Camilla Verani |
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Introduzione:
premesse al romanzo del Novecento
Il romanzo inglese - rileva
opportunamente David Daiches - ha origini essenzialmente borghesi, ed è
profondamente legato a questa classe sociale. Borghesi sono anche i suoi temi,
con riferimento in particolare al miglioramento della condizione sociale
tramite il matrimonio (si pensi alla Pamela
di S. Richardson) e al benessere economico. Riferendosi al rapporto tra autore
e lettori, puntualizza egli su quest’ultimo: «His standard of significance was
public and agreed. Whatever was
important in a character fictional life was registered by public symbols as
social, financial or institutional change».
Con il ‘900 la certezza dello scrittore di poter rappresentare la
società, sebbene oggetto di critica, come un’entità precisa e ben riconoscibile
da parte dei lettori, subisce dei forti contraccolpi. Si verifica ciò che il
Daiches definisce «The loss of the confident sense of a common world, of the
public view of what was significant in human actions»; l’uomo moderno è
disorientato, non si riconosce più nei valori che stanno alla base dell’etica
borghese: cade l’idea di antropocentrismo. Al cambiamento epocale verificatosi
all’inizio del secolo in Inghilterra, corrisponde per Virginia Woolf un nuovo
“contenuto del romanzo”: «The proper staff of fiction does not exist. Everything is the proper staff of
fiction, every feeling, every thought, every quality of brain and spirit is
drawn upon. No perception comes amiss». La realtà sociale dominante
in cui tale perdita di orientamento culturale si verifica è quella
dell’industrializzazione, favorita dallo sviluppo della tecnologia relativa
anche alla produzione di macchine e apparecchi sempre più complessi. La critica
mossa a tale fenomeno ha radici che risalgono a tempi precedenti il ‘900:
«Metafora per la locomotiva è mostro infuocato e fumante. Le gallerie delle
stazioni sono luogo di desolazione, confusione, perdizione». Questo
atteggiamento di fronte all’avanzata dello sviluppo industriale e i mutamenti
che ha comportato a livello urbano si contrappone a quello di coloro che
identificano l’industria con il progresso; mi riferisco in particolare ad
autori come E. Fowell e T. Farrer, coautori del romanzo Express trains (Londra 1889).
Venendo
all’ambito letterario, la polemica contro le macchine vede come protagonisti
Charles Dickens, nel suo romanzo Dombey
and Son (1848), il cui personaggio principale, James Carker, cade sotto le
ruote di un treno, e John Ruskin, esponente dell’estetismo inglese (le cui
dottrine, tra l’altro, influiranno molto anche su un critico d’importanza
fondamentale della letteratura inglese ottocentesca quale Matthew Arnold). Ecco
il giudizio di quest’ultimo sulla stazione ferroviaria: in essa «egli vede il
costituirsi di un luogo d’incontro per la società industriale e la celebrazione
dei suoi riti (e il disorientamento dei suoi soggetti), radicalmente antitetico
alla cattedrale gotica, luogo di lavoro, incontro, e di culto collettivo della
civiltà tradizionale». Egli
riprende e sviluppa questo concetto nella sua autobiografia, intitolata Praeterita:
«The poor modern slaves and simpletons who let themselves be dragged like
cattle, through the countries ... they imagine themselves visiting can have no
conception whatever of the complex joys and ingenuous hopes, connected with the
choice and arrangement of the travelling carriage in old times».
L’atteggiamento di Joyce nei confronti alla città industriale è invece -
come afferma Giovanni Cianci - completamente diverso: «Con Joyce il fenomeno
della città acquista un rilievo eccezionale: è il luogo stesso della
molteplicità, di discontinuità, della simultaneità, e della sovrapposizione».
Tra il flusso della scrittura joyciana e la pittura futurista c’è un nesso:
anche nel continuum dell’Ulysses di
Joyce è impossibile distinguere «l’interiorità dall’esteriorità, l’interno
dall’esterno, i meandri dell’anima si trovano a coincidere spesso con gli
stessi labirintici itinerari della metropoli»: è il testo medesimo a diventare
metafora della città.
