PADRE PIO

 

SULLA SOGLIA DEL PARADISO

 

 

 

 

 

 

 «Quando morirò, chiederò al Signore di farmi sostare sulla soglia del Paradiso e non entrerò fino a quando non    

sarà entrato l'ultimo dei miei figli spirituali». In queste semplici, ma impegnative, parole è racchiusa la straordinaria promessa che Padre Pio fece in vita, nelle più diverse circostanze, a numerosi suoi devoti. Una assicurazione sull'e­ternità che è ancor più attuale dopo il definitivo si­gillo della Chiesa sulla santità del cappuccino del Gargano, il primo sacerdote stimmatizzato della storia, faro di fede e di spiritualità per milioni di persone.Furono infatti molti i figli spirituali che, soprat­tutto quando ormai era evidente l'approssimarsi della sua morte, gli chiesero: «Padre, ora che te ne vai, come faremo senza dite?». E Padre Pio, con il consueto modo di fare, burbero e scherzoso nel medesimo tempo: «Pezzo di scemo, io sarò qui in mezzo a voi, più di prima. Venite sulla mia tomba. Prima, per parlarmi, mi dovevate aspettare. Ades­so, lì, sono io che vi aspetto. Venite sulla mia tomba e riceverete più di prima!». Mentre, per quanti non potevano muoversi fino a San Giovanni Rotondo, una precisa alternativa la diede al confratello pa­dre Tarcisio Zullo: «Andate innanzi al tabernacolo: in Gesù troverete anche me».

Che non fossero parole disperse nel vento lo do­cumentano le testimonianze di quanti gli furono intimissimi, a cominciare dall'allora amministrato­re della Casa Sollievo della Sofferenza, Angelo Bat­tisti, il quale ha raccontato di quando Padre Pio scherzando gli diceva: «Nella tomba sarò più vivo che mai!». E all'economo della stessa struttura, En­zo Bertani - che, confessandosi per l'ultima volta da Padre Pio, il 19 settembre 1968, gli disse: «Come regalo per il 50° delle stimmate vorrei morire pri­ma di lei» - il cappuccino rispose serio e deciso:

«Tu hai famiglia e devi campare. Tanto non ti la­scerò, perché avrò molto tempo libero per esserti vicino».

La certezza della costante compagnia di Padre Pio era qualcosa di materialmente percepibile da parte di quanti il frate aveva accolto fra i propri pe­nitenti: «Quando il Signore mi affida un'anima, io me la pongo sulle spalle e non la mollo più», dice­va con solennità. Anche in questo caso non si trat­tava di superbia, bensì di serena consapevolezza dei doni che il Signore gli aveva dato e della re­sponsabilità che ne derivava, come ha ricordato don Nello Castello: «Una volta Cleonice Morcaldi affermò: "Sulle spalle di Padre Pio ci sta il mondo e la Chiesa". A me l'espressione sembrava esagerata. Alla sera mi incontrai con Padre Pio il quale, dopo aver raccontato a me e ad altri la storia di san Cri­stoforo (cui la tradizione attribuisce l'attraversa­mento di un fiume con Gesù Bambino sulle spalle), fissandomi profondamente mi disse: "Sulle mie spalle sta il mondo". E io non avevo detto nulla!».

Per Padre Pio le centinaia di persone che quoti­dianamente affollavano la chiesa di Santa Maria delle Grazie e facevano la fila al suo confessionale non erano una massa indifferenziata, ma volti e nomi ben precisi, ciascuno con le proprie ansie e i propri problemi. Un giorno, lo stesso Battisti lo stuzzicò su questo tema: «Come fa a ricordarsi di tutte le creature che a lei si rivolgono, quelle che vengono e quelle che da lontano la chiamano? Pen­so che farà una comune intenzione, tutto un "cal­derone"...». E lui: «Nel calderone ti ci butto dentro a te: io le ricordo e le chiamo una.per una e gli con­to i capelli, e ce n'è d'avanzo».

Lo testimonia la lunga durata, nella sua celebra­zione eucaristica, del Memento per i vivi e per i morti, che spesso andava avanti per decine di mi­nuti, nei quali lo si vedeva con il volto rivolto verso l'alto e talvolta con le labbra in movimento, intento come a presentare singolarmente al Cielo quelle persone e quelle anime che in quel giorno erano ri­corse a lui o che avevano particolari bisogni spiri­tuali e materiali. Una stupenda sintesi di questo amorevole atteggiamento è la risposta al dottor Guglielmo Sanguinetti, fra i primissimi medici del­la Casa Sollievo, che gli domandava come facesse ad amare tutti e ad essere di tutti. Battendogli tene­ramente la mano sulla spalla, Padre Pio disse:

«Correggi: tutto di ognuno. Ognuno può dire: il Padre è tutto mio!».

Chiamato a essere vittima per il mondo

La vocazione di Padre Pio a essere compagno e guida spirituale dei vivi e dei morti veniva da lon­tano. L'aveva espressa lui stesso sin dal 29 novem­bre 1910 a padre Benedetto da San Marco in Lamis, chiedendogli per iscritto un permesso particolare:

«Da parecchio tempo sento in me un bisogno, cioè di offrirmi al Signore vittima per i poveri peccatori e per le anime purganti. Questo desiderio è andato crescendo sempre più nel mio cuore, tanto che ora è divenuto, sarei per dire, una forte passione. L'ho fatta, è vero, più volte questa offerta al Signore, scongiurandolo a voler versare sopra di me i castighi che sono preparati sopra dei peccatori e sulle anime purganti, anche centuplicandoli su di me, purché converta e salvi i peccatori ed ammetta pre­sto in Paradiso le anime del Purgatorio, ma ora vorrei fargliela al Signore questa offerta colla sua obbedienza. A me pare che lo voglia proprio Gesù. Son sicuro che ella non troverà difficoltà alcuna nell'accordarmi questo permesso».

A stretto giro di posta, il primo dicembre, padre Benedetto mostrò di aver pienamente compreso la necessità di quell'offerta: «Fa' pure l'offerta di cui mi parli che sarà accettissima al Signore. Stendi pure tu le braccia sulla tua croce e, offrendo al Pa­dre il sacrificio dite stesso in unione al tenerissimo Salvatore, patisci, gemi e prega per gl'iniqui della terra e i miseri dell'altra vita, sì degni della nostra compassione nelle loro pazienti e ineffabili ango­sce». Da allora Padre Pio, che da pochissime setti­mane aveva cominciato a sperimentare le stimma­te invisibili, rinnovò costantemente la propria donazione: «No, voglio soffrire fino alla fine del mondo», fu la netta risposta alla signora Malvina Lureti, che un giorno si era permessa di suggerirgli un po' di riposo. Lo ha confermato il sacerdote Pierino Galeone, dal 1947 figlio spirituale di Padre Pio: «Mi disse più volte che l'amore perfetto e la sofferenza per­fetta portano l'anima a diventare vittima perfetta, disposta a chiedere anche patimenti eccezionali sia per riparare la gloria di Dio, sia per ottenere grandi favori per i vivi e per i defunti. Padre Pio mi rivelò inoltre di avere chiesto a Gesù e di aver ottenuto non solo di essere vittima perfetta, ma anche vitti­ma perenne, cioè di continuare a rimanere vittima nei suoi figli, allo scopo di prolungare la sua mis­sione di corredentore con Cristo sino alla fine del mondo. Egli mi ha detto e confermato di aver avu­to dal Signore la missione di essere vittima e padre di vittime sino all'ultimo giorno».

Infatti, ricevendo il 20 settembre 1918 il sigillo delle stimmate, Padre Pio ebbe anche la conferma definitiva della vita di immolazione che lo attende­va. Come ha sintetizzato, in un discorso commemo­rativo, il francescano padre Antonio Gallo, «fu una conferma tangibile dell'accettazione da parte di Dio di quel dono di sé che Padre Pio, già sacerdote da otto anni, aveva fatto dalla sua età più tenera. In una pubblicazione, un capitolo della sua biografia infantile reca per titolo: "Un fanciullo che cercava il dolore". E una realtà: egli cercava veramente il dolore e non fu mai defraudato nella ricerca di questo tesoro. I sintomi delle malattie più gravi, le sofferenze, le persecuzioni del demonio anche in forma concreta, la febbre spesso altissima erano soltanto segni esterni della macerazione interiore e del dolore da lui avidamente ricercato».

 

 

Una vita a contatto con l'invisibile

 

La certezza riguardo all'esistenza del Purgatorio e del Paradiso non era un puro atto di fede per il Padre, che ne aveva più volte avuto diretta visione. Una sera del 1958, mentre si trovava con alcuni fi­gli spirituali nell'orto, dopo la funzione della bene­dizione con il Santissimo, il signor Mioni di Monte­grotto gli si rivolse con una secca osservazione:

«Padre, a me non importa niente la durata del mio Purgatorio, tanto già so che poi finisce e sono sicu­ro del Paradiso». E il frate: «Tu non sai che cosa sia. Tu non sai quanto sia duro». Il Mioni ripeté la sua idea e Padre Pio replicò con ancor più forza: «Fi­glio mio, dici così perché non sai quanto sia terribi­le». Don Nello Castello, che era presente, ha testi­moniato con commozione «di aver compreso in

quel momento che Padre Pio non parlava per sen­tito dire, ma per esperienza».

Si trattava in sostanza di quanto aveva efficace­mente descritto santa Caterina da Genova, la «mi­stica del Purgatorio», nel suo Trattato: «Le anime purganti provano tali tormenti che lingua umana non può descrivere, né alcuna intelligenza com­prendere, eccetto che Dio li faccia conoscere per grazia speciale». Tanto che Padre Pio suggeriva ai suoi seguaci, come ha rivelato Cleonice Morcaldi, una strada precisa: «Se non vuoi fare dopo la mor­te il Purgatorio, fallo prima di morire, accettando tutto dal Signore e offrendolo con amore a lui; anzi con rendimento di grazie per la possibilità che ti dà di farlo con poco il Purgatorio».

In ogni caso, il frate non perdeva occasione per intercedere in favore delle anime del Purgatorio, sia durante la Messa che in altri momenti. Per esempio, ogni volta che saliva per la scala interna del convento, si fermava sul pianerottolo dove era­no appesi alla parete una cassettina di legno e un quadro sul quale erano stampate diverse intenzio­ni per suffragare le anime dei morti. Egli prendeva sempre dalla cassettina un dischetto, con il numero indicante la corrispondente intenzione, e recitava devotamente la preghiera dell'Eterno riposo.

E bisogna riconoscere che le anime purganti non erano indifferenti a tali orazioni, secondo quanto èstato raccontato dai due frati che, vedendo Padre Pio alzarsi da tavola mentre erano a pranzo, lo se­guirono incuriositi fino al portone d'ingresso del convento. Qui giunto, il Padre si fermò e iniziò a parlare con qualcuno che ai confratelli risultava però invisibile. Sorpresi per quanto stava accaden­do, costoro si avvicinarono, chiedendosi se non gli avesse dato di volta il cervello. Ma Padre Pio, con un sorriso, spiegò: «Oh, non vi preoccupate! Sto parlando con alcune anime che, nel loro cammino dal Purgatorio verso il Cielo, si son fermate qui per ringraziarmi, perché questa mattina le ho ricordate durante la santa Messa».

Non di rado, anzi, gli venivano chieste in prima persona le preghiere di suffragio, come accadde quando si trovava a Sant'Elia a Pianisi nel 1907. Così padre Marcellino Iasenzaniro ha riportato il racconto fatto dallo stesso Padre Pio: «Una notte dopo la preghiera del Mattutino, mentre gli altri scesero al fuoco comune per scaldarsi un po' prima di ritornare a letto, rimasi in coro. A un certo punto sentii dei rumori, come di candelieri toccati, prove­nienti dall'altare maggiore. Subito pensai che qual­che confratello fosse passato dal coro in chiesa; ma, continuando quei rumori, mi affacciai dal parapet­to e chiesi: "Chi è?". Rispose una voce: "Sono un novizio, che sconto il Purgatorio facendo la pulizia dell'altare maggiore che ho trascurato durante la mia vita. Pregate per me". Non riflettendo del tutto su quelle sue parole, dissi senza indugio: "Va bene, ma adesso vai a riposare". E non si sentì più nulla. Dopo qualche istante però mi resi conto di ciò che era realmente accaduto e fui preso da forte paura. Allora quasi fuggii dal coro, per raggiungere i con­fratelli e restare un po' in loro compagnia. Attra­versai in fretta il corridoio, ma appena cominciai a scendere le scale per andare al fuoco comune mi trovai dinanzi un giovane frate sconosciuto. Sentii dentro di me che era il novizio che mi aveva parla­to. Questi disse solo "Grazie", e sparì!».

 

 

I figli spirituali germogliano ancora

 

Sono centinaia di migliaia le testimonianze in­viate al convento di San Giovanni Rotondo da quanti sono stati beneficati, in vita e anche dopo la

morte, da Padre Pio. E la maggior parte delle gra­zie che vengono raccontate in queste lettere sono di natura spirituale, più che materiale. E stato in­fatti il bene delle anime l'essenziale obiettivo della missione del cappuccino, che già sulla terra poté gioire, secondo quanto ha raccontato Cleonice Morcaldi, perché «Gesù gli aveva fatto vedere la mansione dei suoi figli spirituali in Paradiso».

Anzi, si potrebbe dire che Padre Pio già pregu­stava il momento della gioia celeste in compagnia dei suoi cari. A don Pierino Galeone, che un giorno si lamentò con lui perché era stato bloccato e rim­proverato dal Superiore del convento mentre cer­cava di entrare nella zona della clausura riservata ai cappuccini, con affetto paterno disse: «Abbi pa­zienza, padre Agostino è buono, anche se burbero; in Cielo staremo insieme e là non ci sarà più nessu­no a sgridare». E in che consistesse il Paradiso lo spiegò a una figlia spirituale che gli aveva chiesto:

«Padre, in Paradiso godremo subito, oppure alla fi­ne del mondo?». Padre Pio così rispose: «Se non si godesse, non sarebbe Paradiso. Alla fine del mon­do comincerà pure a godere il corpo risorto».

Alla serietà dell'impegno assunto da Padre Pio con i propri figli spirituali, doveva però corrispon­dere altrettanta tenacia da parte di questi ultimi, che non di rado si sentivano redarguiti così: «Ri­cordatevi che, se non vi comportate bene e non mi ascoltate, un giorno dinanzi a Dio non vi ricono­scerò come miei figli. Sarò io il primo vostro accu­satore!». E a una sua devota che lo implorava: «Pa­dre, pregate per me», il frate subito rispose: «Io prego per te, ma tu pure devi pregare per te!». Quando però percepiva la buona volontà di chi gli si rivolgeva con fede, Padre Pio si lasciava an­dare e diventava il più tenero dei direttori spiritua­li. La piccola Anna Tortora, nel giorno della cresi­ma, gli disse di desiderare un regalo. Egli chiese:

«Che cosa vuoi? Una figurina, un libretto?»; e la bambina rispose: «Voglio, Padre, che quando lei va in Paradiso assicuri un posto anche a me». «Sei si­cura che ci vado?», ribatté Padre Pio; e Anna: «E se non ci va lei, Padre, chi ci va?». A quel punto Padre Pio cedette: «Va bene, ti prometto che, se ci andrò io, tirerò per il collo anche te».

Si potrebbe pensare, secondo gli schemi umani, che promesse così impegnative e personali fosse possibile strapparle a Padre Pio soltanto durante la sua esistenza. In effetti, dopo la morte del Padre, sembrerebbe terminata l'epoca della figliolanza spirituale, alla quale potrebbero al massimo richia­marsi quanti lo frequentarono e ne ricevettero di­rettamente gli insegnamenti. Ma la forza dello spi­rito ha aperto invece un nuovo varco nella misteriosa e straordinaria continuità di presenza del frate nel nostro tempo.

A rivelarne la modalità è fra Modestino da Pie­trelcina, il compaesano di Padre Pio che viene con­siderato il suo erede spirituale e che già molti anni fa si era posto il problema: «Meditavo sui benefici che potevano lucrare coloro che venivano accettati dal Padre quali suoi figli spirituali. Poi pensavo con rammarico a tutti quelli che non potevano an­dare a San Giovanni Rotondo per chiedere a Padre Pio l'adozione spirituale e a quelli, ancor meno for­tunati, che si sarebbero avvicinati al Padre dopo il suo transito terreno».

Un giorno, proprio durante una confessione con Padre Pio, l'ispirazione prese forma: «Padre, vorrei assumere, come suoi figli spirituali, tutti coloro che si impegneranno a recitare, ogni giorno, una coro­na del Rosario ed a far celebrare di tanto in tanto una santa Messa secondo le sue intenzioni. Posso farlo, oppure no?». Padre Pio, allargando le brac­

cia, alzò gli occhi al cielo ed esclamò: «Ed io posso rinunziare a questo grande beneficio? Fa' ciò che mi chiedi ed io ti assisterò». E qualche tempo do­po, un nuovo incoraggiamento: «Figlio mio, allar­ga quanto più puoi il numero perché sono più be­neficati loro davanti a Dio che io stesso. Riferisci che io do loro tutto il mio animo, purché siano per­severanti nella preghiera e nel bene».

Pochi giorni prima di morire, il 20 settembre 1968, Padre Pio chiamò fra Modestino accanto a sé, si tolse dal polso l'inseparabile corona e gliela de­pose fra le mani, dicendo: «Ecco, ti affido il santo Rosario. Divulgalo, diffondilo tra i figli miei». Era la ratifica definitiva di un mandato che, da allora, continua a essere fedelmente eseguito. Ogni sera, dalle 20.30 alle 21, l'immensa famiglia spirituale di Padre Pio si incontra idealmente nella cripta del convento di San Giovanni Rotondo, intorno alla tomba del Padre, per la recita del Rosario guidata anche da fra Modestino.

Chiunque lo vorrà, in qualsiasi momento, potrà diventare figlio spirituale di Padre Pio semplice­mente unendosi con devozione a questa recita e fa­cendo ogni tanto celebrare una santa Messa secon­do le intenzioni del Padre. «Beneficeranno così della continua assistenza di Padre Pio e della mia povera preghiera presso la sua tomba», garantisce fra Modestino, sottolineando nel contempo l'altra indispensabile condizione: «Chi s'impegna a reci­tare la corona benedetta dovrà ovviamente ripu­diare il peccato e seguire, per quanto gli sarà possi­bile, l'esempio di Padre Pio. Da questo si rico­nosceranno i suoi figli spirituali: saranno uniti dal vincolo della dolce catena che ci lega a Dio; ame­ranno, pregheranno e soffriranno come ha amato, pregato e sofferto Padre Pio, per il bene della pro­pria anima e per la salvezza dei peccatori».

 

I

 

Angeli e demoni

Sotto le ali di san Michele

 

Il corpo di Padre Pio è stato un campo di batta­glia sul quale angeli e demoni si sono affrontati con ogni mezzo, per la salvezza o la dannazione non soltanto del religioso, ma anche dei suoi figli spirituali. Una lotta senza esclusione di colpi, co­minciata sin dai primi giorni di vita del cappucci­no, secondo quanto ha testimoniato un'anima elet­ta, che ebbe una stupefacente visione durante un pellegrinaggio alla grotta di san Michele nel Gar­gano. Un luogo molto venerato da Padre Pio, che vi si recò il 1° luglio 1917, e nel quale anche san Francesco d'Assisi aveva fatto un'intera Quaresi­ma di digiuno in preparazione alla festa dell'arcan­gelo, del quale era molto devoto.

A padre Mariano Paladino, che fu uno degli in­fermieri di Padre Pio, quella persona raccontò di aver visto il piccolo Francesco Forgione adagiato in una culla, quasi avvolto e protetto dalle ali del­l'arcangelo. Pensando che potesse essersi trattato di un'allucinazione, Padre Mariano raccontò l'epi­sodio al Padre e ne ricevette una risposta netta:

«Guai a me se non ci fosse stato san Michele: a quest'ora avreste visto Padre Pio sotto i piedi di lucifero».

Insieme con le apparizioni angeliche, dalle quali riceveva forza e incoraggiamento, Padre Pio fu perseguitato sin dall'infanzia dalle vessazioni dia­boliche. Alla figlia spirituale Cleonice Morcaldi ri­velò: «Ricordo che tanti mostri si mettevano attor­no alla culla per spaventarmi, e io strillavo». A tali momenti è riconducibile l'episodio tramandato da padre Agostino da San Marco in Lamis: «Quando Francesco era ancora in fasce, piangeva continua­mente da far quasi disperare i genitori. Una notte il papà non ne poteva più. Adirato prese il bambino tutto fasciato e lo gettò con furia sul letto escla­mando: "Ma che mi fosse nato in casa un diavolo, invece di un cristiano?!...". Il bimbo, rotolando sul letto, andò a cascare in terra dall'altra sponda. La mamma, vedendo il figlio per terra e credendolo morto, si adirò col marito esclamando: "M'hai am­mazzato il figlio!", e corse a prenderlo. Fortunata­mente non soltanto era vivo, ma non aveva nessu­na lesione».

Anche al suo direttore spirituale, padre Benedet­to da San Marco in Lamis, Padre Pio descrisse le continue apparizioni del diavolo: «Mia madre spe­gneva il lume e tanti mostri mi si mettevano vicino e io piangevo; accendeva il lume e io tacevo perché i mostri sparivano. Di nuovo lo spegneva e di nuo­vo mi mettevo a piangere per i mostri». Ma pure di giorno, secondo la testimonianza del maestro don Nicola Caruso, il piccolo era perseguitato «da un uomo vestito da prete, che al ritorno da scuola lo aspettava sulla soglia di casa e non lo voleva far entrare. Allora Francesco si fermava; veniva un ra­gazzino scalzo, faceva un segno di croce, il prete spariva e il bambino, sereno, poteva finalmente ri­entrare».

Perfino dopo la partenza del cappuccino - come ha raccontato la nipote Pia Forgione - nella casa di Pietrelcina avvenivano fatti strani, rumori inspie­gabili o rotture improvvise di oggetti, per cui i fa­miliari temevano di andare in rovina a causa di tutti quei danni: «Allora mio padre si recò da mio zio e gli raccontò quel che avveniva nella casa nati­va. E Padre Pio rispose: "Si vede che quel cosaccio è ancora là; chiamate un prete e fate benedire la ca­sa". Così fu fatto e tornò la quiete!».

Intanto per Padre Pio nel 1903 era iniziato il tem­po del noviziato, un periodo segnato finalmente da una tregua negli assalti diabolici. Ma il silenzio si interruppe bruscamente mentre si trovava nello studentato di Sant'Elia a Pianisi. Egli stesso rac­contò quanto gli accadde nel settembre 1905: «Una notte sentii dei rumori, che mi sembravano prove­nire dalla cella vicina. "Che farà a quest'ora fra Anastasio?", mi dissi; e pensando che vegliasse in orazione, mi misi a recitare il Rosario. C'era infatti tra noi una sfida a chi pregasse di più, e io non vo­levo rimanere indietro. Continuando però questi rumori, anzi diventando sempre più insistenti, vol­li chiamare il confratello. Si sentiva intanto un forte odore di zolfo. Mi sporsi dalla finestra per chiama­re: le nostre due finestre erano così ravvicinate che ci si poteva scambiare libri o altro sporgendo la mano. "Fra Anastasio, fra Anastasio", chiamai sen­za alzare troppo la voce. Non ottenendo risposta, mi ritirai. Ma quale non fu la mia sorpresa, quando dalla porta vidi entrare un grosso cane, dalla cui bocca usciva tanto fumo. Caddi riverso sul letto e udii che diceva: "E iss"' (è lui). Mentre ero in quella postura, vidi l'animalaccio spiccare un salto sul da­vanzale della finestra, da qui lanciarsi sul tetto di fronte, per poi sparire».

 

 

Le consolazioni dell'angelo custode

 

Dopo l'ordinazione sacerdotale di Padre Pio, av­venuta nel 1910, il demonio comprese di aver per­so la prima battaglia e cominciò ad attuare una strategia più raffinata, trasformandosi in decine di fogge diverse per impaurire, ma anche nel tentati­vo di ingannare il giovane frate. Le enumera in un resoconto padre Agostino: «Da principio gli apparì sotto la forma di un gatto nero e brutto. La seconda volta sotto forma di giovanette ignude che lasciva­mente ballavano. La terza, senza apparire, gli spu­tavano in faccia. La quarta, anche senza apparirgli, lo straziavano con rumori assordanti. La quinta volta gli apparì in forma di carnefice che lo flagel­lò. La sesta in forma di Crocifisso. La settima sotto forma di un giovane, amico dei frati, che poco pri­ma era stato a visitarlo. L'ottava sotto la forma del padre spirituale (cioè lo stesso padre Agostino). La nona sotto la figura del padre Provinciale. La decima sotto la forma di papa Pio X. Altre volte ancora sotto la forma del suo angelo custode, di san Francesco, di Maria santissima. E infine nelle sue vere fattezze, orribili, con un esercito di spiriti infernali».

In queste occasioni, Padre Pio smascherava l'in­ganno diabolico invitando la figura che aveva di­nanzi a gridare con lui «Viva Gesù». Ma in qualche occasione si divertiva persino a svillaneggiare sata­na, come quando questi gli rivolse un lungo fervo­rino, suggerendogli di troncare ogni relazione con il direttore spirituale e di impiegare invece il tem­po pregando per la propria salvezza. E Padre Pio rispose sarcasticamente: «Mi duole di non potervi assumere per mio direttore, poiché il padre mio esercita questa carica da molto tempo e le nostre relazioni sono giunte a tal punto che troncarle così di botto non mi riesce. Girate, girate, che troverete delle anime che vi assumeranno a direttore del loro spirito, essendo voi bravo in tale materia!».

Per reazione, i demoni cominciarono a minaccia­re le maniere forti, nel caso in cui non avesse cedu­to alle loro intimazioni. La vivace discussione è descritta in una lettera dallo stesso cappuccino al pa­dre spirituale: «Quei cosacci, ultimamente, nel rice­vere la vostra lettera, prima di aprirla mi dissero di strapparla ovvero l'avessi buttata nel fuoco. Se ciò facevo si sarebbero ritirati per sempre, e non mi avrebbero più molestato. Io me ne stetti muto, sen­za dar loro risposta alcuna, pur disprezzandoli in cuor mio. Allora soggiunsero: "Noi questo lo vo­gliamo semplicemente come una condizione per la nostra ritirata. Tu nel far questo non lo fai come disprezzo a qualcuno". Risposi loro che nulla sa­rebbe valso a smuovermi dal mio proposito. Mi si scagliarono addosso come tante tigri affamate, ma­ledicendomi e minacciandomi che me lo avrebbero fatto pagare. Padre mio, hanno mantenuto la paro­la! Da quel giorno mi hanno quotidianamente per­cosso».

E una di queste aggressioni diede anche a Padre Pio l'occasione per una scenata al proprio angelo custode: «Sabato mi sembrò che mi volessero pro­prio finire, non sapevo più a qual santo votarmi; mi rivolgo al mio angelo e, dopo d'essersi fatto aspettare per un pezzo, eccolo infine aleggiarmi in­torno e con la sua angelica voce cantava inni alla divina maestà... Lo sgridai aspramente d'essersi fatto così lungamente aspettare, mentre io non ave­vo mancato di chiamarlo in mio soccorso; per casti­garlo non volevo guardarlo in viso, volevo allonta­narmi, volevo sfuggirlo; ma egli poverino mi raggiunge quasi piangendo, mi acciuffa, finché, sollevato lo sguardo, lo fissai in volto e lo trovai tutto spiacente».

Alle manifestazioni diaboliche, infatti, seguiva­no immancabilmente le consolazioni celesti. Pro­prio l'angelo custode un giorno gli spiegò che «Ge­sù permette al demonio questi assalti, perché la sua pietà ti rende a sé caro e vuole che tu lo rassomigli nelle angosce del deserto, dell'orto e della croce. Tu difenditi, allontana sempre e disprezza le maligne insinuazioni e dove le tue forze non po­tranno arrivare non ti affliggere, diletto del mio cuore, io sono vicino a te».

E anche nel Diario di padre Agostino è descritto un dialogo di Padre Pio con il suo angelo custode, cui il direttore spirituale ebbe la straordinaria ven­tura di poter assistere il 29 novembre 1911 nel con­vento di Venafro: «Angelo di Dio, angelo mio... non sei tu a mia custodia?... Dio ti ha dato a me! Sei creatura?... O sei creatura o sei creatore... Sei crea­tore? No. Dunque sei creatura e hai una legge e de­vi ubbidire... Devi stare accanto a me, o lo vuoi o non lo vuoi... per forza!».

 

 

I diavoli lo temono ancora

 

Oltre che «inseparabile compagno» e «messag­gero celeste» - come affettuosamente lo definiva -per Padre Pio il suo angelo custode doveva anche incarnare il ruolo di multiforme collaboratore. Per esempio, narra padre Tarcisio Zullo, gli faceva da traduttore: «I pellegrini di ogni parte del mondo che arrivavano a San Giovanni Rotondo parlavano a Padre Pio nella propria lingua. E Padre Pio capi­va sempre tutto. Una volta gli ho chiesto: "Padre, come fa a capire tante lingue e dialetti, tanti strani linguaggi?". Rispose: "L'angelo custode che ci sta a fare? E lui che mi traduce tutto!"». Oppure gli dava suggerimenti per contrastare il demonio che mac­chiava le lettere del padre spirituale: «La vostra let­tera è stata letta. L'angiolino mi aveva suggerito che all'arrivo di una vostra lettera l'avessi aspersa coll'acqua benedetta prima d'aprirla».

Ma doveva persino fare da maggiordomo, come umoristicamente ha ricordato padre Alessio Paren­te: «Nel 1965 passavo la giornata e parte della notte a fianco di Padre Pio, quindi generalmente ero sempre stanco. Dopo averlo accompagnato all'alta­re o al confessionale, scappavo nella mia cella per schiacciare un pisolino. Purtroppo, molte volte non sentivo la sveglia e ogni volta sentivo bussare forte alla mia stanza. In pochi secondi ero all'altare e lo trovavo sempre al momento che stava impartendo l'ultima benedizione. Per le confessioni invece sen­tivo una voce che mi diceva: "Alessio, va' giù!", e anche qui trovavo sempre Padre Pio sul punto di lasciare il confessionale. Un giorno non mi svegliai né per la Messa, né per prenderlo al confessionale. Svegliato dai confratelli andai nella sua cella e mi scusai. Lui mi rispose: "Ma che ti credi, che conti­nuerò a mandarti sempre il mio angelo custode a svegliarti? Comprati una sveglia nuova!"».

Padre Pio ricambiava con affetto e rispetto le at­tenzioni dell'angelo, invitando i suoi figli spirituali a comportarsi bene anche perché «siamo spettaco­lo all'angelo custode e non deve rattristarsi per noi», come disse alla signora Anna Benvenuto. «Qual sarà la consolazione», prospettava Padre Pio alla figlia spirituale Raffaelina Cerase, «quando, al momento della morte, l'anima vostra vedrà que­st'angelo si buono che vi accompagnò lungo la vi­ta, e che fu si largo di cure materne?». E a Cleonice Morcaldi, che gli chiedeva: «Padre, quando mori­rò, chi porterà l'anima in Cielo?», Padre Pio confer­mò: «Il tuo angelo custode!».

Se degli angeli Padre Pio non ha lasciato descri­zioni, di satana ha invece tracciato un preciso iden­tikit: quello di «un uomo sulla quarantina, occhi neri, capelli brizzolati, giacca nera, pantaloni rigati» che gli si presentò nel luglio 1949 al confessio­nale. Parlando di sé in terza persona, così Padre Pio raccontò l'episodio ai confratelli: «Il sacerdote lo invitò a mettersi in ginocchio, ma quello rispose:

"Non posso!". Credendo che fosse ammalato, gli chiese subito i peccati che aveva fatto. L'uomo disse tanti peccati da sembrare come se tutti i peccati di questo mondo li avesse commessi lui. Il sacerdote, dopo aver dato gli opportuni consigli, invitò ancora una volta quello strano penitente a piegare almeno il capo, perché stava per impartirgli l'assoluzione. Quegli rispose ancora: "Non posso". A questo pun­to il sacerdote disse: "Amico mio, al mattino quan­do ti infili i pantaloni, la testa te la pieghi un po' si o no?". L’uomo guardò con sdegno il sacerdote e ri­spose: "Io sono lucifero, nel mio regno non esiste piegatura"». Subito dopo, secondo quanto poté ve­dere con stupore anche l'amico don Pierino Galeo­ne, sprofondò giù e scomparì nella terra.

Come al momento della nascita, anche alla mor­te di Padre Pio gli angeli furono presenti. Da padre Alessio Parente ci giunge il racconto della visione che un aderente ai Gruppi di preghiera, di nome Kelly, ebbe nella notte del 23 settembre 1968 a San Giovanni Rotondo: «Appena alzato aveva notato degli angeli nel cielo ed era corso da un suo amico per farglieli vedere. Anche questi li vide nitidamente: un angelo maestoso sull'ospedale e uno sulla chiesa, con attorno una miriade di angioletti. All'apparire delle prime luci scomparvero tutti».

I demoni, dal canto loro, continuano invece a te­mere la potenza della sua intercessione amorevole, secondo quanto documenta il noto esorcista Ga­briele Amorth: «Dopo la sua morte, io ovviamente non ho più visto Padre Pio, ma molte volte è il de­monio, attraverso la persona posseduta, che vede la sua presenza e grida: "Quel frate, no! Quel frate non lo voglio! Mandatelo via, quel frate!"».

 

Il

 

Breviario di spiritualità

Per amore della Chiesa

 

Le caratteristiche principali della spiritualità di Padre Pio sono state ben sintetizzate dal "teologo censore" che ha studiato e giudicato, all'inizio del processo di canonizzazione del cappuccino, tutti i suoi scritti: l'anelito costante all'unione con Dio e il fiducioso abbandono in lui; i trasporti di amore per Gesù Cristo, per la sua passione e morte e per la di­vina Eucaristia; la tenera e filiale devozione a Ma­ria santissima e l'illimitata fiducia nella sua inter­cessione; la certezza della presenza e protezione dell'angelo custode.

Ma già lo stesso Padre Pio, nella lettera del 10 lu­glio 1915 al direttore spirituale padre Agostino da San Marco in Lamis, compendiava in poche frasi il proprio pensiero e la propria esperienza, esaltando «una vita tutta secondo il cuore di Dio, una vita tutta interiore e tutta nascosta in lui»; sollecitando «una mente sempre pura nei suoi pensieri, sempre retta nelle idee, sempre santa nelle sue intenzioni»; auspicando «sempre una volontà, la quale non cer­chi altro che Dio e la sua gloria».

Infine, egli racchiudeva tutte le virtù nella pace:

«La pace è la semplicità dello spirito, la serenità della mente, la tranquillità dell'anima, il vincolo dell'amore. La pace è l'ordine, è l'armonia in tutti noi: ella è un continuato godimento, che nasce dal testimonio della buona coscienza; è l'allegrezza santa di un cuore, in cui vi regna Iddio».

Pur godendo di immensi doni spirituali, Padre Pio non fu comunque indenne da dubbi, da scrupo­li, dalla sensazione di inadeguatezza alla chiamata di Dio. In numerosi periodi della vita sperimentò quella che tutti i mistici hanno definito la "notte oscura", e che lui stesso descrisse a padre Agostino nel gennaio 1916 in termini accorati: «L'anima mia da più tempo si trova immersa giorno e notte nel­l'alta notte dello spirito. Le tenebre spirituali mi du­rano delle lunghissime ore, dei lunghissimi giorni e spesso delle intiere settimane [...]. E un continuo de­serto di tenebre, di abbattimento, d'insensibilità, è la terra natale della morte, la notte dell'abbandono, la caverna della desolazione; qui si trova la povera anima lontana dal suo Dio e solo con se stessa».

