01/10/2002   200205133
Consiglio di Stato, sez. V, 1° ottobre 2002, n. 5133
Tra i principi che reggono l’esercizio dell’autotutela dal parte dell’Amministrazione, a quello indiscutibile della assoluta discrezionalità della scelta di modificare un assetto di rapporti nascente da un provvedimento autoritativo, che si presume legittimo, fa riscontro il diverso ma coerente canone della necessità della motivazione, che si risolve nell’obbligo di dimostrare che la scelta effettuata ha tenuto conto di tutti gli interessi implicati dalla progettata eliminazione del provvedimento precedente, per poi concludere che deve essere data prevalenza a quello che depone in favore dell’annullamento.
La sussistenza “in re ipsa” dell’interesse pubblico all’annullamento, che esonera l’Amministrazione dall’esporre le ragioni di intervento nella via dell’autotutela, costituisce una evenienza che la giurisprudenza considera eccezionale e legata alla specifica illegittimità consistente nel mero esborso sine titulo di somme di denaro, cui il percettore non è in condizione di contrapporre una posizione soggettiva meritevole di tutela. Ben diversa è la situazione allorché il provvedimento illegittimo ha attribuito una qualifica formale all’interno dell’organizzazione pubblica, dalla quale discende uno status professionale, che, in presenza di determinate condizioni, non può essere rimosso senza arrecare un pregiudizio sostanzialmente irreparabile e meritevole di adeguata ponderazione, e rispetto al quale l’esborso di denaro pubblico costituisce circostanza accessoria e conseguenziale. Tra le condizioni che conferiscono consistenza alla posizione soggettiva esposta all’annullamento, si annovera, per costante orientamento della giurisprudenza, il decorso del tempo, che consolida l’affidamento sulla piena legittimità dell’assetto degli interessi disposto dall’Amministrazione con l’atto poi rivelatosi illegittimo. E’ stato anche, affermato che per effetto del decorso del tempo la originaria illegittimità dell’atto può attenuarsi, a causa del concretarsi di posizioni non incompatibili con l’assetto legittimo dell’organizzazione pubblica e quindi con il pubblico interesse.


01/10/2002   200205121
Consiglio di Stato, sez. V, 1° ottobre 2002, n. 5121
Quando una Pubblica amministrazione dispone di immobili non direttamente connessi all’espletamento di fini istituzionali e decida di cederli a terzi in proprietà o in locazione allo scopo di trarne il conseguente frutto, non è tenuta a predisporre e rispettare particolari procedure pubblicistico-concorsuali. In altri termini, nell’ambito di un’attività meramente privatistica che pur deve riconoscersi legittimamente attribuibile ed esercitabile da parte della P.A., questa può svolgere liberamente la propria attività negoziale senza dover applicare quelle metodologie procedimentali che la legge impone nell’ambito delle attività pubblicistiche-istituzionali, avendo come soli limiti (derivatigli dalla sua natura pubblica) di cedere il bene alle migliori condizioni di mercato, tenendo conto del valore dello stesso secondo le stime dei propri organi tecnici.


30/09/2002    200205024
Consiglio di Stato, sez. IV, 30 settembre 2002, n. 5024

30/09/2002    200205023
Consiglio di Stato, sez. IV, 30 settembre 2002, n. 5023
Mentre l'incremento della retribuzione individuale di anzianità di cui al primo comma dell’art. 9 del D.P.R. n. 44/1990, avendo come titolo giustificativo il servizio prestato nel biennio 1987-1988, spetta a tutti, e quindi anche ai segretari comunali, per i quali non v'è una distinta previsione, le maggiorazioni della medesima di cui al quarto e quinto comma, avendo come presupposto le anzianità di 5, 10 o 20 anni, non spettano ai segretari comunali che, per lo stesso titolo, hanno diritto alle più favorevoli attribuzioni di cui all'art. 8 dello stesso D.P.R., pur esse dirette a dare rilievo retributivo alle anzianità pregresse.