La simultaneità di valenze si riflette anche sulla visione della realtà,
determinata a questo punto, dalla prospettiva del singolo. Ogni attimo del
vissuto assume per ciascuno un valore diverso: esso si ricongiunge nella sua
mente alle esperienze passate, che influenzano il modo in cui il soggetto
percepisce gli eventi che costellano il suo presente.
Psicologi come
William James e filosofi come Henri Bergson sono consci di questo mutamento e
introducono una nuova concezione del tempo, improntata sul soggetto; sul
pensiero di James al riguardo, ecco cosa si legge nel Daiches: «Specious
present which does not really esist, but which represents the continuous flow
of the already into the ‘not yet’, of retrospect into anticipation».
Bergson, dal canto suo, elabora il concetto di
durée: «Time as flow and duration rather than a
series of points moving chronologically forward».
L’attenzione per la soggettività dell’individuo, la valorizzazione del
momento, dell’istante, del frammento della realtà, sono indissolubilmente
relati alla nuova rivalutazione della psiche del singolo, della sua struttura
interna, della coscienza studiata nei suoi vari strati - Inconscio, Preconscio
e Conscio - concetti derivati dalla psicanalisi freudiana.
Dice Sigmund Freud: «Il modo in cui si comporta la memoria nei sogni è
senza dubbio di grandissima importanza per qualsiasi teoria generale della
memoria: (cita il suo collega Stolz). Tale teoria ci insegna che nulla che
abbiamo posseduto mentalmente una volta può essere interamente perduto». Niente
nelle reazioni e nei comportamenti del singolo posto di fronte al presente è
casuale: le radici della percezione della realtà da parte del soggetto sono
nella sua psiche.
Riprende questo argomento
anche Virginia Woolf. Ella definisce la realtà come «something erratic very
undependable - now to be found in a dusty road, in a scrap of newspaper in the
street, now in a daffodil in the sun», il che è analogo all’epifania di Joyce:
«The sudden realization that some quite ordinary incident or object encountered
in daily life has an intense symbolic meaning». L’unico
filtro di percezione del reale è la coscienza del soggetto. Nuovo compito degli
scrittori che si propongono di rendere il legame tra quest’ultimo e la realtà è
trasferire sulla pagina del libro in termini di verosimiglianza psichica il
flusso di coscienza, l’insieme dei pensieri risvegliati nell’individuo
protagonista di un singolo evento.
L’inizio di questo
cammino verso l’individuo e la sua coscienza comincia con Henry James, fratello
di William. Scrive egli nel
saggio “The Art of Fiction”: «A
novel is in its broadest definition a personal, a direct impression of life ...
Experience is never limited, and it is never complete».
Valori esteticamente rilevanti sono quindi l’assenza dell’autore, il suo essere
ente super partes che lascia il suo personaggio libero di esprimere il flusso
di pensieri suscitati nella sua coscienza da eventi o momenti del mondo reale.
I problemi di natura estetica attengono alla necessità di introdurre nella
narrativa nuovi metodi che riescano a trasferire sulla carta il valore assunto
dall’immediato e dall’istante per l’individuo.
Henry James risolve la questione presentando nei suoi romanzi il punto di vista
di più di un personaggio; si nota in essi l’espansione dell’hic et nunc e il
profilarsi di una interazione fra le varie coscienze. Il percorso di analisi di
queste ultime comprende vari romanzi, da Watch and Word (1871) a A Portrait of
the Lady (1881). La protagonista di quest’ultimo, Isabel Archer, è vista e
nello stesso tempo manovrata dal cugino Ralph Touchet, coscienza percettiva e
regista della storia: «Molto di quello che sappiamo è ciò che ci viene rivelato
di lei dai personaggi con cui viene a contatto».
La scelta da parte dello scrittore di valorizzare la coscienza dei personaggi
incontra il favore di Joseph Conrad, altro esponente di rilievo nell’ambito
della letteratura inglese del ‘900, il quale definisce James « historian of
fine consciences». Cade così un altro presupposto tipico del realismo alla
Zola; la realtà non viene più rappresentata in modo oggettivo ed impersonale; è
il punto di vista dell’individuo a determinare i tratti salienti dell’ambiente
in cui questi è inserito. L’interesse per la realtà della coscienza, inoltre,
si sviluppa nello scrittore anglo-polacco a partire da un parallelismo con il
viaggio; mano a mano che il protagonista del suo romanzo Heart of Darkness (1899) si reca in paesaggi sempre più esotici,
come il Congo, questa viene sempre più approfondita: «The mind is capable of
anything because everything is in it, past, present as well as the future».