Ma il suo atteggiamento non fu mai arrendevole o rinunciatario. Anzi - oltre al costante ricorso ai direttori spirituali - approfittò delle circostanze più penose per andare alle fonti della spiritualità e della cultura cattolica, in modo da corroborare la propria mente e il proprio spirito. Per esempio, du­rante la segregazione del 1931-33, Padre Pio fre­quentò costantemente la biblioteca del convento e lesse diversi testi di mistica, ma anche i 35 volumi della Storia universale di Cesare Cantù, i 16 volumi della Storia dei Papi dalla fine del Medioevo di Lud­wig von Pastor, i 16 volumi della Storia universale della Chiesa cattolica di René François Rohrbacher, i 7 volumi del Catechismo di perseveranza di Jean Jo­seph Gaume. Anche in seguito, ha testimoniato pa­dre Pellegrino Funicelli, «raccoglieva con passione ogni frutto della cultura cattolica». E un giorno lo stesso padre Pellegrino gli lanciò una provocazione:

«Lei, Padre Spirituale, tra le cose da studiare e medi­tare sceglie soltanto quelle che le servono ad amare Gesù e la sua Chiesa...». Padre Pio rispose: «Io vo­glio vivere per Gesù e per la Chiesa. La scienza che serve a farmi vivere sempre più per il Signore e per la Chiesa è la cultura della mia vita e tutta la mia vi­ta di cultura». E padre Pellegrino, di rincalzo: «Ma per amare Gesù e la Chiesa, secondo me, bastano quattro cognizioni». Padre Pio reagi alzando la vo­ce: «E invece no. Ogni giorno, ogni ora, ogni istante io sento il bisogno di accrescere le mie conoscenze. E la Chiesa è una fonte inesauribile di vita e di cultura per me!».

Per di più, come hanno osservato e documentato numerosi confratelli, Padre Pio era certamente as­sistito da ispirazioni di carattere soprannaturale, che gli permettevano di esprimere valutazioni e pareri anche quando gli argomenti sembravano al di fuori della sua conoscenza teorica. Ha attestato fra gli altri padre Rosario da Aliminusa: «Quando si parla di questioni morali Padre Pio dà risposte di perfetta esattezza teologica».

 

 

Un solo pensiero per l'anima

 

Dalle oltre 1.100 lettere che Padre Pio scrisse ai di­rettori spirituali, alle figlie e ai figli spirituali e a molte altre persone, prorompe una messe di pen­sieri mediante i quali si delinea una ben definita dottrina mistica. Qui di seguito, un rapido florile­gio in forma di vocabolario:

 

Armonia

L'armonia della vita sta nell'esatta osservanza del­la divina legge e dei doveri inerenti allo stato di ciascuno.

 

Beni celesti

Non miriamo quelle cose che si vedono, ma quelle che non si vedono. Ed è ben giusto che noi con­templiamo i beni celesti, non curandoci dei terre­ni, poiché quelli sono eterni, questi son transitori.

 

Cielo

Rivolgiamo il pensiero di continuo al Cielo, la vera patria nostra, di cui la terra non è che una immagi­ne, conservando la serenità e la calma in ogni even­to lieto o triste.

 

Dio

Non ti scoraggiare nella via che stai percorrendo, perché il tutto è di gradimento a Dio: purché il tuo cuore gli vorrà sempre essere fedele, egli non ti ag­graverà più di quello che puoi, e sopporterà con te il fardello allorché osserverà che di buon grado incurvi le tue spalle.

 

Eternità

Considera che sei già incamminata verso l'eternità, tu già ci hai posto un piede; purché ella sia per te felice, che importa che siano per te sventurati que­sti transitori momenti?

 

Fede

L'atto di fede più bello è quello che sgorga dalle lab­bra nel buio, nel sacrificio, nella pena, nello sforzo supremo di una volontà inflessibile di fare il bene.

 

Gaudio

Il gaudio è un rampollo della carità; ma per essere perfetto e vero questo gaudio si richiede che abbia per sua indivisibile compagna la pace, la quale al­lora si produce in noi quando il bene che possedia­mo è bene sommo e sicuro.

 

Imperfezione

L'anima, per assurgere alla divina contemplazione, deve essere purificata di tutte le imperfezioni non solo attuali, che si ottiene con la purga sensitiva, ma sibbene da tutte le imperfezioni abituali, che sono certe affezioni, certe abitudini imperfette che la purga del senso non è riuscita ad estirpare e che rimangono nell'anima come allo stato di radice.

 

Libertà

Cammineremo sempre cauti, ma con santa libertà. Sentiremo che il Signore, che a sé ci ha incatenati con l'amore, ci fa riguardare dal peccato come da un aspide velenoso.

 

Morte

Preferirei mille volte la morte, anziché determinar­mi ad offendere un Dio si buono. Farei volentieri in una sola volta, se fosse in mia potestà, un fascio di tutte le mie cattive inclinazioni per porgerlo a Ge­sù, affinché si degnasse col fuoco del suo divino amore a consumarle tutte.

 

Noia

Le noie che sperimentate nel praticare la virtù, l'o­razione, non vi devono impressionare e né farvi re­cedere dal praticare l'una e l'altra. Continuate lo stesso e non considerate una perdita quel tempo impiegato e speso nel fare l'ubbidienza.

 

Orazione

Nell'orazione ti metterai alla presenza di Dio per due principali ragioni: la prima, per rendere a Dio l'onore e l'ossequio che gli dobbiamo; la seconda, per parlargli e sentire la sua voce per mezzo delle sue ispirazioni ed illuminazioni interne.

 

Pensiero

Un solo pensiero è quello che deve occupare tutto l'animo tuo: amare Dio e praticare e predicare il bene.

 

Quiete

Nella quiete e nel silenzio cammina l'anima devota.

 

Rassegnazione

Pratichiamo bene la santa rassegnazione ed il puro amore di Dio, il quale non si pratica mai così intie­ramente come fra le contrarietà e afflizioni. Perché amare Dio nello zucchero, anche i fanciulli lo saprebbero fare; l'amarlo nell'assenzio è il contrasse­gno della nostra amorosa fedeltà.

 

Santità

Santità vuol dire essere superiori a noi stessi; vuol dire vittoria perfetta di tutte le nostre passioni; vuol dire disprezzare veramente e costantemente noi stessi e le cose del mondo fino a preferire la po­vertà alle ricchezze, l'umiliazione alla gloria, il do­lore al piacere.

 

Tentazione

Il segno certo e infallibile per l'elezione a salute di un'anima è la tentazione, cui la poverina sarà po­sta qual segno di contraddizione in mezzo a tanta tempesta. Ci rianimi il pensiero a sopportarne la prova la vita di tutti i santi che non vennero esen­tati da questa prova.

 

Uomo

Stùdiati dunque di far morire in te i residui del­l'uomo vecchio, che sempre cerca di voler rivivere, e per riuscire meglio nel disegno sii sempre più umile, più fiduciosa in Dio, più abbandonata in lui, meno amante delle tue comodità e della tua vana stima; più generosa con Dio e più compassionevole con i fratelli di esilio.

 

Volontà

Ecco le condizioni con le quali dobbiamo darci a Dio: che da qui in avanti egli faccia la sua volontà su di noi e che distrugga la nostra a suo piacere. Oh quanto sono felici coloro che Dio maneggia a seconda dei suoi voleri, e che esercita, o con la tri­bolazione o con la consolazione.

 

III

 

Carità e opere

Amico di Dio e dell'uomo

 

Pur convinto, secondo quanto leggiamo nella lettera del 3 giugno 1919 inviata a padre Benedetto da San Marco in Lamis, che «la maggior carità è quella di strappare anime avvinte da satana per guadagnarle a Cristo», Padre Pio non lesinava al­cuna energia anche quando si trattava di venire in­contro ai bisognosi di aiuto materiale. Come aveva confidato, sempre a padre Benedetto, il 26 marzo 1914, «la grandissima compassione che sente l'ani­ma alla vista di un povero le fa nascere nel suo pro­prio centro un veementissimo desiderio di soc­correrlo, e se guardassi alla mia volontà mi spingerebbe a spogliarmi perfino dei panni per ri­vestirlo».

Di fatto, ha sottolineato padre Gerardo Di Flu­meri, soprattutto dal momento della stimmatizza­zione, «il cuore del venerato Padre si trova fra due desideri o amori, che egli chiama forze: "Quella di voler vivere per giovare ai fratelli di esilio e quella di voler morire per unirsi allo Sposo". Egli si è po­sto così in un progetto di esistenza divisa fra le due fondamentali istanze di una creatura di Dio: l'amo­re per il prossimo e l'amore di Dio. Si è posto cioè nel progetto fondamentale per ogni vita umana:

quello dei due "comandamenti nuovi": Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente e amerai il pros­simo tuo come te stesso». È da tale profonda consapevolezza che scaturi­sce ogni forma di carità, sia spirituale sia materiale, attuata da Padre Pio durante l'intera esistenza. Lo testimonia con estrema chiarezza il comportamen­to da lui tenuto verso l'arcivescovo Pasquale Ga­gliardi, che negli anni Venti era stato il suo grande accusatore. Dopo la rinuncia alla diocesi di Man­fredonia, nel 1929, Gagliardi si trovò in ristrettezze economiche e si rivolse anche ai cappuccini di San Giovanni Rotondo per avere qualche aiuto. Padre Pio non lesinò sollecitazioni al Superiore affinché facesse giungere all'arcivescovo intenzioni di sante Messe con relative offerte. E quando poi seppe che era morto, il Padre disse soltanto: «Domani cele­brerò in suo suffragio».

Il sacrificio eucaristico e la preghiera erano infat­ti le forme di carità più utilizzate dal Padre. All'as­sistente padre Onorato Marcucci disse una matti­na: «Questa notte sono stato male e non ti ho fatto dormire. Mi chiedevo come ricompensarti. Ho pensato a tua madre e ho preso l'indulgenza plena­ria per mandarla in Paradiso». Padre Innocenzo Cinicola Santoro ha invece testimoniato: «Il confra­tello padre Ruggero ogni sera verso mezzanotte, l'ora in cui abitualmente Padre Pio tornava dal co­ro in cella, si recava a fare le sue richieste al Padre, il quale lo ascoltava pazientemente, sebbene fosse molto stanco. In seguito Padre Pio mi confidò che, dopo la morte del confratello, per un certo tempo, alla medesima ora, recitava un Rosario di cinque poste in suo suffragio».

Sotto il versante più materiale, spiegò una volta a padre Carmelo Durante che «prima di fare la ca­rità, non bisogna fare il processo al povero». Padre Carmelo ha esemplificato con il caso di una fami­glia composta di nove figli, dove soltanto il padre lavorava: «Padre Pio mi raccomandò di trovare un benefattore che provvedesse una macchina per maglieria in modo che potessero lavorare e guada­gnare qualcosa». Di fronte all'esitazione del con­fratello, Pàdre Pio sbottò: «Quando i genitori ven­gono a confessarsi gli diciamo: "Fate figli, osser­vate le leggi di Dio". Quando poi li hanno avuti, al­lora diciamo: "Pensateci voi a mantenerli"!».

A fianco della carità, il Padre voleva che ci fosse sempre la giustizia. Lo stesso padre Carmelo, all'epo­ca in cui era il Guardiano del convento, si senfi chie­dere se ai cuochi laici venivano versati i contributi per la pensione: «Io risposi: "Non so, devo chiedere al padre Economo". Ed egli aggiunse: "Come, tu sei il Superiore e non lo sai?". E continuò: "Preti, frati e suore non capiamo niente della giustizia!". Io rettifi­cai: "Della carità". Ed egli rispose: "No, è giustizia pagare i contributi!"». Nel contempo, i dipendenti che non si davano da fare nel lavoro li chiamava «lazzaroni», perché «mangiano il pane della carità a tradimento». E, quando perseveravano in questo at­teggiamento di pigrizia, voleva che fossero licenziati.

 

 

Un'opera che sfiderà i secoli

 

Padre Pio, ha sottolineato padre Mariano Paladi­no, aveva una grande fiducia in Dio e diceva: «La Provvidenza non bisogna precederla, ma affiancar­la». Fu questa la radice dalla quale trassero linfa, in varie riprese, le numerose opere sociali da lui ispi­rate, che mirarono innanzitutto a rispondere ai bi­sogni della gente di San Giovanni Rotondo, ma che poi si allargarono a una miriade di persone.

La prima realizzazione nella quale il cappuccino si impegnò direttamente, con l'aiuto della locale Congrega di carità, fu la trasformazione dell'ex convento delle Clarisse nell'ospedale di San Fran­cesco. L'inaugurazione fu fatta da Padre Pio nel

gennaio del 1925, ma il terremoto del 1938 provocò gravi danni ai locali e la struttura dovette chiudere.

Il desiderio del Padre ~i rispondere ai bisogni sa­nitari della popolazione del Gargano non era però venuto meno, e i suoi più stretti collaboratori e figli spirituali lo sapevano. Si sviluppò così l'idea di un altro ospedale, di dimensioni più ampie del prece­dente. Nella cella di Padre Pio, la sera del 9 gen­naio 1940, il medico Guglielmo Sanguinetti, il far­macista Carlo Kisvarday e il veterinario Mario Sanvico raccontarono al Padre che avevano creato un comitato per la fondazione della nuova clinica.

Come ha narrato lo stesso Sanvico nel Diario di quei giorni, Padre Pio li ascoltò con attenzione e poi disse: «Da questa sera ha inizio la mia grande opera terrena. Benedico voi e tutti coloro che done­ranno alla mia opera, che sarà sempre più bella e più grande». Quindi, frugando nella tonaca, ne estrasse una moneta d'oro, che gli era stata donata per la sua carità, ed esclamò: «Anch'io voglio offri­re il mio obolo».

La seconda guerra mondiale costrinse a riman­dare l'avvio dei lavori, nonostante fosse già dispo­nibile l'area per la costruzione, un terreno del de­manio concesso alla signorina Maria Basilio per un'opera di beneficenza, situato a pochi passi dal convento cappuccino. Lo stesso luogo, quasi come una singolare profezia, dove Camillo de' Lellis - che fonderà l'ordine religioso ospedaliero dei Ca­milliani e sarà poi proclamato santo - si era con­vertito il 2 febbraio 1575.

Finalmente, il 16 maggio 1947, veniva benedetta e posata la prima pietra e, tre giorni dopo, alcuni operai davano i primi colpi di piccone. Ma, se gli eventi militari e la crisi economica avevano fatto perdere sette anni di tempo, proprio gli aiuti post­bellici fecero decollare l'opera. Provvidenziale tra-mite fu la giornalista britannica Barbara Ward che, giunta per curiosità a San Giovanni Rotondo, restò colpita da don Giuseppe Orlando, il sacerdote ami­co di Padre Pio che dirigeva i primi lavori di sterro e che ha lasciato scritto nelle proprie memorie:

«Do mandò proprio a me: "Che cosa fate?". E io ri­sposi: "Una grande clinica". "E che denaro vi oc­corre?". Sparai allora una bomba: "400 milioni". "E chi paga?". "Chi passa paga". E la signorina passò e andò dal Padre».

Al cappuccino la donna chiese di pregare per la conversione del fidanzato, il comandante Jackson, dal protestantesimo al cattolicesimo. Il dialogo le sembrò, al momento, troppo generico: «Se il Signo­re vuole si convertirà», disse Padre Pio; e alla do­manda: «Ma quando?», si sentì rispondere: «Se il Signore vuole, anche adesso». Quale fu la sua sor­presa quando, tornata a Londra, il fidanzato le rac­contò che si era fatto battezzare, praticamente in contemporanea con il suo viaggio a San Giovanni Rotondo.

Dopo che la Ward gli raccontò quel che le aveva detto don Orlando, Jackson, che era consigliere dell'Unrra (un organismo assistenziale delle Na­zioni Unite), riuscì a far deliberare un consistente stanziamento. Fra diversi alti e bassi, la mattina del 26 luglio 1954 venne aperto il poliambulatorio, do­tato di pronto soccorso, medicina generale, pedia­tria, otorinolaringoiatria, odontoiatria e laboratorio di analisi cliniche, mentre il 10 maggio 1956 entrò in clinica il primo ammalato.

Pochi giorni prima, il 5 maggio, il Padre aveva così descritto, nel discorso d'inaugurazione, la Ca­sa Sollievo della Sofferenza: «Città ospedaliera tec­nicamente adeguata alle più ardite esigenze clini­che e insieme ordine ascetico di francescanesimo militante. Luogo di preghiera e di scienza, dove il genere umano si ritrovi in Cristo crocifisso come un solo gregge con un sol pastore». A chi gli osser­vava che era troppo lussuosa, Padre Pio replicava:

«Se fosse possibile, la Casa la farei d'oro, perché il malato è Gesù e tutto è poco quello che si fa per il Signore!».

L'Ordine cappuccino preferì non entrare nella gestione della Casa Sollievo, temendo di non esse­re in grado di sostenerla economicamente dopo la morte del Padre. Così Padre Pio nominò la Santa Sede, con un testamento firmato l'lì maggio 1964, «erede universale di tutti i beni mobili e immobili». Al cardinale Domenico Tardini, che gli fece chiede­re dal commendator Angelo Battisti che cosa sareb­be accaduto dopo la sua scomparsa, Padre Pio ri­spose: «L'opera sfiderà i secoli».

Nel frattempo, su sollecitazione di Padre Pio, va­rie altre opere sociali erano state realizzate negli anni Cinquanta: la cooperativa di consumo «San Francesco d'Assisi» (1955), il centro assistenziale «Santa Maria delle Grazie» (1956), le scuole mater­ne francescane «Santa Maria delle Grazie», «San Francesco d'Assisi» e «Pace e Bene» (1956-1958), il centro di addestramento professionale «San Giu­seppe Artigiano» (1958). E nel contempo, il 1~ lu­glio 1959, venne consacrata anche la nuova chiesa di Santa Maria delle Grazie, che integrò l'antica chiesina conventuale, edificata nel 1629. Mentre èormai prossima l'inaugurazione del santuario pro­gettato dall'architetto Renzo Piano, proprio alle spalle del convento cappuccino.

 

IV

 

Dio, Gesù e Spirito Santo

I volti della Trinità

 

«Dio è uno nella natura, trino nelle persone. Pa­dre, Figlio e Spirito Santo so~o tre persone uguali e distinte e un solo Dio, perché unica e identica è la natura divina». Quando Padre Pio diede questa spiegazione alla signorina Giovanna Rizzani, com­parendole in bilocazione nella basilica di San Pie­tro, apparentemente non fece altro che ripetere quanto è attestato dalla dottrina cristiana. Una dif­ferenza sostanziale caratterizzava però il cappuc­cino da qualsiasi altro sacerdote e teologo: per lui una tale affermazione non era semplicemente un dogma di fede, ma scaturiva dall'esperienza di­retta che in diverse occasioni egli comunicò ai suoi intimi.

Al figlio spirituale Adolfo Affatato, che gli do­mandò se avesse mai visto il volto di Dio, rispose senza giri di parole: «Dio non ha volto, è luce; più l'anima è candida e più si avvicina a questa luce». Del rapporto con lo Spirito Santo scrisse invece a padre Agostino da San Marco in Lamis il 12 mag­gio 1914, ricordando «quel che mi fece sentire il santissimo Spirito Paraclito in quel giorno in cui ri­cevei il sacramento della cresima... Quante dolci mozioni mi fece sentire in quel giorno questo Spiri­to consolatore».

Con Gesù Cristo, poi, la frequentazione era con­tinua, come testimonia un dialogo con padre Euse­bio Notte, che scherzava sul suo modo goffo di fare le genuflessioni, anche a causa delle ginocchia enormemente gonfie. Padre Pio gli rispose: «Sapes­si la fatica che faccio. Che sforzi devo fare per arri­vare alla consacrazione. Magari dopo la consacra­zione...»; «E già - ribatté padre Eusebio - dopo la consacrazione il Padrone ce l'ha più vicino, vero?»; «Sicuro!», replicò il Padre.

Se per Padre Pio il peccato era in generale qual­che cosa di incomprensibile, l'offesa al nome di Dio gli risultava ancor più dolorosa. Con padre Rosario da Aliminusa sbottò un giorno: «Come si può be­stemmiare? Ma si capisce che la bestemmia è come se si volesse buttare Dio a terra e calpestarlo con i propri piedi? Ma si pensa che Dio è nostro pa­dre?». Quasi a compensazione, dalla sua bocca - ri­corda padre Emanuele da San Marco La Catola - scaturivano spesso espressioni di adorazione del nome di Dio, con esclamazioni quali «il Signore» e, anche più spesso, «nostro Signore».

Quanto fosse intenso l'amore di Padre Pio nei ri­guardi di Dio lo documenta un commovente episo­dio tramandato da padre Carmelo da San Giovan­ni in Galdo. Era la sera del 22 gennaio 1965 e il Padre si trovava a letto nella propria camera, cir­condato dal padre Guardiano e dai confratelli: «Al­l'improvviso invocò ai presenti una preghiera che lo aiutasse a chiedere perdono per la sua ingratitu­dine verso il Signore. Poiché noi cercavamo di con­fortarlo, egli si commosse fortemente fino alle la­crime e volle fare pubblica confessione del suo grande peccato, dicendo: "Fratelli miei, l'ho fatta grossa davvero! Nacqui il 25 maggio 1887, alle ore 18.15 [in realtà l'orario esatto era le 17, nda.); ebbi la grazia di ricevere il battesimo dopo quattordici ore, e cioè alle 8 del giorno successivo 26 maggio. Fino al giorno della mia vestizione religiosa - 22 gennaio 1903 - per sedici anni non ho mai ringra­ziato il Signore del dono del battesimo e della gra­zia ricevuta così presto, dopo quattordici ore. L'ho fatta grossa, l'ho fatta grossa!...". E continuò a ver­sare lacrime a dirotto».

Che Dio fosse "il tutto" nella vita di Padre Pio emerge con nitidezza anche dal sùggerimento of­ferto costantemente ai devoti che gli chiedevano conforto spirituale: «Rassègnati alla volontà divi­na». A tale proposito, Padre Rosario da Aliminusa ebbe varie occasioni per ascoltare dallo stesso Pa­dre Pio il racconto di quella che lui stesso conside­rava una grossa gaffe. Un uomo lo pregava insisten­temente che lo guarisse e all' assicurazione che avrebbe pregato per lui tornava a ripetere: «No, Pa­dre, se volete, voi potete guarirmi». Infine Padre Pio in tono risoluto gli disse: «Senti, fratello mio, se io fossi Dio, guarirei non solo te, ma tutti gli amma­lati». Ma si corresse subito: «No, se fossi Dio, farei proprio come fa lui!».

 

 

Un "altro Cristo" come san Francesco

 

A Cleonice Morcaldi, che gli domandava: «Che cosa devo chiedere a Dio per voi?», Padre Pio rispo­se: «Ch'io sia un altro Gesù, tutto e sempre Gesù». La tensione spirituale nella quale il cappuccino era costantemente immerso aveva infatti come termine di paragone san Francesco d'Assisi, che i contem­poranei del Trecento definivano alter Christus, un altro Cristo.

Per Padre Pio il richiamarsi a Gesù non era man­canza d'umiltà, bensì serena consapevolezza del proprio stato e della missione affidatagli dal Signo­re. Lo sapevano bene anche i suoi figli spirituali, tanto che al professor Gerardo De Caro non parve strano quanto gli accadde un giorno nel quale il frate era a letto ammalato: «Il professor Attilio Massa ed io entrammo nella sua cella solo per sa­lutarlo. Nel commiato gli dissi con l'amico: "Il Si­gnore sia con voi . Ed egli rispose: "E io con voi Allora pensai che Padre Pio parlasse davvero come alter Christus».

 

«Viva Gesù! Questa è la parola interiore sotto cui dobbiamo vivere e morire», scriveva nel 1917 il Pa­dre, poco dopo aver iniziato il definitivo ministero che si sarebbe protratto per cinquant'anni a San Giovanni Rotondo. Ed era così elevato il suo amore a Cristo, da farlo prorompere - secondo la testimo­nianza del dottor Francesco Di Raimondo, che nar­ra un episodio avvenuto il 7 settembre del 1956 - in un frammento di vera poesia teologica: «E valsa la pena che l'uomo portasse le conseguenze del peccato originale, dal momento che questo ha pro­vocato l'incarnazione di Cristo». Per questo non appare come una semplice osservazione scherzosa quanto si legge sulla sua cartella clinica del maggio 1959, alla voce professione: «Portatore di anime a Cristo»!

Uno degli studiosi dei suoi scritti, padre Mel­chiorre da Pobladura, ha sintetizzato in sei aspetti la spiritualità cristocentrica di Padre Pio: Gesù ideale di vita cristiana; Gesù modello nel quale tutti devono rispecchiarsi; Gesù vivo nei suoi mi­steri; Gesù sempre con noi; il Cuore divino di Ge­sù; Gesù nell'Eucaristia. Proprio Gesù Sacramen­tato era al centro della sua devozione, come testimonia la preghiera di comunione spirituale, composta da sant'Alfonso Maria de' Liguori, che Padre Pio recitava ogni sera: «Gesù mio, credo che voi siete nel santissimo Sacramento. Vi amo sopra ogni cosa e vi desidero nell'anima mia. Poiché ora non posso ricevervi sacramentalmente, venite al­meno spiritualmente nel mio cuore. Come già ve­nuto, io vi abbraccio e tutto mi unisco a voi; non permettete che io mi abbia mai a separare da voi». «Guardate Gesù, e non me», era l'ordine che ri­volgeva ai devoti che si voltavano verso di lui mentre pregava. E se quando lui usciva dal confes­sionale era in corso la celebrazione eucaristica in qualche altare laterale, racconta padre Marcellino lasenzaniro, alla gente che faceva ala al suo pas­saggio tentando di toccarlo o chiedendogli la bene­dizione si rivolgeva con fermezza dicendo: «Si sta celebrando la Messa: state voltando le spalle a Ge­sù Sacramentato».

Era così grande l'amore di Padre Pio per l'Euca­ristia, che a padre Alberto D'Apolito, quando nel 1922 si vociferava del trasferimento da San Gio­vanni Rotondo, confidò di sentirsi estremamente tranquillo, perché «dovunque andrò troverò Gesù Sacramentato, un pane da mangiare, un panno per coprirmi». E a suor Maria Francesca Consolata -che si lamentava per alcuni problemi in ospedale, dicendogli: «Me ne scapperei davvero da Casa Sol­lievo, se non fosse per Gesù e per voi» - Padre Pio rispose con dolcezza: «E quello che dico sempre anch'io, figlia mia... Credi tu che starei qui se non fosse per Gesù?».

La sua identificazione con Cristo raggiungeva talvolta livelli impensabili, come attesta una straordinaria esperienza di don Pierino Galeone mentre stava per ricevere la comunione: «Padre Pio si mise davanti a me e, prendendo fra le dita la particola, la guardava con tanta intensità da tener­la per un bel po' ferma. Con mia sorpresa, vidi chiaramente cambiare le sue sembianze in quelle di Gesù. Era di statura normale, in abiti sacerdota­li, occhi sereni, volto dolce, labbra con cenno di sorriso. Aveva una trentina d'anni, capelli biondi e lunghi, barba discreta e ben ordinata, occhi azzur­ri, volto ovale e bello. Vidi muovere quella mano, dapprima immobile, che teneva fra le dita la parti­cola, avvicinarsi lentamente alla mia bocca e dire "Questo è il mio corpo". Aprii la bocca e presi la particola: ancora le sue sembianze erano quelle di Gesù. Poi abbassai il capo, chiudendo gli occhi in raccoglimento. Quando li riaprii, vidi Padre Pio ri­prendere le sue sembianze con semplicità e passare oltre con disinvolta naturalezza».

L'invito a vivere nella gioia di Gesù Cristo faceva il pari con la sollecitazione che Padre Pio rivolgeva ai figli spirituali «a non dare mai luogo nel vostro cuore alla tristezza... poiché essa impedisce la libe­ra operazione dello Spirito Santo». Che cosa inten­desse dire, lo spiegò alla nobildonna Raffaelina Ce-rase: «Lasciate che lo Spirito Santo operi in voi, abbandonandovi a tutti i suoi trasporti, e non te­mete. Egli è tanto sapiente, soave e discreto da non causare che il bene. Quale bontà di questo Spirito Paraclito per tutti, ma quale per voi massimamente che lo cercate».

Di fatto, per Padre Pio la consapevolezza che l'a­nima è il tempio dello Spirito Santo aveva come immediata e logica conseguenza la necessità per ogni cristiano di «non dar luogo al nemico di farsi strada per entrare nel nostro spirito e far contami­nare questo tempio». Come concreto aiuto in tal senso, un semplice ed efficace suggerimento: la preghiera allo Spirito Paraclito affinché illumini «intorno a tre grandi verità specialmente: che ci faccia conoscere l'eccellenza della nostra vocazione cristiana; che ci illumini intorno all'immensità del­l'eterna eredità a cui la bontà del celeste Padre ci ha destinati; che ci faccia penetrare il mistero della nostra giustificazione, che da miseri peccatori ci trasse a salute».

 

V

 

Espiazione e sofferenza

Il mistero della croce

 

Nel 1913 Padre Pio scriveva al direttore spiritua­le: «Gesù mi fa vedere, come in uno specchio, tutta la mia vita futura non essere altro che un martirio». In questa sintetica frase scorrono come in un film i successivi 55 anni del cappuccino, trascorsi nella continua sofferenza espiatrice per esprimere il pro­prio amore verso Dio e verso il prossimo. E un fo­togramma è tuttora visibile nella quinta stazione della Via Crucis di San Giovanni Rotondo, dove lo scultore Francesco Messina ha raffigurato il frate come il Cireneo che sostiene la croce di Cristo lun­go la salita del Calvario.

Padre Pio considerava il dolore come un «dono di Dio». Una volta tossiva da far pena, tanto che il confratello padre Lino da Prata gli disse: «Padre, passi a me la sua tosse». E lui rispose sorpreso: «E che, i doni si regalano?». Il professor Nicola Bellan­tuono, al termine di una confessione, gli chiese in­vece se le stimmate fossero dolorose e Padre Pio reagì: «Credi che il Signore me le abbia date per bellezza?». Allora il professore si offrì: «Padre, date qualche cosa anche a me». E il frate, quasi irritato:

«I monili del Signore non si regalano!».

La prediletta figlia spirituale Cleonice Morcaldi ha documentato che queste parole non erano sol­tanto un modo di dire: «Il demonio mi voleva persuadere che il Padre era tutto piagato, ma sol­tanto misticamente. Il Signore sfatò il bugiardo.

Mi suggerì di mandare nei giorni di gran caldo una camicia di tela bianca al Padre. Ero convinta che la rifiutasse. La tenne. Me la rimandò dopo tre giorni tutta insanguinata, anche le maniche lun­ghe e larghe».

Don Pierino Galeone ricevette direttamente da Padre Pio la dettagliata spiegazione di quale do­vesse essere per il cristiano l'itinerario della soffe­renza: «Anzitutto si accetta il dolore da Dio per ri­parare il passato, purificare l'anima e vincere ogni ripugnanza; poi si abbracciano i patimenti con ar­dore e risolutezza, con la gioia di percorrere con Cristo la via dolorosa, dal Presepio al Calvario. Si ammira, si loda, si ama ogni stato doloroso di Ge­sù: della povertà e dell'esilio, degli oscuri lavori della vita nascosta, dei faticosi travagli della vita pubblica e dei patimenti fisici e morali della lunga e dolorosa Passione».

Continuò il cappuccino: «Allora l'anima si sente più coraggiosa di fronte al dolore e alla tristezza, si stende amorosamente sulla nuda croce accanto a Gesù, posa compassionevolmente lo sguardo su di lui e ode dal suo labbro: "Beati quelli che soffrono per amore della giustizia". La speranza di parteci­pare sempre di più alla gloria con Cristo rende me­glio sopportabile la crocifissione con lui, fino a ral­legrarsi delle miserie e delle tribolazioni. Soffrire con Cristo è amarlo e consolarlo perfettamente. Di­ventano sempre più grandi il desiderio e l'amore alla sofferenza, quanto maggiori sono l'amore a Gesù e alle anime».

Per Padre Pio la sofferenza era una condizione indispensabile all'adempimento della propria mis­sione. Sono in molti a poter testimoniare quanto tutta la sua vita e la sua opera fossero ispirate al fi­ne di soffrire con Cristo per la salvezza delle ani­me. Una volta il signor Enzo Bertani gli disse: «Mi dia un po' della sua sofferenza», e il Padre rispose senza esitazione: «Io soffro quando non soffro». Che il dolore fosse il suo pane quotidiano lo con-fermò, appena una decina di giorni prima di mori­re, a padre Paolo Covino, il quale gli suggeriva di pregare il Signore affinché gli alleggerisse un po' di sofferenze: «Figlio mio, se ciò avvenisse morirei di dolore».

Quello che però lo faceva davvero patire nell'a­nima era la scarsa comprensione del mistero del dolore da parte di quella folla di pellegrini che ogni giorno invocavano aiuto, guarigione, conforto per le loro sofferenze fisiche e morali: «Tutti vengo­no qua per farsi togliere la croce, nessuno per im­parare a portarla», mormorava rattristato. Lo confermò al dottor Mario Frisotti: «Se gli uomini conoscessero la proficuità spirituale del dolore vor­rebbero essere messi tutti in croce».

A don Pierino Galeone, che gli chiedeva: «Padre, come fate voi a soffrire tanto e ad avere il volto sempre sereno e gioioso, mentre io soffro pochissi­mo e non so nascondere la pena sul mio volto?», suggerì: «Figlio mio, comincia ad accogliere con dolce rassegnazione le contrarietà e le afflizioni, e il Signore non mancherà di metterti nel cuore la se­renità, la pace, la gioia e, quindi, la beatitudine nel patire. Così ho fatto io, così fa' anche tu».

Ne è testimonianza autobiografica il pensiero che Padre Pio scrisse il 22 gennaio 1953, in occasio­ne del cinquantesimo anniversario della propria vestizione: «Cinquant'anni di vita religiosa, cin­quant'anni confitto sulla croce, cinquant'anni di fuoco divoratore per Te, Signore, per i tuoi redenti. Che altro desidera l'animo mio se non condurre tutti a Te, o Signore, e attendere pazientemente che bruci tutte le mie viscere nel cu pio dissolvi per esse­re completamente in Te?».

 

 

Vittima al posto dei fratelli

 

In ogni caso, quello di Padre Pio non era un at­teggiamento masochistico: «Non credere che io ami la sofferenza per se stessa», rivelò a Cleonice Morcaldi, «L'amo e la chiedo a Gesù per i frutti che produce: dà gloria a Dio, salva le anime, libera quelle del Purgatorio. E che posso volere di più?». Questa voluttà incontenibile lo spingeva a dire:

«Signore, da' a me tutte le tristezze e i dolori dei miei fratelli con un timore puro: quello di essere egoista riserbando per me la parte migliore, il do­lore...».

Le testimonianze dei confratelli che vissero ac­canto a Padre Pio compongono un mosaico dinan­zi al quale occorre chinare il capo e decidere se ac­cettare o meno la sfida perenne che l'esistenza del cappuccino rappresenta tuttora per ogni cristiano. Padre Francesco Napolitano: «Padre Pio si addos­sava le sofferenze degli altri soffrendole in prima persona. Intendeva lenire le sofferenze sapendo che era impossibile eliminarle completamente»; padre Onorato Marcucci: «Egli soffriva intensa­mente ed era cosciente che la sofferenza era inevi­tabile; profondamente sensibile di fronte alle soffe­renze altrui si mostrava compassionevole e cercava con la sua opera di sollevare gli ammalati»; padre Alberto D'Apolito: «Più volte l'ho sentito esclama­re: "O Signore quante miserie, quanto dolore! Da' a me le sofferenze di questi poveretti"».