30/09/2002    200205003
Consiglio di Stato, sez. IV, 30 settembre 2002, n. 5003
La partecipazione degli interessati al procedimento amministrativo prevista dagli artt. 7 e ss. della legge 7 agosto 1990, n. 241 costituisce un principio generale dell'ordinamento giuridico per cui ogni disposizione che limiti od escluda tale diritto va interpretata in modo rigoroso, al fine di evitare di vanificare od eludere il principio stesso. Nel procedimento amministrativo si bilanciano esigenze di legalità ed esigenze di efficienza e spesso il loro equilibrio è oggetto di sindacato giurisdizionale, teso a verificare, da una parte la sussistenza dell'obbligo di legge ed il suo puntuale rispetto da parte della p.a., dall'altra l'esistenza di ragioni che consentano di non ritenere viziante, sul piano della legittimità dei provvedimento finale, l'omessa comunicazione di avvio, con prevalenza, nel caso concreto, di considerazioni teleologiche e finalistiche relative al raggiungimento effettivo e sostanziale dello scopo della norma tesa ad assicurare la partecipazione. Ciò comporta che le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente, nel senso che occorra annullare ogni procedimento in cui sia mancata la fase partecipativa, dovendosi piuttosto interpretare nel senso che la comunicazione è superflua - con prevalenza dei principi di economicità e speditezza dell'azione amministrativo - quando l'interessato sia venuto comunque a conoscenza di vicende che conducono comunque all'apertura di un procedimento con effetti lesivi nei suoi confronti. In materia di comunicazione di avvio prevalgono, quindi, canoni interpretativi di tipo sostanzialistico e teleologico, non formalistico.
Poiché l'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ex art. 7 legge 7 agosto 1990 n. 241 è strumentale ad esigenze di conoscenza effettiva e, conseguentemente, di partecipazione all'azione amministrativa da parte del cittadino nella cui sfera giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere - in modo che egli sia in grado d'influire sul contenuto del provvedimento - l'omissione di tale formalità non vizia il procedimento quando il contenuto di quest'ultimo sia interamente vincolato, pure con riferimento ai presupposti di fatto, nonché tutte le volte in cui la conoscenza sia comunque intervenuta, sì da ritenere già raggiunto in concreto lo scopo cui tende siffatta comunicazione. La comunicazione del provvedimento dovrebbe diventare superflua quando: l’adozione del provvedimento finale è doverosa (oltre che vincolata) per l’amministrazione; i presupposti fattuali dell’atto risultano assolutamente incontestati dalle parti; il quadro normativo di riferimento non presenta margini di incertezza sufficientemente apprezzabili; l’eventuale annullamento del provvedimento finale, per accertata violazione dell’obbligo formale di comunicazione non priverebbe l’amministrazione del potere (o addirittura del dovere) di adottare un nuovo provvedimento di identico contenuto (anche in relazione alla decorrenza dei suoi effetti giuridici).


Consiglio di Stato, sez. V, 26 settembre 2002, n. 4938
L’art. 6, comma 2, della legge 15 maggio 1997, n. 127, ha novellato l’art. 51 della legge 8 giugno 1990, n. 142, nel senso di rimettere ai dirigenti “la responsabilità delle procedure d’appalto” (oltre alla presidenza delle relative Commissioni valutatrici) e la stipula dei contratti; ebbene, se è rimessa ai dirigenti la responsabilità di tali procedure, ne segue che ai medesimi compete anche il correlativo potere di approvazione per quanto attiene alla verifica tecnica e di legittimità degli atti di gara, a questa ricollegandosi quel perfezionamento dell’iter procedimentale al quale solo può ricollegarsi la responsabilità piena del funzionario.


Consiglio di Stato, sez. V, 20 settembre 2002, n. 4794
La giurisprudenza amministrativa è, ormai, ferma nel denegare il diritto al trattamento differenziale in relazione alle superiori mansioni eventualmente esperite, a meno che specifiche norme non prevedano il contrario (da ultimo, Ad. Plen. 14 novembre 1999, n. 22). Norme in tal senso non operavano per il comparto degli enti locali per tutto il periodo di riferimento delle superiori mansioni di cui si tratta.
Perché all’espletamento di mansioni superiori possa essere eccezionalmente correlata l’attribuzione anche del corrispondente trattamento economico, è necessario che le mansioni stesse, ancorché riferentisi a posto vacante previsto in pianta organica, vengano conferite con specifico provvedimento formale da parte dell’organo all’uopo competente, responsabile della gestione.
La pretesa ad una retribuzione superiore a quella attribuita dalla normativa vigente, in tema di svolgimento di mansioni superiori svolte da un dipendente pubblico, non può direttamente fondarsi sull’art. 36 Cost
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Nell’ambito del lavoro subordinato pubblico e salvo che la legge non disponga espressamente altrimenti, le mansioni svolte da un dipendente pubblico, superiori a quelle corrispondenti alla di lui qualifica formalmente posseduta, sono irrilevanti ai fini economici, giuridici e di progressione di carriera, in quanto, per un verso e a differenza dell’impiego privato, gli interessi coinvolti nel rapporto di pubblico impiego sono indisponibili e le qualifiche e le mansioni non sono oggetto di libere determinazioni dei funzionari amministrativi e, per altro verso, per poter rendere rilevanti dette mansioni neppure è invocabile l’art. 2126, c.c., che riguarda, piuttosto, lo svolgimento del lavoro da parte di chi non è dipendente pubblico o di chi è stato assunto in base ad un titolo nullo o annullato e che, comunque, non legittima la deroga o la disapplicazione degli atti di nomina o d’inquadramento di tali dipendenti.


