La nascita del nuovo dio Sole Radamanto dal pianoro dell’Antro dell’Ida
alla metà del XIV secolo a. C.
MGCorsini, 28 gennaio 2007. Tutti i diritti riservati.
E’ la primavera di un anno intorno al
Viene dissigillato da ieroduli e sacerdoti il
portale di pietra che chiude l’antro, decorato con volute a spirale, simbolo di
morte e rinascita. Vengono portate all’interno lucerne e accese le torce appese
alla pareti trasudanti acqua. Viene
introdotta e collocata nella
parte più interna del Labirinto, nel ναΐδιῳ, la
cassa di calcare dipinto e vi viene collocato il corredo. Viene sovrapposta e
sigillata la lastra di calcare e deposte
intorno e sopra le corone di fiori. Poi la bella moglie greca (il suo vero nome
è Megara ed è figlia di Creonte di Tebe beota fondata da Cadmo zio di
Radamanto) di Amenofi IV viene aiutata dai due più eminenti Dattili dell’Ida, i
sacerdoti del santuario, ad entrare per l’angusto passaggio, ritrovandosi all’interno
della spaziosa caverna cui la luce tremolante di torce e lucerne dà un aspetto tanto sinistro da
confermare la tradizione del Labirinto della leggenda di Teseo e del Minotauro
antropofago, anche se deriva il nome di “tempio delle doppie asce” (le abbiamo
viste fuori dell’antro) da questo attrezzo che nella terra di origine dei
Dattili Idei, abili fabbri, si chiama
λάβρυς. Megara/Nefertiti viene
accompagnata fino al punto più interno della caverna dove consacra il morto
(rappresentato fisicamente dalla vuota cassa dipinta) alla signora del
Labirinto e dei Beati, alla dea Europa/Amalthea-Nida, capra madre e nutrice del dio Sole (in altre
tradizioni nota come Rhea o Demetra o Latona
Il Dattilo più anziano
che l’ha scortata all’interno dell’Antro, si chiama Phaniaures (“Splende al
mattino” e probabilmente si riferisce più all’Aurora signora dei Campi Elisi
che non al Sole suo fratello), fa un
cenno a Nefertiti che distende in avanti le braccia sull’uomo-toro che nel
frattempo è stato legato sull’altare dei sacrifici. E’ il segnale, e l’altro Dattilo porge la scure d’acciaio calibo a Phaniaures
che la solleva in alto e la cala d’un colpo deciso, troncando di netto la testa all’uomo-toro. La
maschera rotola a terra, ma la testa rimane all’interno. Si trattava
evidentemente di un marchingegno che impediva all’uomo, antropofago, di mordere
e uccidere a morsi qualcuno. La scena (barbara solo per metà di noi moderni, mentre per gli altri, barbari
filoangloamericani, è indifferente come impiccare Saddam Hussein) ha distolto
per alcuni lunghi minuti l’attenzione dal fenomeno naturale che si sta
svolgendo sotto gli occhi estasiati degli eletti presenti. Nel momento quasi
esatto dell’uccisione dell’uomo-toro, le fiammelle di luce che avevano formato
quasi una piramide in ascesa, ora hanno
da poco abbandonato la loro forma di grande fungo e appare grande e rosso
vibrante nel cielo il disco del Sole. L’Aurora ha appena partorito il
Sole. Radamanto è ora, finalmente, ciò
che il nome greco che a suo tempo s’è scelto
rappresenta (“Ra è il Signore”, da Ῥὰ δαμαντήρ, poi ῾ΡαδάμανJυς),
e splende in cielo in una delle tante fiammelle che hanno
contribuito nel tempo a rendere il Sole più grande. Sono gli uomini buoni e
saggi di ogni dove che fanno grande il progresso della civiltà umana. Questo i
saggi egizi, come quelli greci e minoici, lo sanno bene. E lo sapevano bene
anche i Romani, ma vennero i cristiani, falsi ed ipocriti e ladri. L’uomo-toro sarà in eterno la divina cavalcatura di
Radamanto nel suo instancabile percorso sopra e sotto la terra ad illuminare
con la sua saggezza i vivi e i morti. Phaniaures riceve ora dalle mani del suo
assistente la lira a sette corde e intona un inno sacro riguardante la nave del dio Ra che, secondo un’altra
tradizione (che l’artista ha ricordato sul sarcofago di Radamanto come offerta al medesimo apparso come
un’ombra davanti alla sua tomba
dell’Ida) di pari importanza, veicola il Sole al posto del Toro celeste, e
questa nave è Tarania, la dea dei Campi Elisi, Ilizia, la signora lunare dalle
doppie corna. La cerimonia è conclusa e l’animo dei presenti, soprattutto
quello della bellissima Nefertiti, è affollato da mille e contrastanti
sentimenti, tutti violenti, nessuno di poco conto. Non dimenticherà mai questa
sua visita a Creta, dove non voleva nemmeno venire, tanto se ne stava bene a
non far nulla, fra musici danzatrici acrobate e nani buffoni, in Egitto, al
caldo, mentre qui l’aria pizzica, circondata per ogni sua più piccola esigenza
da mille servi e serve. Phaniaures si avvicina all’ingresso dell’Antro. Un Dattilo Ideo bibliotecario, διjJεραjόρος, gli porge un dischetto d’argilla cotta del
colore dorato del sole. Ha appena sedici centimetri di diametro e nemmeno due
di spessore. Phaniaures lo prende compiaciuto e lo depone all’interno. Poi dà l’ordine ad acuni suoi
colleghi di ricollocare al suo posto la finta porta di pietra all’ingresso
della caverna dove fu allevato prima di tutti i sovrani di Creta e da allora in
poi viene ritualmente sepolto ogni anno
per poi risorgere il dio Sole/Apollo (specie nella capitale Festo/Haghia
Triada, chi lo chiama Talo, chi Asterio, chi ancora Velkhanos, chi ancora lo
confonde col Minotauro sua cavalcatura). Di nuovo il Dattilo bibliotecario si avvicina a Phaniaures tirando
fuori da una tasca alcuni sigilli mentre un altro ha in mano due palle
d’argilla umida e le comprime da un lato e dall’altro della porta a garantirne
la chiusura. Che si sappia, se qualcuno ha osato profanare il luogo santo.
