nel ricorso introduttivo) e non potendosi la
disciplina suddetta ritenere mera attuazione del potere degli Stati di
dispensa dall’autorizzazione previsto dalle direttive comunitarie 91/156
e 91/689 (non ancora trasposte all’atto dell’emanazione del
provvedimento impugnato e certo non invocabili, solo per quella parte, per
sostenere la legittimità della normativa derogatoria introdotta con i
decreti legge non convertiti). Si deve altresì disapplicare il dm.
1/6/1995, peraltro ormai formalmente abrogato (e produttivo, per
ultrattività, di effetti abilitativi ulteriori in casi diversi da quello
in esame, in forza del diritto transitorio del decreto "Ronchi"
ossia in presenza di un’autorizzazione, rimasta inoppugnata,
all’esercizio di un impianto rilasciata nel previgente quadro
normativo).
PROCESSO AMMINISTRATIVO POTERI DEL GIUDICE
E’ noto che al giudice amministrativo è consentito, anche in mancanza
di richiesta delle parti, sindacare gli atti di normazione secondaria al
fine di stabilire se essi abbiano attitudine, in generale, ad innovare
l'ordinamento e, in concreto, a fornire la regola di giudizio per
risolvere la questione controversa; egli può giungere alla
disapplicazione della norma regolamentare che si ponga in contrasto con la
legge qualora incida su una posizione di diritto soggettivo perfetto, il
cui contenuto è completamente riconducibile alla norma di legge (C.
Stato, sez.V, 26.2.1992, n.154). La sentenza ricordata, pur avendo un
inciso che ne limita l’efficacia all’ambito di giurisdizione esclusiva
su diritti soggettivi, come è stato detto in dottrina, non emerge dal
nulla, ma è il portato, come generico influsso culturale, proprio di
quella grandissima innovazione che è stata la disapplicazione delle norme
interne configgenti con il diritto comunitario. La motivazione di tale
decisione è importante per il suo carattere generale e suscettivo di
ulteriore evoluzione. Ivi è detto: "Ogni ordinamento non può non
prevedere un meccanismo invalidante delle norme di grado inferiore che
sopraggiungano ed urtino contro precetti poziori dell’ordinamento
medesimo. Per l’atto avente forza di legge il meccanismo, nel nostro
ordinamento, è dato dall’invalidazione a seguito di pronuncia di
incostituzionalità. Per l’atto normativo emanato dalla p.a. il
meccanismo è rappresentato di fronte al giudice civile e penale, dalla
disapplicazione dell’atto stesso, anche se le parti non controvertono
sul punto. Ma se si tratta di atto di normazione secondaria, e se quindi
per esso possano valere criteri analoghi a quelli recepiti in un qualunque
caso di concorso di norme, fra loro contrastanti anche se idonee in
astratto a regolare la medesima fattispecie, deve proporsi identica
soluzione ove quell’atto (di normazione secondaria) sia in conflitto con
un atto di normazione primaria e non sia oggetto di impugnazione al
giudice amministrativo. Ne consegue che, qualora la norma primaria
preesista all’atto amministrativo a contenuto normativo, questo deve
essere considerato non idoneo, a causa della maggior forza della norma
primaria, ad innovare sulle statuizioni da essa recate. Anche nei giudizi
amministrativi, quindi, l’atto regolamentare sarà inapplicabile, come
qualsiasi atto legislativo inidoneo a regolare la fattispecie. In tal modo
– senza violare i principi che informano il processo amministrativo e
sulla falsariga di quanto avviene per gli atti di normazione primaria per
mezzo del sindacato di costituzionalità – al giudice amministrativo è
consentito, anche in mancanza di richiesta delle parti, sindacare gli atti
di normazione secondaria, al fine di stabilire se essi abbiano attitudine,
in generale, ad innovare l’ordinamento e, in concreto, a fornire la
regola del giudizio per risolvere la questione controversa." Poi la
sentenza contiene un principio ulteriore con il quale si precisa che la
disposizione regolamentare incideva su un diritto soggettivo perfetto ed
è quindi per questa parte meno innovativa essendo stata anche in
precedenza affermata la disapplicabilità in giurisdizione esclusiva di
atti paritetici (Csi 27/1/1989 n.7). Resta tuttavia l’importanza della
motivazione gravida di sviluppi che non possono che essere cauti, in
presenza di contrapposti principi: legalità e certezza del diritto,
effettività della tutela ed onere impugnatorio. Un passo ulteriore, è
stato effettuato con la pronuncia C. Stato, sez.IV, 29.2.1996, n.222, a
tenore della quale "nel caso in cui un atto amministrativo non sia
immediatamente lesivo di un interesse legittimo e non debba pertanto
essere impugnato ex se, esso, se dotato di autonomia funzionale, può
rilevare nell'impugnazione di atti successivi, in primo luogo, come atto
presupposto nel giudizio di impugnazione dell'atto che lo presuppone, con
conseguente sua invalidazione nel caso deciso (ed in quanto invalidante
l'atto che lo presuppone ne determina l'annullamento); in secondo luogo
come atto rilevante in via pregiudiziale nel giudizio di impugnazione
dell'atto pregiudicato, con conseguente sua disapplicazione, se
riconosciuto illegittimo, nel caso deciso; pertanto, invalidazione
dell'atto presupposto e disapplicazione dell'atto pregiudiziale, pur non
comportando entrambi l'annullamento dell'atto non immediatamente lesivo,
si distinguono tra loro perché la prima (invalidazione) consiste
nell'accertare la trasmissione del vizio dall'atto presupposto all'atto
applicativo, la seconda (disapplicazione) consiste nel considerare l'atto
pregiudiziale tamquam non esset, senza alcuna trasmissione di vizi".