Consiglio di Stato, sez. V, 18 settembre 2002, n. 4743
L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha esaminato approfonditamente la questione della retribuibilità del servizio prestato da un pubblico dipendente, per adempiere compiti di una qualifica superiore a quella posseduta. Le conclusioni cui è pervenuta, sono, con riguardo a situazioni verificatesi prima dell’entrata in vigore del d. lgs. n. 29 del 1993, nel senso che: non è invocabile l’art. 2126 cod. civ., il quale, nell’ambito della disciplina del rapporto di pubblico impiego, riguarda un fenomeno diverso dallo svolgimento di mansioni della qualifica superiore, e precisamente lo svolgimento di attività lavorativa da parte di chi, per difetto di titolo, non è qualificabile dipendente pubblico. E’ stato, in questi casi, affermato il principio della retribuibilità della prestazione lavorativa eseguita in base ad atto nullo o annullabile. La disposizione in esame perciò non consente di disapplicare atti di nomina o di inquadramento, emanati in dipendenza di norme di legge, di regolamenti o, comunque, di atti generali, e divenuti inoppugnabili; nell’ambito del rapporto di pubblico impiego – sempre, con riferimento, si ripete, al periodo anteriore all’entrata in vigore del d. lgs. n. 29 del 1993, qual è il caso in esame – la pretesa a maggiori retribuzioni, per effetto di mansioni superiori svolte, non può trovare diretto fondamento nell’art. 36 Cost., nel quale è stabilito il principio di corrispettività della retribuzione con qualità e quantità del lavoro prestato. Concorrono, infatti, in tale ambito, altri principi di pari rilevanza costituzionale. Vale a dire, non tanto e non solo quello di cui all’art. 98 Cost. , che stabilisce che i pubblici dipendenti “sono al servizio esclusivo della Nazione”, sicché la disciplina del rapporto, come è stato rilevato, non può ridursi alla pura logica del rapporto di scambio, ma segnatamente concorre il principio di buon andamento, sancito dall’art. 97 Cost. Questo è alla base della rigida predeterminazione di sfere di competenza e di responsabilità, secondo regole di organizzazione dettate nell’ambito delle singole amministrazioni, e sulla scorta delle quali sono fissate piante organiche e qualifiche, che non ammettono deroghe, se non nei casi eventualmente previsti, sia nella stessa regolamentazione, sia in altre discipline, quale quella derivante da accordi collettivi, consentiti, peraltro, da norme generali dell’ordinamento. La ferma conclusione della giurisprudenza di questo Consiglio, con riguardo all’epoca in esame, è perciò sempre ispirata al principio della retribuibilità di mansioni superiori nei soli casi nei quali sia individuabile una posizione o qualifica superiore, e vacante, rispetto a quella rivestita dall’impiegato, e sussista una norma speciale che consenta l’assegnazione, con il connesso maggior compenso.