Phaniaures imprime sull’argilla fresca i sigilli che portano i segni della
sovrannaturale potenza della doppia dea dell’Ida, sia la madre, sia la figlia,
che sono tutt’una.
Ovviamente la dea
dell’Ida è la nutrice del sovrano e dunque anche di Amenofi IV, per i Cretesi
Idomeneo. E la cosa non è del tutto fantasiosa, in quanto i sovrani egizi da un
bel po’ di tempo, fin dalla XVII dinastia tebana (imparentati con gli Hyksos),
hanno origini parzialmente indeuropee se non addirittura greche, per cui,
almeno per via di discendenza, Amenofi IV si sarà potuto ritenere, anche solo
parzialmente, cretese o greco (il che, data la sua figura esile e malaticcia, perfino
repellente, non è lusinghiero per il popolo che ha inventato le Olimpiadi, per
cui preferiscono chiamarlo Eracle, il prototipo di tutti i supereroi). Del
resto l’arte amarniana riceve una grande influenza dal naturalismo cretese così
come è da tempo (almeno dall’inizio della XVIII dinastia) che l’Egitto subisce
il fascino di Creta. Certamente Amenofi IV amò Creta e ne subì il fascino del monoteismo (il disco solare di
Aton o Adone/Adonai, che, abbiamo visto, corrisponde esattamente al culto di
Dioniso, l’egizio Osiride, introdotto da Melampo o Melampode figlio di Eidomene,
un personaggio che se apparentemente va identificato con Amenofi IV più
probabilmente – la
tradizione greca è anche più confusionaria di quella ebraica – va identificato con lo stesso Giuseppe/Minosse)
del visir di suo padre e di suo nonno Minosse/Yuya e poi del figlio di questo Ay, suo visir (e
faraone, dopo Tutankhamon, col nome greco di Deucalione, figlio appunto di
Minosse), rimasto a reggere l’Egitto insieme alla volitiva e ambiziosa regina
madre Teye. La deificazione di Amenofi III, il re Sole d’Egitto, segna l’apice
della fortuna di Creta. Amenofi IV, il faraone precursore del dio
giudeo-cristiano, portò la disgrazia sull’isola e su tutto il mondo antico (così
il trionfo del cristianesimo causò la
fine del mondo civile, che da tempo era avviato sulla linea della modernità,
piombandolo nel medioevo, che fu, con strascichi fino e oltre la strabenedetta Rivoluzione
Francese, il Sabba dei mostri generati
dall’eclisse della ragione). L’eruzione del Thera e i terremoti, i maremoti e
le alluvioni che ne fecero corona (circa
vent’anni dopo questa cerimonia di divinizzazione) furono visti dalle
popolazioni del tempo come una punizione
divina dei vecchi dèi messi da parte e ignorati. Ed è infatti a questo punto
che si colloca la cacciata xenofoba dall’Egitto degli iettatori seguaci del culto di Aton e dunque dei primi
proto-ebrei e nomadi pastori del delta orientale propagatori di epidemie. Prima
del culto del Sole/Adone, che in Egitto muove i primi timidi passi già con Teye
figlia di Yuya/Minosse e moglie di Amenofi III,
a Creta v’era il culto di Velkhanos,
assimilabile al Posidone Uranio/Dagan, metà pesce metà uomo con la
corona solare in testa e il pastorale in mano da me identificato e più volte
pubblicato col n° 50 del sillabario festio. E anche in Omero è evidente come un
tempo tutto il potere era nelle mani di Posidone. E Posidone sembrò ribellarsi
all’impostura e scuotere la terra ed eruttare il fuoco dalle sue viscere e
agitare le acque e far piovere l’abisso sulla terra annullando in pochi attimi
la splendida civiltà di Akrotiri nelle Cicladi, ma rovinando anche l’economia
per un raggio molto più grande nel Mediterraneo orientale e per diverso tempo.
E la flotta al comando degli Egizi, che teneva Creta e