Il
problema maggiormente sentito concerne la possibilità per lo scrittore di rendere
l’immediatezza; dice ancora
Si legge nel diario della scrittrice del 27 luglio
In quanto a Joyce, l’interesse per la resa sulla pagina del flusso di coscienza
del personaggio implica una particolare attenzione per il ritmo della lingua,
per le assonanze e per l’accostamento delle parole: atteggiamento, questo,
condiviso dagli scrittori modernisti: come sottolinea Francesco Gozzi, per
essi il rapporto con la tradizione è dialettico. La tradizione è oggetto di
«contestazione, dissacrazione, rispetto, e venerazione». Con gli autori del
periodo, Joyce - come è chiaramente visibile in Ulysses - condivide quindi la tendenza all’intertestualità, il
voler rendere il discorso «charged with meaning to the utmost possible
degree». Il testo stesso suggerisce letture molteplici e contraddittorie
facendosi mimesi non della realtà ma delle aporie del pensiero. Una delle
strategie enunciative degli scrittori modernisti è infatti l’uso di una
«sintagmatica spezzata, frammentaria». Punto fondante per capire la crisi
spirituale degli artisti di quel periodo è l’impossibilità di usare il
linguaggio per dare una rappresentazione oggettiva della realtà, anche a
livello di romanzo; lo scrittore ribadisce che è il soggetto a decidere
autonomamente quale forma linguistica, quali parole adottare per trascrivere
sulla carta il flusso di pensieri della coscienza del personaggio.
È il lettore a dover ricostruire il testo; egli è privo della guida dell’autore
nell’interpretazione dello stesso. In Ulisse, ad esempio, Joyce si mimetizza
camaleonticamente dietro alla miriade di stili adottati: coesistono infatti
diversi registri linguistici, adattati al flusso di pensiero di ogni tipo di
personaggio. Il significante è costruito dal soggetto, il quale decide
autonomamente quale forma espressiva adottare: metafore, doppi sensi inventati,
portmanteaux, linguaggio lineare. Essendoci nello stream of consciousness una
serie di associazioni libere, la forma è flessibile; il flusso registra
memorie, un fascio di percezioni atte a cogliere il personaggio nel suo
evolversi. È necessaria un’apertura del romanzo dal punto di vista strutturale,
per creare una sorta di simulazione della realtà psichica del personaggio.
Egli preferisce analizzare le zone della coscienza dove il linguaggio è meno
coagulante. Utilizza la lingua in modo variegato. Adopera condensazioni,
simboli talvolta ricorrenti, procedimenti analogici in chiave parodistica. Sono
tipici di lui il virtuosismo e l’iperdeterminazione sintattici e lessicali, con
un susseguirsi di ellissi; e proprio per l’attenzione da lui dimostrata per il
valore simbolico della parola, e la polisemia dei suoi possibili significati,
il giudizio della Woolf su Joyce in questa fase è positivo rispetto a Bennett e
Galworthy, che la scrittrice definisce «materialisti»: «Mr Bennet has come down
with his magnificent apparatus for catching life just an inch or two on the
wrong side?»(31).
In quanto al rapporto fra le tecniche narrative adottate nei suoi romanzi - in
questo caso il monologo interiore - e la psicanalisi, Joyce seleziona i simboli
freudiani ed eventualmente junghiani che gli sono utili nel rendere
linguisticamente la coscienza dei personaggi.