Padre Pio lo aveva deciso in tempi lontani, di of­frirsi vittima al posto dei fratelli di fede. Una lette­ra a padre Benedetto da San Marco in Lamis, data­ta 26 marzo 1914, documenta: «Se so poi che una persona è afflitta sia nell'anima che nel corpo, che non farei presso il Signore per vederla libera dai suoi mali? Volentieri mi addosserei, pur di vederla andar salva, tutte le sue afflizioni, cedendo in suo favore i frutti ditali sofferenze, se il Signore me lo permette».

Gli episodi che tramandano questa volontà e­spiatrice sono innumerevoli. Un giorno padre Eu­sebio Notte consegnò a Padre Pio ùna lettera nella quale gli si chiedeva che offrisse le sue sofferenze per il buon comportamento di un sacerdote, e il Pa­dre accolse questa sollecitazione. Quando, al matti­no seguente, padre Eusebio andò a prelevarlo nella cella, Padre Pio gli disse di avere un dolore tre­mendo al fianco. Padre Eusebio allora sbottò: «Pa­dre, ha dimenticato che ieri ha promesso preghiere e sacrifici per quel sacerdote?»; ed egli rispose sol­tanto: «Già!».

Don Attilio Negrisolo ricorda di aver incontrato a San Giovanni Rotondo, durante la Quaresima del 1956, un giovane proveniente da Cattolica che ave­va un evidente tumore alla tempia: «Io chiesi: "Che cosa ti ha detto Padre Pio?". E il giovane: "Mi ha detto: soffriamo insieme". Il Venerdì santo incon­trai Padre Pio nel corridoio. Eravamo soli. Gli dissi:

"Padre, le faccio gli auguri oggi, poiché domani ci sarà molta gente". Padre Pio rispose: "Per me i giorni sono tutti uguali. Oggi poi mi sembra di avere un trapano qui che mi penetra nella testa", e indicò la tempia. Aggiunsi: "Per forza, Padre, vi prendete il male di tutti!". Ed egli, girandosi verso la piazza donde si sentiva il vociare della gente:

"Magari fosse vero che potessi prendermi il male di tutti per vedere tutti contenti!". Seppi che il gio­vane in seguito guarì».

Tenerissimo l'episodio che ebbe per protagonista il suo confessore, padre Agostino da San Marco in Lamis, che un giorno si lamentò per un dolore che l'affliggeva al ginocchio. Padre Pio lo consolò di­cendo: «Coraggio, vedrà che le passerà». Poco dopo, padre Eusebio Notte si accorse che il Padre zoppicava vistosamente, mentre poco prima cam­minava spedito.

Ricorda padre Eusebio: «Arrivati in cella, lo do­vetti prendere quasi di peso per aiutarlo a sedere in poltrona. Ma, mentre facevo questa operazione, mi venne un'idea: che il Padre non si fosse addos­sato il male al ginocchio di padre Agostino? Corro da quest'ultimo e gli chiedo: "Come si sente?". Ed egli, sorridendo: "Ma lo sai che mi sento bene e il dolore è sparito?". Aggiungo io: "Si capisce, se l'è preso Padre Pio!"».

Il suo intervento era anche "a distanza", come afferma padre Carmelo da San Giovanni in Galdo:

«Per qualche caso speciale, specie di malattia o grave infermità, gli chiedevamo un particolare in­teressamento; egli allora ci diceva di rispondere al­l'ammalato: "Fate sapere che io non mi risparmio per lui". E con questa frase voleva significare che, oltre alla preghiera, accettava di soffrire per la per­sona interessata».

Quanto pressanti e numerose fossero le richieste di intervento, lo attesta drammaticamente una del­le più toccanti testimonianze al processo di cano­nizzazione. Un giorno il confratello padre Eduardo si presentò a Padre Pio e gli chiese una preghiera per il suo esaurimento. Il Padre, dispiaciuto, se ne uscì con questa espressione: «Figlio mio, mi trovi in un momento nel quale non ho neppure una par­te del mio corpo da offrire al Signore per te, ma la prima che si libera la offrirò».

 

VI

 

Figli spirituali e Gruppi di preghiera

Una famiglia attorno al Padre

 

«In mezzo a voi sono fratello, sull'altare vittima, in confessionale giudice, maestro e padre». Fu Pa­dre Pio in persona a definire con queste parole il multiforme ruolo che egli assumeva nei riguardi dei figli spirituali, una volta che li aveva accettati nella propria sempre più vasta famiglia: migliaia e migliaia di persone che il Signore gli aveva antici­patamente fatto conoscere in visione nella notte precedente l'ordinazione sacerdotale e durante la prima Messa solenne.

Per essere accolti in tale schiera, ha testimoniato il signor Angelo Battisti, «c'era una sola condizio­ne: "Non farmi scomparire [= fare brutta figura, nda.] dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini", il che voleva significare osservanza della legge di Dio e dei precetti della Chiesa, fermezza nei propositi, essere di buon esempio agli altri».

Padre Pio non era indulgente con chi aveva com­portamenti non consoni a queste indicazioni. Un amico fiorentino di Battisti, venuto meno a una precisa promessa fatta al cappuccino, gli raccontò di essersi sentito prendere a calci così forte da far­gli fare delle capriole: «Egli comprese subito la pro­venienza di quell'assalto e mi scrisse perché gli im­plorassi da Padre Pio il perdono. Il Padre rispose:

"Digli che, se non si mette a posto, sarà il Signore a prenderlo a zampate; e non si facesse vedere da me senza aver riparato..."». Se invece venivano rispettati gli impegni assunti, Padre Pio era un tenerissimo compagno di strada, sia sul versante spirituale sia su quello materiale. Il dottor Michele Costa ricorda di essere stato spesso latore di messaggi e di richieste di preghiere: «Per­sonalmente ritenevo quasi importuno scomodarlo per motivazioni concrete (comprare la casa, matri­moni da fare, investimenti...). Però con somma me­raviglia notavo che il Padre partecipava a queste necessità del prossimo e dava il consiglio adatto».

Ai figli spirituali che gli chiedevano che cosa fare quando avevano bisogno del suo aiuto e non pote­vano recarsi a San Giovanni Rotondo, Padre Pio ri­spondeva: «Mandami il tuo angelo custode». Pa­dre Alessio Parente, suo assistente personale, ha testimoniato che Padre Pio ogni sera, durante il Rosario, interrompeva spesso la recita delle Ave Maria con frasi come: «Dille che pregherò per lei», «Dille che tempesterò il Cielo di preghiere per la sua salvezza», «Digli che busserò al Cuore di Gesù per impetrare questa grazia», «Dille che la Vergine non le rifiuterà questa grazia».

 

 

Tutto per salvare le anime

La famiglia spirituale di Padre Pio aveva comin­ciato a formarsi subito dopo il suo arrivo a San Giovanni Rotondo. Una delle prime figlie fu Nina Campanile, che ha ricordato così quel periodo: «Il Padre cominciò a tenerci conferenze il giovedì e la domenica. Ci spiegò dapprima i principali mezzi di perfezione cristiana, e cioè: la scelta di un santo e dotto direttore, la frequenza dei santi sacramen­ti, la meditazione, la lettura spirituale. Spiegava l'argomento e l'avvalorava sempre con esempi tratti dalla Sacra Scrittura, dalla vita dei santi. Conferenze speciali le tenne sulla mortificazione.

E infine ci spiegò molte parabole evangeliche».

Dopo qualche tempo, Padre Pio sentenziò: «Il materiale è pronto, ora incominciate a costruire», e sciolse le adunanze, cominciando la guida perso­nale. Alle lamentele e alle critiche, Padre Pio rispo­se: «So io come devo guidare le anime; c'è chi deve venire ogni otto giorni, chi ogni quattro o tre e chi ogni giorno». Che tale decisione avesse addolorato molte devote lo conferma la signora Francesca Fi­ni: «Seguendo Padre Pio si soffriva fortemente: le sue prove, le sue sgridate, il trattamento diverso delle anime...».

Proprio il rancore di una delle prime figlie spiri­tuali, Elvira Serritelli, fu all'origine delle accuse contro Padre Pio a riguardo della sua castità, che in seguito ebbero ripercussioni notevoli sulla Visita apostolica del 1960. Secondo il biografo padre Alessandro da Ripabottoni, «la "stella" di Elvira cominciò ad eclissarsi intorno al 1930 ed ella passò in secondo piano rispetto a Cleonice Morcaldi. Esplosero allora l'ira e la gelosia e la sua reazione si espletò in una duplice direzione».

L'analisi di padre Alessandro va nel dettaglio:

«In primo luogo ella doveva dimostrare che, alme­no nel periodo 1922-30, Padre Pio era stato "tutto suo". Affermò perciò che in quegli anni ella aveva avuto rapporti intimi con lui. In secondo luogo, El­vira doveva distruggere l'avversaria. Con una lun­ga serie di lettere anonime cercò di ingenerare nel­l'animo del Superiore del convento il sospetto che Padre Pio se la intendesse con una donna. Per im­pedire i presunti incontri notturni, da una parte le­gava il cancelletto antistante la casa di Cleonice, af­finché questa non potesse uscire, e dall'altra metteva del brecciolino nella serratura della porta della chiesa, perché Padre Pio non potesse aprire».

Per calmare il risentimento di Elvira, il Superiore del convento di San Giovanni Rotondo, padre Car­melo Durante, le affidò il compito di provvedere ai fiori della chiesetta. In quel tempo, padre Alberto D'Apolito la vide spesso «guardare morbosamente Padre Pio che pregava nel coro della chiesetta mentre lei era in chiesa per preparare i fiori dell'al­tare. Vedendosi non corrisposta nello sguardo, da­va in escandescenze». Anche per questi motivi, nell'ottobre 1959 il nuovo Superiore, padre Emilio da Matrice, la sollevò dall’incarico.

Pochi mesi dopo, dapprima con monsignor Terenzi, incaricato dal Sant'Offizio di un sopralluogo a San Giovanni Rotondo, e successivamente con il visitatore apostolico monsignor Maccari, la donna rilanciò le sue accuse. Padre Pio ne era a conoscen­za e la sua reazione fu come sempre intonata in chiave soprannaturale, come ha testimoniato la si­gnorina Maria Grazia Massa che gliene parlò in confessione: «Figlia mia, so tutto! Ma che cosa importa a me se hanno buttato fango sulla mia povera persona in vita e, conseguentemente, do­po la mia morte? A me basta salvare le anime e certe anime».

 

 

Il rigoglioso albero della preghiera

 

Nel 1942 papa Pio XII, angosciato dalla tragedia della guerra in corso, rivolse ai cattolici una pres­sante richiesta: «Nell'ardua lotta fra il bene e il male, fra Dio e satana, abbiamo bisogno di forti e serrate falangi di uomini e di giovani che preghino». Queste parole si stamparono nel cuore di Padre Pio, che im­mediatamente riunì alcuni figli spirituali dicendo:

«Diamoci da fare, rimbocchiamoci le maniche, ri­spondiamo noi per primi». Nacquero così i primi virgulti di quelli che, a partire dal 1950, si chiame­ranno Gruppi di preghiera.

All'inizio i Gruppi si diffusero spontaneamente, per iniziativa di qualche devoto del Padre. Nell'a­gosto 1950 ne venne sollecitata la costituzione do­vunque fosse possibile e si definì anche la loro identità: «Gruppi di fedeli che periodicamente si riuniscono con l'assistenza del sacerdote in una chiesa, per pregare in comunione, seguendo gli orientamenti impartiti dal Sommo Pontefice. Tali riunioni hanno la finalità di elevare la formazione spirituale dei partecipanti e di rinnovare la vita cri­stiana nei fratelli, mediante la preghiera collettiva e liturgica».

Il 5 maggio 1956, in coincidenza con l'inaugura­zione della Casa Sollievo della Sofferenza, si tenne a San Giovanni Rotondo il primo convegno inter­nazionale dei Gruppi di preghiera. Venne presen­tata la bozza del regolamento (il 4 maggio 1986 è entrato in vigore il definitivo statuto, approvato dalla Santa Sede), dove si indicavano i quattro obiettivi degli incontri in parrocchia: «Elevare pre­ghiere impetratorie alla Divina Misericordia; par­tecipare al sacrificio della Messa, durante il quale Gesù trasmette i misteri del suo amore sull'umani­tà; adorare il santissimo Sacramento e recitare il santo Rosario; vivere sempre in grazia di Dio, cioè essere veri cristiani».

In generale, i vescovi apprezzavano la presenza dei Gruppi di preghiera nelle proprie diocesi e si adoperavano per favorirne la costituzione. Un'ec­cezione fu il vescovo di Padova, il cappuccino Gi­rolamo Bortignon, che nel 1959 negò l'autorizza­zione «per il motivo che in questo movimento, come è attuato in diocesi, si riscontrano degli at­teggiamenti equivoci, delle manifestazioni esage­rate e delle affermazioni strane». A pagarne le con­seguenze furono in particolare i sacerdoti Nello Castello e Attilio Negrisolo, che vennero sospesi a divinis per la loro fedeltà a Padre Pio e che dovet­tero attendere una decina d'anni prima di essere reintegrati nel ministero dalla Santa Sede.

Il 31luglio 1968 la Congregazione dei Religiosi e degli Istituti secolari affidò il coordinamento gene­rale dei Gruppi di preghiera al padre Guardiano del convento di San Giovanni Rotondo. Comuni­cando tale notizia a Padre Pio, il padre Provinciale precisò che «la decisione del Sacro Dicastero vale per me come un riconoscimento pontificio alla provvida iniziativa della paternità vostra in favore della preghiera comunitaria». Poche settimane più tardi, dal 19 al 22 settembre, il secondo convegno internazionale si trasformò nell'incontro d'addio con il fondatore, un toccante momento nel quale Padre Pio stesso poté verificare che il seme da lui piantato era divenuto un rigoglioso albero.

 

VII

 

Giovinezza e noviziato

Al bivio fra due strade

 

Una modesta stanzetta con il pavimento in pie­tra e il soffitto di tavole affumicate, un materasso di foglie di granturco, la fioca luce di un lume a pe­trolio e di una lucerna di terracotta colma di olio d'oliva. Quello che oggi è famoso in tutto il mondo come il santo Padre Pio nacque a Pietrelcina (Bene­vento), in questa cornice di dignitosa povertà, alle 5 di pomeriggio del 25 maggio 1887, anche se sul Registro parrocchiale è scritto «alle ore 22», se­guendo l'usanza popolare di iniziare il conteggio delle ore della giornata dal tramonto del sole.

Il neonato era il quarto dei sette figli di Grazio Maria Forgione (1860-1946) e di Maria Giuseppa De Nunzio (1859-1929), che si erano sposati nel 1881. Alla mattina del giorno successivo fu battez­zato con il nome di Francesco dal curato don Nico­lantonio Orlando. In precedenza erano nati Miche­le (1882-1967), Francesco (1884, morto dopo soli 20 giorni) e Amalia (1885-1887). Dopo di lui vennero Felicita (1889-1918), Pellegrina (1892-1944) e Gra­zia, divenuta religiosa nel 1917 con il nome di suor Pia (1894-1969).

La famiglia Forgione viveva della coltivazione di un appezzamento di terra nella zona di Piana Ro­mana, a mezz'ora di cammino a piedi dal paese, e dell'allevamento di qualche pecora, che anche il piccolo Francesco, intorno ai sei-sette anni d'età, portava al pascolo, in compagnia del coetaneo Bal­

dino Vecchiarino. Da costui Lucia ladanza, una delle prime figlie spirituali di Padre Pio, raccolse un ricordo: «Mentre pascolava le pecorelle, France­sco formava delle croci, le piantava sul nudo terre­no, vi si inginocchiava davanti e devotamente pre­gava. Per merenda aveva sempre un tozzo di pane in un bel salviettino bianco: lo stendeva sul terre­no, vi tracciava il segno della croce e incominciava a mangiare. Dopo che aveva terminato si segnava la fronte, piegava il salviettino e ringraziava il Si­gnore».

In quel tempo Francesco cominciò anche a fre­quentare la scuola, per imparare a leggere, scrivere e far di conto. E proprio due compagni e una com­pagna di classe si misero d'accordo per fargli un ti­ro birbone, nascondendogli in tasca un biglietto appassionato scritto dalla ragazzina. Attirata l'at­tenzione del maestro Angelo Càccavo, gli dissero:

«Signòr maestro, Francesco fa all'amore!». «Non èvero», replicò Francesco, ignaro del tranello. Il maestro trovò il biglietto e, offeso e adirato, percos­se il ragazzo, ma il giorno seguente la scolara, pen­tita dell'accaduto e dispiaciuta per le botte che Francesco aveva ricevuto, confessò la verità.

Padre Carmelo Durante ascoltò Padre Pio rac­contare che, quando in casa fratelli e sorelle litiga­vano, il padre li picchiava e la madre «si avventava come una iena» contro il marito per scusare la vi­vacità dei figli. Quando invece era la madre che picchiava per gli stessi motivi, il padre incitava la moglie. Francesco però non fu mai percosso dai ge­nitori, perché in generale si comportava da bravo ragazzo. Al massimo, qualche volta la mamma gli diceva: «Vieni qua, svergognatello». «Perché?», gli fu domandato. «Piccole cose con le sorelle», rispo­se Padre Pio, come quando, mentre la sorella Feli­cita stava lavandosi, le spingeva la testa sott'acqua.

Intanto, come ha scritto nel suo quaderno di cro­nache padre Benedetto da San Marco in Lamis, Francesco «a cinque anni circa sentì la necessità di darsi tutto a Dio. A cinque o sei anni, all'altare maggiore apparve il Cuore di Gesù, che fece segno di accostarsi all'altare e gli mise la mano in testa, attestante di gradire e confermare l'offerta di sé a lui e consacrarsi al suo amore».

Il parroco, don Salvatore Pannullo, ha raccontato che da fanciullo Padre Pio era particolarmente por­tato alla preghiera davanti a Gesù Sacramentato, rinunciando al gioco e al riposo. Qualche volta si mise perfino d'accordo con il sacrestano per rima­nere chiuso nella chiesa durante tutta la notte. Spesso assisteva alla Messa insieme con la nonna materna, Giovanna Maria Gagliardi, facendo a ga­ra con altri ragazzi per servire all'altare come chie­richetto. Nel 1899, a undici anni d'età, ricevette sia la prima comunione sia la cresima.

Erano questi gli anni, come racconterà Padre Pio in uno scritto autobiografico inviato al direttore spirituale, nei quali sentiva crescere dentro di sé il dubbio su quale fosse la sua vera strada: «La voca­zione da una parte che si faceva sentire forte in quest'anima ed il dolce ma falso diletto di questo mondo incominciano potentemente a lottare fra lo­ro, nel cuore di questa poverina, e forse e senza forse il senso coll'andare del tempo avrebbe di cer­to trionfato sullo spirito e soffocato il buon seme della divina chiamata».

 

 

«Nessuno è nato monaco fatto»

 

All'improvviso, mentre a fine dicembre 1902 me­ditava sulla decisione di consacrarsi, Francesco eb­be la visione di un uomo maestoso e splendente come il sole che lo condusse in una spaziosissima

campagna e lo incitò a battersi contro uno spaven­toso essere, dicendogli: «Fatti animo: entra fiducio­so nella lotta, avanzati coraggiosamente che io ti starò d'appresso; io ti aiuterò e non permetterò che egli t'abbatta».

Che tutta la sua futura esistenza sarebbe stata una continua lotta contro satana, secondo quanto mostrato in questa visione, gli venne confermato da un'altra illuminazione puramente intellettuale, il 1~ gennaio 1903. La sua anima comprese «che la di lei entrata in religione per dedicarsi al servizio del celeste Monarca altro non era che di esporsi al­la lotta con quel misterioso uomo d'inferno» e che «sebbene i demoni sarebbero stati presenti ai di lei combattimenti per ridersi delle di lei sconfitte, dal­l'altro lato non vi era da temere perché ai di lei combattimenti avrebbero assistito gli angioli suoi per applaudire alle sconfitte di satana».

La notte precedente alla partenza per il novizia­to, un'ultima visione confortatrice: «Vide Gesù e la madre sua che in tutta la loro maestà presero ad in­coraggiarla e ad assicurarla della loro predilezione. Gesù, infine, le posò una mano sulla testa, e tanto bastò per renderla forte nella parte superiore del­l'anima, da non farle versare neppure una lacrima nel doloroso distacco, nonostante il doloroso mar­tirio che la straziava nell'anima e nel corpo».

All'alba del 6 gennaio, Francesco si recò in chiesa a pregare. Tornato a casa si avvicinò alla mamma per abbracciarla, ma ella svenne. Appena tornò in sé, gli disse: «Figlio mio, perdonami. Mi sento squarciare il cuore, però san Francesco ti chiama e tu devi andare». Nel dire così prese dalla tasca del grembiule una corona del Rosario e gliela conse­gnò dicendo: «Questa ti farà compagnia al posto di mamma». Subito dopo, accompagnato dal maestro Càccavo, il quindicenne Francesco si recò al novi­ziato di Morcone, distante una trentina di chilome­tri da Pietrelcina.

1122 gennaio indossò i panni di probazione e ri­cevette come nome quello di Pio, forse in memoria di un martire dei primi secoli venerato a Pietrelci­na (ma il Padre da allora festeggiò l'onomastico il 5 maggio, festa del santo papa Pio VI. Molti anni do­po, nell'anniversario della vestizione, gli regalaro­no un saio in cachemire, che padre Pellegrino Funi­celli era incaricato di fargli indossare durante la notte. Padre Pio, avendo saputo che era di gran va­lore, ridendo raccontò al confratello: «Se questi matti sapessero che abito ho indossato, quel 22 gennaio della mia vestizione! E che camicia! Mi ra­spava tutto».

Nel noviziato la giornata era scandita dal silen­zio, dalla preghiera e dal costante sacrificio, con l'obiettivo di verificare quanto la vocazione degli aspiranti fosse solida. Poco tempo dopo l'ingresso, il compagno Giovannino gli propose di andarsene insieme, perché era una vita troppo dura. Ma Fran­cesco rispose: «Che dici? Abbiamo fatto tanto per venire qui e ora dobbiamo andar via? E che diran­no i nostri genitori e tutti quelli che ci hanno indi­rizzati qui? Ah, non sia mai! Pian piano, con l'aiuto della Madonna e di san Francesco, ci abitueremo anche noi come hanno fatto gli altri. E che forse tutti questi che sono in convento e altri ancora non erano come noi? Nessuno è nato monaco fatto». L'esortazione di Padre Pio fece effetto, tanto che Giovannino resistette e qualche anno più tardi di­venne padre Anastasio da Roio.

Considerato dal padre Maestro, Tommaso da Monte Sant'Angelo, «esemplare, puntuale nell'os­servanza ed esatto in tutto, da non dare il minimo motivo di essere ripreso», al termine dell'anno di noviziato Fra Pio - dopo le necessarie tre votazioni favorevoli della comunità cappuccina - venne am­messo alla professione dei voti semplici, che si ten­ne il 22 gennaio 1904, alla presenza anche di mam­ma Giuseppa, la quale alla fine gli disse: «Figlio mio, ora si che sei figlio tutto di san Francesco; e che ti possa benedire».

Tre giorni dopo, il 25 gennaio, partì da Morcone verso Sant'Elia a Pianisi, prima tappa del corso di preparazione al sacerdozio, che lo vide successiva­mente nei centri di studio di San Marco la Catola, Serracapriola, Montefusco e Gesualdo. Dopo la professione dei voti solenni, il 27 gennaio 1907, fu ritenuto degno di proseguire verso l'ordinazione sacerdotale e ricevette via via gli ordini minori (19 dicembre 1908), il suddiaconato (21 dicembre 1908) e il diaconato (18 luglio 1909).

Intanto, nella primavera del 1909, avevano co­minciato a manifestarsi i primi sintomi dell'oscura malattia che lo costrinse a restare per lunghi perio­di, fino al 17 febbraio 1916, a Pietrelcina, «perché i medici dicevano che c'era bisogno dell'aria nati­va», si legge nel Diario di padre Agostino da San Marco in Lamis. Ogni volta che lasciava il conven­to, ha lasciato scritto padre Guglielmo da San Gio­vanni Rotondo, «si avvertiva spontaneo, per la sua assenza, un gran vuoto e si viveva di speranze e di aspettative, che c'infondevano conforto e quasi certezza che l'amabile presenza di Fra Pio fosse sempre con noi (...). Facendo ritorno, avevamo l'impressione che egli avesse dimorato sempre con noi, tanto era fermo e continuo il ricordo che ave­vamo di lui».

 

VIII

 

Humour e facezie

Un cappuccino “da due soldi”

 

L'atteggiamento burbero e scontroso di Padre Pio era soltanto una maschera che gli serviva per incalzare i penitenti e per difendersi dalla passio­ne dei suoi devoti. Ma in realtà, come racconta uno dei suoi biografi, padre Alberto d'Apolito, «ben volentieri Padre Pio, dopo il pranzo, partecipava alla ricreazione coi confratelli per qualche quarto d'ora». E anche quando Padre Pio, all'orario di ce­na, era autorizzato a restare nel coro a pregare - ri­corda padre Gerardo Di Flumeri - «dopo cena, pe­rò, si faceva trovare immancabilmente sul terrazzo, dove passava con i confratelli il tempo prescritto per la ricreazione in fraterna allegria».

Soprattutto i frati più giovani non mostravano soggezione nei suoi riguardi, prendendolo bene­volmente in giro. «Padre Spirituale», gli diceva un giorno padre Eusebio Notte, riferendosi al vocione di Padre Pio, «lei mi può insegnare a recitare qual­che Ave Maria, ma mi stia a sentire: se in Paradiso si canta, sarà bene che venga un po' a scuola da me...». E Padre Pio: «Proprio tu parli, con questa vocina che non si sente!». Un altro giorno, padre Vincenzo da Montemarano cercava Padre Pio, che stava in un'altra stanza. Quando lo trovò, Padre Pio gli chiese: «Ma come hai fatto a sapere che ero qui?». E padre Vincenzo: «Ho fatto come i cani, mi sono affidato al fiuto», alludendo al ben noto pro­fumo che spesso emanava dal frate.

Come testimonia padre Rosario da Aliminusa, Padre Pio era dotato anche di notevole autoironia. Una volta, nel chiedere scusa al Provinciale, padre Torquato da Lecore, perché non poteva più intrat­tenersi, disse: «Un povero uomo una volta, entran­do in una sala, rimase sbalordito al vedere sul pa­vimento un animaluccio con tanti piedi e si mise a contarli: uno, due, tre, cento, cinquecento, mille. '~O Signore mio - esclamò - siete tanto sapiente. E come mai a un animaluccio così piccolo avete dato mille piedi e a me così grande ne avete dati appena due, che poi non mi servono?"» (per lui, infatti, lo stare in piedi era un'impresa difficile e penosa, a causa delle stimmate). E al Superiore padre Ber­nardo, che gli imponeva di non farsi baciare le ma­ni dopo la confessione, rispose: «Debbo prenderli a ceffoni? Se avessi avuto almeno le mani buone, for­se l'avrei anche fatto!».

In un'altra occasione Padre Pio si trovò dinanzi un pittore di Perugia, che gli aveva eseguito un ri­tratto nel quale appariva con il volto molto severo. Richiesto di benedire il quadro e di scriverci sopra un messaggio, il Padre lo fissò con uno sguardo ar­guto e poi incise: «Niente paura, sono io!». E quan­do udiva da una finestra del convento un vendito­re ambulante che in piazza, con voce stentorea, offriva in vendita le sue fotografie, non mancava mai di osservare con chi gli stava accanto: «Ma guarda, sono costato tanto a mia madre e adesso questo mi vende per due soldi...».

Anche a riguardo delle proprie vicende mistiche, Padre Pio sdrammatizzava ogni volta che poteva. A una persona che, vedendolo curvo e dolorante, gli disse: «Padre, voi soffrite tanto perché avete avuto la divina imprudenza di offrirvi vittima non solo per la Chiesa e per l'Italia, ma per tutta l'uma­nità», prontamente replicò: «Eh beh, uno scemo ci voleva pure!». E a monsignor Giuseppe Del Ton, che gli chiedeva in che cosa consistesse il «farsi santo», sintetizzò: «Fare del bene e ricevere basto­nate!». Un giorno l'attore Carlo Campanini gli rac­contò che un amico, avendo chiesto a un primario di Firenze che cosa pensasse delle stimmate del cappuccino, si era sentito rispondere: «E frutto di isterismo: a furia di pensare al Cristo crocifisso, a Padre Pio son venute le stimmate». La reazione del Padre fu immediata: «Quando vedrai quel profes­sore, digli che pensi intensamente di essere un bue. Vedremo se gli spuntano le corna!...».

Fra le tantissime lettere che giungevano al con­vento, molte erano di gratitudine per le grazie rice­vute in seguito alle preghiere di Padre Pio. Com­mentandole con i confratelli, il Padre osservava umilmente: «Se il Signore dovesse badare ai meriti miei, dovrebbe fare tutto il contrario di quanto chiedo, come con quel tal prete». E subito dopo spiegava: «C'era un prete che, richiesto da un con­tadino di dire la Messa per la guarigione di una vacca, al Memento, alzando la voce, disse: "Signore fa' morire la vacca a quel buon uomo". Alla fine della Messa il contadino entrò in sacrestia per fare le sue rimostranze, ma il prete lo precedette: "So quel che mi vuoi dire, ma non ti preoccupare, per­ché in realtà ho pregato per la tua vacca: siccome io sono un peccatore, il Signore fa sempre tutto il con­trario di quel che chiedo

Un'altra barzelletta che gli piaceva tanto raccon­tare con la sua spassosa mimica era quella in cui il Signore vede girare in Paradiso molti brutti ceffi e, stupito, chiama San Pietro: «Che succede? Sembra che il carcere mandamentale l'abbiano trasferito qui». E Pietro: «Signore, entrano, ma non so da che parte». Nonostante l'ordine di stare più attento, la situazione non cambia, cosicché il Signore chiede a Pietro di restituirgli le chiavi, perché non lo consi­dera più in grado di fare il suo mestiere. E allora l'apostolo: «Signore, dal momento che lo volete sa­pere, ve lo dico. Appena mi volto un momento, c'è vostra Madre che apre e fa entrare tutti quanti. Io non ne posso più. Che devo fare?». E il Signore: «Fa' finta di non accorgertene...».

 

 

I miracoli dell'umorismo

 

Padre Pio non risparmiava nemmeno i suoi su­periori, secondo il racconto di padre Pellegrino Fu­nicelli: «Nel 1952 ci fu la visita del Procuratore ge­nerale padre Agatangelo da Langasco e noi di San Giovanni Rotondo avevamo saputo una frase che egli avrebbe pronunziato a nostro riguardo: "Vado laggiù e metto a posto io quella famiglia di quattro stupidi". Prima che arrivasse, noi frati ci chiedeva­mo come accoglierlo. Allora Padre Pio suggerì ri­dendo: "Ha detto che siamo una famiglia di stupi­di? E noi lo accoglieremo come uno di famiglia!"».

Qualche tempo prima, quando il convento di San Giovanni Rotondo era un romitorio abitato da pochi religiosi, ma la fama di Padre Pio già si dif­fondeva all'intorno, un contadino suonò la campa­nella e Padre Pio si presentò ad aprire. «Sta qua il monaco che sa tutto?», chiese il buon uomo. Padre Pio, senza scomporsi, rispose di si e invitò il visita­tore a seguirlo. Attraversato il corridoio del chio­stro, i due salirono le scale e si fermarono alla pri­ma cella, quella di padre Paolino da Casacalenda. «Padre Guardiano - disse Padre Pio - qui c e un si­gnore che vuol parlare col monaco che sa tutto. Ac­contentatelo». E lesto andò in fondo al corridoio per godersi lo spettacolo.

Anche gli eventi prodigiosi di cui era protagoni­sta assumevano talvolta aspetti umoristici. Un giorno fra Modestino da Pietrelcina acquistò alcuni ricordini religiosi da regalare agli amici, oltre a una bottiglia di vino per sé. Tornato in convento, si recò da Padre Pio per fargli benedire quegli oggetti e gli chiese di fare lo stesso anche con la bottiglia. Il Padre lo accontentò e poi, con aria sorniona, ag­giunse: «Beh, ho fatto il primo miracolo stamatti­na». Fra Modestino gli chiese di spiegarsi, e Padre Pio: «Ho fatto diventare vino il contenuto di questa bottiglia». All'affermazione che quello era già vino, il Padre gli rivolse uno sguardo di commisera­zione. Soltanto in seguito fra Modestino scoprì che quel vinaio produceva il vino non con l'uva, ma con le cosiddette "cartelle", e anche di scarsa qualità!

In un'altra circostanza, l'impiegato della Casa Sollievo che ogni giorno portava a Padre Pio la cor­rispondenza da benedire prima della spedizione compilò una schedina del totocalcio e, chiusala in una busta, la mise insieme alle altre. «Padre», gli disse, «le benedica tutte», ma Padre Pio, con lo sguardo di chi sapeva, rispose: «Sì, tutte, meno una». Il generale Tarcisio Quarti assistette invece, nel luglio 1943, a un episodio che ebbe come prota­gonista il signor Tonelli di Bologna, il quale voleva spedire da San Giovanni Rotondo alcune cartoline a persone delle quali non conosceva l'indirizzo preciso. Chiese a Padre Pio: «Dove abita la signora X?». E il Padre diede la via, il numero e la località. Poi continuò: «E il signor tale?». E il Padre diede l'indirizzo. La terza volta il Padre rispose: «Cre­do... via tale e numero tale». Alla quarta cartolina il Padre si ribellò bonariamente: «Ma tu mi hai preso per la guida telefonica?».

Il commercialista Adolfo Affatato ha invece rac­contato che, quando viveva a Napoli per studiare, appena poteva si recava a San Giovanni Rotondo.

Una volta Padre Pio gli disse: «Figlio mio, non devi preoccuparti di venire se non puoi. Basta che entri in una chiesa dove c’è il santissimo Sacramento e mi mandi l'angelo custode». Il giorno in cui dove­va sostenere l'esame di Diritto Privato, il giovane aveva molta paura e così, recandosi all'università, entrò in tutte le chiese che incontrava lungo il cam­mino. L'esame andò benissimo. Tornando a San Giovanni Rotondo per ringraziare il Padre, questi gli disse: «Ti avevo detto che nei momenti di neces­sità potevi mandarmi l'angelo custode: però basta­ una volta sola!».

E, con l'aiuto degli angeli suoi amici, Padre Pio si levava anche d'impiccio con divertimento. Una volta, nonostante stesse poco bene, il cappuccino si trattenne comunque a confessare fino alle 11.30. A un certo punto don Pierino Galeone lo vide in pie­di, sulla predella del confessionale, e poi a due me­tri d'altezza, mentre veniva avvolto da una nuvola, fino a scomparire del tutto. Al pomeriggio, in giar­dino, i confratelli gli chiesero: «Padre, dove siete andato a finire questa mattina?». E lui, ridendo:

«Appena ho finito di confessare e mi sono alzato, ho avuto forti sbandamenti di testa, tanto che te­mevo di cadere per terra. Ho pregato gentilmente gli angeli di togliermi dall'imbarazzo e mi hanno sostenuto, lasciandomi camminare sulla testa della gente. Come erano dure quelle teste... Altro che mattoni!».

 

IX

 

 

Ispirazione francescana e sacerdozio

Il monaco con la barba

 

«Dove meglio potrò servirti, o Signore, se non nel chiostro e sotto la bandiera del Poverello di As­sisi?». Nella lettera del 26 novembre 1922 alla figlia spirituale Nina Campanile, che rappresenta un'ec­cezionale testimonianza autobiografica, Padre Pio indica queste come le parole che rivolse diretta­mente a Gesù mentre si interrogava sulla propria vocazione: «Ed egli», prosegue il cappuccino, «ve­dendo il mio imbarazzo, sorrideva, sorrideva a lungo».