Consiglio di Stato, sez. IV, 17 settembre 2002, n. 4665
Le disposizioni contenute negli artt. 9 e 10 della legge n. 19 del 1990 sono state emanate a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale che aveva riconosciuto, con sentenza n. 971 del 14 ottobre 1988, l’incostituzionalità dell’art. 85 del T.U. 10.1.1957,n. 3, che disciplinava la destituzione di diritto del dipendente condannato con sentenza penale irrevocabile, per uno dei reati previsti dallo stesso articolo, senza la previsione di procedimento disciplinare. Con le nuove regole è stato stabilito non solo che la destituzione doveva essere preceduta da procedimento disciplinare, ma anche che tale procedimento doveva concludersi nel termine di 90 giorni dal suo inizio. Anche la nuova disposizione ha dato luogo a problemi di costituzionalità. Nuove questioni, in effetti, sono insorte con riferimento all’individuazione della natura del termine conclusivo fissato per il procedimento disciplinare, che, se considerato perentorio, non avrebbe consentito (come l’Amministrazione sostiene nel presente caso) il rispetto dei termini parziali stabiliti per il regolare svolgimento delle singole fasi del procedimento, secondo le previsioni del T.U. 10 gennaio 1957,n. 3. Per tale ragione le stesse sono state sottoposte all’attenzione della Corte Costituzionale, la quale si è pronunciata a tal proposito con decisione n. 197 del 28 maggio 1999. Ricordato, con tale decisione, che l’illegittimità della destituzione automatica dei pubblici dipendenti, in funzione di una condanna penale, trova la sua ragione d’essere nella necessità di ponderare, con le garanzie del contraddittorio, la rilevanza disciplinare di fatti già accertati dal giudice penale, con riferimento anche alla personalità dell’incolpato, del suo rendimento in servizio e di ogni altro aspetto di interesse pubblico evidenziabile nel procedimento, la Suprema Corte ha affermato che il richiamato art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990 - nella parte in cui prevede che il procedimento disciplinare di destituzione del dipendente a seguito di condanna penale si concluda in novanta giorni - non contrasta con il principio di ragionevolezza, in considerazione dell’esigenza di definire in termini brevi una vicenda che altrimenti pregiudicherebbe, in danno dell’art. 97 della Costituzione, la certezza delle situazioni e la posizione del dipendente. Ciò anche perché l’Amministrazione – continua la stessa - ha a disposizione, prima di avviare il procedimento, altri 180 giorni per decidere sull’attivazione dell’azione disciplinare, e gli altri termini fissati per le fasi del procedimento disciplinare ex T.U. del 1957 ben possono essere congruamente ridotti. Il Giudice delle leggi ha perciò concluso che il termine di novanta giorni in argomento non contrasta, qualora trattasi di procedimento disciplinare di destituzione a seguito di condanna penale (conseguente a giudizio che abbia accertato i fatti), né con gli artt. 4 e 24 della Costituzione, né con l’art. 97. Ha però ravvisato che in presenza di sentenza penale di condanna che consegua ad accordo delle parti (c.d. patteggiamento), non verificandosi quella compiutezza nella raccolta degli elementi di prova tipica del rito ordinario, l’Amministrazione viene a trovarsi nella situazione di dover effettuare, nel procedimento disciplinare iniziato, autonomi accertamenti. Ha perciò ammesso - ma solo in tale caso - che il termine di 90 giorni di cui sopra non sia applicabile, valendo la disciplina generale posta dal T.U. 10 gennaio 1957,n. 3.


Consiglio di Stato, sez. IV, 25 settembre 2002, n. 4910
Poiché da un inquadramento effettuato a seguito di recepimento di un accordo collettivo di lavoro può verificarsi, ancorchè in via indiretta, una variazione della pianta organica del Comune, deve ritenersi sussistente l’interesse del dipendente , direttamente contemplato nell’atto che quella variazione comporta, ad impugnare il controllo negativo in ordine all’atto a sé favorevole.
Il sindacato della Commissione Centrale per la Finanza Locale si esercita correttamente allorquando c’è una deliberazione modificativa della pianta organica dell’Ente, come conseguenza di una scelta discrezionale di quest’ultimo, il quale ridisegna la propria struttura organizzativa in relazione a nuove esigenze funzionali ed operative, ma non anche nelle ipotesi in cui la variazione della pianta organica del Comune consegua all’applicazione di nuovi criteri di inquadramento- frutto di valutazioni compiute in sede di accordi sindacali di comparto- ed obbligatoriamente recepiti dall’ente locale; in questo caso le amministrazioni interessate hanno l’obbligo di tradurre in atto il nuovo assetto organico e l’organo di controllo ha l’onere di riscontrare la legittimità delle operazioni di inquadramento in relazione al parametro normativo dell’accordo.