Afferma il Tyndall: «Il più
chiaro dei simboli freudiani è la candela romana, osservata da Bloom e da Gerty
MacDowell. L’ambiente è sessuale, e il significato del simbolo ... ugualmente
sessuale». Di matrice freudiana è l’episodio dell’offerta della tazza di cacao
da parte di Leopold Bloom a Stephen dopo la serata trascorsa con lui nel
bordello di Bella Cohen. Nonostante Stephen la rifiuti, il cacao
rappresenta l’accettazione da parte di costui del principio della realtà, la
sua maturazione come artista, seguente alla rottura della lampada nel bordello;
quest’ultima rappresenta simbolicamente la rottura con la fase precedente della
vita di Stephen, giovane ancora legato alla madre da un complesso edipico,
incapace di riconciliarsi con la figura del padre. Da Jung invece Joyce desume
quegli archetipi che sono funzionali alla strutturazione di Ulysses a livello di personaggi.
Stephen, il figlio alla ricerca di un padre è associato nel parallelismo
omerico con Telemaco, Leopold Bloom è il padre alla ricerca di un figlio, Molly
incarna il prototipo della «Gea Tellus», la donna legata alla terra, alla vita,
alla sessualità.
Significativo è il senso attribuito alla carne, con riferimento a Molly, nel
quinto capitolo dell’Ulisse, quando McCoy chiede a Leopold Bloom: «What is home
without / Plumtree’s Potted Meat?» (Ulysses, cap. V, p.91 riferimento
sottinteso a Molly, a testimoniare il suo legame con la natura e la vita).
In quanto a Leopold Bloom, la simbologia è molto più articolata. Egli, come detto,
è il padre in ricerca del figlio, il “wanderer” in esilio, l’antico marinaio
che ritroviamo nel “The Ancient Mariner”
di Coleridge. Incarna Mosè, colui che guida il suo popolo alla terra promessa e
ne viene escluso. È anche Elia, il profeta che annuncia la venuta del
Salvatore. A Leopold è connesso anche il simbolo dell’acqua, che significa vita
e redenzione dal peccato: Bloom si fa sacerdote, imitatio Christi.
Il personaggio di Stephen Dedalus è anche un esempio di archetipo; è il figlio
in cerca del padre ma anche nuovo Prometeo, il quale ha voluto combattere
contro la legge e per questo è condannato all’esilio. Il suo nome racchiude
quello di Dedalo, illustre artificiere, costruttore di ali, necessarie a
fuggire con il figlio Icaro dal Labirinto; egli sfida il vento e riesce a
sopravvivere. Il nome di Stephen invece si richiama a simboli della cristianità,
di cui Santo Stefano infatti era un martire. L’esilio fa di lui l’artista
ribelle che ha bisogno di allontanarsi dal suo microcosmo per poterlo osservare
meglio.
Come artista Stephen si sente creatore, forgiatore
similmente a Dio, così come Coleridge, nel suo rapporto con la poesia: «Stephen
ha descritto l’artista come “il sacerdote dell’eterna immaginazione”. Prete o
Dio, l’artista è divino, e coloro che parlano della sua creazione devono farlo
con reverenza». Tale figura si richiama, nel contesto della letteratura
inglese, a Byron e Shelley: entrambi, non a caso, appartenenti alla seconda
generazione romantica.
In che modo però il rapporto fra psicanalisi e monologo interiore modifica il
modo in cui si presenta, agli occhi del lettore, la superficie testuale?
Attraverso questa tecnica narrativa vengono esposti alla sua attenzione gli
stati d’animo dei tre personaggi chiave, e più ancora il loro flusso di
coscienza.
La prima
novità, a livello narrativo, è la supposta mancata interferenza dell’autore: il
lettore non è guidato dallo scrittore nella ricostruzione delle reti
associative; queste sono permeate da una ‘logica’ profondamente legata alla
psiche del personaggio, simulazione di quella di una persona reale. Molly Bloom
e l’essenza della sua coscienza emergono sulla pagina, si entra subito in medias res: non vi sono punteggiatura, o verbi introduttori. Non agisce su di
esso la censura del personaggio o il controllo della razionalità; la sua
coscienza deve essere resa in tutta la sua autenticità e nel suo fluire. Il
monologo di Molly è ancora più significativo, in quanto lei sta per addormentarsi
e non è in grado di coordinare le sue riflessioni, come presumibilmente accade
in uno stato di veglia. Ciò è ancora più evidente in Finnegans Wake, la trascrizione di un sogno.