La scelta di entrare fra i seguaci di san Francesco era maturata in giovanissima età, quando era stato Lolpito dalla figura del frate "cercatore" Camillo da Sant'Elia a Pianisi, che periodicamente andava questuando fra i paesi e le campagne. Un giorno, a Piana Romana, mamma Giuseppa lo interpellò:

«Fra Camillo, questo ragazzo dobbiamo farlo mu­naciello!». E il frate: «Che san Francesco lo benedi­ca e lo aiuti a diventare un bravo cappuccino». Per­ciò fu grande la gioia di ambedue quando il giovane Francesco si vide accogliere in convento proprio dal portinaio fra Camillo: «Franci', bravo, bravo. Sei stato fedele alla promessa e alla chiama­ta di san Francesco».

Qualche sollecitazione da parte dei familiari in­fatti c'era stata, affinché scegliesse famiglie religio­se più "benestanti", come i Frati minori di Bene­vento, i Redentoristi di Sant'Angelo a Cupolo o i

Benedettini di Montevergine. Ma il ragazzo, secon­do quanto ha tramandato l'aneddotica familiare, aveva le idee chiare: «Voglio fa' lu monaco di Mes­sa, monaco cu' la barba». Per pagargli gli studi e per mantenere la numerosa famiglia, papà Grazio emigrò per due volte oltre oceano: negli Stati Uniti dal 1898 al 1903 e in Argentina dal 1910 al 1917.

Padre Livio Dimatteo, utilizzando le risposte da­te da Padre Pio ai compiti scritti sulla Regola fran­cescana, ha disegnato la sua figura ideale di cap­puccino: «Il frate deve essere prima di tutto ubbidiente al Superiore; deve amare e rispettare le leggi ecclesiastiche, la Regola, le Costituzioni e gli Ordinamenti». Padre Pio voleva poi che il frate fos­se «povero a imitazione di Gesù crocifisso e distac­cato da ogni ricchezza; responsabile di tutti i gesti che compie nella propria vita, sopportandone le conseguenze a volte anche penose; di buon esem­pio agli altri e pieno di carità verso i confratelli».

L'abito francescano era per Padre Pio il simbolo di tutto ciò. Ogni anno ricordava e festeggiava nel suo intimo l'anniversario della vestizione religiosa e ne ringraziava sinceramente il Signore. Grande fu la sua gioia quando, il 4 ottobre 1957, giunse nel convento di San Giovanni Rotondo la reliquia del saio di san Francesco. Nel marzo del 1965 il Guar­diano, padre Carmelo da San Giovanni in Galdo, gli diede il permesso di dormire senz'abito, dato che di notte sudava abbondantemente. Ma Padre Pio scoppiò in un pianto dirotto e tra i singhiozzi ripeteva: «Sono 62 anni e non ho mai lasciato l'abi­to religioso...».

Una sua ardente speranza era che tutti i figli spi­rituali appartenessero alla Famiglia francescana, in modo da farlo sentire «vero padre e fratello». A Giovanna Rizzani disse: «Desidero tanto che tu en­tri a fare parte del Terz'Ordine. Qui potrai attingere e vivere lo spirito evangelico del Serafico Pa­dre». E alla signorina Graziella Pannullo, nella let­tera del 30 dicembre 1921, prefigurava «il giorno in cui voi godrete una gioia di paradiso, portandovi in Assisi, monumento parlante del, grande amore e dell'infinita carità del nostro Padre san Francesco».

 

 

Una dispensa per la malattia

 

A padre Tarcisio Zullo accadde di sentirsi dire da Padre Pio: «Se tornassi a nascere, mi farei nuova­mente cappuccino, ma sacerdote no». E alla reazio­ne: «Padre Spirituale, ma il sacerdote è un altro Cristo», egli soggiunse: «Per questo non mi farei sacerdote. Ti pare poco la responsabilità che un sacerdote assume, di essere un altro Cristo per le anime?».

Fu proprio questo l'impegno preso da Padre Pio il 10 agosto 1910, quando venne ordinato sacerdote dall'arcivescovo Paolo Schinosi, nella cattedrale di Benevento. Sull'immaginetta-ricordo, Padre Pio scrisse di suo pugno: «Gesù / mio sospiro mia vita / oggi che trepidante / ti elevo / in un mistero di amo­re I con te io sia pel mondo / via verità vita / e per te sacerdote santo / vittima perfetta».

In quel tempo la legge canonica richiedeva l'età di 24 anni compiuti per l'ordinazione sacerdotale. Ma, sin dal 22 gennaio 1910, Fra Pio aveva scritto al Provinciale, padre Benedetto da San Marco in Lamis, pregandolo di chiedere alla Sacra Congre­gazione dei Religiosi la dispensa, che venne con­cessa il 1° luglio 1910. Che i Superiori cappuccini ritenessero imminente la morte del confratello lo documenta la dedica inviatagli da padre Benedetto nella circostanza dell'ordinazione: «Nel giorno fausto della Messa novella, augurando che Dio lo possieda in Cielo come egli lo possiede fra le sue mani in terra, pregando che sia memore di chi ha diritto ai suoi affetti».

1114 agosto fu festa grande a Pietrelcina. Tutti gli abitanti andarono ad accoglierlo all'ingresso del paese e lo accompagnarono in processione con la banda fino alla chiesa, dove Padre Pio celebrò la prima Messa solenne. Cominciarono così i quasi sei anni di ministero sacerdotale fra i suoi compae­sani, che lo apprezzarono al punto da sperare che non andasse più via. Ma all'arciprete Salvatore Pannullo, che lo sollecitava a restare in parrocchia lasciando l'Ordine cappuccino, Padre Pio rispose:

«Quando uno ha dato la parola a san Francesco non può ritirarla».

 

 

Gli "anni nascosti" di Pietrelcina

 

In contemporanea con la sollecitazione di Fra Pio per la dispensa, padre Benedetto si era mo­mentaneamente arreso alla necessità di lasciarlo nel suo paese nativo, dopo diversi tentativi infrut­tuosi di ricondurlo in convento. Il 2 gennaio 1910 gli scriveva: «Quali siano i divini disegni nel voler­vi quasi giocoforza in famiglia l'ignoro; ma li ado­ro pure, sperando quasi con fiducia che la crisi si risolverà. Gesù e Maria siano con voi, vi consolino e vi diano grazia di portare la croce in modo da es­sere coronato di merito».

Un altro tentativo venne compiuto nell'autunno 1911 a Venafro, dove però Padre Pio stette malissi­mo. Fra le estasi che ebbe, ci fu anche un dialogo con san Francesco d'Assisi, del quale padre Agosti­no da San Marco in Lamis annotò alcune battute:

«O serafico Padre mio, tu mi scacci dal tuo Ordi­ne?... Non sono più figlio tuo?... La prima volta che mi appari, Padre san Francesco, mi dici di andare a quella terra di esilio?... Ah, Padre mio, è volontà di

Dio?... Ebbene, fiat!...». In seguito, sempre a padre Agostino, dirà che non gli poteva rivelare la ragio­ne per cui il Signore l'aveva trattenuto a Pietrelci­na, altrimenti «mancherei di carità».

Per tre anni si continuò sempre nell'identico mo­do, tanto da spingere il Ministro generale a chiede­re per lui alla Santa Sede il permesso di restare fuo­ri dal convento, consentendogli comunque di conservare l'abito cappuccino. L'esclaustrazione fu concessa il 25 febbraio 1915 e Padre Pio, quando ne venne a conoscenza, scrisse a padre Benedetto:

«Giacché Gesù non ha permesso che io consacrassi alla mia diletta madre provincia tutta la mia perso­na, mi sono offerto al Signore, quale vittima per i bisogni tutti spirituali di lei».

Pochi mesi più tardi, il 24 maggio 1915, l'Italia entrò in guerra contro l'Austria e anche Padre Pio ricevette la cartolina che lo chiamava alle armi. Il 6 novembre si presentò al distretto militare di Bene­vento e, un mese dopo, fu assegnato alla ba Com­pagnia di sanità di Napoli. Ma già il 18 dicembre veniva inviato in licenza di convalescenza per un anno. Nuovi rientri nel Corpo militare ci furono il 18 dicembre 1916, il 19 agosto 1917 e il 5 marzo 1918: ogni volta, dopo pochi giorni, venne rispedi­to in licenza di convalescenza, sino al definitivo congedo del 16 marzo 1918.

Il 17 febbraio 1916, intanto, Padre Pio era partito da Pietrelcina verso Foggia, su richiesta di padre Agostino, che lo invitava ad assistere l'anima della nobildonna Raffaelina Cerase, con la quale il Padre aveva avuto un fitto scambio epistolare. La Cerase, sentendosi prossima alla morte (che difatti avvenne il 25 marzo 1916), desiderava parlare con Padre Pio almeno una volta. Qualche settimana prima, lei stes­sa aveva suggerito a padre Agostino: «Fatelo tornare in convento e fatelo confessare, ché farà molto bene».

Giunto al convento di Sant'Anna a Foggia, Padre Pio vi trovò padre Benedetto, il quale gli ordinò perentoriamente di restare lì «vivo o morto», e il Padre obbedì senza alcuna obiezione. Il 28 luglio sali per la prima volta a San Giovanni Rotondo, ac­compagnato da padre Paolino da Casacalenda, per cercare un po' di sollievo dal caldo soffocante della pianura. Qualche giorno dopo rientrò a Foggia, ma il 4 settembre 1916 venne definitivamente trasferi­to nel convento di San Giovanni Rotondo, dove re­sterà per i successivi 52 anni di vita.

Padre Pio aveva allora quasi trent'anni (che qualcuno ha comparato agli "anni nascosti" di Ge­sù a Nazaret, prima di iniziare l'attività pubblica). E tutta la sua vita, precedente e successiva, si è svolta fra il Beneventano e la zona del Gargano:

esattamente il territorio dove - come un felice pre­sagio - san Francesco apparve in spirito al vescovo di Assisi, nella notte della propria morte (3 ottobre 1226), per dirgli che lasciava il mondo e andava in Cielo da Cristo.

Secondo la Legenda ma jor di Bonaventura, il ve­scovo era ancora in pellegrinaggio nel santuario di San Michele arcangelo; mentre la Vita di Tommaso da Celano lo segnala di ritorno nei pressi di Bene­vento. Ma già lo stesso san Francesco era stato pro­prio a San Giovanni Rotondo nel 1216, scendendo da Monte Sant'Angelo, e vi aveva auspicato la co­struzione di un convento, i cui ruderi furono visi­bili fino al Settecento nella zona detta delle «case nuove».

 

X

Liturgia eucaristica

Come un Ostensorio vivente

 

A descrivere la Messa di Padre Pio ci hanno pro­vato in tanti, «ma nessuno è riuscito a tratteggiare, in tutta la sua misteriosa realtà, ciò che per cinque decenni è avvenuto ogni mattina sull'altare, a San Giovanni Rotondo». Se ad affermarlo è fra Mode­stino da Pietrelcina, che in tante occasioni fece da "chierichetto" al Padre e che ne è stato forse il fi­glio prediletto, bisogna credergli. Non resta allora che affidarsi al suo ricordo appassionato di una li­turgia che poteva durare anche due-tre ore, fino a quando non venne ridotta a una mezz'oretta per disposizione del Sant'Offizio.

Innanzitutto la preparazione: «Appena giunto in sacrestia per indossare i paramenti sacri, avevo l'impressione che già non s'accorgesse più di ciò che avveniva intorno a lui. Il suo viso, apparente­mente normale nel colorito, diventava paurosa­mente cereo nel momento in cui indossava l'amit­to. Da quell'istante non dava più retta a nessu­no. Indossati i sacri paramenti, si avviava all'alta­re. Nel breve tragitto il suo passo diventava più strisciante, il volto dolorante. Giunto all'altare, lo baciava teneramente ed il suo viso cereo s'in­cendiava».

Al confiteor, prosegue fra Modestino, «come se si accusasse di tutti i peggiori peccati commessi dagli uomini, si batteva il petto con sordi e forti colpi». Al Vangelo «le sue labbra, annunciando la parola di Dio, sembrava che di quella parola si cibassero, gustandone l'infinita dolcezza. Subito dopo inizia­va l'intimo colloquio con l'Eterno. Padre Pio, che aveva ricevuto dal Signore il dono della contem­plazione, entrava negli abissi del mistero della re­denzione».

In quei momenti il Padre viveva realmente nella propria carne la passione di Cristo: «All'elevazione il suo dolore raggiungeva i] culmine. Nei suoi oc­chi leggevo l'espressione di una madre che assiste all'agonia del figlio sul patibolo, che lo vede spira­re e che, strozzata dal dolore, muta, ne accoglie il corpo esangue tra le braccia. Vedendo il suo pian­to, i suoi singhiozzi, temevo che il cuore gli scop­piasse, che stesse per venir meno da un momento all'altro».

Giunto alla comunione, finalmente si rasserena­va. Racconta ancora fra Modestino: «Trasfigurato, in un appassionato, estatico abbandono, si cibava della carne e del sangue di Gesù. Padre Pio rima­neva come stordito a gustare le divine dolcezze che solo Gesù eucaristico sa dare. Al termine della Messa, il Padre bruciava di un fuoco divino appic­cato da Cristo alla sua anima, per attrazione». E al­lora «un'altra ansia lo divorava: quella di andare in coro per restare raccolto col suo Gesù nell'intima, silenziosa lode di ringraziamento».

In questi momenti Padre Pio confidava ai più in­timi: «Se fosse in mio potere non scenderei mai dall'altare». Una sua convinzione costantemente espressa era infatti che «il mondo potrebbe stare anche senza sole, ma non senza la santa Messa!». E in una lettera del 1917 al direttore spirituale padre Agostino da San Marco in Lamis, scritta mentre era ricoverato in ospedale a Napoli per verificare l'ido­neità al servizio militare, rivelò: «Sono estrema­mente sconfortato per l'unica ragione che qui non si può celebrare, perché manca la cappella e fuori non ci è permesso uscire. Che desolazione!».

Ai sacerdoti, come ricorda don Nello Castello, «insegnava a dividere la giornata in due parti: fino a mezzogiorno offrire le singole ~zioni in ringra­ziamento della Messa celebrata e dopo mezzogior­no in preparazione alla Messa del giorno dopo». Questo suggerimento, del resto, non era altro che quanto lo stesso Padre Pio praticava, secondo la te­stimonianza dell'assistente personale che lo affian­cò negli ultimi anni di vita, padre Onorato Marcuc­ci: «Andavo ad alzarlo alle ore 1.30 e, dopo un po' di pulizia, lo accomodavo sulla poltrona. Cpn una luce fioca stava così fino alle 4, ora in cui lo accom­pagnavo in sacrestia. Parecchie volte gli domanda­vo: "Perché si alza così presto? E che cosa fa?". "Mi preparo per la santa Messa", rispondeva. "Ma non le sembra esagerato che per prepararsi alla Messa deve alzarsi dal letto 3 ore prima?". E lui replicava:

"Ma che sono 3 ore! Ce ne vorrebbero 12 per pre­pararsi a celebrare il Sacrificio!"».

La Messa di Padre Pio era la quotidiana prova della verità di quanto egli diceva a padre Innocen­zo Cinicola Santoro e ad altri confratelli, in occasio­ne degli anniversari di ordinazione sacerdotale:

«Per celebrare bene bisogna essere un altro Gesù». E grande era la sua gioia a ogni ricorrenza della propria ordinazione, come è ad esempio testimo­niato dalla lettera del 9 agosto 1912 a padre Agosti­no: «Mentre io scrivo dove vola il mio pensiero! Al bel giorno della mia ordinazione. Domani, festa di San Lorenzo, è pure il giorno della mia festa. (...) Vado paragonando la pace del cuore, che sentii in quel giorno, con la pace del cuore che incomincio a provare fin dalla vigilia, e non ci trovo nulla di di­verso. Il giorno di San Lorenzo fu il giorno in cui trovai il mio cuore più acceso di amore per Gesù».

 

La Messa, memoria del Calvario

 

Di ciò che Padre Pio sperimentava durante la li­turgia eucaristica abbiamo uno straordinario docu­mento, le spontanee e sincere risposte ai quesiti della figlia spirituale Cleonice Morcaldi: «Padre, che cos'è la vostra Messa? - Un completamento sacro con la Passione di Gesù». «E che cosa debbo leggere nella vostra santa Messa? - Tutto il Calvario». «Pa­dre, ditemi tutto quello che soffrite nella santa Messa. - Tutto quello che ha sofferto Gesù nella sua Passio­ne, inadeguatamente, lo soffro anche io, per quan­to a umana creatura è possibile. E ciò contro ogni mio demerito e per sola sua bontà». «Nella celebra­zione della Messa, qual è il momento in cui soffrite di più? - Dalla consacrazione alla comunione».

Ancor più sconvolgente è la spiegazione riguar­dante l'Eucaristia e i suoi effetti in Padre Pio: «La comunione è una incorporazione? - E una fusione: co­me due ceri si fondono insieme e più non si distin­guono». «Mi avete fatto comprendere che le Sacre Spe­cie in voi non si consumano; che nelle vostre vene scorre il Sangue di Gesù. Siete dunque un Ostensorio vivente?

- Tu lo dici!». Una conferma ancor più diretta glie­la chiese padre Tarcisio Zullo: «Padre, ditemi la ve­rità, la santissima Eucaristia nel vostro cuore si conserva incorrotta da un giorno all'altro?»; e Pa­dre Pio rispose senza giri di parole: «Si, figlio mio».

D'altronde anche per Padre Pio, come è successo ad altri grandi mistici, l'ostia consacrata rappre­sentava un vero e proprio cibo. Padre Agostino ha documentato nel Diario di ottobre e novembre 1911 che Padre Pio, ospite nel convento di Venafro, era molto ammalato e non riusciva a mangiare nulla, ma «si sostentò con la sola Eucaristia, tanto quan­do poteva celebrare, come quando riceveva la co­munione non potendo dire Messa».

Molti anni più tardi, a padre Carmelo da San Giovanni in Galdo capitò di trovarsi nella camera di Padre Pio con alcuni confratelli: «Si parlava del­la santa comunione, che i sacristi ogni mattina por­tavano a domicilio agli ammalati che abitavano nelle vicinanze del convento, e si riferivano anche alcune lamentele per qualche volta in cui i sacristi, a causa di altri impegni, avevano mancato di por­tarla. Il Padre intervenne nella conversazione e con una certa severità rimproverò una tale mancanza; poi aggiunse: "Se dovesse capitare a me di stare un giorno senza comunione, io morirei"».

Ed era così grande la sua tenerezza verso Gesù Sacramentato da aver lasciata impressa nell'inse­gnante Giuseppe Pompilio l'immagine di quando prendeva la pisside, l'ostensorio e l'ostia «con estrema delicatezza e rispetto, come una mamma verso il suo bambino». Il 25 agosto 1965, padre Marcellino Iasenzaniro notò che mancava l'energia elettrica, cosicché Padre Pio non poteva usare l'a­scensore per andare come di consueto sul matro­neo della chiesa. Per evitargli la dura rampa di sca­le che conduceva al posto dove si soffermava solitamente, gli disse: «Padre, perché non va a pre­gare nella cappellina?». E lui rispose commosso, indicando la chiesa: «Ma lì ci sta Gesù».

Padre Pio desiderava che il suo amore verso la li­turgia eucaristica fosse condiviso anche dai suoi figli spirituali, ai quali spiegava che «assistiamo alla san­ta Messa perché è il Calvario stesso in cui Gesù com­pì la redenzione nostra dinanzi al Padre suo, né scendiamo da questo monte, cioè quando è finita la Messa, quasi spensierati, come se avessimo assistito a uno spettacolo qualsiasi... Imitiamo le pie donne, com'è scritto nel Vangelo, che, dopo spirato Gesù, scendevano dal monte percuotendosi il petto. Ma sia questa una vera compunzione di spirito, di dolore per i nostri peccati e, nel tempo stesso, di confidenza della divina giustizia, placata dal Figlio suo».

Su questa traccia padre Alessandro da Ripabot­toni, curatore dell'Epistolario di Padre Pio, ha deli­neato la "regola" che il frate suggeriva alle sue fi­glie spirituali riguardo alle cose da praticare in chiesa e nell'uscire da essa:

1. Entra in chiesa in silenzio e con gran rispetto, tenendoti e reputandoti indegna di comparire da­vanti alla maestà del Signore.

2. Prendi poi l'acqua benedetta e fa' bene e con lentezza il segno della nostra redenzione.

3. Trovato il posto, inginocchiati e rendi a Gesù Sacramentato il tributo della tua preghiera e della tua adorazione.

4. Assistendo alla santa Messa e alle sacre fun­zioni, compi ogni atto religioso con la più grande devozione.

5. Se preghi in comune, pronunzia distintamente le parole della preghiera; fa' bene le pause e non af­frettarti mai.

6. Nell'uscire di chiesa abbi un contegno raccolto e calmo. Saluta per primo Gesù Sacramentato, do­mandagli perdono delle mancanze commesse alla sua presenza e non partire da lui se prima non gli hai chiesto e da lui non hai ottenuto la paterna be­nedizione.

7. Uscita che sei di chiesa, mostrati quale ogni se­guace del Nazareno dovrebbe essere; soprattutto serba una gran modestia in ogni cosa, perché la modestia è la virtù che meglio di ogni altra palesa le affezioni del cuore.

 

XI

 

Miracoli ed eventi soprannaturali

«E tu che santo sei?!»

 

Fra i documenti per il processo di canonizzazio­ne, la Postulazione cappuccina ha inserito anche 129 testimonianze relative a grazie attribuite all'in­tercessione di Padre Pio. Si tratta in realtà di una scelta davvero minima fra le decine di migliaia di segnalazioni difatti prodigiosi, giunte nel conven­to di San Giovanni Rotondo sin dai primi giorni successivi alla morte del Padre.

D'altra parte, centinaia di testimoni hanno docu­mentato che durante l'intero arco della sua esistenza Padre Pio fu protagonista di moltissimi miracoli ed eventi soprannaturali, a cominciare da quello avve­nuto intorno al 1896 e che viene da molti considera­to come il primo atto della sua vita di intercessore.

In compagnia del padre, il giovanissimo France­sco si era recato al santuario del martire san Pelle­grino, venerato ad Altavilla Irpina (Avellino), dove fra i tanti devoti c'era una mamma che pregava il santo affinché guarisse il bambino deforme che te­neva in braccio. Francesco, commosso nel vedere la fede di quella donna e le sue lacrime, si unì alla preghiera della mamma, che però a un certo punto sbottò con il santo: «Dal momento che non mi ascolti, pigliatelo», e lo gettò sull'altare. Ma il bim­bo, non appena toccò terra, guarì, lasciando stupe­fatti ed esultanti tutti i presenti.

Quando poi si sparse la voce delle stimmate e dei doni di cui era dotato, Padre Pio venne subissa­ to, di persona e per iscritto, da richieste di ogni ti­po, provenienti dal mondo intero. E il suo atteggia­mento fu sempre quello esemplificato da padre Agostino da San Marco in Lamis nel proprio Dia­rio: «A una persona che gli chiedeva una grazia, Padre Pio rispose: "Io potrò pregare e pregherò; ma la grazia la fa il Signore". Nella sua ingenuità, la persona richiedente soggiunse: "E tu che santo sei?!". Il Padre sorrise e riprese a dire: "Pregherò, e prega anche tu"».

Ciò che dovevano ispirare questi eventi straordi­nari era infatti innanzitutto la conversione sia del protagonista sia di quanti venivano a conoscenza dell'accaduto. E fu così soprattutto per i numerosi casi nei quali il Padre preannunciò eventi luttuosi, di uno dei quali fu testimone don Pierino Galeone:

«Un giorno, dopo la Messa e il ringraziamento, Pa­dre Pio si guardò attorno e chiamò un uomo. Tutti, mossi dalla curiosità e dalla santa invidia, guar­dammo meravigliati quel fortunato, ma dopo una buona mezz'ora lo vedemmo scendere pallido e mesto. Dietro mia richiesta, mi raccontò che Padre Pio, con voce commossa, gli aveva annunciato:

"Amico mio, fra una settimana lascerai questo mondo. Non temere! Preparati con umiltà. Ti starò continuamente vicino, e io stesso ti accompagnerò in Cielo". La settimana seguente chiesi notizie ai suoi amici che erano tornati a San Giovanni Roton­do, e loro mi raccontarono: "Dopo un paio di gior­ni si è improvvisamente ammalato e, come gli ave­va predetto il Padre, è morto. Se si è avverata la morte, certamente si è anche avverato che è in Paradiso. Beato lui!"».

Fra i prodigi che fecero più clamore ci fu quello accaduto a Gemma Di Giorgi, una bambina di sette anni giunta a San Giovanni Rotondo nel giugno 1947, pochissimi giorni dopo l'avvio dei lavori per la Casa Sollievo della Sofferenza. La nonna l'aveva condotta dalla Sicilia per chiedere a Padre Pio di intercedere per la sua guarigione, essendo nata senza pupille. Il cappuccino confessò la bambina e quindi le tracciò un segno di croce sulle palpebre. Nel pomeriggio le diede la comunione e subito do­po Gemma cominciò a vedere. La straordinarietà dell'evento fu confermata dal fatto che l'oculista della bambina e diversi altri specialisti verificarono che i suoi occhi continuavano a essere privi di pu­pille, mentre ella riusciva a vedere normalmente.

Più giocoso è il prodigio tuttora visibile a San Giovanni Rotondo, all'esterno dell'asilo delle Suore dell'Immacolata, in via San Luigi Gonzaga. Era il 3 gennaio 1993 quando le religiose, di ritorno dalla Messa, si resero conto che nessuna aveva portato con sé le chiavi di casa. Chiamato il vetraio, questi spiegò che era necessario rompere il doppio vetro di una finestra al piano terra, in modo da poter en­trare e aprire il portoncino. Le suore gli dissero di procedere, e loro intanto si misero a recitare qual­che preghiera a Padre Pio. Al termine dell'opera­zione, le suore si recarono in cucina per preparare un caffè e l'operaio tornò nella dispensa per ripara­re la finestra ma, con suo grande stupore, soltanto uno dei due vetri risultava rotto, mentre l'altro era integro. Accurate analisi, compiute dall'Istituto ri­cerche della Breda di Milano e nella Stazione speri­mentale del vetro di Murano, hanno dimostrato che la composizione dei due vetri era identica e che non c'era alcuna spiegazione scientifica per la vicenda.

 

 

Il profumo della protezione

 

A poco più di 7 anni, mentre era studente nel convento di Sant'Elia a Pianisi, Fra Pio visse la pri­ma esperienza di bilocazione, che lui stesso raccon­tò: «Mi ritrovai lontano in una casa signorile, dove il padre moriva mentre una bimba nasceva. Mi ap­parve allora Maria santissima che mi disse: "Affido a te questa creatura; è una pietra preziosa allo stato grezzo, lavorala, levigala, rendila il più lucente possibile, perché un giorno voglio adornarmene". (...) Soggiunse: "Non dubitare, sarà lei che verrà da te, ma prima la incontrerai in San Pietro, a Roma"». Quanto preannunciato dalla Madonna ovviamente si avverò: Giovanna Rizzani, questo il nome della donna, da studentessa si recò nella Basilica vatica­na e si confessò con il cappuccino (anche lì in bilo­cazione), che poi riconobbe quando giunse a San Giovanni Rotondo, divenendone una delle più de­vote figlie spirituali.

Era talmente di ordinaria amministrazione la bi­locazione per Padre Pio che l'amministratore di Casa Sollievo, il commendator Angelo Battisti, quando lo lasciava la sera augurandogli la buona notte si sentiva rispondere: «Buona e santa notte a te, figlio mio, perché per me comincia un'altra giornata...». «Ma, Padre, allora quando dorme?», domandò una volta Battisti. E lui: «Se dormo cin­que-sei ore all'anno è già tanto!». E a padre Paolino da Casacalenda, che si chiedeva come avvenisse la bilocazione e se il protagonista ne fosse consapevo­le, Padre Pio rispose quasi soprappensiero: «Sa ciò che vuole, sa dove va, ma non sa se è soltanto con la mente, o con il corpo e con l'anima».

Fra i più eclatanti episodi di cui si è venuti a co­noscenza, ci sono le due apparizioni al generale Luigi Cadorna, il comandante dell'esercito italiano nella prima guerra mondiale, e al cardinale Jozsef Mindszenty, l'arcivescovo di Budapest condannato nel 1949 all'ergastolo dal regime comunista. Il pri­mo, dopo la disfatta di Caporetto nel 1917, stava meditando il suicidio, quando vide nella tenda un frate che gli parlava in nome di Dio e l'invitava a deporre la pistola. Anni dopo, avendo visto una fo­to di Padre Pio su un giornale, si precipitò a San Giovanni Rotondo e si senti dire dal Padre: «Gene­rale, l'avete scampata bella quella notte!». Il secon­do, mentre era imprigionato, ricevette in cella una visita di Padre Pio, che gli aveva portato tutto l'oc­corrente per la celebrazione della Messa e gli fece da chierichetto.

Segno della presenza e della vicinanza spirituale di Padre Pio era il suo famoso profumo, che tuttora ad alcuni devoti accade di percepire. Il dottor Er­nesto Paita, che ne ebbe esperienza in diverse occa­sioni, descrisse profumi «dei più svariati fiori, mol­ti sconosciuti, e di aromi di erbe e piante di campagna e di montagna, di resina e di essenze di ogni tipo, sempre assai fini e delicati, ora tenui, ora forti, talora talmente intensi da togliere quasi il fia­to». A padre Giambattista Colavita, che gli chiede­va una spiegazione, Padre Pio disse che tale profu­mo «e sempre una protezione e Iddio assiste chi l'avverte».

Quando Padre Pio passava tra la folla, veniva bersagliato da richieste di consigli riguardo a pres­santi interrogativi. Padre Eusebio Notte ha osser­vato che le sue risposte «dalle quali spesso dipen­deva una vita, l'avvenire, il destino di una persona, arrivavano prontamente e con la massima sponta­neità. Quasi sempre erano accompagnate da un'e­sortazione, un incoraggiamento, un rimprovero, un incitamento a cambiar vita. Frequenti erano i casi in cui medesime situazioni ricevevano risposte diverse. Per esempio: "Padre, mi posso sposare?". Risposta: "E chi aspetti?"; oppure: "Sì, se sei dispo­sta a fare l'infermiera per tutta la vita!". In casi ana­loghi: "Padre, mi posso operare?". E Padre Pio:

"Rimettiti al medico"; oppure: "Se vuoi farti ucci­dere...". Quando però Padre Pio non era "illumina­to", aveva l'onestà e l'umiltà di farlo capire; nel qual caso prometteva preghiere e, rivolto all'inte­ressato, diceva: "Speriamo, preghiamo, facciamo pressione sul Cuore di Dio!"».

Nei primi tempi della vita, Padre Pio considera­va gli eventi soprannaturali come una cosa ordina­ria, che credeva fossero percepiti da tutte le anime. Padre Agostino da San Marco in Lamis, nel suo Diario, racconta che un giorno Padre Pio gli disse «E lei non vede la Madonna?»; e alla sua risposta negativa soggiunse: «Lei lo dice per santa umiltà». In particolare, durante la permanenza di Padre Pio nel convento di Venafro, proprio a padre Agostino capitò di assistere a numerose estasi del Padre, du­rante le quali egli parlava con Gesù, la Madonna, san Francesco e altri santi.

Ma la visione più commovente era per lui quella di Gesù Bambino, di cui almeno due persone furo­no testimoni privilegiati. Nella notte dal 19 al 20 settembre 1919, padre Raffaele da Sant'Elia a Piani­si, che si trovava in visita nel convento di San Gio­vanni Rotondo, non riusciva a prendere sonno:

«Verso mezzanotte mi levo dal letto, quasi spaven­tato. Il corridoio era nell'oscurità, rotta solo dalla luce incerta di un lumicino a petrolio, ed ecco che passa Padre Pio, che tornava dal coro ove era stato in preghiera, tutto luminoso, con Gesù Bambino sulle braccia». Uguale esperienza accadde nella se­rata del 24 dicembre 1922 alla figlia spirituale Lucia Iadanza, che vide il Padre fermo vicino a una fine­stra: «A un tratto, in un alone di luce, apparve Gesù Bambino e si fermò tra le braccia di Padre Pio, il cui volto divenne tutto raggiante»

 

I prodigi della santità

 

1110 dicembre 1981 l'arcivescovo Paolo Carta fu ricevuto in udienza privata da Giovanni Paolo Il e gli disse: «Santità, per sette anni sono stato vescovo a Foggia, vicinissimo a Padre Pio.' Perciò sono un testimone della sua santità. Le raccomando la causa della sua beatificazione». E il Papa rispose: «In Pa­dre Pio c'è da ammirare la vita eroica, il ministero delle confessioni e la sofferenza delle stimmate. Una volta sono stato a trovarlo e mi sono confessa­to da lui. Ricordo anche una persona ammalata di cancro, che ebbe la guarigione per l'intervento di Padre Pio [era l'amica Wanda Poltawska, per la cui sal­vezza lo stesso arcivescovo Wojtyla aveva scritto nel no­vembre 1962 al cappuccino, nda.. Ma per la beatifica­zione ci vogliono miracoli!». Poi, sorridendo dolcemente, aggiunse: «Padre Pio ha fatto miracoli in vita. Ne faccia anche dopo morto!».

In effetti, Giovanni Paolo Il si era già personal­mente interessato - accogliendo la sollecitazione fattagli per iscritto il 23 aprile 1979 dal postulatore padre Bernardino da Siena - affinché la Congrega­zione per la Dottrina della fede e la Congregazione per le Cause dei santi concedessero il nulla-osta per aprire la fase diocesana del processo di cano­nizzazione (precedentemente rifiutato il 16 feb­braio 1972, il 6 luglio 1974 e il 28 maggio 1976). Fi­nalmente, il 29 novembre 1982, giunse il sospirato "via libera" e l'arcivescovo di Manfredonia poté inaugurare il processo diocesano, che durò dal 20 marzo 1983 al 21 gennaio 1990, con la partecipazio­ne di 69 testimoni processuali e 10 extraprocessua­li. Dopo il parere favorevole della Consulta teolo­gica, il 18 dicembre 1997 Papa Wojtyla firmò il decreto sulle virtù eroiche di Padre Pio, dichiaran­dolo venerabile.

Il miracolo ratificato per la beatificazione fu quello avvenuto alla signora salernitana Consiglia De Martino, che il 31 ottobre 1995 era stata ricoverata in ospedale per un versamento di liquido linfatico che richiedeva l'operazione chirurgica. La donna si affidò subito all'intercessione di Padre Pio, del qua­le era devota, e nel pomeriggio del 1° novembre, dopo aver percepito un intenso profumo di fiori, cominciò a stare meglio. Il 4 novembre gli esami al­l'addome e al torace documentavano l'inspiegabile scomparsa del liquido linfatico e il 6 novembre la paziente veniva dimessa completamente guarita.

Il 2 maggio 1999, in piazza San Pietro, Giovanni Paolo Il presiedette la cerimonia di beatificazione e stabilì che la festa liturgica di Padre Pio fosse collo­cata in calendario il 23 settembre. Papa Wojtyla sot­tolineò fra l'altro che «la testimonianza di Padre Pio costituisce un potente richiamo alla dimensio­ne soprannaturale, da non confondere col miracoli­smo, deviazione da cui egli sempre rifuggì con fer­mezza».