In quel caso, in giurisdizione di legittimità, il Consiglio ha respinto
l’appello, proposto da una società pubblica avverso la sentenza di un
Tar che, in accoglimento di un ricorso proposto da un condominio aveva
annullato l’atto di assenso ad una sopraelevazione in area vicina a zona
cimiteriale. Rispetto al motivo di ricorso incentrato sull’invocazione
di una norma tecnica di attuazione del PRG derogatoria alle distanze
cimiteriali nel caso di edifici di pubblico interesse ha disapplicato tale
disposizione, non impugnata, per contrasto con l’art.338 t.u. delle
leggi sanitarie ritenuto inderogabile. Ha ritenuto disapplicabile la norma
tecnica peraltro per il fatto che essa non era stata posta a presupposto
dell’atto impugnato essendo solo norma che veniva in esame in via
pregiudiziale. Ora con CdS IV n.222/1996 si deve ritenere affermato il
principio di disapplicabilità della normazione secondaria pregiudiziale,
(non presupposta), in giurisdizione generale di legittimità.
UNIONE EUROPEA
Ritiene il Collegio che del principio possa farsi applicazione nel caso di
contrasto di una normazione secondaria con il diritto comunitario vivente
(anche qualora tale normazione secondaria sia stata posta a presupposto
dell’atto impugnato, censurato per violazione della normativa primaria
interna di recepimento della normativa comunitaria) e ciò anche ove
l’atto di normazione secondaria sia citato nelle premesse dell’atto
impugnato e quindi ne costituisca il presupposto. In tale ipotesi è stato
ritenuto in dottrina, con opinione minoritaria, che la norma secondaria
sia affetta da nullità o "macroillegittimità" o da
"radicale inidoneità ad innovare l’ordinamento" per
intervento sovrappositorio ad una normativa che, per avere copertura
comunitaria, deve prevalere nell’ordinamento interno in forza del
principio di primazia e dell’effetto utile. Al di là della complessa
questione relativa alla configurabilità di un tale vizio radicale di
illegittimità comunitaria che non ha ancora trovato convincente
sistemazione dottrinale ed accoglimento in giurisprudenza (nonostante una
recente pronuncia della Corte giustizia Comunità europee, 29.4.1999,
n.224/97 abbia affermato la rilevabilità d’ufficio di tale contrasto,
statuendo che "un divieto emanato anteriormente all'adesione di uno
stato membro all'Unione europea, non attraverso una norma generale ed
astratta, bensì attraverso un provvedimento amministrativo individuale e
concreto divenuto definitivo, che sia in contrasto con la libera
prestazione dei servizi, va disapplicato in occasione della valutazione
della legittimità di un'ammenda irrogata per l'inosservanza di tale
divieto dopo la data dell'adesione"), giova ricordare che tale
tecnica di tutela deve, allo stato della evoluzione giurisprudenziale
maturata in materia, conciliarsi con il principio della domanda e di
corrispondenza fra chiesto e pronunciato. In nessun caso infatti può
ritenersi elusa la normativa sul termine decadenziale di impugnazione nel
caso in cui si sia rispettato il principio della domanda, essendosi
chiesta, in sostanza, la disapplicazione della normativa interna per
contrasto con il diritto comunitario sin dal ricorso introduttivo e, a
seguito della presentazione di un’eccezione impropria, ossia dello
spiegarsi delle difese della parte resistente, si sia poi focalizzata
l’attenzione sulla normazione secondaria di per sé non direttamente
lesiva, ma richiamata dal resistente o dal controinteressato per
giustificare la deroga al diritto comunitario, assumendo che la stessa era
qualificabile (senza che ciò fosse evidente ex actis quale
"normativa generale" giustificatrice di una dispensa dalla
regola dell’autorizzazione preventiva). In tal caso se, in replica
all’eccezione avversa, eccezione formulata evidenziando un profilo delle
norme tecniche secondarie non immediatamente evincibile dal loro tenore,
si chieda la loro disapplicazione non può ritenersi violato il principio
della domanda o introdotto un motivo nuovo. Così un’interpretazione
adeguatrice, in un’ottica di bilanciamento di valori costituzionali, pur
ammettendo la possibilità della disapplicazione dell’atto di normazione
secondaria ai fini della garanzia di effettività del diritto comunitario,
deve tenere pur sempre conto del principio della domanda in quanto
"il diritto comunitario non impone ai giudici nazionali di sollevare
d’ufficio un motivo basato sulla violazione di disposizioni comunitarie,
qualora l’esame di tale motivo li obblighi a rinunciare al principio
dispositivo alla cui osservanza sono tenuti esorbitando dai limiti della
lite quale è stata circoscritta dalle parti e basandosi su fatti e
circostanze diversi da quelli che la parte interessata ha posto a
fondamento della propria domanda; l’obbligo, per il giudice di attenersi
all’oggetto della lite e di basare la propria pronuncia sui fatti che
gli sono stati presentati, trova il proprio fondamento nel principio
secondo il quale l’iniziativa di un processo spetta alle parti ed il
giudice può agire d’ufficio nei soli casi eccezionali in cui il
pubblico interesse esige il suo impulso. Si tratta di un principio
condiviso nella maggior parte degli Stati membri, che tutela i diritti
della difesa e garantisce il regolare svolgimento del procedimento,
preservandolo, in particolare, dai ritardi dovuti alla valutazione di
nuovi motivi" (Corte di Giustizia 14/12/1995 in cause riunite
C-430/93 e C-431/93 Van Schijndel). Ed il rispetto del principio della
domanda non può che essere verificato nel contesto di ogni singolo
processo, dovendosi poi, sul piano delle concretezze, ritenere nella
specie pienamente rispettato tale principio ove la dinamica processuale
sia stata del tipo di quella dianzi evidenziata.
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