Il monologo interiore diretto libero, come quello di Molly, non costituiva una
novità introdotta da Joyce; già in Lev Tolstoj, nel suo Anna Karenina (1878), ve ne sono accenni, che si riflettono sulla
caratterizzazione dell’eroina che dà il nome al romanzo, specie quando questa
vive avvenimenti cruciali della sua esistenza - sebbene confinata entro i
limiti del mondo testuale -, come la separazione di lei dal suo amante; è
proprio a questo momento che si riferisce Morett: «”Chi è?” ella pensava,
guardando nello specchio il proprio volto infiammato ... “Ma sono io”, ella
capì a un tratto ... Poi sollevò una mano alle labbra e la baciò. ... “Cos’è?
Impazzisco” ... Annuska, cara, che devo fare?» (Anna Karenina, VII, p.27). Si
tratta però di momenti sporadici, sempre sottesi all’intreccio proprio del
romanzo.
Un discorso analogo si può fare per
Arthur Schnitzler, con riferimento alla novella Il sottotenente Gustl (1900)(40); il personaggio principale,
all’uscita da un concerto ha uno scontro con il fornaio, da cui esce umiliato;
va a casa decidendo di togliersi la vita: «Che uomo felice ero un’ora fa ....
Sono già del tutto pazzo ... Chissà se mi seppelliranno a Graz?»; si tratta in
queste circostanze di «stati occasionali nella mente di individui normali».
Ma il primo scrittore che disse di avere usato il monologo interiore in modo
programmatico fu Eduard Dujardin nel romanzo Les lauriers sont coupés; l’occasione per l’inserzione di questa
tecnica narrativa nel romanzo è data dalla situazione in cui si trova il
protagonista, Daniel Prince; egli sta aspettando la fidanzata, e lascia che il
suo flusso di pensieri erri in direzioni diverse. Quello di Dujardin è un
monologo programmatico che illustra le caratteristiche salienti e gli scopi di
tale tecnica. Viene rimarcata l’assenza dell’autore, l’espressione dei pensieri
più reconditi del personaggio, frasi ridotte ai minimi termini, la mancanza di
una sintassi convenzionale, sinonimo del vagare della mente. Relativamente
al monologo diretto, dice
Il monologo indiretto invece, risente della presenza dell’autore; di solito
appare la terza persona, è garantita una coerenza maggiore e anche una certa
compattezza, risultante dalla selezione dei vari materiali. È lo scrittore
stesso che interviene nel rapporto tra la psiche del personaggio e il lettore.
Di solito il monologo indiretto è combinato con quello diretto, o con la
descrizione della coscienza: essa non è mai presentata direttamente.
Diverso dal monologo interiore, diretto o indiretto, è quello
convenzionale: qui i punti di vista dell’autore e del personaggio principale
coincidono; il narratore è onnisciente, soggetto di analisi è, come sempre, la
coscienza di un individuo. È un metodo applicato da Dorothy Richardson in Pilgrimage (1899) dove l’attenzione è
volta al personaggio femminile di Miriam Henderson, dalla coscienza incoerente.
L’effetto di questa tecnica narrativa ai fini della verosimiglianza psichica
appare ancora più evidente nello stream of consciousness, in cui si ha
l’espandersi infinito del momento, dell’istante, l’enfasi sui particolari dello
stato soggettivo. I personaggi-chiave di Ulysses
sono delineati attraverso i loro flussi di coscienza. Il loro agire non è mosso
però un movente preciso, cioè determinato a priori, così come il fluire dei
loro pensieri. I protagonisti sono analizzati nelle loro peculiarità e
soprattutto in profondità (operazione che ricorda la teoria cubista di
Picasso). La coscienza del personaggio viene letteralmente scandagliata; sembra
quasi che l’occhio indagatore sia quello di una cinepresa, che coglie il
soggetto nei suoi movimenti nello spazio e nel tempo, come se si avesse a
disposizione un’immaginaria parallasse: di esso vengono analizzati lingua,
lapsus e le varie epifanie che attualizzano l’esistenza di una molteplicità di
significati nella sua mente, risvegliati da un evento anche istantaneo. Queste
epifanie possono ridursi a una parola unica, rivelatrice in tal caso del mondo
interiore del personaggio. Il discorso sul valore delle
epifanie, poi, si ricollega al tema dell’arte, ripreso, da un punto di vista
tomistico, da Stephen in A Portrait of
the Artist as a Young Man, p.188 («Art is the human disposition of sensible
or intelligible matter for an esthetic end»), accanto a quelli della bellezza
(«Aquinas ... says that is beautiful the apprehension of which pleases») e dell’immaginazione («Beauty is beheld by the imagination which is appeased by
the most satisfying relations of the sensible») in una conversazione col
compagno Lynch. Punti
fondanti della sua riflessione sono i concetti di integrità, armonia e
splendore (sempre ripresi dalla filosofia tomistica): caratteristiche
necessarie all’arte per raggiungere l’effetto voluto, nella prospettiva
joyciana.