Per la canonizzazione è invece stata scelta la guarigione miracolosa del bambino Matteo Pio Co­lella, ricoverato nella Casa Sollievo della Sofferen­za il 20 gennaio 1999 per una meningite fulminan­te. Anche in questo caso vennero subito elevate preghiere per l'intercessione di Padre Pio. La situa­zione era di imminente pericolo di vita, poiché ri­sultavano ben nove organi contemporaneamente insufficienti, mentre la letteratura clinica interna­zionale considera irrecuperabili già i malati con cinque organi compromessi. Ma il piccolo - dopo aver visto in sogno il Padre che gli diceva che lo avrebbe guarito - recuperò la salute e il 12 febbraio venne dimesso dal reparto di rianimazione, anche in questo caso senza che ci fossero spiegazioni scientifiche per giustificarne la guarigione.

 

XII

 

Novene e devozioni

Un povero frate che prega

 

Un biografo dell'epoca scrisse che san Francesco d'Assisi, più che un uomo di preghiera, era la «pre­ghiera personificata». Per molti confratelli che han­no vissuto nel convento di San Giovanni Rotondo, oltre che per tanti altri che hanno avuto la possibi­lità di frequentarlo, Padre Pio ha rappresentato la replica vivente del fondatore della Famiglia france­scana. D'altronde, con la massima umiltà, egli stes­so diceva: «Ma che vuole da me tutta questa gente? Io sono soltanto un povero frate che prega».

Padre Pellegrino Funicelli, che fu anche assisten­te personale di Padre Pio, ha raccontato di averlo a lungo "spiato" di giorno e di notte, un po' dapper­tutto, sino alla sua morte: «Ebbene, non l'ho mai sorpreso a oziare: non soltanto pregava sempre, ma quando credeva di essere solo pregava con una concentrazione tale che sembrava in contatto diret­to con la Divinità. In pubblico, invece, per non di­stinguersi, si uniformava allo stile e al ritmo della comunità».

E quanto ritenesse vitale la preghiera anche per i suoi figli spirituali lo documenta una testimonian­za della signorina Clementina Belloni: «In una con­fessione, Padre Pio mi accusò di aver rubato. Sor­presa, negai. Il Padre continuò: "Hai rubato il tempo a nostro Signore". E infatti il giorno prece­dente avevo mancato al dovere della preghiera». Con padre Giacomo Piccirillo, che indugiava a fotografarlo da diverse angolazioni, sbottò: «Stai con questo "mastrillo" [riferendosi alla macchina fotogra­fica, nda.1 in mano da più di un' ora e non hai detto neanche un'Ave Maria!».

Nulla poteva distogliere Padre Pio da un costan­te atteggiamento di orazione. «Non appena mi pongo a pregare», rivela egli stesso in una lettera del 1913, «subito sento che l'anima incomincia a raccogliersi in una pace e tranquillità da non poter­si esprimere con le parole. I sensi restano sospe­si, ad eccezione dell'udito, il quale alcune volte non viene sospeso, però ordinariamente questo senso non mi dà fastidio e debbo confessare che, anche se a me intorno si facesse del grandissimo rumore, non per questo riesce a molestarmi me­nomamente».

La sua era realmente una preghiera perenne, un'immersione totale nel mistero di Dio. L'arcive­scovo di Manfredonia, Andrea Cesarano, ebbe oc­casione di verificarlo personalmente durante una settimana di esercizi spirituali trascorsa nel con­vento di San Giovanni Rotondo. Per otto notti di seguito egli si alzò nelle ore più diverse e andò a guardare in cappella: in qualsiasi momento vi tro­vò sempre Padre Pio in preghiera e non riuscì a scoprire in quale ora dormisse un poco.

Ma già ai tempi del noviziato, quando ancora non si erano manifestati i suoi particolari doni spi­rituali, i condiscepoli ne osservavano ammirati il comportamento. Padre Leone da San Giovanni Ro­tondo ha testimoniato che «a scuola sapeva sempre la lezione, quantunque avessimo la persuasione che studiasse poco. Infatti io, bidello dello studio, ora con una scusa, ora con un'altra, entravo spesso in cella sua e lo trovavo, quasi sempre, a pregare, in ginocchio e cogli occhi arrossati dal pianto. Po­trei dire che egli era uno studente di continua orazione, fatta di lacrime, perché bastava guardargli gli occhi per capire che le lacrime erano cosa ordi­naria».

 

 

Tre richieste alla Madonna

 

Nelle pagine di Diario del luglio 1929, Padre Pio elencò le devozioni particolari che quotidianamen­te si era impegnato a praticare: «Non meno di quattro ore di meditazione, e queste d'ordinario su la vita di nostro Signore: nascita, passione e morte. Novene: alla Madonna di Pompei, a san Giuseppe, a san Michele Arcangelo, a sant'Antonio, al padre san Francesco, al sacratissimo Cuore di Gesù, a santa Rita, a santa Teresa di Gesù».

Fino a quando le forze glielo permisero, i Superio­ri avevano riservato a lui la funzione serale della Vi­sita a Gesù Sacramentato e della benedizione eucari­stica. Era un momento caro ai suoi figli spirituali, che Padre Pio proponeva anche ad altri penitenti con questa esortazione: «Gesù prigioniero nella Custodia ti attende... va' a trovarlo e fagli compa­gnia». Inoltre il venerdì sera, mentre gli altri frati andavano a cena, egli si recava in chiesa e svolgeva il pio esercizio della Via Crucis.

A Pompei, dove si venera la Vergine del Rosario a lui tanto cara, Padre Pio si recò tre volte: nel 1901, con alcuni compagni di scuola; nel novembre 1911, in compagnia di padre Evangelista, Superiore nel convento di Venafro; il 3 gennaio 1917, in una li­cenza dal servizio militare. EA mediante le novene alla Madonna di Pompei, Padre Pio invocò le gra­zie cui teneva maggiormente, comprese tre perso­nali, soltanto due delle quali vennero esaudite.

Innanzitutto il ritorno in convento, durante la lunga malattia a Pietrelcina: «Iddio e la carissima Madre mia di Pompei, a cui le novene si sono suc­cedute alle novene, oramai sono oltre tre anni, san­no che cosa ho fatto per essere esaudito da una sì dura prova. Essi soli comprendono e sono testimo­ni del dolore che mi stringe e che mi opprime il cuore», scrisse il 24 gennaio 1915 a padre Benedet­to. Poi l'esonero dal servizio militare, per il quale sollecitò la collaborazione di padre Agostino:

«Vengo a chiedervi, o padre, un favore: questo sa­rebbe mi usaste la carità di incominciare al più pre­sto le tre novene alla Vergine di Pompei con la reci­ta giornaliera, durante questo periodo, dell'intiero Rosario».

Non ricevette invece ascolto la richiesta di mori­re in giovane età, come confidò a un confratello nel 1960: «Ho recitato per 35 anni la novena alla Ma­donna di Pompei, chiedendole la grazia che mi portasse con sé in Paradiso. Ma poi ho smesso». E al confratello che esprimeva stupore per il fatto che avesse smesso di pregarla, proprio lui che amava così tanto la Vergine, replicò: «Figlio mio, ho chie­sto alla Madonna la grazia di farmi morire, ma non mi ha ascoltato. E quando è una mamma che non ti ascolta non c e più niente da fare».

Un'altra devozione mariana che ogni sera prati­cava era la recita della Visita a Maria Santissima, composta da sant'Alfonso Maria de' Liguori: «San­tissima Vergine Immacolata e Madre mia Maria, a voi che siete la Madre del mio Signore, la Regina del mondo, l'Avvocata, la Speranza, il Rifugio dei peccatori, ricorro oggi io, che sono il più miserabile di tutti. Vi venero, o gran Regina, e vi ringrazio di quante grazie mi avete fatto finora, specialmente di avermi liberato dall'Inferno, da me tante volte meritato». A queste ultime parole la sua voce si in­crinava sempre fino alle lacrime, spingendo alla commozione anche i fedeli presenti in chiesa.

Contemplando Maria, Padre Pio volgeva imme­

diatamente il pensiero al suo sposo, san Giuseppe, che egli venerava teneramente per la sua dolce presenza accanto a Gesù Bambino. I confratelli lo vedevano spesso rimanere estatico dinanzi al qua­dro raffigurante il santo, che era appeso nella ve­randa del primo piano. Una volta, richiamato da padre Onorato ad affrettarsi a scendere in chiesa, gli rispose: «Quanto è bello san Giuseppe, lasciate­mi stare qui ancora un poco...».

Tutti i figli spirituali venivano catechizzati a compiere bene le loro devozioni, che scandivano l'intero anno. Un quadro completo ce l'offre la te­stimonianza della signorina Rachelina Russo:

«Una delle devozioni che ci inculcava era quella al­l'angelo custode, perché è il nostro compagno indi­visibile, colui che ci è sempre vicino dalla nascita alla morte. Un'altra delle devozioni maggiormente raccomandate era quella del mese di san Giuseppe, che tutti gli anni, sia in chiesa che in privato a casa, non mancavamo mai di praticare. E poi il mese di maggio, con novena e supplica alla Vergine di Pompei; il mese di giugno, con la coroncina al Sa­cro Cuore tutti i giorni; la devozione alla Madonna del Carmine, a sant'Anna, all'Assunta, la Quaresi­ma di san Michele che comincia la vigilia dell'As­sunta e finisce il 28 settembre; il mese di ottobre dedicato alla Vergine del Rosario e agli angeli cu­stodi; il mese dei morti, e infine tutte le devozioni del mese di dicembre, dall'Immacolata sino al Na­tale e all'Epifania, con la recita delle 40 Ave Maria che cominciano il giorno di santa Caterina».

Anche l'amore alla Chiesa era intenso in Padre Pio e si incarnava nella devozione al Vicario di Cri­sto, in favore del quale elevava ogni mattina la sua prima preghiera. Durante la notte voleva che nella sua stanza fosse sempre illuminata - insieme con il quadro della Madonna della Libera, patrona di Pietrelcina, e la foto dei genitori - l'immagine del Papa.

Padre Tarcisio Zullo, durante l'Anno Mariano del 1954, disse scherzando: «Padre Spirituale, se a piazza San Pietro ci foste lei e il Papa, sarei curioso di vedere se la gente - vedendovi prendere due vie diverse - correrebbe più dietro al Papa o a Padre Pio...». Egli rispose: «Andrebbero tutti dietro al Pa­pa, perché il primo a correre dietro al Vicario di Cristo sarebbe Padre Pio». E, quando il Pontefice era in viaggio, lui che normalmente non si interes­sava delle notizie chiedeva a padre Pellegrino Fu­nicelli se avesse ascoltato il giornale radio, perché temeva qualche pericolo per il Papa, che conside­rava come una persona di famiglia.

In particolare, il Pontefice da lui più amato fu Pio XII, il quale del resto non nascondeva la pro­pria opinione: «Padre Pio è un santo, ma noi non possiamo dirlo, se no lo canonizziamo da vivo», confidò al giornalista Giovanni Gigliozzi. In oc­casione della grave malattia di inizio 1954, la so­rella di Papa Pacelli chiese a Padre Pio, tramite i Superiori cappuccini, «di formulare una preghie­ra per il Supremo Pastore della Chiesa e per la Chiesa stessa».

Padre Pio rispose immediatamente all'appello:

«Di lei che è sorella del Santo Padre comprendia­mo lo strazio; ma lo strazio dei figli non si creda in­feriore a quello della sorella. Ho offerto al Signore tutto me stesso e la mia offerta continua... Preghia­mo, immoliamoci e confidiamo». Neanche a dirlo, come rivelò sulla stampa del tempo padre Virginio Rotondi, la miracolosa guarigione avvenne imme­diatamente!

 

XIII

 

Obbedienza e umiltà

Nelle mani del Guardiano

 

Quando, nella lettera del 15 agosto 1916 a padre Agostino da San Marco in Lamis, Padre Pio scrisse la celebre frase: «Sono un mistero a me stesso», im­mediatamente dopo aggiunse - utilizzando una ci­tazione dalla lettera inviatagli dal direttore spiri­tuale padre Benedetto l'8 agosto precedente - di reggersi soltanto perché «il buon Dio ha riservato l'ultima e più sicura parola all'autorità su questa terra e non vi è norma più fedele del volere e del desiderio del Superiore».

Rispettando in pieno il voto religioso di obbe­dienza, Padre Pio accolse ed eseguì per tutta la vita ogni indicazione che gli giungeva dalle autorità ec­clesiastiche. E il suo spirito di sottomissione gioio­sa era ben espresso, come ha documentato il signor Lazzaro Cassano, da una preghiera che egli recita­va frequentemente: «Fa', o mio Gesù, che io mi sot­tometta all'obbedienza e segua sempre la tua vo­lontà. O Gesù, fosti obbediente nel morire in croce, voglio con l'obbedienza dolorosa fino alla morte dare prova d'amore al mio Dio».

Fra le tante dimostrazioni di obbedienza, forse la più faticosa per lui fu la prima di cui ci è giunta no­tizia. Pochi mesi dopo la comparsa delle stimmate, padre Placido da San Marco in Lamis, compagno di Padre Pio nel noviziato e nello studentato, chie­se al padre Provinciale l'autorizzazione per scatta­re una fotografia di Padre Pio con le mani nude.

Recatosi a San Giovanni Rotondo, gli ordinò dito­gliersi i guanti e di incrociare le mani sul petto. Di­nanzi alla strana richiesta, Padre Pio reagì e rispo­se: «Placido, scherzi o ti sei impazzito? Se vuoi fotografarmi, eccomi pronto, ma non mi tolgo i guanti dalle mani». E padre Placido: «Sono venuto con l'ordine del Provinciale e devi obbedire. Se non obbedisci, offendi Dio». A tale intimazione Pa­dre Pio, con l’amarezza nell'animo, chinò il capo, si tolse i guanti e incrociò le braccia sul petto. Sulla fotografia, di cui sono state diffuse migliaia di co­pie, si vedono nitide e distinte le piaghe al centro delle mani e si nota sul volto la tristezza della con­trarietà a quell'ordine, cui comunque obbedì.

A tutti i Superiori cappuccini Padre Pio esprime­va profondo rispetto perché vedeva in loro la per­sona stessa di san Francesco. Ma il Superiore verso cui manifestava obbedienza in modo particolare era il Guardiano del convento. Si può affermare che tutta la vita e la giornata di Padre Pio erano nelle mani del Superiore, da quando si alzava al momento in cui, prima di andare a letto, chiedeva al padre Guardiano la benedizione per la notte.

Il suo assistente personale padre Eusebio Notte ha testimoniato che a volte, insieme con la benedi­zione, arrivava qualche disposizione poco piacevo­le, come ad esempio di iniziare più tardi la Messa delle 5: «Padre Pio faceva umilmente presente il disagio della gente che ogni mattina aspettava per ore all'esterno della chiesa. Se però il Superiore era irremovibile, il Padre accettava e ringraziava con il saluto francescano "Sia per l'amor di Dio"».

Identica docilità la suggeriva anche ai confratelli più giovani, quando andavano da lui per un consi­glio. A padre Odorico D'Addario era stato propo­sto un nuovo incarico e lui, prima di accettare, con­sultò Padre Pio, che gli diede il proprio parere e gli

forni anche qualche spunto per il discorso da pro­nunciare. Ma la frase conclusiva, gli disse, doveva essere una sola: «Mio paradiso è fare la volontà dei Superiori».

Nessuna eccezione nemmeno per le questioni più personali. Lo verificò la nipote Pia Forgione, quando giunse a San Giovanni Rotondo con i fami­liari che desideravano salutare il congiunto al tem­po della segregazione (1931-33): «Entrammo nella chiesetta e facemmo appena in tempo a salutare il Santissimo, quando sentimmo una voce che prove­niva dal coro ed era la voce di zio Pio che ordinava di tornare subito a Pietrelcina. "Chi vi ha dato il permesso di venire? Ripartite subito perché non mi vedrete", si sentì tuonare dall'alto. E così ripartim­mo tutti all'istante».

Fra le innumerevoli persone che incontrarono Padre Pio, ce ne fu una che - se avesse accolto il suo suggerimento - avrebbe certamente avuto un ruolo diverso nella storia della Chiesa: monsignor Marcel Lefebvre, il futuro protagonista dello "sci­sma anticonciliare". Il professor Bruno Rabajotti assistette all'incontro fra i due, nel quale il cappuc­cino disse esplicitamente all'arcivescovo: «Non portare mai discordia tra i fratelli e pratica sempre la regola dell'obbedienza, soprattutto quando maggiori ti sembrano gli errori di chi comanda. Non c'è altra via che quella dell'obbedienza, per noi che pronunciamo questo voto». Monsignor Le­febvre gli assicurò che se ne sarebbe ricordato, ma Padre Pio profetizzò con dolore: «No, tu lo dimen­ticherai. E lacererai la comunione dei fedeli, ti op­porrai alla volontà dei tuoi Superiori, alle stesse disposizioni del Papa. Avrai dimenticato la pro­messa fatta qui oggi, e molto male ne verrà per la Chiesa».

 

Il fondamento dell'edificio spirituale

 

Nonostante gli straordinari doni soprannaturali che aveva ricevuto dal Signore, Padre Pio manten­ne sempre un atteggiamento di profonda umiltà, se non addirittura di disistima, nei riguardi di se stesso. Lo documenta l'episodio di cui fu testimo­ne il Guardiano del convento di San Giovanni Ro­tondo, padre Paolino da Casacalenda, un giorno nel quale i fedeli acclamavano invano Padre Pio per farlo affacciare alla finestra e riceverne la bene­dizione. Temendo che gli fosse accaduto qualcosa, padre Paolino entrò nella cella e trovò Padre Pio in lacrime. Gliene chiese il motivo e si sentì risponde­re fra i singhiozzi: «Fratello mio, ma non vedi che questa gente, invece di andare dal Padrone, viene dal garzone...».

A padre Atanasio Lonardo, che all'inizio degli anni Cinquanta si occupava della posta diretta al Padre, accadde una volta di maneggiare una lette­ra dal singolare indirizzo: «A Padre Pio, re dei pec­catori». Incuriosito, l'aprì e la lesse ai tre confratelli con cui lavorava. Si trattava di alcuni fogli pieni di spregevoli insulti e di epiteti offensivi nei riguardi di Padre Pio: ipocrita, crapulone, mistificatore... I quattro si consultarono se passarla o meno al Pa­dre. Per delicatezza, decisero di consegnargli sol­tanto la busta. Quando, secondo il solito, Padre Pio giunse in ufficio per benedire la corrispondenza in partenza, padre Atanasio gli disse: «Oggi c'è una lettera davvero importantissima». Egli lesse l'indi­rizzo e poggiò la busta sul tavolo. Subito dopo la riprese in mano e, con volto serio, approvando con un movimento della testa, esclamò: «Padre Pio re dei peccatori! Finalmente, fratelli miei, c'è stato uno che mi ha conosciuto. Sì, Padre Pio re dei pec­catori, ecco chi sono».

Profondamente convinto delle proprie colpe, Pa­dre Pio desiderava ogni settimana confessarsi con il direttore spirituale. E l'atteggiamento che egli aveva quando si accostava al sacramento della ri­conciliazione veniva additato come esempio lumi­noso dai confratelli, i quali vedevano nel suo sguardo soprattutto la fiducia nella divina miseri­cordia. In particolare padre Mariano Paladino e fra Celestino Di Muro, testimoniando nel processo di canonizzazione, hanno ricordato il commovente particolare di Padre Pio che, pur in tarda età e con i suoi malanni, faceva la sua confessione in ginoc­chio e mettendosi sul collo il cordone del saio, in segno di penitenza come gli era stato insegnato in noviziato.

Al pari dell'obbedienza verso i Superiori diretti in Padre Pio coesisteva la venerazione verso chi aveva responsabilità nell'Ordine cappuccino, a prescindere da età e capacità personali. Nel giugno 1965 padre Giacinto da Sant'Elia a Pianisi si recò da lui per pregarlo di assisterlo spiritualmente, es­sendo divenuto Provinciale. Appena lo vide, Padre Pio si alzò dalla poltrona; ma padre Giacinto cercò di bloccarlo dicendo: «Padre Spirituale, quando io vengo nella sua stanza non deve scomodarsi, per­ché lei mi ha fatto da padre e da mamma, sin da quando ero fanciullo: debbo essere io ad ossequiar­la». E il Padre, senza esitazione: «Adesso rappre­senti san Francesco ed io debbo riverirti».

Don Pierino Galeone ha potuto affermare che «l'umiltà di Padre Pio era tale da unire con sempli­cità la convinta consapevolezza del suo nulla e del­la sua grandezza». A conferma, ha portato l'esem­pio di quando Padre Pio, di ritorno dalle confes­sioni, si fermò dinanzi alla cella di padre Agostino e gli disse scherzando: «Che fai a letto? Alzati!». Padre Agostino, infuriato, gridò: «Padre Pio, smet­tila! Non hai pietà di un povero ammalato?». Il Pa­dre, pallido, rimase muto, con gli occhi bassi. Poi:

«Fratello mio, come ti senti?», e dopo un po' se ne andò a capo chino nella propria cella.

Ai figli spirituali, Padre Pio indicava l'umiltà co­me la virtù da far primeggiare, in quanto «fonda­mento dell'edificio spirituale». Per indicarne il va­lore utilizzava un gustoso apologo: «Un ricco signore, per trasportare il proprio oro da una villa all'altra, si servi di un asino vecchio e malandato. L'asino, nel vedersi tanto ricco e onorato, si mise a ragliare per la gioia. Passando per i campi ove in­contrava altri animali, ragliava più forte, creden­dosi superiore a tutti. Quando il padrone gli tolse il prezioso carico, il povero asino si avvide che non era quello che si credeva: restava il misero asino di sempre, al quale nessun animale dava importan­za». Poi spiegava che la stessa cosa sarebbe acca­duta a quanti non si fossero mantenuti nell'umiltà, perché ciò che di buono c'è nell'uomo è opera di Dio, mentre alla creatura appartiene soltanto una sconfinata miseria.

E con ancor più durezza concluse una riflessione proprio sull'umiltà, mentre si trovava con alcuni intimi nell'orto del convento. «Sapete come si chia­ma il diavolo?», domandò. «Belzebù... satana... de­monio... lucifero», provarono a rispondere i pre­senti. Ma lui sempre a scuotere la testa: «No... no... no...». «Padre, allora ce lo dica lei». E Padre Pio:

«Quando diciamo: io faccio, io posso, io riesco. Io, io, io, ecco, questo è il diavolo!».

 

XIV

 

Personalità umana

Fra misticismo e praticità

 

Un metro e sessantasei centimetri di altezza, ot­tantadue centimetri di torace, capelli e occhi casta­ni, colorito roseo e dentatura sana. Era questo l'i­dentikit del soldato Francesco Forgione, ovvero Padre Pio da Pietrelcina, secondo il foglio matrico­lare che venne compilato nel 1915 durante la visita medica per l'arruolamento.

Qualche anno più tardi, il cappuccino Roberto da Nove, di ritorno da una visita a Padre Pio, così lo descrisse: «Fisicamente Padre Pio ha un viso re­golare, un aspetto florido, lo sguardo vivace e, lo si capisce subito, pieno di buone intenzioni; la pelle èbianca sotto il rosa della faccia piena, le mani sono pure bianchissime, mentre il corpo di media statu­ra trasmette l'impressione di una sofferenza inces­sante». Nella sintesi del dottor Michele Capuano, tra i suoi medici curanti per un cinquantennio, queste caratteristiche indicavano nella persona di Padre Pio «insieme misticismo e praticità».

Il dottor Giorgio Festa - che poté osservarlo a lungo dall'inizio degli anni Venti - affermò che «dal punto di vista neuropsichico, Padre Pio aveva sempre avuto una costante e serena coerenza in tutti i suoi atti, e un perfetto e completo equilibrio tra le funzioni del sistema nervoso e le facoltà della mente e dello spirito».

In effetti, per chi non ne conosceva le fattezze, non era facile individuare Padre Pio tra gli altri confratelli. Lo ha testimoniato lo scrittore Piero Bargellini: «Quel cappuccino, per esempio, dall'al­ta fronte spaziosa e dalla grande barba, composto e solenne, poteva essere lui; oppure quell'altro, col volto emaciato, dal quale la barba scaturiva argen­tea, come l'acqua sgorga dalla roccia; oppure un al­tro ancora, scavato, affilato, patito quasi uno sche­letro ricoperto dalla tonaca, come avevo veduto in certe macabre chiese del Seicento».

L’amico che l'aveva accompagnato a San Giovan­ni Rotondo gli chiese se lo vedesse, e Bargellini ri­spose che pensava di sì. Prosegue il suo scritto: «In­vece era di no. Padre Pio non aveva né occhi estatici, né barba fluente. Padre Pio era colui che io avrei definito il meno mistico. Invece di provarne delusione, ne fui soddisfatto. Temevo, infatti, di tro­vare una copia di maniera, e invece scoprivo una fi­gura originale. Temevo d'incontrare, non dico un simulatore, ma per lo meno un imitatore di santità, e invece ero di fronte, se mai, a un ostentatore di naturalezze, o meglio a un rivelatore di sincerità».

D'altra parte, anche i suoi stessi maestri cappuc­cini, come per esempio padre Bernardino da San Giovanni Rotondo, hanno tramandato che Padre Pio «non si distingueva per ingegno, che era un in­gegno comune, ma si distingueva sul portamento. Fra i condiscepoli allegri e chiassosi, egli era quieto e calmo, anche durante la ricreazione, sempre umi­le, mite, obbediente».

 

 

Una scrittura che esprime bontà

 

Nella copiosa documentazione per il processo di canonizzazione fu presentato anche un esame gra­fologico realizzato nel 1984 dal professor Giuseppe Ziveri su alcuni scritti di Padre Pio redatti in un ar­co di tempo dal 1905 al 1950.

L'analisi ha evidenziato innanzitutto nel Padre «il segno sostanziale dell'altruismo in un effon­dersi continuo a bene degli altri» e lo ha descritto «ricco di immaginazione, delicato nel comporta­mento, amabile, fortemente intuitivo, di intelli­genza qualitativamente superiore e acuta». Fra le doti attribuite al Padre, le principali erano «il sen­so di osservazione, di concentrazione e di intuito psicologico così intensi da riuscire a "penetrare" nella verità, scrutando in profondità nell'animo delle persone». Proseguiva la relazione del profes­sor Ziveri: «Le lettere armoniche, gli spazi uguali, l'ordine e la regolarità presenti negli scritti giova­nili stanno ad indicare una ricca vita interiore, equilibrio e delicatezza dei sentimenti, ottima apertura mentale e generosità. La continuità grafi­ca rivela grande senso del dovere verso il prossi­mo e forte equilibrio interiore: una persona di pa­rola con coscienza retta».

Le pulsioni grafomotorie lo fanno risultare «for­temente emotivo» e «paziente, mite e silenzioso, con notevole spirito di adattamento». Anche la gradazione dell'inclinazione destrorsa «convalida Padre Pio come un generoso che si lascia guidare spesso dal cuore, bisognoso di tanta tenerezza e amore; un amore che lui stesso profonde in manie­ra forte per tutto e per tutti».

Con l'avanzare dell'età, la grafia «rivela un gra­duale indebolimento fisico e un calo dell'energia psichica, che lo portano a visioni talvolta pessimi­stiche unite a senso di colpa. Questo, in antitesi con la velocità di scrittura che, aumentando con il pas­sare degli anni, sta ad indicare vitalità, spontanei­tà, prontezza di riflessi e decisione». Sempre nella maturità, la grafia acquista tratti più marcati e im­pazienti, «rivelando un velo di diffidenza. Portato alla meditazione e alla commozione per amore, appaiono ora frequenti sbalzi di umore nel continuo dibattersi tra una forza ottimistica e momenti di tristezza profonda».

Alcuni anni più tardi un'altra analisi grafologica è stata preparata dalla dottoressa Daniela Torbi­doni De Rosa, su incarico del professor Francesco Di Raimondo, il quale, nel volume L'esperienza di tin collaboratore medico, ne ha sintetizzato i risultati:

«L'analisi evidenzia, sin dall'età evolutiva, una personalità a due componenti. L'una è rivolta al­l'utilizzo delle proprie energie vitali per affronta­re, anche in modo forte, i problemi esistenziali; l'altra è caratterizzata dall'oblatività come fattore primario di socializzazione, un'attenzione parti­colarmente sensibile all'animo umano che si ma­nifesta con atti di conciliazione, di consiglio e di conforto».

Andando avanti nella vita di consacrato, «la sua grafia rivela un ridimensionamento delle pretese dell'Io, con prevalenza crescente dell'istanza a una vita spirituale elaborata e sostenuta con forza ed energia dal suo carattere. In particolare emerge la volitività con cui Padre Pio, con grande sofferenza, riesce a dominare la sua naturale impulsività, ga­rantendo a se stesso la linearità di un comporta­mento di fedeltà e obbedienza ai principi etici e re­ligiosi abbracciati».

 

 

Il temperamento di un santo

 

L’impeto del proprio temperamento era noto al­lo stesso Padre Pio, che di sé un giorno disse al giornalista Giovanni Gigliozzi: «O mi facevo frate, o diventavo un brigante». Anche secondo il gesuita Vittorio Marcozzi, che ne ha studiato il carattere, «la sua ricchezza affettiva era superiore alla nor­male: lo dimostrava sia nell'esteriorizzazione dei

sentimenti amorevoli, sia, nonostante il freno che impiegava alle volte, nelle manifestazioni aggressi­ve e scostanti»; inoltre, «all'iperemotività Padre Pio congiungeva un sistema nervoso molto sensi­bile e notevolmente delicato».

I curatori del suo Epistolario, i 'padri Alessandro da Ripabottoni e Melchiorre da Pobladura, hanno sottolineato cinque aspetti che caratterizzavano il profilo umano di Padre Pio. L'amicizia, innanzitut­to: «Da vero amico, godeva e soffriva con le perso­ne amate e partecipava intensamente alle ore liete come alle tristi. Amava tutti cordialmente e deside­rava corrispondenza al suo amore: sentimento, questo, molto umano ch'egli però sapeva purifica­re e sublimare sempre. L'altrui indifferenza, la mancanza di corrispondenza alle sue premure, o, peggio ancora, la reale o apparente antipatia, lo colpivano profondamente».

Poi la compassione per i fratelli: «Dinanzi ai poveri ed agli afflitti, Padre Pio si sentiva commosso ed a tutto avrebbe rinunciato volentieri, pur di soccor­rerli e consolarli. L'impossibilità di conquistarli tutti a Dio e di essere presente a tutti per andar in­contro ai loro desideri, per lui era una sofferenza che lacerava il cuore». E la gratitudine: «Sensibile al bene ricevuto, lo ricambiava con bontà e si dispia­ceva di non poterlo dimostrare coi fatti, come sa­rebbe stato suo desiderio».

Ancora, la sincerità: «Il suo carattere franco e sin­cero Padre Pio lo manifestava non soltanto nel di­fendere i suoi punti di vista, ma alle volte anche disapprovando l'atteggiamento dei direttori a suo riguardo. Con tutta la venerazione, il rispetto e la sottomissione ai direttori, non accettava passiva­mente e ad occhi chiusi i rimproveri, le insinuazio­ni e le interpretazioni da loro date a fatti personali o ad avvenimenti della comunità, se egli credeva non conformi alla verità; e per amore della stessa verità e della giustizia e della carità si permetteva di dissentire e di precisare meglio le cose».

Infine l'affabilità: «L'amabilità e la dolcezza non furono certo per Padre Pio un dono di natura, ma una faticosa conquista della volontà aiutata dalla grazia. Egli ammetteva e conosceva per esperienza l'importanza della dolcezza per trattare fruttuosa­mente le anime e si rammaricava ogni volta che, nonostante i persistenti sforzi, non riusciva a con­trollarsi. Erano scatti non colpevoli, che non riusci­vano ad oscurargli la serenità e la tranquillità inte­riori, causati spesso, se non sempre, da motivi soprannaturali».

Con le parole di un altro studioso, padre Livio Dimatteo, potremmo concludere che Padre Pio èstato «l'uomo prudente e saggio che, evitando abil­mente gli scogli dell'estremismo, ha saputo pre­sentare una giusta via di mezzo percorribile da tut­ti; l'uomo paziente, clemente e misericordioso; il prodigo dispensatore delle grazie di Cristo; il sa­cerdote che sa scendere a osservare nelle pieghe Fiù recondite del cuore dell'uomo, scoprire il suo intimo e consigliarlo per il suo bene; l'amico fidato che non dice mai una parola di disprezzo o di de­prezzamento».

 

XV

 

Quaresime e penitenze

Una robusta "disciplina"

 

Per Padre Pio le Quaresime erano cinque all'anno, sull'esempio di san Francesco: la Quaresima della «benedetta», dall'Epifania al 14 febbraio; quella prima di Pasqua; quella dell'Assunta, che termina­va il 15 agosto; quella di san Michele Arcangelo, che terminava il 29 settembre; quella dell'Avvento, che terminava a Natale. In tutti questi periodi, e dunque complessivamente per oltre la metà del­l'anno, il suo già scarso vitto veniva ancor più ri­dotto perché, come ha raccontato il suo assistente padre Eusebio Notte, «egli temeva di superare il quantitativo permesso!».

Rispetto al clima di penitenza che già normal­mente caratterizzava la vita del Padre, queste ulte­riori mortificazioni non avevano altro scopo se non quello di consentirgli un immersione ancor più in­tensa nel mistero di Cristo, vittima per la redenzio­ne dell'umanità.

Sin da quando aveva soltanto dieci anni d'età, aveva voluto sperimentare sulla propria carne cio che per Gesù era stata la Passione. Mamma Giu­seppa lo scopri un giorno mentre si percuoteva a spalle nude con una catena di ferro. Allibita gli chiese: «Che fai? Sei ammattito?». E il bambino:

«Mi devo battere come i giudei hanno battuto Ge­sù e gli hanno fatto uscire il sangue. Anch'io voglio avere le spalle insanguinate come le ebbe Gesù».

Durante il periodo di preparazione al sacerdo­zio, Fra Pio e gli altri novizi si autoflagellavano tre volte la settimana, al buio nel salone comune. La consuetudine, definita "disciplina" nel linguaggio dei frati, gli appartenne per tutta la vita, ogni lune­dì, mercoledì e venerdì. E i confratelli hanno testi­moniato che lui la praticava sul serio, tanto che gli incaricati delle pulizie rinvenivano spesso i suoi indumenti intimi intrisi di sangue.

In particolare padre Raffaele da Sant'Elia a Pianisi ha raccontato di essersi più volte fermato dietro la porta del coro, nel corridoio, e di aver sentito Padre Pio nella sua stanza disciplinarsi a sangue, dicendo il Miserere a mezza voce: «Una sera, mentre erava­mo a cena, all'improvviso si presenta a refettorio, mi chiama e andiamo in cella. Si era flagellato e si era impressionato, perché il sangue colava e non si arre­stava. Gli applicai la medicina per arrestare l'emor­ragia e poi lo lasciai solo. Mi accorsi che soffriva im­mensamente, avendo dovuto umiliarsi a tanto».

Anche padre Andrea da Castelgandolfo, che tor­nando da Roma desiderava salutare il Padre, si fer­mò dinanzi alla sua cella e udì che all'interno Pa­dre Pio stava battendosi con violenza. Il cap­puccino non si accontentava infatti delle cordicelle utilizzate da altri frati. Ricorda don Nello Castello:

«Cleonice Morcaldi e la contessa Telfner mi parla­vano della "disciplina" di Padre Pio, che egli desi­derava fatta di catenelle e robusta, tanto che una volta ne scartò una perché troppo debole».

 

 

Una penitenza fatta di malattie

 

Se Padre Pio fosse stato trasferito, come qualcu­no ipotizzava all'inizio degli anni Sessanta, dal convento di Santa Maria delle Grazie alla Casa Sol­lievo della Sofferenza, la difficoltà sarebbe stata quella di scegliere dove alloggiarlo, poiché poteva

essere considerato "di casa" in qualsiasi reparto, a motivo delle molteplici malattie che lo afflissero. Ma anche questi malanni devono essere letti alla luce della sua perenne volontà di penitenza, inse­rendosi nel mistero dei disegni divini.