Afferma Stephen a tal
proposito: «The esthetic image is first luminously apprehended as selfbounded
and selfcontained upon the immeasurable background of space or time which is
not it. You apprehend it as one thing. You apprehend its wholeness. That is
integritas.
Having first felt that it is one thing you feel now that it is a thing. You
apprehend it as complex multiple visible separable made up of parts. The result
of its parts and their sum is harmonious. That is consonantia.
The radiance is the scholastic quidditas.
This supreme quality is felt by the artist when the esthetic image is first
conceived in his imagination. The instant wherein that supreme quality of
beauty the clear radiance is apprehended luminously by the mind» (A
Portrait..., pp.192-193).
Il concetto di
radiance assume per Joyce un valore epifanico, costituisce quindi un’improvvisa
manifestazione spirituale, inserita in un discorso o in un “giro di pensieri”
che meritano di essere ricordati. È quindi cosa degna per un uomo il registrare
queste epifanie con estrema cura, considerando che si tratta di stati d’animo
assai delicati ed evanescenti.
Joyce comincia a raccogliere le sue epifanie fin da giovane, come testimonia il
fratello Stanislaus; egli ne fornisce anche una descrizione: «Le epifanie
erano pezzetti brevi, raramente più lunghi di una dozzina di righe, ma sempre
caratterizzati, data l’esiguità della materia, da un’estrema accuratezza
percettiva e descrittiva. ... Le epifanie assunsero poi un carattere sempre più
soggettivo». Quest’ultima caratteristica permette di istituire un legame fra la
scrittura in quanto traduzione, con metodi linguistici, di esperienze personali
dell’autore e la sua stessa esistenza. Proprio per queste ragioni la raccolta
di 22 epifanie, edita nel 1956 dalla “Lockwood Memorial Library”, oggi
depositata presso l’Università di Buffalo, riveste una notevole importanza.
Essa infatti offre sia la collocazione di ciascuna delle epifanie, sia il luogo
e il periodo in cui esse si sono verificate, come anche la loro rielaborazione
letteraria. Ciò evidenzia, seppure in via indiretta, come funzioni la memoria,
relativamente ad eventi passati, nella mente dell’autore. Interessante a questo
riguardo è l’epifania num. 4 della raccolta, e successivamente rielaborata ed
inserita a p.169 di Stephen Hero. L’ambiente a cui vi si fa riferimento è la
“National Library” di Dublino; Joyce sta parlando col suo compagno di studi
Skeffington della morte del proprio fratello, George. Ecco il
testo integrale: «Skeffington-I was sorry to hear of the death of your
brother....sorry we didn’t know in time.....to have been at the
funeral...../Joyce-O, he was very young....a boy..../Skeffington-Still.....it
hurts....». Nella
rielaborazione letteraria appaiono dei mutamenti significativi: prima di tutto
l’interlocutore di Joyce, che ora appare col nome di Mc Cann, non accenna ad
alcun fratello e parla della morte di una sorella (questa si chiama Isabel,
come precisato precedentemente nel romanzo).
Il testo quindi diventa: «I was sorry to hear of the
death of your sister» (Stephen Hero, p.169). In secondo luogo il dialogo viene intercalato da una
descrizione del comportamento dei due personaggi, il che attenua il ritmo,
creando delle pause, quasi per fornire al lettore una indicazione indiretta
dello stato d’animo dei protagonisti al momento dell’incontro.