Nel corso degli 81 anni di vità, Padre Pio fu in­fatti costantemente accompagnato da decine di disturbi e dai relativi patimenti, che il dottor Mi­chele Capuano - per cinque decenni fra i suoi me-dici curanti - ha descritto con sconvolgente reali­smo: «Dal dolore bruciante della cistite emorragica a quello conquassante delle coliche renali, dal dolo­re contusivo delle caviglie e dei polsi a quello corro­sivo dell'epitelioma auricolare, dalle fitte laceranti dell'ernia irriducibile a quelle lancinanti delle emorroidi trombizzate, dalle algie fredde dell'artro­si generalizzata a quelle brusche e pungenti della polmonite, dal dolore gravativo della sinusite fron­tale a quelli terebranti della pleurite essudativa, dal dolore pruriginoso della pediculosi ai dolori pulsan­ti degli ascessi passeggeri, alle manifestazioni cor­rodenti dell'ulcera gastrica e ai dolori tensivi delle emicranie».

Si trattò sempre di malattie reali e clinicamente verificate dalle visite specialistiche, dagli esami ra­diografici e strumentali e dalle analisi di laborato­rio, né ebbero mai un decorso irregolare rispetto al­la norma. Lo stesso dottor Capuano si interrogò sul significato ditale strana forma di continua pe­nitenza, e la sua risposta fu che Padre Pio «amava il dolore, lo sopportava con rassegnazione, anzi con gioia, minimizzandolo quasi sempre senza dargli importanza, pur di sfuggire, come diceva, alla cecità dell'anima. Il dolore non lo condiziona­va, né gli faceva paura, perché era un dono della vita, come l'amore e la felicità».

La prima diagnosi che ci è pervenuta risale all'ottobre 1909 e segnala una broncoalveolite al primo stadio, che gli provocava tosse secca, dolori al petto e alla schiena e una continua febbre. All'inizio del 1910 si aggiunse un vomito persistente e violento, che continuò di fatto per tutta la vita, con la con­temporanea insorgenza dell'ulcera gastrica. A fine ottobre 1911 si recò con il Provinciale, padre Bene­detto, a Napoli dal professor Antonio Cardarelli, che decretò la sua fine entro un mese, tanto che pa­dre Benedetto si fermò da un fotografo per fargli fare una foto ricordo.

Per tutto il 1912 e il 1913 i dolori di petto e di testa lo perseguitarono. A gennaio 1914 cominciaro­no anche i dolori reumatici e, l'11 novembre suc­cessivo, subì una tremenda colica renale. Fra il 1945 e il 1960 ebbe altre sei coliche al rene sinistro, con espulsione di calcoli e di renella, dovuti alla dieta quasi esclusiva di verdure e legumi (ricchi di calcio e fosforo), all'utilizzo di bicarbonato e ma­gnesia per i disturbi di stomaco e all'ingestione di acqua ricca di sali di calcio e magnesio.

Il 22 ottobre 1915 si fece visitare a Napoli dal dottor Cicconardi, che individuò una infiltrazione al lobo superiore del polmone destro, riconosciuta il 17 dicembre successivo anche dalla commissione me­dica militare. Il 23 ottobre 1916 andò dal dottor Bruschini, che riscontrò la diffusione dell'infiltra­zione ad ambedue gli apici polmonari. Il 30 dicem­bre la diagnosi venne confermata nuovamente dai medici militari. Nel 1917 l'infiltrazione polmonare fu ribadita in altre otto circostanze, tanto da farlo dichiarare, il 17 settembre, inabile a qualunque ser­vizio di guerra.

Probabilmente a causa della bronchite, che gli provocava attacchi parossistici di tosse con riper­cussioni a livello della tensione addominale, Padre Pio ebbe anche un'ernia inguinale, che nell'autun­no del 1925 fu sul punto di strozzarsi e rese neces­sario l'intervento chirurgico eseguito dal professor Festa il 5 ottobre.

Padre Pio non volle essere anestetizzato, per im­pedire ai medici di vedergli le stimmate, e accettò soltanto qualche iniezione locale di novocaina. Ma il dolore, nelle quasi due ore di operazione, fu così intenso da farlo più volte svenire e da provocargli alla fine un pauroso collasso. Un altro intervento chirurgico della durata di mezz'ora e ancora una volta senza anestesia, sempre per opera di Festa, avvenne nel settembre 1927 per l'asportazione di una voluminosa cisti sebacea sulla parte destra del collo.

 

 

Il regalo della Madonna

 

Il 25 aprile 1959 Padre Pio si ammalò improvvi­samente di broncopolmonite, che in breve tempo si aggravò e divenne una pleurite. Nel Diario di pa­dre Agostino da San Marco in Lamis, che descris­se con toni accorati quel periodo, si legge che i me­dici «in tre volte gli estrassero mille e più grammi di siero». Per tre mesi sarà costretto a lunghi pe­riodi di degenza nel letto e potrà celebrare soltan­to in rare occasioni, mantenendo un contatto con i suoi figli spirituali tramite la recita dell'Angelus e alcune brevi riflessioni spirituali pronunciate per microfono.

Il 6 agosto giunse a San Giovanni Rotondo la sta­tua della Madonna di Fatima, partita in quello stes­so 25 aprile da Napoli per un viaggio attraverso i capoluoghi di provincia italiani, che si sarebbe con­cluso il 13 settembre a Catania. Nella cittadina pu­gliese non sarebbe dovuta arrivare, ma padre Ga­briele Amorth, segretario del Comitato organizza­tivo della Peregrinatio Mariae, guardando il calendario delle tappe aveva notato che - mentre per gli altri capoluoghi era previsto un solo giorno di per­manenza - per Benevento ce n'erano due, il 6 e 7 agosto. In accordo con il cardinale Giacomo Lerca­ro, presidente del Comitato, e con l'arcivescovo be­neventano, il giorno in più venne regalato a San Giovanni Rotondo.

Nella mattinata del 7 agosto Padre Pio scese in chiesa per venerare la Madonna, donandole una corona del Rosario. Intorno alle ore 14 la statua ri­partì dalla terrazza della Casa Sollievo e l'elicotte­ro compì tre giri attorno al convento dal quale Pa­dre Pio guardava commosso. In quel momento il cappuccino, per la prima e unica volta nella vita, chiese una grazia per la propria guarigione.

Ecco l'eccezionale racconto che fece a padre Bo­naventura da Pavullo: «Ero affacciato al davanzale della finestra del coro, mentre l'elicottero volteg­giava nell'aria prima di andarsene. In un impeto di fede, esclamai con le lacrime agli occhi: "Mamma bella, te ne vai e lasci me qui solo e ammalato!..." Subito mi sentii correre per tutta la persona come una corrente elettrica e un nuovo vigore m'invase. Mi sentii guarito! Più col pianto che col labbro esclamai "Grazie, o Maria!" e da allora stetti bene. Se questo non si vuole chiamare miracolo, lo si chiami come si vuole, ma io da quel momento mi sentii guarito». E dal giorno successivo riprese a celebrare la Messa come se nulla fosse accaduto.

 

XVI

Rosario e Madonna

L'”arma” della salvezza

«Giornalmente non meno di cinque Rosari per intiero», è l'impegno che leggiamo nel Diario scrit­to da Padre Pio nel 1929. Ma in realtà furono dav­vero rare le giornate nelle quali il cappuccino si li­mitò a tale numero. Padre Mariano Paladino una volta gli chiese quanti Rosari dicesse: «Quasi tren­ta, qualcuno in più, e non in meno». «Come fate?», si stupì il confratello. E Padre Pio candidamente ri­spose: «E la notte che ci sta a fare?». In un'altra cir­costanza il Padre soggiunse: «Io riesco a fare tre co­se contemporaneamente: pregare, confessare e andare in giro per il mondo».

Uno dei suoi assistenti personali, padre Marcelli­no Iasenzaniro, ha testimoniato che al mattino oc­correva lavargli le mani una per volta, perché Pa­dre Pio non voleva posare mai la corona, che amava definire «l'arma della difesa e della salvez­za, donata dalla Madonna per usarla contro le astu­zie del nemico infernale». E spiegava a quanti gli stavano accanto: «Se l'Immacolata a Lourdes e an­cora più il Cuore Immacolato a Fatima hanno rac­comandato con insistenza la preghiera del Rosario, non significa forse che questa preghiera ha un valo­re eccezionale per noi e per i nostri tempi?».

Un giorno il confratello padre Alessio Parente gli chiese perché recitasse sempre il Rosario e non al­tre preghiere, e la sua risposta fu: «Perché la Ma­donna non mi ha mai rifiutato una grazia attraver­so la recita del Rosario». Per se stesso, come rivelò a padre Pellegrino Funicelli, aveva una precisa ri­chiesta: «Figlio mio, io ho un brutto temperamen­to. Spesso, quando non condivido le disposizioni del Superiore, glielo dico chiaro e tondo, anche se poi rispetto scrupolosamente le sue disposizioni. Chiedo ogni giorno alla Madonna la grazia di ave­re un po' della sua dolcezza e tenerezza nell'obbe­dire al Superiore e alla Chiesa. Ne chiedo poi una seconda: quella cioè di non avere occhi se non per vedere Gesù e la sua Chiesa su questa terra».

La potenza di questa preghiera era personal­mente sperimentata dal cappuccino, che fra l'altro, come ha riportato don Nello Castello, insegnava a valorizzare le corone del Rosario indulgenziate di monsignor Cuccarollo (al quale Pio X, nominando­lo vescovo, aveva concesso le indulgenze di cui disponeva, togliendosi di mano l'anello papale e ponendoglielo al dito amichevolmente). Diceva Padre Pio: «Con questa corona svuotiamo un an­golo del Purgatorio».

Ogni sera, soprattutto negli ultimi anni della vi­ta, Padre Pio desiderava che nella sua camera il Su­periore o un altro dei confratelli cominciasse l'Ave Maria, che lui e i presenti poi terminavano di reci­tare, concludendo con l'invocazione «Mater divinae gratiae, ora pro nobis». Padre Carmelo da San Gio­vanni in Galdo ha dipinto poeticamente la scena come «la chiusura della sua laboriosa giornata e l'invocazione di aiuto per la notte che avanzava:

egli fissava la grande immagine della Madonna, che pendeva dal muro ai piedi del suo letto, pro­prio come un bambino che aspetta il bacio e il salu­to della mamma».

Il suo sentimento filiale verso Maria aveva un 'in­tensità straordinaria, anche se per umiltà Padre Pio non considerava mai sufficienti le proprie manife­stazioni d'affetto. Durante una confessione, suor Maria Francesca Consolata si confidò: «Padre, ho tanta amarezza nell'anima, perché non so amare la Madonna come l'amate voi». E lui, con un sospiro, rispose visibilmente commosso: «Figlia mia, an­ch'io soffro perché vorrei amarla 'tanto... e non so amarla. Preghiamo insieme, per ottenere una si grande grazia».

Il 14 agosto 1958, alla vigilia della festa dell'As­sunta, il padre Guardiano del convento gli chiese un pensierino spirituale. Padre Pio abbassò il capo, incominciò a singhiozzare e, a tratti, prese a dire:

«La Madonna...». Il singhiozzo diventò pianto; poi con sforzo riprese: «La Madonna...». Forti tremiti lo fecero sussultare in tutto il corpo. «La Madon­na», ripeté per la terza volta, «è la Mamma no­stra!». Poi un pianto dirotto e irrefrenabile scosse il Padre il quale, a stento, riuscì a prendere il fazzo­letto per asciugarsi le lacrime che, ormai, gli aveva­no bagnato tutto il viso. Non ebbe nemmeno il tempo e la forza di asciugarsi, tanto le lacrime era­no incalzanti e continue. Allora abbandonò le mani sulle ginocchia e, piangendo, continuò a gridare:

«La Madonna è la Mamma nostra, la Madonna è la Mamma nostra».

Padre Eusebio Notte ha raccontato invece della sera in cui una folla di gente, terminata la recita del Rosario, intonò in onore della Madonna la canzon­cina «Dell'aurora tu sorgi più bella». Mentre canta­vano il ritornello «Bella tu sei qual sole, bianca co­me la luna», Padre Pio ebbe uno scatto improvviso:

«Eh, se fosse così rinunzierei ad andare in Paradi­so!». Padre Eusebio, meravigliato di questa affer­mazione che gli sembrava esagerata, obiettò: «Pa­dre, e che c'è di più bello del sole e della luna?». Ed egli, quasi commiserandolo: «Eh... hai voglia tu!». E il confratello, di rincalzo: «Ma allora, lei l'ha vista quanto aveva visto in sogno, l'altro lo aveva rassi­curato che Lourdes era proprio come lui glielo de­scriveva. Dopo un certo tempo, padre Rosario ri­cordò a Padre Pio che egli, dormendo, aveva sognato Lourdes: «Ma no che non dormivo, ero sveglio», rispose lui.

Una sera del mese di luglio 1968, in procinto di partire per un pellegrinaggio a Lourdes, padre Onorato Marcucci gli chiese la sua benedizione e, quasi celiando, gli disse: «Vuol venire a visitare la Madonna insieme a me? Ormai è vecchio e non è andato da alcuna parte». «Ci sono stato tante vol­te...», rispose. Ribatté padre Onorato: «Ma che di­ce? Lei non è mai uscito dal convento. Ora mi sta dicendo bugie». E Padre Pio: «No, no. A Lourdes non si va solo col treno o con l'automobile: si va pure in altri modi!».

Padre Pio aveva confidato a varie persone, fra cui padre Gabriele Amorth, «quando mi presente­rò davanti al Signore, spero di essere accompagna­to da due mamme: Maria santissima e la mia mam­ma». Guardando di fronte a sé il quadro con la foto di sua madre, disse al frate che l'assisteva, poche ore prima di morire: «Vedo due mamme». E, all'o­biezione del confratello che quella era soltanto la fotografia di sua madre, insisté: «Ci vedo benissi­mo: vedo due mamme!».

 

XVII

 

Stimmate e piaghe

I sei segni della Passione

 

Nella storia della Chiesa cattolica si incontrano circa 400 persone che hanno ricevuto le stimmate visibili della Passione di Cristo, ossia le ferite sulle mani e sui piedi, provocate dai chiodi della croce, e quella sul costato, causata dal colpo di lancia di un soldato. Di esse, un'9ttantina sono state dichiarate sante - e fra loro c'è adesso anche Padre Pio - dopo processi canonici che non hanno lasciato dubbi sul­la bontà e sincerità dei soggetti esaminati.

Nel Padre, come egli stesso rivelò a Cleonice Morcaldi, il fenomeno cominciò a verificarsi l'8 set­tembre 1910, festa della Natività della Madonna, mentre si trovava nella campagna di Piana Roma­na, dove aveva costruito una capanna di paglia per isolarsi in preghiera. Un giorno mamma Giuseppa andò a chiamarlo per il pranzo e lo trovò che scuo­teva le mani: «Figlio mio, che cosa fai? Adesso hai imparato a suonare anche la chitarra?». E Padre Pio: «Altro che chitarra, mamma, se sapessi...», ma non le spiegò nulla.

Soltanto un anno dopo, nella lettera dell'8 set­tembre 1911 a padre Benedetto da San Marco in La­mis, iniziò a confidarsi: «Ieri sera poi mi è successa una cosa che io non so né spiegare e né compren­dere. In mezzo alla palma delle mani è apparso un po' di rosso quasi quanto la forma di un centesimo, accompagnato anche da un forte ed acuto dolore in mezzo a quel po' di rosso. Questo dolore era più

sensibile in mezzo alla mano sinistra, tanto che du­ra ancora. Anche sotto i piedi avverto un po' di do­lore. Questo fenomeno è quasi da un anno che si va ripetendo, però adesso era da un pezzo che più non si ripeteva».

Dal racconto fatto il 10 ottobre 1915 a padre Ago­stino da San Marco in Lamis comprendiamo qual­cosa in più: «La prima volta di quando Gesù volle degnarla di questo suo favore, [le stimmate) furo­no visibili, specie in una mano, e poiché quest'ani­ma a tal fenomeno rimase assai esterrefatta, pregò il Signore che avesse ritirato un tal fenomeno visi­bile. D'allora non apparsero più; però, scomparse le trafitture, non per questo scomparve il dolore acutissimo che si fa sentire, specie in qualche circo­stanza ed in determinati giorni».

Ogni martedì e dal giovedì sera fino al sabato, secondo quanto dettagliò lo stesso Padre Pio, il cuore, le mani e i piedi gli sembravano trapassati da una spada. Nel contempo, tutte le settimane provava sulla carne anche la coronazione di spine e la flagellazione subite da Gesù. Il 16 aprile 1912 aveva inoltre sperimentato il fenomeno mistico della "fusione dei cuori" con Gesù. L'assenza di manifestazioni esterne faceva comunque si che tut­to restasse nel segreto.

La sera del 5 agosto 1918, mentre era nel confes­sionale, vide all'improvviso un personaggio cele­ste che teneva in mano una lunghissima lamina di ferro, con una punta bene affilata dalla quale usci­va una fiamma. «Vedere tutto questo ed osservare detto personaggio scagliare con tutta violenza il suddetto arnese nell'anima, fu tutto una cosa so­la», scrisse il 21 agosto successivo a padre Benedet­to e a padre Agostino, descrivendo il fenomeno della trasverberazione.

Dopo pochi giorni, la mattina del 20 settembre

1918, Padre Pio si trovava assorto in preghiera nel coro della chiesetta. Su pressione di padre Bene­detto, il 22 ottobre mise per iscritto l'accaduto: «Mi vidi dinanzi un misterioso personaggio, simile a quello visto la sera del 5 agosto, che differenziava in questo solamente che aveva le mani ed i piedi ed il costato che grondava sangue [...]. La vista del personaggio si ritira ed io mi avvidi che mani, pie­di e costato erano traforati e grondavano sangue».

Durante un interrogatorio, ordinato dai Superio­ri cappuccini e svoltosi il 29 marzo 1966, preciserà a padre Raffaele da Sant'Elia a Pianisi che il celeste personaggio era Gesù: «In un momento di assopi­mento e profonda contemplazione sul Cristo croci­fisso, ebbi le stimmate alle mani e ai piedi da lance o frecce luminose che si partirono dal Crocifisso, trasformato in un grande personaggio».

Le stimmate sulle mani, che moltissimi hanno potuto vedere quando Padre Pio toglieva i mezzi guanti al momento della consacrazione eucaristica, e quelle sui piedi, osservate molto più raramente soltanto da alcuni confratelli e qualche medico, erano di forma circolare, con un diametro di due centimetri. Si trattava, come ha documentato il dottor Giuseppe Sala, di «ferite pulite, con tessuti di colore vivo dermico, gementi sangue rosso ruti­lante, circondato da raggrumazioni stratificate irre­golarmente. Nessun segno di infiammazione circo­scritta o di secrezione puruloide era presente ed i margini delle ferite erano netti».

Padre Eusebio Notte, uno dei pochissimi che vi­dero la ferita sul costato, situata in corrispondenza del cuore, l'ha descritta in forma «quasi di una cro­ce, con l'asta verticale più lunga, la punta inferio­re della quale, a sghimbescio, era diretta verso l'e­sterno del lato sinistro di Padre Pio. Le misure, pressappoco, potevano essere 6-7 centimetri la parte verticale e 3-4 centimetri la parte orizzontale». Soltanto dopo la sua morte, fra Modestino da

Pietrelcina scoprì l'ultimo segreto, mettendo a po­sto le magliette di lana utilizzate da Padre Pio. Sul lato destro, all'altezza della clavicola, appariva una macchia di sangue di circa dieci centimetri di dia­metro: era la sesta piaga che Cristo aveva patito portando sulla spalla la pesante croce. Alcuni faz­zoletti, punteggiati di rosso, gli mostrarono invece che, come Gesù nell'orto degli ulivi, il Padre aveva anche sudato e pianto sangue.

 

 

Nessuna traccia di cicatrici

 

Per alcuni mesi si era riusciti a mantenere la ri­servatezza, ma il 9 maggio 1919, sul Giornale d'Ita­lia, apparve il primo articolo che parlava del "frate con le stimmate" e la notizia cominciò a fare il giro del mondo. Preoccupati per l'evolversi della situa­zione, i Superiori cappuccini chiesero a un medico di fiducia - il professor Luigi Romanelli, primario dell'ospedale civile di Barletta - di fare una rico­gnizione, che venne svolta fra il 15 e il 16 maggio.

Nella relazione si legge: «Applicando il pollice nella palma e l'indice nel dorso e facendo pressio­ne, che riesce oltremodo dolorosa, si ha la perce­zione esatta del vuoto esistente fra le due dita, sol­tanto divise dalle due membrane e da tessuto sottile e molle (...). E da escludersi che la eziologia delle lesioni di Padre Pio sia di origine naturale, ma l'agente produttore debba ricercarsi senza tema di errare nel soprannaturale e che il tutto costitui­sce per se stesso un fenomeno non spiegabile con la sola scienza umana».

Il 26 luglio il professor Amico Bignami, ordinario di patologia medica nell'università di Roma, diede invece una valutazione molto critica: «Possiamo pensare che le lesioni siano cominciate come pro­dotti patologici e siano state forse inconsciamente e per un fenomeno di suggestione completate nella loro simmetria e mantenute artificialmente con un mezzo chimico, per esempio con la tintura di io­dio». Per dimostrare la propria tesi, fece coprire le mani con delle bende, che venivano sigillate e cam­biate ogni giorno sotto il controllo di testimoni:

ma, dopo una settimana, lo stato delle piaghe era identico a prima.

Infine il professor Giorgio Festa, su incarico del Ministro generale dell'Ordine cappuccino, giunse a San Giovanni Rotondo il 9 ottobre 1919 nell'in­tento di smascherare l'inganno, ma dovette invece concludere che le lesioni «non sono il prodotto di un traumatismo di origine esterna e neppure son dovute all'applicazione di sostanze chimiche po­tentemente irritanti».

Anni dopo, durante l'esame radiografico cui Pa­dre Pio fu sottoposto nella Casa Sollievo della Sof­ferenza il 13 ottobre 1954, il radiologo Alberto Ca­serta riscontrò che «su mani e piedi, in particolare a livello dei metacarpi e dei metatarsi, non si nota­va assolutamente nulla di particolare». Pure le visi­te cardiologiche hanno mostrato che il suo cuore era normale, con pulsazioni dalle 70 alle 90 al mi­nuto (anche quando la temperatura corporea oltre­passava i 42 gradi) e pressione arteriosa oscillante fra 95 e 105.

Il dottor Michele Capuano ha sottolineato tale dato perché «smentisce l'ipotesi di coloro i quali, per giustificare "scientificamente" la persistenza dell'emorragia attraverso le stimmate, avevano pensato a un'ipertensione di grado notevole, o peggio a speciali qualità del suo sangue circolan­te». Le analisi di laboratorio invece hanno sempre evidenziato parametri assolutamente nella norma, tranne le caratteristiche "giovani" del suo sangue, «dovute al fatto che la costante perdita faceva da stimolo continuo sul midollo osseo, che per reinte­grare i vari elementi corpuscolati del sangue era co­stretto a mettere in circolo delle forme immature».

L'eccezionale persistenza delle stimmate di Pa­dre Pio fu superata in straordinarietà, sul finire della sua esistenza, dalla scomparsa di ogni ferita, senza che rimanesse alcuna cicatrice. Le prime a ri­marginarsi furono quelle dei piedi (ma il dolore continuò come in precedenza), verso il 1966. Nel 1967 la piaga del costato smise definitivamente di sanguinare e andò sempre più sbiancando. Dalla Pasqua del 1968 il dorso delle mani cominciò a tor­nare normale e verso luglio-agosto non c'erano più segni. Nell'ultimo mese di vita si restrinsero gra­dualmente anche le ferite sul palmo delle mani. Subito dopo la morte del Padre si riscontrò che la cute dell'intero corpo era perfettamente integra, come mostrano le fotografie scattate dal confratello Giacomo Piccirillo alle ore 2.40 del 23 settembre.

Una spiegazione teologica è stata offerta da pa­dre Carmelo da San Giovanni in Galdo: «Padre Pio aveva ricevuto dal Signore le stimmate non per mostrarle agli altri, ma per se stesso, nel senso che erano un fatto personale ed una partecipazione vi­va e cruenta alla sofferenza e alla Passione del Cro­cifisso. Unendosi al Cristo sofferente, Padre Pio si offriva per la salvezza di molte anime. Con la mor­te, tale funzione veniva ad esaurirsi: la vittima in cinquant'anni si era consumata e non aveva più una goccia di sangue da versare».

 

XVIII

 

Temperanza e povertà

Sazio di grazia di Dio

 

Per le anime elette, spiegava Padre Pio in una lettera del 23 febbraio 1915 alla figlia spirituale Raffaella Cerase, è una sofferenza «dover soddisfa­re ai bisogni più necessari della vita, quali sono il mangiare, il bere, il dormire». Anzi, «è tale il tor­mento che esperimentano nel fare un atto solo di simil fatta, di cui non possono esse esentarsi, che io, senza tema di mentire, non saprei trovare un po' di assimilazione se non in ciò che dovette­ro esperimentare quei martiri che furono bruciati vivi».

Il paragone è certamente forte, ma aiuta a com­prendere che cosa provasse Padre Pio quando do­veva scendere in refettorio. Padre Alberto D'Apoli­to - il quale è stato, dal 1920 al 1968, uno dei confratelli che più costantemente lo hanno fre­quentato - ha documentato nel processo di cano­nizzazione che Padre Pio mangiò pochissimo in ogni epoca della vita: «Negli anni Venti veniva a pranzo con noi fratini e ci distribuiva il suo cibo, un giorno ad alcuni, un giorno ad altri».

Per cercare di risolvere la questione, ha ricordato padre D'Apolito, «i superiori succedutisi attraver­so gli anni, vedendo che non si cibava sufficiente­mente, diedero disposizioni al cuoco, chiunque' fosse, di preparargli qualche pietanza particolare, che consisteva in un piatto di minestrina o di spa­ghetti al pomodoro, di verdura o di broccoli condi­ti con olio crudo, di pesciolini o di calamaretti les­sati o fritti. Nonostante la specialità dei cibi, il più delle volte Padre Pio non toccava nulla o, se pren­deva qualche cosa, si limitava a una cucchiaiata di minestra, a una o due forchettine di spaghetti, a due o tre forchettate di broccoli o di verdura, a po­chi pesciolini e a qualche calamaretto».

Con le lacrime agli occhi, un giorno del 1945 dis­se a fra Modestino da Pietrelcina: «Figlio mio, pre­ga per me!... Mio Dio, ho il ventre gonfio, che mi fa male... e questo proprio oggi che ho mangiato sol­tanto trenta grammi di cibo... Il più grande favore che potrebbe farmi il Superiore sarebbe quello di dispensarmi dal mangiare». Un'altra volta padre Onorato Marcucci, suo assistente, lo forzava per fargli mangiare qualcosa: «Padre Pio ne prese quanto un chicco di grano e disse: "Fate la carità di non sforzarmi. Ho fatto l'ubbidienza di mangiare e ho mangiato!"».

Per non mettere in soggezione i confratelli, quando si tratteneva in refettorio Padre Pio finge­va di mangiare rosicchiando ceci abbrustoliti e pezzetti molto duri di formaggio caciocavallo, che teneva appositamente conservati nel cassetto. Pri­ma di alzarsi da tavola, come ebbe modo di osser­vare fra Modestino, compiva sempre «un atto deli­cato e gentile; proprio dei poveri: raccoglieva le briciole di pane che erano davanti a lui sulla mensa e, con l'indice della mano destra, se le portava alla bocca. Sembrava che stesse purificando la patena sull'altare!».

Il suo assistente personale padre Eusebio Notte ha confermato che Padre Pio per il vitto era contra­rio a ogni raffinatezza cosicché, quando gli veniva preparata qualche pietanza speciale, ne risultava l'effetto contrario perché il Padre, appena assag­giato il cibo, esclamava: «Com'è buono!», e lo dava agli altri. Anche padre Mariano Paladino assistette a un episodio di tal genere, quando un industriale di Palermo portò a Padre Pio una squisita pietanza di pesce. Il Padre, vedendo il piatto, disse: «E se fa­cessimo una bella mortificazione? Tu l'hai prepara­to e tu lo mangi».

Quella di Padre Pio non era infatti una semplice nausea da cibo, o una forma di anoressia, ma un at­teggiamento originato da un profondo spirito di mortificazione, che per grazia del Signore non gli causava però problemi di denutrizione. Come in­fatti rilevò con padre Carmelo Durante il professo­re londinese Ewans, partecipando a un convegno in Casa Sollievo della Sofferenza: «Per noi medici, Padre Pio è biologicamente morto! Umanamente non è possibile che un uomo in tale situazione esi­stenziale possa sopravvivere, e tanto meno operare come lui opera senza interruzione, tutti i giorni, con uno stress che abbatterebbe in breve tempo qualsiasi fisico, anche il più robusto».

La più spontanea spiegazione della temperanza di Padre Pio a riguardo del cibo fu data da fra Mas­seo Cannito: «Il Padre mangiava poco perché era sazio di grazia di Dio». Ed egli stesso, ricorda pa­dre Marcellino Iasenzaniro, a chi gli faceva osser­vare che non aveva mangiato quasi nulla disse:

«Già! Ora ci andrebbe l'espressione di Gesù, men­tre era con la Samaritana: io ho un altro cibo». Del resto, al termine del periodo dell'autunno 1911 a Venafro in cui Padre Pio si era cibato soltanto del­l'ostia consacrata, padre Paolino da Casacalenda scoprì con stupore che lui, mangiando normalmen­te, pesava sempre uguale, mentre Padre Pio era au­mentato di cinque chili.

Per quasi tutta la vita, Padre Pio mangiò qualche cibo unicamente all'ora di pranzo. Dal 1959, dopo la grave malattia che lo aveva ridotto in fin di vita,

i medici gli ordinarono di bere, dopo la Messa, una tazzina di caffè, in cui venivano sciolte delle vita­mine. Negli ultimi anni, alla sera prendeva mezza pesca sciroppata e un cucchiaio di ricotta, mentre per pranzo le suore di Casa Sollievo gli preparava­no un budino con vitamine, del quale prendeva due o tre pezzetti unicamente se padre Onorato al­zava la voce e lo imboccava.

Anche per quanto riguarda le bevande, nonostan­te la sete provocata dalla continua perdita di liquidi a causa delle ferite sanguinanti, egli assumeva sol­tanto mezzo bicchiere di birra o di vino bianco in re­fettorio. Un pomeriggio d'agosto don Pierino Galeo­ne penso di averlo scoperto venir meno alla sua consueta temperanza: «Lo trovai in veranda mentre beveva una bottiglietta d'aranciata e pensai: "Come la sta gustando!". Senza scomporsi, mise il vuoto nella cassetta, mi guardò e disse: "Bevi!". Io presi una bottiglietta e l'aprii: era disgustosa, calda e im­bevibile. "Com'è brutta!", dissi con candida schiet­tezza. "Bevi e statti zitto!", ripeté lui. La cassetta d'a­ranciata era in veranda sotto i raggi del sole sin dal mattino!».

 

 

La toppa sul vestito

 

Compagna della temperanza fu per tutta la sua esistenza "sorella povertà". A coloro che gli offri­vano qualcosa che potesse rendergli più comoda la vita, Padre Pio rispondeva: «E san Francesco che dirà?». Quando proprio non poteva fare a me­no di accettare regali personali, portava imme­diatamente al padre Guardiano gli indumenti e i soldi ricevuti.

Dai Superiori dipendeva anche per le piccole co­se: per esempio, padre Tarcisio Zullo lo vide chie­dere all'economo con tutta umiltà qualche franco-

bollo da dare ai poverelli. Come pure conservava l'uso del noviziato di chiedere al Superiore il per­messo di farsi la tonsura. Dal canto proprio, ricor­da don Nello Castello, egli era sempre attento a non sprecare nulla: «L'ho visto più volte spegnere la luce che qualche confratello aveva lasciata acce­sa. Ai ricchi raccomandava di fare molta carità, ma lui non chiedeva mai direttamente e l'ho sentito di­re: "Sfido chiunque a trovarmi uno a cui abbia chiesto dieci lire"».

A vari confratelli, Padre Pio raccontò un episo­dio della giovinezza che lo aveva colpito al cuore:

«Una vecchietta, nel corridoio del convento, mi of­frì una carta da poche lire, precisando: "Queste le ho risparmiate andando ad accendere il fuoco da una vicina di casa, e così ho risparmiato i soldi per i fiammiferi!". Era l'obolo della vedova del santo Vangelo. Nel vedere la miseria di quella vecchietta, le dissi: "Non l'accetto! Tenetevela per voi: siete più povera di me!". A queste parole la donna reagì in modo inaspettato, dicendo delusa: "Voi non le accettate perché sono poche!". A questo punto al­lungai la mano verso quella della vecchietta ed esclamai: "Se pensate così, datemele qua! Le vo­glio!". E afferrai quella carta ed eccola, la porto sempre con me». Dicendo queste parole, il Padre metteva la mano nel taschino dell'abito e cacciava fuori la vecchia banconota ormai tutta sgualcita. Mostrandola all'interlocutore, si commuoveva e commentava: «Vedi i sacrifici della povera gente!».

Anche la cella dove viveva era lo specchio del suo clima di povertà, come si può tuttora vedere visitando il convento di San Giovanni Rotondo. Fi­no al 1935, ha testimoniato padre Torquato Cava­terri, Padre Pio aveva un saccone di paglia che di quando in quando assestava con un bastone. Più tardi ebbe un materasso di crine, perché così deci­

sero i Superiori. Soltanto negli ultimi anni gli fu messo un materasso più moderno e la sua cella venne dotata di un lavandino.

La numero 5 era una delle celle più fredde d'in­verno e più afose d'estate. Perciò i Superiori deci­sero a un certo punto di attrezzarla dapprima con un termosifone e poi con un condizionatore d'aria, donato da un figlio spirituale di Roma. Egli però fece sempre obiezioni a utilizzarli, e in particolare a padre Mariano Paladino diceva: «Come posso presentarmi davanti a san Francesco con questi ag­geggi? San Francesco non sarà contento di me...».

Ogni aspetto della quotidianità di Padre Pio "sa­peva di povertà". Mentre gli camminava a fianco, don Pierino Galeone notò sull'abito del Padre, al lato destro del petto, una larga toppa, mal ram­mendata. L'amico sacerdote restò colpito e chiese:

«Padre, chi vi ha fatto quel rammendo? Come sem­brate male...». «Io stesso», rispose, «e ho fatto del mio meglio!». Don Galeone tacque, ancor più stu­pito e ammirato, mentre Padre Pio, sereno e indif­ferente, continuò a camminare pregando. Senza al­cuna vanità, ma per rispetto alla Regola francescana, Padre Pio, ha confermato il signor Giovanni Scarparo, «nel vestito era sempre pulito e in ordine».

La delicatezza del Padre nel non dar fastidio ai confratelli, anche questo un segno di profondo spi­rito di povertà, ha potuto testimoniarla ancor più eloquentemente padre Innocenzo Cinicola Santo­ro, al quale nel luglio del 1945 capitò, mentre stava lavando la propria biancheria, di sentirsi dire da Padre Pio: «Beato te che puoi fare da te le cose tue. Io non posso...», e si guardava le mani doloranti.

 

XIX

 

Ultimi tempi e morte

Il permesso per il Paradiso

 

Dal 29 marzo 1968 Padre Pio cominciò a utilizza­re spesso la sedia a rotelle per gli spostamenti, dato che - come si legge nella Cronistoria del convento - «muove con grande difficoltà le gambe: non gli fan­no male, ma dice di non sentirsele». Era così dive­nuta realtà una ipotesi accennata a padre Agostino da San Marco in Lamis sin dal 12 novembre 1954:

«Preferisco essere portato al confessionale sopra una sedia, anziché non poter più confessare».