Ciò che distingue quindi le epifanie di Joyce è la loro
importanza per la crescita spirituale dell’autore; quasi sempre si tratta di
momenti cruciali della sua esistenza. Questo è altrettanto vero per le epifanie
che vengono vissute dai personaggi dei suoi romanzi, da Dubliners a Finnegans Wake;
spesso esse costituiscono un nodo strutturale e tematico all’interno delle
opere in cui sono inserite; nel caso dei Dubliners,
il tema che appare all’inizio e alla fine dei racconti è quello della morte:
essa colpisce, nel racconto “The Sisters”, il personaggio di Father Flynn, e
viene evocata in “The Dead”, attraverso la figura di Michael Furey: proprio
questa evocazione, mediata dalla canzone “The lass of Aughrine”, sentita da
Gretta (e canta dal tenore Bartell D’Arcy, che ritroveremo nell’episodio di
“Penelope”), porta Gabriel a scoprire di non essere mai stato l’unico fulcro
affettivo della sua consorte.
Per quanto riguarda invece il Portrait,
molte delle epifanie contenutevi sono connesse ai temi dominanti dell’opera,
quale ad esempio la vocazione artistica di Stephen: questa si emblematizza
nella visione che il protagonista ha della donna-uccello, simbolo di fresca
sensualità, armonia e bellezza. Scegliere di dedicarsi all’arte comporta
tuttavia per Stephen la necessità dell’esilio, la rinuncia a protrarre i legami
con tutto ciò che tradizionalmente viene considerato più sacro nella vita di un
individuo: la famiglia e la fede religiosa. Significativo in questo senso il
momento in cui Stephen pronuncia il famoso “non serviam”: atto questo che segna
l’inizio della sua esistenza come artista, e della consapevolezza della strada
che prenderà la sua vita.
Il tema dell’esilio a causa dell’arte viene ripreso anche in Ulysses: la speranza di fuggire ai
legami con il proprio paese è stata delusa: il senso della sconfitta, di cui
Stephen è consapevole, riecheggia nel secondo capitolo del romanzo, nel
frammento «Yes sir And he said Another victory like that and we are done for»
(Ulysses, p.28); in questo momento Stephen si trova nella scuola di Mr Deasy, e
sta interrogando un suo allievo, Cochrane, sulla battaglia di Ascoli del
Direttamente connessa invece al giudizio di quest’ultimo nei confronti dell’Irlanda
è l’epifania che compare in “Telemaco”: essa viene personificata nella figura
di una lattaia, descritta nel modo seguente: «A wondering crone, lowly form of
an immortal serving her conqueror and her gay betrayer, their common cookquean
a messager from the secret morning» (ibid., p.15). Questo personaggio viene a
costituire quindi il correlativo oggettivo dell’asservimento dell’isola alla
Chiesa (corrotta e indegna di mediare fra Dio e gli uomini) e all’Inghilterra.
Questo breve excursus riguardante
le epifanie nelle opere di Joyce, ci consente di inquadrare l’autore in un
ambito di portata europea. Anche scrittori francesi come Marcel Proust
acquisiscono la medesima sensibilità artistica per l’attimo, il fatto
apparentemente insignificante, come evidenzia G. Debenenetti. Proust
definisce quei momenti rilevatori come «intermittenze del cuore». Esse
divengono elemento caratterizzante del ciclo narrativo proustiano A la recherche du temps perdu (iniziato
nel 1909 e mai portato a termine a causa della morte dell’autore stesso nel
1922). Afferma ancora Debenedetti: «Il romanzo è un’unica, immensa
intermittenza del cuore, lunga quanto una vita. ... L’annuncio arriva quasi
come un appello, un rintocco miracoloso della Grazia, per un ripetersi fitto, nel
giro di un’ora, di una serie di intermittenze del cuore».
Proseguendo nella sua indagine, Debenedetti fornisce un esempio di simili
rivelazioni, collocando il protagonista maschile a Combray, località in cui il
ragazzo trascorre le vacanze durante l’adolescenza. Diventato adulto torna
dalla madre, che gli offre del tè, e lo manda a prendere una focaccina, meglio
conosciuta col nome di “maddalena”, in cui riconosce epifanicamente quella che
sua zia gli porgeva da bambino imbevuta nel suo infuso di tiglio.
Le epifanie sono anche per Proust fili conduttori di una trama che sembra
fondata più sulle riflessioni del personaggio-chiave che su eventi propriamente
detti.
Il caso de La coscienza di Zeno,
dell’ebreo triestino Italo Svevo, è, in questo senso, chiarificatore. Il
romanzo si sviluppa a partire da un elemento centrale: la cura psicanalitica
cui il protagonista Zeno si sottopone, e che lo porta a stilare, sotto
richiesta del medico, una autobiografia. Come scrive Claudio Magris, «ciò
che accade ad Argo con gli odori, accade ne
La scrittura quindi diventa
meditazione sull’esperienza, affrancata da convenzioni stilistiche. Le regole
della retorica permangono in sé e per sé, ma vengono rielaborate, ricombinate
nella mente dell’autore, a beneficio della presentazione sulla pagina della coscienza
di un personaggio. Questi scrittori si fanno interpreti dell’epoca del primo
‘900, un periodo di paradossi sociali e morali. Si delinea una nuova componente
nella società, la massa, estranea a qualsiasi specifica collocazione. I ritmi
di vita divengono sempre più simili a quelli delle macchine. Con l’affermarsi
del processo di industrializzazione si perde il senso dell’individuo, di ciò
che lo distingue dagli altri, della sua intima essenza: si crea un senso di
profondo disorientamento. Questo genera negli scrittori europei un senso
profondo di disperazione; la scrittura assume dunque un valore catartico, è
l’unica possibilità offerta all’uomo per mantenere un rapporto intimo con sé
stesso. Ciò è verificabile nei personaggi che popolano i romanzi di un’altra
grande figura della letteratura del periodo, Franz Kafka. A proposito della
relazione vita-scrittura, osserva Magris: «In Kafka lo strumento della
salvezza-distruzione è la scrittura: scrittura che è preghiera». Due dei suoi
romanzi,
La condizione di disperazione dell’uomo viene evocata attraverso immagini ben
precise: lo scarafaggio è ciò che la maggior parte della società rifiuta, ma
indica, trasfigurandolo, l’altro, il diverso, il non classificabile: ciò che
vive nascosto dentro di noi.
Il Processo è ancora più permeato dalla disperazione dell’uomo. La trama ci presenta
la vicenda di un giovane, Joseph K., a cui viene ingiunto dalle autorità di
presentarsi in tribunale, senza che egli sappia né da chi venga accusato, né se
possa difendersi. Egli è vittima, in un certo senso, del proprio presente, di
cui non conosce la direzione; come Giuseppe, nella Sacra Famiglia, segue la
corrente della vita, consapevole del mistero insito nel proprio destino.
Joyce, Proust, Svevo e Kafka: quattro autori di portata europea, ma
caratterizzati da un proprio ambiente culturale, da un’esistenza e da uno
specifico patrimonio di ricordi ed esperienze vissute. Li accomuna il fatto di
aver assistito al sorgere del nuovo secolo, con le sue problematiche e
delusioni. Le hanno analizzate forse sia come uomini che come scrittori,
rifondendole e reinterpretandole nelle loro opere. Hanno riscoperto il valore
della psiche, del simbolo, della parola, interpretata in tutte le sue
gradazioni e registri, in qualità di atto linguistico perfettamente distinto da
ogni altro. Hanno rinvigorito la sua forza, la sua energia, tanto nel realismo
quanto nella sua valenza connotativa, restituendo alla lingua stessa
flessibilità e fantasia.
Per la loro acuta analisi del mondo del loro tempo e dell’uomo vivente entro di
questo, ad essi spetta un posto di riguardo nella letteratura europea del
nostro secolo, e quindi meritano di essere studiati, meditati, discussi con la
stessa cura a loro necessaria per scrivere le opere che ci hanno lasciato. E
proprio al profilo biografico del primo degli autori citati, che ha fatto della
scrittura in quanto energia plasmante il nerbo concettuale della propria arte,
è dedicato il primo capitolo di questo lavoro.