Il 7 luglio ebbe un grave collasso e da allora co­minciò a desiderare di rimanere più a lungo da so­lo, per pregare e prepararsi «al grande passaggio», come diceva ai confratelli. Ricorda padre Alberto D'Apolito: «Padre Pio era cosciente della fine im­minente e a chi gli augurava "Cent'anni di vita" ri­spondeva: "Voi mi volete male, voglio andar subi­to in Paradiso"».

Ma perfino la morte egli l'attendeva in un atteg­giamento di obbedienza. Disse un giorno a padre Innocenzo Cinicola Santoro: «Quanto vorrei che diventassi tu Guardiano!». Padre Innocenzo gliene chiese la ragione e Padre Pio aggiunse: «Per avere l'obbedienza di morire!». E al Guardiano padre Carmelo Durante, che scherzosamente gli aveva ordinato di non morire senza la sua autorizzazio­ne, spesso diceva con serietà: «Quando mi date il permesso per andare in Paradiso?».

Il 12 settembre Padre Pio inviò a papa Paolo VI una lettera nella quale esprimeva «tutta la mia de­vozione verso la vostra augusta persona, nell'atto di fede, amore ed obbedienza alla dignità di colui che rappresenta sulla terra». Erano i tempi della contestazione all'enciclica Humanae vitae, che fra l'altro affrontava il tema della contraccezione, e Pa­dre Pio prese una netta posizione, offrendo «la mia preghiera, e sofferenza quotidiana, quale piccolo mio sincero pensiero dell'ultimo dei vostri figli, af­finché il Signore vi conforti con la sua Grazia per continuare il diritto e faticoso cammino, nella dife­sa dell'eterna verità, che mai si cambia col mutar dei tempi».

Mancavano soltanto pochissimi giorni al 20 set­tembre, cinquantesimo anniversario della stimma­tizzazione visibile. Fra Modestino da Pietrelcina, citando l'affermazione di Padre Pio «Ho versato tutto il mio sangue!», ha attestato che negli ultimi mesi prima della morte effettivamente sembrava che il Padre non avesse più sangue. Mettendo in ordine tutti i pezzi di tessuto con i quali Padre Pio asciugava le piaghe, fra Modestino poté infatti constatare che i pannolini usati in quegli ultimi mesi erano molto meno macchiati degli altri, e tal­volta non lo erano affatto.

Diversi confratelli e figli spirituali ebbero la preci­sa sensazione che Padre Pio conoscesse la data della propria morte. Per esempio, padre Eusebio Notte si era recato da lui a chiedere la benedizione perché agli inizi di agosto doveva recarsi in Irlanda per motivi di studio e il Padre fu particolarmente aspro nei suoi confronti, contrariamente al solito. Doman­datogli il motivo di questa sua durezza, Padre Pio volle sapere da padre Eusebio quando sarebbe rien­trato e, avuta l'assicurazione che il ritorno sarebbe avvenuto verso la metà di settembre, lo guardò fis­so negli occhi e disse: «Se è così, allora va bene».

Dal 19 settembre cominciò a infittirsi sempre piu la schiera di figli spirituali che giungevano da tutto il mondo a San Giovanni Rotondo per il convegno internazionale dei Gruppi di preghiera e, alle 5 del 20 settembre, una folla di devoti gremì ogni spazio della chiesa e si accalcò anche all'esterno, per la consueta Messa di Padre Pio. L'unico aspetto este­riore che segnalava l'eccezionalità dell'evento era la quantità di rose rosse che adornavano l'altare maggiore e il crocifisso del coro. In serata una fiac­colata si mosse dal paese, con in testa il sindaco e l'amministrazione comunale, per rendere omaggio all'illustre compaesano. Ma Padre Pio era già nella sua cella e non pensò minimamente che applausi, cori e fuochi pirotecnici fossero in suo onore, tanto che la mattina dopo chiese ai confratelli: «Che co­s'erano tutti quei rumori, ieri sera?».

Il 21 Padre Pio non fu in condizione di celebrare la Messa, a causa di un fortissimo attacco d'asma che per mezz'ora gli aveva causato gravi difficoltà respiratorie. In refettorio, il padre Guardiano lo esortò a farsi coraggio: «Lei deve star bene: è venu­ta tanta gente per la festa di domani». Ma Padre Pio rispose con un velo di tristezza: «Altro che fe­sta. Dovrei fuggire e sparire per la confusione che provo». Nel pomeriggio, rimessosi un po' in forze, riuscì comunque ad assistere alla funzione vesper­tina e a benedire i fedeli presenti.

 

 

Gesù e Maria furono le ultime parole

 

Scendendo in chiesa, all'alba del 22 settembre, Padre Pio voleva celebrare la Messa leggendola co­me tutte le mattine, ma il Superiore lo incoraggiò a celebrarla cantata e il Padre come sempre obbedì, anche se con molta fatica. Lo sforzo gli costò però un collasso, proprio al termine della liturgia. Ada-giato sulla sedia a rotelle, tornando in sacrestia be­nediceva tutti e ripeteva affannosamente: «Figli miei, figli miei!».

Dopo il ringraziamento, provò persino a recarsi a confessare le donne, ma a metà strada la spossa­tezza fisica lo costrinse a far ritorno in camera. Ver­so le 10.30 si affacciò alla finestra del coro e, agitan­do un fazzoletto bianco, salutò e benedisse la folla. Un'altra benedizione la diede in serata, al termine della Messa vespertina cui aveva assistito dal ma­troneo, e successivamente si affacciò ancora dalla finestra della cella agitando il fazzoletto in segno di saluto.

L'assistente padre Pellegrino Funicelli lo mise a letto come al solito e si recò quindi nella propria cella, dove c'era un citofono intercomunicante. Pa­dre Pio lo chiamò cinque o sei volte, sempre per chiedergli che ora fosse, finché a mezzanotte lo supplicò: «Resta con me, figlio mio».

Volle quindi confessarsi e al termine gli disse:

«Se oggi il Signore mi chiama, chiedi perdono per me ai confratelli di tutti i fastidi che ho dato; e chie­di ai confratelli ed ai figli spirituali una preghiera per l'anima mia». Padre Pellegrino rispose: «Padre Spirituale, io sono sicuro che il Signore la farà vive­re ancora a lungo, ma se dovesse avere ragione lei, posso chiederle un'ultima benedizione per i con­fratelli, per i figli spirituali e per i suoi ammalati?». E Padre Pio: «Si che li benedico tutti! Chiedi anzi al Superiore che dia lui per me questa ultima benedi­zione». Subito dopo ripeté il patto che aveva stipu­lato con san Francesco d'Assisi il 22 gennaio 1904, emettendo la professione dei voti semplici, e ribadì la propria volontà di consacrazione a Dio e di per­severanza nei voti religiosi.

Verso l'una chiese di essere aiutato ad alzarsi dal letto, per respirare meglio. Ha raccontato padre Pellegrino: «Notai con mia grande meraviglia che camminava diritto e spedito come un giovane, tan­to che non vi era bisogno di sostenerlo. Giunto sul­l'uscio della sua cella disse: "Andiamo un po' sul terrazzino". Lo seguii tenendogli la mano sotto il braccio; egli stesso accese la luce e, arrivato vicino alla poltrona, si sedette e guardò in giro per il ter­razzino curiosando; sembrava che con gli occhi cercasse qualcosa». Era come uno sguardo di con­gedo affettuoso dal luogo dove tanto aveva soffer­to e pregato.

Dopo cinque minuti volle tornare in camera, per­ché le forze lo avevano abbandonato nuovamente. Adagiato in poltrona, nella sua cella, cominciò a impallidire: era l'una e trenta del 23 settembre e la situazione cominciava a precipitare. Padre Pelle­grino svegliò il confratello Giuseppe Pio Martin di­cendogli: «Padre Pio sta male, va' in cella mentre io vado a telefonare ai medici». Nonostante i tentativi di rianimazione immediatamente praticati dal me­dico personale Giuseppe Sala e dai dottori Giusep­pe Gusso e Giovanni Scarale, Padre Pio morì alle ore 2.30, dopo aver ricevuto l'unzione degli infer­mi, pronunciando i nomi di Gesù e di Maria.

La salma venne composta in una bara di legno e alle 8.30 fu esposta in chiesa, nella quale si riversò immediatamente una folla innumerevole. Il mesto pellegrinaggio continuò senza interruzioni fino a notte fonda, quando l'accesso fu interdetto per qualche ora, in modo da consentire lo spostamento del corpo in una bara di acciaio, in preparazione alla sepoltura.

Alle 2.45 del 24 settembre, l'ufficiale sanitario di San Giovanni Rotondo, Giovanni Grifa, provvide all'inoculazione di un litro di soluzione di formali­na al 30 per cento nella cavità toracica e in quella addominale della salma di Padre Pio, al fine di evi­tare fenomeni putrefattivi. Nel certificato scrisse:

«Successivamente il sottoscritto ha effettuato quo­tidiane ricognizioni della salma, per rilevare even­tuali segni di putrefazione, che non sono apparsi fino al momento della tumulazione, contrariamen­te a quanto il sottoscritto ha avuto modo di consta­tare in altre salme trattate con la stessa soluzione conservativa».

Il pellegrinaggio dei devoti proseguì fino alle 12 del 26 settembre. Alle 15.30 partì dal convento il corteo funebre, che percorse tutto il paese. Alle 19 fu celebrata la Messa funebre, con una vastissima partecipazione di persone di ogni ceto e prove­nienza, tanto che qualcuno, sui manifesti di lutto, aggiunse a mano alla scritta «lutto cittadino»: «e mondiale». Si calcolò che a San Giovanni Rotondo erano quel giorno presenti oltre centomila persone.

La sepoltura nella cripta della chiesa di Santa Maria delle Grazie avvenne alle ore 22 dello stesso giorno. Si compiva così il desiderio espresso sin dal 12 agosto 1923: «Ricorderò sempre questo po­polo generoso nelle mie preghiere implorando per esso pace e prosperità. E quale segno della mia predilezione, null'altro potendo fare, esprimo il desiderio che, ove il miei Superiori non si oppon­gano, le mie ossa siano composte in un tranquillo cantuccio di questa terra».

La bara attualmente è in un loculo, a un metro circa dal livello del pavimento, sovrastato da un blocco monolitico di granito di circa 30 quintali. Dalla primavera del 2003 sarà spostata nel nuovo santuario progettato da Renzo Piano, che si sta ul­timando alle spalle del vecchio convento.

 

XX

 

Visitatori e "persecutori"

Il controllo del Sant'Offizio

 

Furono circa una settantina i visitatori apostolici, gli ispettori cappuccini e gli inviati ufficiosi della Santa Sede che giunsero a San Giovanni Rotondo fra gli anni Venti e gli anni Sessanta. Di tutti questi sopralluoghi fanno memoria i faldoni conservati nella Curia generale dei Frati cappuccini e gli oltre tremila documenti custoditi in ventitré cartelle nel­l'Archivio segreto del Sant'Offizio (oggi Congrega­zione per la Dottrina della fede).

In ogni circostanza, come ha testimoniato l'allora sindaco del paese Francesco Morcaldi, Padre Pio «continuava nella sua vita di raccoglimento, di preghiera e di apostolato, senza alcun apparente turbamento». E a quanti gli manifestavano preoc­cupazioni e timori, suggeriva: «Abbiamo fiducia nella Provvidenza!». Per Padre Pio tutte le prove cui era sottoposto facevano infatti parte del piano provvidenziale che il Signore aveva su di lui e sul­la sua opera: «La Chiesa è madre nostra; anche quando ci bastona ci vuole bene», era la considera­zione che gli senti fare il confratello Onorato Mar­cucci.

La "data fatidica" alla quale si può far risalire gran parte dei problemi vissuti da Padre Pio fu il 18 aprile 1920, quando giunse in convento padre Agostino Gemelli (il fondatore dell'Università cat­tolica del Sacro Cuore). La sua intenzione era di ve­dere le stimmate. Non essendo però stato autoriz­zato dai Superiori cappuccini, Padre Pio non glielo permise. Dopo pochi minuti, Gemelli andò via,

inaugurando il registro dei visitatori con una frase che pareva manifestare amicizia: «Ogni giorno constatiamo che l'albero francescano dà nuovi frut­ti e questo è il conforto più grande a chi trae ali­mento e vita da questo meraviglioso albero».

In realtà, offeso da quella risposta negativa, il giorno dopo padre Gemelli inviò al Sant'Offizio una relazione nella quale asseriva invece di aver visto le stimmate, dandone un giudizio fortemente critico. La presa di posizione di padre Gemelli ser­vì a dare corpo alle accuse che erano intanto state inviate in Vaticano dall'arcivescovo di Manfredo­nia, monsignor Pasquale Gagliardi, sobillato da sa­cerdoti di San Giovanni Rotondo che erano gelosi perché le fedeli del luogo andavano a confessarsi dal cappuccino. Del resto, la vigilanza del Sant'Of­fizio si era inaugurata già nel 1919, quando in Vati­cano erano cominciate a giungere lettere che descrivevano i miracoli operati da Padre Pio.

In seguito a tali vicende, la Santa Sede inviò il primo visitatore ufficiale, il vescovo Raffaele Rossi, che fra il 1921 e il 1922 si recò diverse volte a San Giovanni Rotondo. Nella relazione riferì di aver ri­cevuto una buona impressione da Padre Pio, criti­cando invece le cosiddette "fedelissime" e riscon­trando in padre Benedetto da San Marco in Lamis scarse capacità di direzione spirituale.

Il 2 giugno 1922 giunse così al Ministro generale dei cappuccini il primo provvedimento del San­t'Offizio, nel quale si ordinava che venisse interrot­ta ogni comunicazione fra Padre Pio e padre Be­nedetto. Occorreva inoltre allontanare al più pre­sto Padre Pio in un convento lontano, in modo da impedire il fanatismo di taluni suoi devoti. Ma la notizia del trasferimento si diffuse immediatamente e la popolazione insorse, riuscendo a farlo sospendere.

Nel luglio del 1922, nuove notizie diffamatorie contro Padre Pio e i confratelli convinsero il Mini­stro generale dei Cappuccini a inviare a San Gio­vanni Rotondo un collaboratore di estrema fiducia, padre Celestino da Desio, per una rigorosa visita canonica. Il risultato fu di completa assoluzione:

«Dalle indagini da me fatte coscienziosamente è ri­sultato che i detti padri sono puramente vittime dell'invidia di alcuni malintenzionati, i quali vedo­no di mal occhio il molto bene che compiono quei religiosi, e per paralizzarlo si divertono ad inven­tare cose totalmente false».

Intanto il Sant'Offizio proseguì nella propria azione. Il 31 maggio 1923 dichiarò «non constargli la sovrannaturalità di quei fatti» attribuiti a Padre Pio ed esortò «i fedeli a conformare i propri atti a questa dichiarazione». Il 17 giugno successivo in­viò al padre Guardiano del convento due secchi or­dini da comunicare a Padre Pio: non celebrare più in pubblico e ad ora fissa, né rispondere più alle lettere che gli venivano indirizzate da persone de­vote. Immediatamente ci fu una sollevazione spon­tanea dei fedeli che fece revocare l'imposizione. Il 30 luglio giunse un nuovo ordine di trasferimento del Padre, ma un'altra protesta popolare, che mi­nacciava di diventare una sommossa, riuscì a far differire anche questo ordine.

 

 

Una rivoltella puntata sul petto

 

A dimostrazione del clima che si viveva in quei mesi, al termine della benedizione eucaristica del 10 agosto 1923, mentre Padre Pio stava per rientra­re in sacrestia, gli si parò dinanzi un giovane il quale, puntandogli la rivoltella sul petto, gridò:

«Meglio morto per noi che vivo per gli altri». For­tunatamente i fedeli presenti riuscirono a disar­marlo.

Dal 1924 al 1931, si manifestò un'escalation di provvedimenti del Sant'Offizio. Il 24 luglio 1924 ammonì «con più gravi parole i fedeli di astenersi dal mantenere qualunque relazione, sia pure epi­stolare, a scopo di devozione con Padre Pio». 1115 luglio 1925 ordinò che ogni bimestre il padre Pro­vinciale di Foggia inviasse una relazione su Padre Pio. L'11 luglio 1926 rinnovò ai fedeli il dovere «di astenersi dall'andare a visitarlo, o mantenere con lui relazioni anche semplicemente epistolari».

Fra il 1927 e il 1928 vennero finalmente svolte due visite apostoliche nella diocesi di Manfredo­nia, a cura dei monsignori Felice Bevilacqua e Giu­seppe Bruno, per appurare la verità sul comporta­mento dell' arcivescovo Gagliardi, dell'arciprete Giuseppe Prencipe e dei canonici Domenico Palla-dino e Michele De Nittis, anch'essi oggetto di accu­se da parte di confratelli della zona. In seguito alle due inchieste, monsignor Gagliardi venne costretto alle dimissioni e don Palladino fu allontanato dal paese.

Ciò nonostante, la situazione per Padre Pio non migliorò di molto, tanto che il successore in dioce­si, il vescovo Alessandro Macchi, sollecitò nuova­mente al Sant'Offizio il trasferimento del Padre.

Il 23 maggio 1931 il Sant'Offizio decise che Padre Pio avrebbe dovuto celebrare da solo, nella cappel­la interna del convento. La disposizione, che com­prendeva anche l'impedimento a confessare, ven­ne attuata dall'li giugno. Ha testimoniato padre Raffaele da Sant'Elia a Pianisi: «Quando gli comu­nicai la notizia, Padre Pio alzò gli occhi al cielo e disse: "Sia fatta la volontà di Dio". Poi si copri gli occhi con le mani, chinò il capo e più non fiatò».

Cominciò allora una nascosta e spietata lotta fra i nemici di Padre Pio, che desideravano seppellirlo nel silenzio, e i suoi sostenitori, fra i quali spiccava Emanuele Brunatto, che giunse anche al ricatto -minacciando la pubblicazione di un libro nel quale venivano denunciati scandali ed episodi poco e­dificanti di alcune personalità ecclesiastiche - se il Sant'Offizio non avesse rivisto le proprie posizio­ni. Nel frattempo era divenuto arcivescovo di Manfredonia monsignor Alfredo Cesarano, il qua­le cercò, pur fra alterne vicissitudini, di appianare il contrasto.

Il 16 luglio 1933 Padre Pio tornò a celebrare la Messa in pubblico, ma dovettero passare diversi mesi prima che potesse riprendere a confessare gli uomini, il 25 marzo 1934, e le donne, il 12 maggio successivo. Alla figlia spirituale Lucia Iadanza che gli diceva: «Quanto è stato brutto questo periodo»; Padre Pio rispose: «Per voi? E per me?! Gesù mi ha mandato per la salvezza delle anime: che cosa ho fatto in questi tre anni? Ho pregato, ma la preghiera non è sufficiente al compito che mi è stato affidato. Aiutatemi: ho bisogno del vostro aiuto. Chiediamo a Gesù che questo non avvenga più. Gesù ha biso­gno di anime. Gesù ha bisogno di salvare anime».

 

 

Un registratore in convento

 

Fino al 1960, anche se continuavano le visite di ricognizione a San Giovanni Rotondo di inviati ro­mani, Padre Pio fu lasciato libero di esercitare il ministero sacerdotale e di portare avanti le proprie iniziative. Nella primavera di quell'anno comincia­rono i tempi della persecuzione più dura, con l'in­gresso in campo di monsignor Umberto Terenzi, parroco del santuario mariano del Divino Amore a Roma.

C'è tuttora il dubbio sulla reale motivazione del­l'operato di monsignor Terenzi: la convinzione che Padre Pio tenesse comportamenti scorretti con le figlie spirituali, il rancore per non aver ottenuto da lui un prestito per i lavori in corso presso il suo santuario, il desiderio di fare bella figura con i Su­periori vaticani ed essere così nominato vescovo. O forse un intreccio fra tutto ciò.

Fatto sta che, con l'autorizzazione ufficiosa del cardinale Alfredo Ottaviani, responsabile del San­t'Offizio, monsignor Terenzi e alcuni frati registra­rono numerose conversazioni di Padre Pio, e in particolare quelle con l'amministratore della Casa Sollievo, Angelo Battisti, e con le cosiddette "pie donne": le figlie spirituali Cleonice Morcaldi, Cate­rina Giostrelli Telfner e Clementina Belloni. A suo parere, dalle registrazioni emergeva che con il pri­mo Padre Pio trattava discutibili affari della clinica e con le altre il Padre scambiava illecite effusioni.

Una Commissione pontificia esaminerà in segui­to quei nastri magnetici (almeno 25, secondo un te­stimone diretto): come confidò uno dei membri a padre Carmelo Durante, «dall'esame attento e ri­petuto delle registrazioni operate non risultò nulla d'incriminabile per Padre Pio». Intanto, però, alle insinuazioni di Terenzi avevano dato credito sia il cardinale Ottaviani che il suo vice, monsignor Pie­tro Parente, i quali ne parlarono con Giovanni XXIII, chiedendogli di poter inviare un ulteriore vi­sitatore apostolico a San Giovanni Rotondo.

Pure il Ministro generale dei cappuccini, padre Clemente da Milwaukee (anch'egli a conoscenza della vicenda dei registratori), aveva nel frattempo sollecitato un'ispezione della Santa Sede per verifi­care la correttezza nella gestione amministrativa della Casa Sollievo e per controllare l'equa riparti­zione delle offerte fra il convento e la clinica. A tali vicende non era poi estraneo il fallimento del fi­nanziere Giuffrè, in cui la Provincia cappuccina di Foggia aveva perso cifre notevoli, a copertura delle quali era stato chiesto un prestito proprio alla Casa Sollievo.

1130 luglio 1960 giunse a San Giovanni Rotondo il visitatore apostolico monsignor Carlo Maccari, con l'incarico di «regolare alcuni aspetti del funzio­namento del convento dei Frati minori cappuccini di Santa Maria delle Grazie in San Giovanni Ro­tondo e della Casa Sollievo della Sofferenza, non­ché di tutte le associazioni e opere dipendenti dai due enti soprannominati».

Durante la cinquantina di giorni della sua pre­senza nel paese, incontrò nove volte Padre Pio e dieci volte Angelo Battisti, oltre a numerosi cap­puccini e a diverse altre persone, fra cui le tre figlie spirituali "incriminate". 115 novembre consegnò al cardinale Ottaviani la relazione di 208 pagine, più due cartelle di documenti. Alcuni anni dopo, per incarico dello stesso Sant'Offizio, monsignor Ma­rio Crovini rilesse e sintetizzò il testo, e il suo com­mento fu: «La stesura del lavoro è tendenziosa, in quanto procede più come una tesi da dimostrare che come un fatto su cui indagare».

Evidentemente però in quei tempestosi giorni i pareri del Sant'Offizio erano orientati in diverso senso, tanto che, il 31 gennaio 1961, il cardinale Ot­taviani firmò la lettera che indicava i sei provvedi­menti da eseguire d'urgenza: ricondurre Padre Pio, con la carità voluta dalle sue condizioni di età e di salute, alla regolare osservanza conventuale; inter­dire ai sacerdoti e ai vescovi di servire la Messa del Padre; variare per quanto possibile l'orario della sua Messa; far rispettare la distanza fra il confes­sionale di Padre Pio e i fedeli in attesa per la con­fessione; evitare l'assiduità eccessiva dei devoti, e specialmente delle devote, di San Giovanni Roton­do al confessionale del Padre; inibire al Padre di ri­cevere donne da solo nel parlatorio del convento o altrove.

Poche settimane dopo, con una lettera del 24 aprile 1961 firmata questa volta dall'assessore monsignor Parente, il Sant'Offizio tornava sull'ar­gomento, ribadendo le precedenti disposizioni e ordinando che «Padre Pio celebri la Messa in mez­z'ora o al massimo in quaranta minuti e venga in­vitato ad ottemperare a questa regola in virtù del­l'ubbidienza religiosa e, nel caso di una de­precabile inadempienza, non si escluda l'uso delle pene canoniche».

Soltanto nel 1963, dopo la morte di Giovanni XXIII (3 giugno), cominciò la definitiva riabilitazio­ne di Padre Pio, con la lettera del 20 luglio nella quale il cardinale Ottaviani faceva giungere al Guardiano di San Giovanni Rotondo, padre Rosa­rio d'Aliminusa, l'invito a «essere largo il più pos­sibile» con la gente che andava a vedere Padre Pio. Il 30 gennaio 1964, lo stesso cardinale convocò il Provinciale di Foggia, padre Clemente da Santa Maria in Punta, per comunicargli, su mandato di Paolo VI, che Padre Pio veniva autorizzato a svol­gere il proprio ministero in piena libertà.

Ha testimoniato nel processo canonico padre Carmelo Durante: «In un colloquio privato di fine dicembre 19630 inizio 1964, Paolo VI, al termine di una rievocazione degli avvenimenti di San Gio­vanni Rotondo del 1960, così si espresse: "L'essen­ziale in tutta questa vicenda è di restituire, imma­colata, alla Chiesa la figura di Padre Pio. Tutto il resto è marginale"». Con l'elevazione di Padre Pio all'onore degli altari, l'auspicio di Papa Montini ha finalmente trovato compimento.

Lo vuoi capire che io sono responsabile delle ani­me che il Signore mi manda e debbo far loro del bene e non del male?». Conferma Giovanni Binda:

«Era capace di rimproverare qualche suo figlio per un piccolo difetto e di abbracciare un grosso pecca­tore. Il risultato però era che il peccatore si conver­tiva e il buono cercava di diventare perfetto».

Dalle risposte che Padre Pio diede in gioventù ai "casi di morale" si individua quella che per lui era la figura ideale di confessore: un sacerdote «serio, attento, retto, accorto, molto prudente, fermo, deci­so, sicuro, amoroso, paterno, comprensivo, pazien­te, caritatevole, esperto», che deve «formarsi alla capacità di accoglienza; possedere la capacità di ascolto; esortare a vivere il Vangelo e a rispettare gli insegnamenti della Chiesa; spogliarsi delle pro­prie idee e presentare la genuina morale cattolica; essere sempre aggiornato per conoscere e quindi tradurre nella pratica le norme morali; avere il co­raggio di rettificare le idee e gli atteggiamenti sba­gliati dei suoi penitenti esercitando con competen­za l'ufficio di maestro».

Quando Padre Pio aveva una fila di molte con­fessioni, per sbrigarne il più possibile era lui che diceva al penitente: «Tu rispondi sì o no», e gli di­ceva tutti i peccati che aveva commessi. Il preside Antonio Bianchi una volta reagì: «La formulazione della domanda dimostra che lei già conosce quan­to chiede. Senza perder tempo: lei ha chiesto, lei ri­sponda». E il Padre: «Anche il medico nel vedere il malato non dubita della bontà della sua diagnosi. Tuttavia fa parlare il malato per verificare l'esattez­za della sua intuizione. Quindi a te, rispondi».

Diversamente dal medico, ha commentato Bian­chi, «Padre Pio non domandava per verificare la sua idea: la gioia di ascoltare una risposta aperta e piena di fiducia gli accendeva un ineffabile sorriso e gli illuminava lo sguardo». Se invece i penjtenti gli resistevano, ne soffriva profondamente: «E per­ché constato la mancanza di disposizioni che sono così accasciato e mi sento tanto male», confidò una sera a padre Rosario da Aliminusa.

 

 

Il senso della direzione spirituale

 

Ore e ore di presenza quotidiana nel confessio­nale. La Messa mattutina e altre celebrazioni nel corso della giornata (dal 22 aprile 1940 al 23 aprile 1966 benedisse le nozze di 389 coppie; dal 29 di­cembre 1939 al 28 agosto 1966 amministrò 820 bat­tesimi>. Incontri di direzione spirituale e per gui­dare la realizzazione delle varie opere, come la Casa Sollievo o i Gruppi di preghiera... Padre Eu­sebio Notte, che gli fu accanto per diversi anni, te­stimonia che «il ritmo normale delle giornate di Padre Pio era così assillante, che noi assistenti ci stancavamo al punto da aver bisogno spesso di un avvicendamento».

Padre Pio invece proseguiva imperterrito nel suo zelo apostolico e non conosceva riposi né svaghi. In pratica il suo tragitto quotidiano si snodava uni­camente sull'asse fra la cella e la chiesa, con qual­che rapidissima puntata in refettorio. Ha racconta­to padre Rosario: «Padre Pio non si portò mai al secondo piano del convento, costruito dopo la se­conda guerra mondiale. Non visitò mai la nuova chiesa per vedere come era fatta. Una sera, affac­ciandosi alla finestra del coro della chiesetta, rima­se stupito nel vedere la piazza illuminata: "Sono già tanti anni che lo è!", esclamò padre Leone da San Giovanni Rotondo».

Ma tutto questo non gli risultava un sacrificio, perché Padre Pio viveva il sacerdozio come un gra­vissimo impegno di servizio per la salvezza delle anime. Talvolta però i suoi confratelli scherzavano con lui, chiedendogli se valesse davvero la pena di rimanere seppellito a San Giovanni Rotondo senza mai uscirne, senza veder nulla di nuovo e senza prendersi qualche giorno di riposQ. E allora il Pa­dre rispondeva: «Chi l'ha detto che non mi prendo il mio riposo? Ogni giorno, non me ne vado in chiesa davanti al santissimo Sacramento? E non vi pare questo un riposo?».

Proprio da tale linfa traeva vigore la sua direzio­ne spirituale. Una responsabilità che egli sentiva intensamente: «Le anime appartengono a nostro Signore e un giorno ce ne domanderà strettissimo conto», disse a padre Mariano Paladino, incarican­dolo della guida di una persona. E alla richiesta:

«Come devo comportarmi?», il Padre rispose:

«Con fermezza e con dolcezza».

A un confratello che confidenzialmente gli do­mandò se ci si poteva santificare senza direttore spirituale, Padre Pio spiegò: «Può anche bastare il confessore e, quando questi non sia capace di com­prendere certe situazioni dello spirito, ci si rimette alla bontà di Dio. Però, fare da sé è come studiare da sé: col maestro si fa prima e meglio!». In tale studio, egli suggeriva anche i libri di testo migliori:

il Cammino di perfezione, il Castello interiore e l'Auto-biografia di santa Teresa d'Avila; le Confessioni di sant'Agostino; l'Esposizione del dogma cattolico di Jacques Marie Louis Monsabre; il Trattato dell'amor di Dio di san Francesco di Sales; la Notte oscura di san Giovanni della Croce.

La sua, secondo padre Carmelo Durante, è stata «una poliedrica azione di consiglio e di stimolo in campi e su problemi che toccano l'inverosimile:

un azione che nessun uomo politico, nessun apo­stolo ha mai svolto finora nella storia del mondo e della Chiesa». Però, quando ci volevà, i suoi consi­gli proponevano innanzitutto il buon senso. A pa­dre Carmelo, che prima di usare l'automobile per i viaggi chiedeva una benedizione e una preghiera, rispondeva: «Io prego, ma sei tu che non devi pre­mere troppo l'acceleratore!».

Nell'introduzione all'Epistolario, i curatori hanno sottolineato i due elementi su cui Padre Pio fondò il proprio insegnamento: «Il primo si riferisce allo sviluppo delle virtù teologali; e ciò non tanto per­ché Padre Pio enuncia principi dai quali risulta che Dio è al centro della sua direzione spirituale, quan­to perché egli mette ogni impegno nello sviluppa­re, nell'anima che dirige, la grazia e le tre virtù teo­logali: fede, speranza e carità, orientandola sempre verso queste tre energie soprannaturali. Il secondo è che lo sviluppo delle virtù teologali, per volere di Padre Pio, avviene in un'atmosfera di spiritualità francescana, che si concretizza in alcune virtù mo­rali, tipiche di ogni seguace del Poverello di Assisi, il cui esercizio viene caldamente raccomandato».

Da quelle pagine di lettere vergate con le mani sanguinanti e doloranti per le stimmate, sgorga tuttora nella sua intensità l'ideale supremo propo­sto da Padre Pio: «È ottima cosa l'aspirare a un'e­strema perfezione nella vita cristiana», «Chiedere a Gesù di farci santi non è superbia, né audacia, per­ché è lo stesso che desiderare di amarlo con amore grande», «Ardentemente desidero vederti ascen­dere per tutti i gradi della perfezione cristiana, sen­za soste e senza deviazioni».

 

 

Appendice

 

 

Itinerario biografico

 

 

Francesco Forgione, che diventerà famoso in tutto il mondo con il nome di Padre Pio, nacque a Pietrelcina (Benevento), alle ore 17 del 25 maggio 1887. Era il quarto dei sette figli del ventisettenne Grazio e della ventottenne Maria Giuseppa De Nunzio. Alle ore 8 del giorno successivo, l'econo­mo curato don Nicolantonio Orlando lo battezzò nella chiesa di Santa Maria degli Angeli. Per ma­drina ebbe la levatrice Grazia Formichella. Nel 1892, all'età di cinque anni, promise al Signore di consacrargli la propria vita e cominciò ad avere le prime visioni della Madonna e dei diavoli. In quei tempi collaborava alle attività familiari portando a pascolare qualche pecora nel podere di Piana Ro­mana. Intanto prendeva lezioni di lettura, scrittura e aritmetica da alcuni maestri privati.

A lì anni d'età, com'era consuetudine all'epoca, ricevette la prima comunione e, il 27 settembre 1899, l'arcivescovo di Benevento, Donato Maria dell'Olio, gli amministrò la cresima nella chiesa di Pietrelcina. Padrino fu Vincenzo Masone. Prose­guendo negli stùdi, nel 1901-1902 svolse, con il maestro Angelo Càccavo, il programma delle pri­me tre classi ginnasiali. Nell'estate del 1902 inviò al Superiore della provincia cappuccina di Sant'An­gelo (Foggia) la richiesta di entrare in noviziato, ma, per mancanza di posti, gli fu comunicato che doveva attendere sino all'anno seguente.

Nell'autunno di quell'anno, Francesco fu tor­mentato da lotte interiori che lo facevano esitare fra la vocazione consacrata e il richiamo del mon­do. A fine dicembre 1902, mentre meditava sulla scelta di dedicarsi interamente a Dio, ebbe una vi­sione che gli prospettò tutta la sua esistenza come una continua lotta contro satana. 1110 gennaio 1903 una nuova visione, confermandogli il perenne combattimento con il demonio, gli chiari che egli ne sarebbe uscito vincitore, con l'aiuto della grazia divina. Nei primi giorni dell'anno, Francesco ot­tenne dal sindaco di Pietrelcina il certificato di buona condotta morale e politica e dall'arcivesco­vo di Benevento la lettera testimoniale per l'entrata in noviziato.

Nella notte del 5 gennaio 1903 Gesù e la Madon­na gli apparvero per incoraggiarlo ad affrontare co­raggiosamente il cammino del noviziato, che Fran­cesco iniziò il giorno dopo nel convento di Morcone (Benevento), dove giunse accompagnato proprio dal maestro Càccavo. Il 22 gennaio 1903 vesti i pan­ni di probazione del noviziato cappuccino e ricevet­te il nome di Fra Pio da Pietrelcina. Esattamente un anno dopo, il 22 gennaio 1904, emise la professione dei voti semplici e, il 25 gennaio, si trasferì nel pro­fessorio minore di Sant'Elia a Pianisi (Campobas­so), per completare il programma del corso ginna­siale e per iniziare lo studio della retorica. All'inizio del maggio 1904 incontrò il Ministro generale del­l'Ordine cappuccino, padre Bernardo da Ander­matt, al quale fece domanda di essere inviato nelle missioni; ma la richiesta non ebbe seguito.

Il 18 gennaio 1905 Fra Pio sperimentò il primo episodio di bilocazione, trovandosi in una casa di Udine dove un padre moriva e una bimba nasceva. In seguito la fanciulla diventerà una delle figlie spirituali del cappuccino. Nel settembre dello stesso anno egli vide, sul davanzale della finestra ac­canto alla sua, un demonio - in forma di mostruo­so cane nero - che, dopo avergli ringhiato contro, spiccò un balzo e spari nella notte.

Sul finire dell'ottobre 1905 si recò a San Marco la Catola (Foggia) per frequentare il primo anno di fi­losofia. Qui incontrò padre Benedetto da San Mar­co in Lamis, che sarà il suo direttore spirituale fino al 1922. A fine aprile 1906 rientrò a Sant'Elia a Pia­nisi per completare gli studi filosofici, che com­prendevano materie quali la psicologia, l'ontolo­gia, l'etica e la teologia naturale. Il 27 gennaio 1907 emise la professione dei voti solenni. In ottobre, dopo essere stato promosso agli esami di filosofia, si trasferì a Serracapriola (Foggia) per studiare teo­logia, sotto la guida di padre Agostino da San Mar­co in Lamis, che sarà l'altro suo direttore spirituale. Nel novembre 1908 lo studentato teologico cap­puccino venne spostato a Montefusco (Avellino) e Fra Pio dovette cambiare sede ancora una volta.

Il 19 e il 21 dicembre 1908 ricevette, nella catte­drale di Benevento, rispettivamente gli ordini mi­nori, dall'arcivescovo Benedetto Bonazzi, e l'ordine del suddiaconato, dall' arcivescovo Paolo Schinosi. Intanto la sua salute aveva però cominciato a ma­nifestare problemi, tanto che, nella primavera del 1909, fu accompagnato da padre Agostino a Pie­trelcina per respirare un po' l'aria nativa. All'inizio dell'estate si recò nel convento di Morcone dove, il 18 luglio 1909, ricevette l'ordine del diaconato dal vescovo Benedetto Maria Della Camera. Dopo po­chi giorni rientrò nuovamente a Pietrelcina. Negli ultimi tre mesi di quell'anno i Superiori cappucci­ni, sperando di aiutarlo a risolvere i malanni fisici che lo martoriavano, gli fecero cambiare quattro conventi: Montefusco, Campobasso, Morcone e Gesualdo (Avellino).

La misteriosa malattia che lo affliggeva conti­nuò però a costringerlo alla permanenza a Pietrel­cina. Anzi Fra Pio, temendo di poter morire prima di essere divenuto sacerdote, il 22 gennaio 1910 pregò per lettera il padre Provinciale di chiedere alla Santa Sede la dispensa per anticipare l'ordina­zione. Il 10 luglio la Sacra Congregazione per i Re­ligiosi concesse il permesso, cosicché il 10 agosto di quell'anno, nella cattedrale di Benevento, fu consa­crato dall'arcivescovo Paolo Schinosi. Il 14 agosto 1910 Padre Pio celebrò la prima Messa solenne a Pietrelcina e il discorso di circostanza venne tenuto da padre Agostino.

Poche settimane più tardi, l'8 settembre, gli comparvero per la prima volta le stimmate, che episodicamente si ripresentarono anche in seguito, con un acutissimo dolore, ma senza ulteriori mani­festazioni esterne. La prima rivelazione di quanto gli era accaduto la fece però soltanto un anno do­po, con la lettera dell'8 settembre 1911 a padre Be­nedetto, il quale, comunicando la notizia al Mini­stro generale dell'Ordine, defini Padre Pio «un giovane sacerdote di angelici costumi». In ottobre venne condotto per due volte a Napoli, per essere visitato da valenti specialisti, che espressero pareri molto negativi sulle possibilità di sopravvivenza del giovane sacerdote, tanto che padre Benedetto lo accompagnò immediatamente nel convento di Venafro (Isernia), temendone una fine imminente. Qui Padre Pio si cibò per quasi due mesi della sola eucaristia e sperimentò tormenti diabolici ed estasi delle quali ci sono giunte sconvolgenti testimo­nianze scritte.

Il 7 dicembre 1911, in compagnia di padre Ago­stino, rientrò a Pietrelcina, dove rimase, tranne qualche rapido spostamento, per oltre quattro an­ni. Allo stesso padre Agostino, che gli domandava la vera ragione di quella forzata permanenza nel paese nativo, disse in seguito che il Signore gli ave­va proibito di rivelare alcunché, altrimenti avrebbe «mancato di carità». Fra i molteplici malanni, si manifestò anche un forte indebolimento della vi­sta, che lo costrinse a chiedere la facoltà di celebra­re ogni giorno la Messa della beata vergine Maria o quella dei defunti - che egli conosceva a memoria - e di recitare, al posto del Breviario, quindici poste di Rosario.

Il 16 aprile 1912 sperimentò il fenomeno mistico della «fusione dei cuori» con Gesù, descrivendolo così a padre Agostino: «Non erano più due i cuori che battevano, ma uno solo. Il mio cuore era scom­parso, come una goccia d'acqua che si smarrisce in un mare». Il 23 agosto 1912 senti invece il cuore trapassato da un dardo di fuoco: «Mi sembrava che una forza invisibile m'immergesse tutto quan­to nel fuoco», scrisse ancora a padre Agostino Nel contempo, in numerose occasioni venne picchiato dai demoni, che cercavano anche di impedirgli il contatto epistolare con padre Benedetto e padre Agostino, macchiando i fogli scritti: ma ogni volta interveniva l'angelo custode, che glieli rendeva nuovamente leggibili. «Io non bramo punto di es­sere alleggerita la croce, poiché soffrire con Gesù mi è caro: nel contemplare la croce sulle spalle di Gesù mi sento sempre più fortificato ed esulto di una santa gioia», fu il suo commento.

Il 28 marzo 1913 Gesù gli apparve enormemente rattristato a causa di tanti sacerdoti che non corri­spondevano al suo amore. E Padre Pio ne trascrisse lo sfogo accorato: «L'anima mia va in cerca di qual­che goccia di pietà umana, ma ohimé mi lasciano solo sotto il peso della indifferenza. L'ingratitudine ed il sonno dei miei ministri mi rendono più gra­vosa l'agonia». Nella lunga lettera del 1° novembre 1913 descrisse a padre Benedetto lo stato del pro­prio spirito, immerso nella quiete, nell'assorbimen­to in Dio, nella meditazione della divina grandezza e della propria miseria. Poche settimane dopo, il 20 dicembre, gli chiese di intervenire presso il Mini­stro generale affinché potesse essergli concesso di restare ancora in famiglia, a causa delle cattive condizioni di salute. Identica sollecitazione fece, il successivo 10 gennaio, anche a padre Agostino.

Il 29 marzo 1914 ebbe inizio lo scambio epistola­re con la nobildonna Raffaelina Cerase, che fu la sua prima figlia spirituale, oltre che la prima di tante anime con le quali Padre Pio mantenne per anni una fitta corrispondenza, oggi raccolta nei vo­lumi dell'Epistolario. Il 9 giugno 1914 si recò nel convento di Morcone, per ordine del Provinciale, padre Benedetto, ma poté restarvi soltanto cinque giorni, perché i consueti malesseri lo costrinsero a ritornare a Pietrelcina. Il 25 febbraio 1915 papa Be­nedetto XV firmò il decreto che gli concedeva di ri­manere fuori dal convento, conservando però l'a­bito cappuccino. Subito dopo aver ricevuto la lieta notizia, l'11 marzo, scrisse al padre Provinciale che «giacché Gesù non ne ha permesso che io consa­crassi alla mia diletta madre provincia tutta la mia persona, mi sono offerto al Signore, quale vittima per i bisogni tutti spirituali di lei».

Uno stringente interrogatorio gli venne sottopo­sto da padre Agostino nella lettera del 30 settembre 1915, cui Padre Pio rispose il successivo 10 ottobre:

«La prima vostra dimanda è che volete sapere da quando Gesù cominciò a favorire la sua povera creatura delle sue celesti visioni. Se male non mi appongo, queste dovettero incominciare non molto dopo del noviziato. La seconda dimanda è se l'ha concesso il dono ineffabile delle sue sante stimma­te. A ciò devesi rispondere affermativamente e la prima volta di quando Gesù volle degnarla di que­sto suo favore, furono visibili, specie in una mano, e poiché quest'anima a tal fenomeno rimase assai esterrefatta, pregò il Signore che avesse ritirato un tal fenomeno visibile. D'allora non apparsero più; però, scomparse le trafitture, non per questo scom­parve il dolore acutissimo che si fa sentire, specie in qualche circostanza ed in determinati giorni. La terza e ultima vostra dimanda si è se il Signore l'abbia fatto provare, e quante volte, la sua corona­zione di spine e la sua flagellazione. La risposta an­che a quest'altra dimanda deve essere pure affer­mativa; circa il numero non saprei determinarlo, solo quello che valgo a dirne si è che quest'anima sono vari anni che ciò patisce e quasi una volta per settimana».

La prima guerra mondiale coinvolse anche Pa­dre Pio che, il 6 novembre 1915, fu convocato al di­stretto militare di Benevento. Esattamente un mese più tardi venne assegnato ai servizi sanitari e in­viato a Napoli. Ma il successivo 18 dicembre otten­ne la licenza di convalescenza di un anno e tornò a Pietrelcina. Per tutto il periodo bellico dovette pe­riodicamente rientrare nel Corpo militare: dal 18 al 30 dicembre 1916, dal 19 agosto al 5 novembre 1917 e dal 5 al 16 marzo 1918. Ma ogni volta fu ri­spedito in licenza di convalescenza, sino al defini­tivo congedo.

Intanto padre Agostino e padre Benedetto ave­vano maturato un "piano" per forzarne il rientro in convento. Il 17 febbraio 1916 Padre Pio fu invitato a recarsi a Benevento, dove, insieme con padre Agostino, prese il treno per Foggia. L'obiettivo di­chiarato era quello di fargli assistere l'anima di Raffaelina Cerase, ormai in fin di vita (morirà in­fatti poche settimane più tardi, il 25 marzo). Ma in realtà, come gli disse esplicitamente padre Benedetto, egli avrebbe dovuto restare «vivo o morto» nel convento foggiano di Sant'Anna. Anche qui venne perseguitato da malanni fisici, da angustie spirituali e da assalti diabolici.

Per consentirgli un po' di tregua dall'afa della pianura, il 28 luglio 1916 padre Paolino da Casaca­lenda lo portò con sé nel convento di San Giovanni Rotondo, nel quale rimase una decina di giorni. Ri­entrato a Foggia, chiese al Provinciale padre Bene­detto «di mandarmi a passare un po' di tempo in San Giovanni, dove Gesù mi assicura che starò me­glio». Il 4 settembre avvenne, con l'incarico di di­rettore spirituale del seminario serafico, il definiti­vo ritorno a San Giovanni Rotondo, da cui fino alla morte si allontanò, oltre che per le chiamate milita­ri, pochissime volte, fra cui tre nel 1917: il 3 gen­naio andò in pellegrinaggio nel santuario della Madonna del Rosario a Pompei, dal 14 al 23 mag­gio fu a Roma per l'ingresso della sorella Graziella fra le suore Brigidine, il 1° luglio si recò con i gio­vani studenti cappuccini al santuario di San Mi­chele arcangelo sul Gargano.

Fra aprile e maggio 1918 stette per un mese nel convento di San Marco la Catola, per potersi con­frontare con padre Benedetto e padre Agostino a ri­guardo della direzione spirituale delle anime che gli venivano affidate. Rientrato a San Giovanni Roton­do, il 30 maggio si offri vittima al Signore affinché si concludesse la prima guerra mondiale, lo stesso sco­po per il quale Benedetto XV aveva chiesto a tutta la Chiesa preghiere e sacrifici. In quella circostanza sperimentò il fenomeno che descrisse a padre Bene­detto come la «dura prigione»: «Mi sentii stretto da durissimi ceppi, e mi sentii subito venir meno alla vita Da quel momento mi sento nell'inferno, senza alcuna sosta nemmeno per un istante».

Nella serata del 5 agosto 1918, mentre stava confessando i ragazzi del seminario, vide dinanzi a sé un personaggio celeste che lo trafisse nell'anima con una lamina di ferro dalla punta ben affilata e infuocata. Il martirio della trasverberazione durò fino alla mattina del 7 agosto. Da quel giorno, scrisse a padre Benedetto due settimàne più tardi, «sento nel più intimo dell'anima una ferita che èsempre aperta, che mi fa spasimare assiduamen­te». Il 20 settembre, mentre si trovava in coro per il ringraziamento dopo la Messa, lo stesso misterioso personaggio gli apparve con mani, piedi e costato sanguinanti. Subito dopo, anche Padre Pio si ritro­vò sul corpo le stimmate della Passione di Cristo, sentendo nel proprio interno «un continuo rumo­reggiare, simile ad una cascata, che gitta sempre sangue». A metà dicembre, dopo una nuova appa­rizione del personaggio celeste, avverti inoltre «una cosa simile ad una lamina di ferro che dalla parte bassa del cuore si estende sino a sotto la spal­la destra in linea trasversale. Mi causa dolore acer­bissimo e non mi lascia prendere un po' di riposo».

Il 9 maggio 1919 venne pubblicata la prima noti­zia giornalistica relativa alle stimmate di Padre Pio, che venne ripresa da altri quotidiani, inne­scando un pellegrinaggio di fedeli verso San Gio­vanni Rotondo. I Superiori cappuccini decisero al­lora di far visitare il confratello dai medici Luigi Romanelli (15-16 maggio), Amico Bignami (26 lu­glio) e Giorgio Festa (9 ottobre), che espressero pa­reri contrastanti. Il 18 aprile 1920 giunse a San Gio­vanni Rotondo padre Agostino Gemelli, che chiese di vedere le stimmate, ma non poté farlo perché non aveva la prescritta autorizzazione. Ciò no­nostante, il giorno dopo scrisse un rapporto per il Sant'Offizio, dando un giudizio negativo sia sul frate che sulla sovrannaturalità delle piaghe.

Il Sant'Offizio, che già da tempo seguiva atten­tamente la vicenda, il 26 aprile 1921 incaricò il ve­scovo Raffaele Rossi di svolgere una visita aposto­lica, che durò fino alla primavera dell'anno se­guente. Monsignor Rossi rimase favorevolmente impressionato da Padre Pio, ma non apprezzo la direzione spirituale attuata da padre Benedetto e il fanatismo di alcune devote del cappuccino. Il 2 giugno 1922 il Sant'Offizio ordinò dunque che ve­nisse interrotta ogni relazione, anche epistolare, fra padre Benedetto e Padre Pio, il quale doveva anche essere trasferito in un convento remoto. I fedeli del paese, venuti a conoscenza ditale provvedimento, insorsero e riuscirono a far sospendere l'iniziativa.

Il successivo 21 luglio fu riferito al Sant'Offizio che fra i cappuccini di San Giovanni Rotondo era­no scoppiati «litigi e percosse a sangue con armi bianche e da fuoco» per disaccordi sulla ripartizio­ne delle offerte pervenute a Padre Pio. La gravissi­ma accusa spinse il Sant'Offizio a chiedere al Mini­stro generale dell'Ordine di svolgere un' accura­ta inchiesta. Il 29 luglio il cappuccino Celestino da Desio, dopo una settimana di permanenza a San Giovanni Rotondo, riferì che le notizie erano completamente false, come gli era stato conferma­to anche dal maresciallo dei carabinieri. A inven­tarle e diffonderle erano fra l'altro alcuni sacerdo­ti del luogo, invidiosi per l'affluenza di fedeli al convento.

Una dura presa di posizione venne resa nota dal Sant'Offizio il 31 maggio 1923, affermando che non sussisteva sovrannaturalità nei fatti attribuiti a Pa­dre Pio ed esortando i fedeli a conformare i propri atti a tale dichiarazione. Il 17 giugno successivo il padre Guardiano del convento di San Giovanni Rotondo ricevette due secchi ordini dello stesso Sant'Offizio, da comunicare al confratello: «Non celebri più in pubblico e ad ora fissa, ma dica la santa Messa nella cappella interna del convento, non permettendo a persona di assistervi. Non ri­sponda più, né per sé, né per altri, a quelle lettere che gli vengono indirizzate da persone devote per consigli, per grazie e per altri motivi». Ma una nuova sommossa popolare fece revòcare l'imposi­zione e riuscì a impedire il trasferimento del Padre, che era stato ancora sollecitato con un ordine del 30 luglio.

Il clima si era però fatto incandescente. Il 10 agosto, al termine della benedizione eucaristica, un giovane minacciò Padre Pio con una rivoltella, di­cendogli: «Meglio morto per noi che vivo per gli altri». E il 15 agosto alcuni fascisti armati intimaro­no al padre Guardiano di non spostarlo da San Giovanni Rotondo. Preoccupato per tali eventi, il Padre scrisse una sorta di testamento spirituale, nel quale fra l'altro diceva: «Ho ben ragione di supporre la mia fine fatale [...]. Chiunque sia che effettua un tale mal progettato disegno, voglio che le autorità civili e giudiziarie non applichino con­tro costui o costoro le pene sanzionate dal codice penale. Non voglio che venga torto un capello per causa mia, sia pure occasionale, a chi che sia. Ho sempre amato tutti, ho sempre perdonato, e non voglio scendere nella tomba senza aver perdonato anche chi vorrà porre termine ai miei giorni»

Dopo una pausa di qualche mese, durante la quale padre Celestino da Desio venne nuovamente inviato a ispezionare le comunità cappuccine di Foggia e di San Giovanni Rotondo, il 24 luglio 1924 il Sant'Offizio ammonì «con più gravi parole i fe­deli di astenersi dal mantenere qualunque relazio­ne, sia pure epistolare, a scopo di devozione con Padre Pio». Con l'inaugurazione, nel gennaio 1925, del piccolo ospedale «San Francesco d'Assisi» si manifestava intanto il primo frutto concreto dell'azione sociale del Padre. 1115 luglio 1925 giunse al Provinciale di Foggia l'ordine del Sant'Offizio di inviare ogni due mesi una relazione sulla vita di Padre Pio.

Nell'aprile 1926 entrò nuovamente in campo padre Agostino Gemelli, cui fu affidato l'esame su una relazione che il dottor Giorgio Festa aveva in­viato al Sant'Offizio. Il suo giudizio fu pesante:

«Padre Pio presenta le note caratteristiche di una deficienza mentale di grado notevole, con conse­guente restringimento del campo della coscienza». Di qui scaturi il consiglio di isolarlo per alcuni me­si, in un luogo adatto, sotto la sorveglianza di un medico capace. Il Sant'Offizio non ritenne oppor­tuno attuare tale suggerimento, ma, l'lì luglio 1926, rinnovò ai fedeli il dovere «di astenersi dal­l'andare a visitarlo, o mantenere con lui relazioni anche semplicemente epistolari».

Nel frattempo cominciavano a farsi numerose anche le segnalazioni al Sant'Offizio relative al comportamento dei più tenaci accusatori di Padre Pio: l'arcivescovo di Manfredonia, Pasquale Ga­gliardi, e alcuni sacerdoti di San Giovanni Roton­do. Monsignor Felice Bevilacqua (marzo-aprile 1927) e monsignor Giuseppe Bruno (maggio-giu­gno 1928) vennero inviati per appurare la verità e, in seguito alle loro inchieste, monsignor Gagliardi fu costretto alle dimissioni, il 1~ ottobre 1929. In­tanto Padre Pio, il 3 gennaio 1929, era stato rattri­stato dalla morte della mamma, in quei giorni ospitata in casa di Maria Pyle, la cosiddetta "ame­ricana" che fu una delle più devote figlie spirituali del cappuccino.

Anche il temporaneo successore del vescovo Gagliardi, l'amministratore apostolico Alessandro Macchi, risultò però prevenuto sul conto di Padre Pio, tanto da sollecitare anch'egli al Sant'Offizio il trasferimento del Padre. Le consuete questioni di ordine pubblico ne sconsigliarono ancora una vol­ta l'esecuzione, ma il Sant'Offizio, con il provvedi­mento del 13 maggio 1931, adottò comunque una drastica decisione: Padre Pio avrebbe dovuto cele­brare da solo, nella cappella interna del convento, a partire dal successivo lì giugno, smettendo an­che di confessare i fedeli. Soltanto due anni più tar­di, il 16 luglio 1933 - dopo un'ulteriore visita apo­stolica dei monsignori Felice Bevilacqua e Luca Pasetto - Padre Pio tornò a celebrare la Messa in pubblico, ma dovette attendere il 1934 per ripren­dere a confessare gli uomini (25 marzo) e le donne (12 maggio).

Il 13 giugno 1935 giunse in visita canonica a San Giovanni Rotondo il Ministro generale cappuccino Virgilio da Valstagna. Qualche settimana più tardi, il 10 agosto, numerosi fedeli presero parte alla cele­brazione per il venticinquesimo di sacerdozio di Padre Pio, che si svolse in un clima di serenità e senza manifestazioni esterne. Il 29 agosto 1936, su sollecitazione di Roma, il Provinciale inviò due nuovi ordini al Guardiano del convento: proibire a tutti i borghesi di entrare per qualsiasi motivo nel­la cella di Padre Pio e tenere chiuse sotto chiave le pezzuole già utilizzate dal Padre per asciugarsi le piaghe.

Monsignor Andrea Cesarano, che era stato no­minato nel 1931 arcivescovo di Manfredonia, il 7 ottobre 1939 benedisse, alla presenza anche di Pa­dre Pio, la Via Crucis eretta lungo la strada di colle­gamento fra il paese e il convento. Nel gennaio 1940, due anni dopo il terremoto che aveva fatto crollare l'ospedale intitolato a san Francesco, si for­mò il comitato promotore della nuova clinica, sin da allora definita da Padre Pio «Casa Sollievo della Sofferenza». Il 21 aprile 1941, dietro richiesta del nuovo Ministro generale cappuccino padre Donato da Welle, il Sant'Offizio concesse a Padre Pio la fa­coltà di confessare in chiesa anche nelle ore pome­ridiane. Negli anni della seconda guerra mondiale erano infatti moltissimi i militari, di ogni naziona­lità, che giungevano a San Giovanni Rotondo per incontrarlo e per riceverne una parola di conforto e di speranza. In particolare il 6 gennaio 1944 Padre Pio celebrò una Messa solenne che venne cantata dai soldati statunitensi.

In occasione del referendum su monarchia o re­pubblica del 2 giugno 1946, scese in paese per esprimere il proprio voto (da allora Padre Pio par­tecipò a tutte le tornate elettorali). Il 5 ottobre di quell'anno sì costituì la società per azioni per la co­struzione e la gestione della Casa Sollievo della Sofferenza. Il 7 ottobre mori, sempre in casa di Ma­ria Pyle, Grazio Forgione, il padre del cappuccino, il quale poté assisterlo amorevolmente negli ultimi giorni di vita. Il 16 maggio 1947 venne posata la prima pietra dell'erigenda clinica e, tre giorni do­po, cominciarono i lavori di sbancamento della montagna. Il 21 giugno 1948 fu approvato dal­l'UNRRA, organismo assistenziale delle Nazioni Unite, uno stanziamento di 400 milioni di lire in fa­vore della clinica (ma 150 milioni vennero incame­rati senza spiegazioni dal Governo italiano).

L'11 settembre 1948, sul bollettino della Casa Sollievo, furono fatti i primi accenni ai Gruppi di preghiera, sorti spontaneamente tra i figli spirituali di Padre Pio sin dai primi anni Quaranta per ri­spondere all'appello rivolto a tutti i cattolici da pa­pa Pio XII nelle tristi circostanze della guerra. Nel 1950 fu fatta una più pressante sollecitazione affin­ché i Gruppi di preghiera si costituissero nel mag­gior numero possibile di parrocchie. Intanto, l'e­norme afflusso di penitenti nella chiesetta del convento creava continuamente problemi di pre­cedenza nel turno delle confessioni, con conse­guenti schiamazzi e litigi. A partire dal 7 gennaio 1950 si istitui dunque per le donne il registro del­le prenotazioni.

Il 3 agosto 1952 il quotidiano della Santa Sede L'Osservatore Romano pubblicò il decreto con cui il Sant'Offizio dichiarava «proibiti» otto libri su Pa­dre Pio, pubblicati a partire dal 1948. Pio XII, che non era stato informato dell'iniziativa, si irritò e diede ordine di precisare, sullo stesso giornale, che «la dichiarazione non implica una condanna della persona del Padre Pio e nemmeno delle persone degli autori dei libri stessi». Nel contempo, dalla Segreteria di Stato vaticana fu inviata al Sant'Offi­zio una lettera in favore del Padre, «affinché possa svolgere indisturbato il suo ministero sacerdotale». Il 22 gennaio 1953, per festeggiare solennemente il cinquantesimo della vestizione religiosa di Padre Pio, giunse a San Giovanni Rotondo anche il Mini­stro generale Benigno da Sant'Ilario Milanese.

A partire dal 6 giugno 1954, Padre Pio cominciò in alcune circostanze a celebrare la Messa all'aper­to, sul piazzale antistante la chiesetta, che ormai era troppo piccola per contenere i tanti fedeli (po­chi mesi più tardi se ne iniziò l'ampliamento). Il 26 luglio si recò a benedire il poliambulatorio della Casa Sollievo. Il successivo 25 agosto il Ministro generale cappuccino eresse canonicamente la con­gregazione laicale del Terz'Ordine francescano di Santa Maria delle Grazie, cui fu in seguito affidata la gestione amministrativa della clinica. Il 30 giu­gno 1955 l'associazione ottenne anche il riconosci­mento della personalità giuridica dal Presidente della Repubblica. Successivamente furono aperti la cooperativa di consumo «San Francesco d'Assisi» (17 dicembre 1955) e il centro assistenziale «Santa Maria delle Grazie» (4 marzo 1956). L'inaugurazio­ne ufficiale della Casa Sollievo della Sofferenza fu tenuta il 5 maggio 1956 e, il 10 maggio, venne rico­verato il primo ammalato.

1117 dicembre 1956 si inaugurarono le scuole materne «Santa Maria delle Grazie» e «San France­sco d'Assisi». Celebrando il primo anniversario della Casa Sollievo, il 5 maggio 1957, Padre Pio lanciò nuove sfide, annunciando che la struttura avrebbe dovuto triplicare il numero dei letti e sa­rebbe dovuta diventare «tempio di preghiera e di scienza» e «centro di studi intercontinentale». Altre due opere sociali ispirate dal cappuccino vennero inaugurate il 26 gennaio 1958: la scuola materna «Pace e Bene» e il centro di addestramento profes­sionale «San Giuseppe Artigiano». Con una lettera del 4 marzo 1958 il Ministro generale comunicò al­la Segreteria di Stato vaticana che l'Ordine cappuc­cino non si sentiva preparato per dirigere la Casa Sollievo, cosicché la gestione formale continuò a essere esercitata da Padre Pio, tramite l'ammini­stratore Angelo Battisti. Il successivo 16 luglio il Padre benedisse la prima pietra della nuova ala della clinica.

Il 25 aprile 1959 Padre Pio si ammalò di bronco­polmonite, ma la malattia si aggravò e divenne una pleurite che per tre mesi lo costrinse a sospen­dere più volte l'attività sacerdotale. Il 10 luglio ven­ne consacrata la nuova chiesa del convento, dedi­cata a Santa Maria delle Grazie, con l'intervento del cardinale Federico Tedeschini che il giorno suc­cessivo incoronò l'immagine della Madonna. Il 6 agosto giunse a San Giovanni Rotondo la statua della Madonna di Fatima, che percorreva l'Italia per la Peregrinatio Mariae. Il giorno dopo, proprio mentre l'elicottero che trasportava la statua volteg­giava in cielo per dirigersi verso la tappa successiva, Padre Pio rivolse alla Vergine una preghiera e si ritrovò completamente guarito dal malanno, tanto da poter riprendere immediatamente a celebrare Messa e a confessare. 1112 settembre a Catania, nel­l'occasione delle celebrazioni conclusive del Pelle­grinaggio mariano e del Congresso eucaristico, si tenne il primo convegno nazionale dei Gruppi di preghiera, dei cui risultati Padre Pio si dichiarò molto soddisfatto.

Il 1960 fu probabilmente l'anno più duro per il Padre. Il 13 febbraio il Definitore generale cappuc­cino, padre Bonaventura da Pavullo - che nelle set­timane precedenti aveva svolto un sopralluogo a San Giovanni Rotondo - presentò al Sant'Offizio una relazione nella quale polemizzava contro l'am­ministratore Battisti e stigmatizzava il «dannoso influsso» esercitato su Padre Pio e sulla gestione della Casa Sollievo dalle cosiddette «pie donne»:

Cleonice Morcaldi, Caterina Giostrelli Telfner e Clementina Belloni. Il 14 aprile intervenne anche il Ministro generale, padre Clemente da Milwaukee, che supplicò papa Giovanni XXIII di inviare un vi­sitatore apostolico per indagare sulla situazione del convento e della clinica, anche a proposito del­l'utilizzo delle offerte che pervenivano alle due strutture.

Intanto a San Giovanni Rotondo erano presenti monsignor Mario Crovini e monsignor Umberto Terenzi i quali, all'insaputa l'uno dell'altro, svolse­ro, fra aprile e giugno, un'indagine su Padre Pio. Ambedue riferirono ai vertici del Sant'Offizio, il cardinale Alfredo Ottaviani e monsignor Pietro Pa­rente. In particolare monsignor Terenzi rese note le accuse di immoralità rivolte a Padre Pio dalla figlia spirituale Elvira Serritelli e trasmise al Sant'Offizio i nastri delle registrazioni che aveva effettuato nel convento con l'aiuto di alcuni frati. Per accertare la verità, il 13 luglio monsignor Carlo Maccari venne nominato visitatore apostolico, con l'incarico di «regolare alcuni aspetti del funzionamento del convento dei Frati minori cappuccini di Santa Ma­ria delle Grazie in San Giovanni Rotondo e della Casa Sollievo della Sofferenza, nonché di tutte le associazioni e opere dipendenti dai due enti so­prannominati».

Monsignor Maccari giunse a San Giovanni Ro­tondo il 30 luglio e rientrò provvisoriamente a Ro­ma il 6 agosto per riferire le sue impressioni e «per non turbare, con la sua presenza, la celebrazione del cinquantesimo di Messa di Padre Pio». Il 10 agosto, in occasione della fausta ricorrenza, nume­rosi devoti giunsero nel paese, per un festeggia-mento che fu molto sobrio. Il 16 agosto monsignor Maccari tornò a San Giovanni Rotondo e vi rimase per un'altra quarantina di giorni, durante i quali interrogò moltissime persone, compresi Padre Pio e il commendator Battisti. Il 5 novembre consegnò al Sant'Offizio il frutto ditale lavoro: una relazione di 208 pagine, più due cartelle di documenti.

Il 31 gennaio 1961 il cardinale Ottaviani firmò la lettera che rendeva definitivi alcuni provvedimenti imposti dal visitatore apostolico, quali il rispetto della distanza fra il confessionale di Padre Pio e i fedeli in attesa per la confessione, il divieto a devo-ti e devote di San Giovanni Rotondo di recarsi con assiduità al confessionale del Padre, l'inibizione a Padre Pio di ricevere donne da solo nel parlatorio del convento o altrove. Inoltre i Superiori cappuc­cini venivano sollecitati a ricondurre il Padre alla regolare osservanza conventuale, a vietare a sacer­doti e vescovi di servire la sua Messa, a variare per quanto possibile l'orario della sua celebrazione.

In febbraio un inviato del Sant'Offizio, monsi­gnor Paolo Philippe, tornò a interrogare Padre Pio sulle accuse di immoralità e ne ascoltò l'amaro sfo­go: «Tutto questo è una montatura, niente di vero. Come si può credere a questo, quando dico e ripe­to che mai ho baciato neppure mamma mia». La relazione di monsignor Philippe fu molto severa, proponendo fra l'altro il trasferimento di Padre Pio, che però non venne ratificato dalla Plenaria del Sant'Offizio. In ogni caso poche settimane più tardi, il 24 aprile 1961, una nuova lettera, firmata questa volta da monsignor Parente, ribadiva le di­sposizioni precedenti e ordinava che «Padre Pio celebri la Messa in mezz'ora o al massimo in qua­ranta minuti e venga invitato ad ottemperare a questa regola in virtù dell'ubbidienza religiosa e, nel caso di una deprecabile inadempienza, non si escluda l'uso delle pene canoniche». Bisogna co­munque dire, a onor del vero, che nel 1969 monsi­gnor Philippe dichiarerà di ritenere «troppo severa la mia relazione sulla missione a San Giovanni Ro­tondo, avendo allora dato troppa fiducia alle de­nunzie formali e troppo peso al giudizio di monsi­gnor Maccari».

In novembre il Ministro generale si recò in visita a San Giovanni Rotondo, dove comunicò a Padre Pio che la Santa Sede aveva giuridicamente costi­tuito la Casa Sollievo della Sofferenza fra le Opere di Religione, lasciandone comunque la direzione al Padre. Il 20 gennaio 1962 Padre Pio ricevette la fa­coltà di recitare il Rosario al posto del Breviario, che non riusciva più a leggere a causa di notevoli problemi alla vista. A partire da quell'anno comin­ciarono ad andare a trovarlo molti vescovi, giunti da tutto il mondo a Roma per partecipare ai lavori del Concilio Vaticano Il, le cui testimonianze edifi­canti contribuirono notevolmente alla fama mon­diale del cappuccino.

Soltanto nel 1963, dopo la morte di Giovanni poté celebrare, a causa di un grave stato di males­sere. Il 22, alle ore 5, celebrò la sua ultima Messa, al termine della quale ebbe un forte collasso. Ciò nonostante, poco dopo provò a recarsi al confessio­nale, ma dovette rientrare in cella per le pessime condizioni fisiche. Alle 10.30 e alle 18 riuscì co­munque a benedire i fedeli che si trovavano nella chiesa e sul piazzale antistante. In nottata la situa­zione si fece sempre più critica e, nonostante il pronto intervento di alcuni medici, alle 2.30 del 23 settembre 1968 Padre Pio mori con la corona del Rosario in mano e con l'ultima invocazione dei no­mi di Gesù e di Maria. Il pellegrinaggio dei devoti dinanzi alla sua bara proseguì fino a mezzogiorno del 26 settembre. Alle 15.30 parti il corteo funebre e alle 19 fu celebrata la Messa solenne. Alle 22 av­venne la sepoltura nella cripta della chiesa di Santa Maria delle Grazie, che era stata benedetta appena il giorno precedente.

 

Sin dal 4 novembre 1969 il Postulatore generale cappuccino chiese l'apertura del processo di cano­nizzazione del Padre. Ma la Congregazione per la Dottrina della fede negò per ben tre volte il neces­sario nulla-osta: il 16 febbraio 1972, il 6 luglio 1974 e il 28 maggio 1976. Finalmente, dopo un interven­to personale di papa Giovanni Paolo Il, l'11no­vembre 1980 giunse il sospirato permesso, cui se­gui, il 29 novembre 1982, l'analoga autorizzazione della Congregazione per le Cause dei santi. Il 20 marzo 1983 si poté dunque aprire il processo dio­cesano sulla vita e le virtù di Padre Pio, che si con­cluse il 21 gennaio 1990, con la partecipazione di 69 testimoni processuali e 10 extraprocessuali.

Dopo il parere favorevole della Consulta teoica, il 18 dicembre 1997 papa Wojtyla firmò il de­creto sulle virtù eroiche di Padre Pio, dichiaran­dolo venerabile. In seguito al riconoscimento del miracolo ricevuto dalla signora Consiglia De Martino, il 2 maggio 1999 Giovanni Paolo Il ha presieduto la cerimonia di beatificazione, stabi­lendo che la festa liturgica di Padre Pio fosse col­locata in calendario il 23 settembre. L'ulteriore miracolo, accaduto al bambino Matteo Pio Colel­la, ha permesso la canonizzazione del cappucci­no, celebrata sempre da Giovanni Paolo Il il 16 giugno 2002.

 

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